LIBRO DECIMOQUINTO

SOMMARIO

Infelice condizione del re di Sardegna. Ginguené ambasciadore di Francia a Torino. Suo discorso al re; sua opinione sul governo regio del Piemonte. Gli amatori della repubblica si adunano sui confini, e tentano di far rivoluzione. Generosi lamenti di Priocca, ministro del re, sui casi presenti. Battaglia di Ornavasso, in cui i repubblicani Piemontesi sono vinti dalle truppe regie. Guerra tra Genova ed il Piemonte. Brune e Ginguené sforzano Carlo Emanuele a dar loro la cittadella di Torino. Indulto del re a favor degl'insorti. Fatto lagrimevole della Fraschea. Schifosa mascherata fatta da alcuni Francesi in Torino, e grave pericolo che ne nasce. Ginguené richiamato: sue qualità. Il direttorio di Francia, non si fidando del re di Sardegna, si risolve a torgli lo stato, e manda a questo fine il generale Joubert. I Francesi s'impadroniscono del Piemonte, sforzano il re a lasciarlo, e vi creano un governo provvisorio. Atto d'abdicazione del re. Sua continenza mirabile nell'andarsene. Lodi del ministro Priocca. Manifesto di guerra del direttorio contro il re. Generosa protesta di Carlo Emanuele, data in cospetto di Cagliari di Sardegna.

Io sono nel presente libro per raccontare il martirio del re di Sardegna. Nella quale narrazione si vedrà, quanto possa l'abuso della forza contro il debole, e come non abbia incresciuto al più potente, non solo di usare la forza soverchia, ma ancora di aggiungervi la fraude, colorandola con le dolci parole di lealtà, e di santa osservanza dei patti. Si vedrà, come uomini, per ogni altra parte di dottrina e di virtù compiti, si siano fatti, per le illusioni dei tempi, stromenti di sì condannabili eccessi. Racconterò dall'altro lato uomini ridotti all'ultimo caso mostrare più animo, e maggiore virtù, che non quelli ai quali obbedivano quasi tutte le forze d'Europa; e se qualche contentezza si pruova nello scrivere storie, questa è di poter purgare dalle calunnie di tempi perversi gli uomini eccellenti.

Il re di Sardegna serrato da ogni parte dalle armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della sua fede verso il direttorio, non che nel più interno dell'animo non desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami il suo male, ma vedeva, che era del tutto in potestà dell'oppressore il sovvertire i suoi stati, prima solo che l'Austria il sapesse. Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla repubblica, quantunque altri desiderj avesse. Reggeva il Piemonte il re Carlo Emanuele quarto, principe religiosissimo, e di pacata natura, ma che trasportando i precetti della religione nelle faccende di stato, era poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto, e sregolato.

Sedevano appresso ai potentati d'Italia, come ambasciatori o ministri della repubblica Francese, Ginguené a Torino, Trouvé a Milano, Garat a Napoli, Sottin a Genova. Erano Ginguené e Garat avversi ai governi, presso a cui erano mandati, e desideravano la mutazione, ma non la procuravano apertamente, mentre Sottin non s'infingeva contro il sovrano del Piemonte da quel suo nido di Genova. Principale secondatore di mutazioni si mostrava Brune, a questo tempo generale dei Francesi in Italia, sì per se, e sì per gli stimoli dei fuorusciti Piemontesi, che gli stavano assiduamente ai fianchi. Questi, non contraddicendo i repubblicani di Francia, padroni del paese, fulminavano senza posa sì dalla Liguria, che dalla Cisalpina contro il re Carlo Emanuele; il che giunto ai mali umori, che già erano gonfiati in Piemonte, partoriva effetti tanto più forti, quanto più parevano essere aiutati dai Francesi. Oltre a questo l'ambasciador Cisalpino Cicognara, che sedeva in Torino, giovane di singolare ingegno, e di natura generosa, vedeva molto volentieri coloro che desideravano la mutazione, e dirizzava le cose secondo le opinioni dei tempi, in pro sì della Cisalpina particolarmente, che dell'Italia universalmente; onde i novatori prendevano novelli spiriti. Consultavano coll'ambasciator Cisalpino massimamente coloro, che volevano cambiare gli ordini politici in Piemonte per unirlo alla Cisalpina, o che si volesse fare di tutta l'Italia una sola repubblica, come alcuni bramavano, o che si preferisse di farne due, dell'una delle quali sarebbe capo Milano, dell'altra Roma; imperciocchè questi pensieri appunto cadevano negli animi dei novatori Italiani.

In mezzo a tutti questi umori era arrivato l'ambasciatore Ginguené in Torino. Era Ginguené uomo di tutte virtù, ma molto incapriccito in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli stati repubblicani. La filosofia l'aveva allettato, e la forza straordinaria di quella sua repubblica gli faceva una sembianza di felicità e di libertà, come se la felicità e la libertà potessero vivere negli stati disordinati e soldateschi. Ma l'orgoglio che nasce dalla potenza, massime negl'ingegni vivi, fa di queste illusioni, ed anche delle peggiori. La paura ancora operava qualche cosa in una fantasia tanto vivace; imperciocchè, siccome Ginguené si era molto nodrito degli scrittori Italiani, e specialmente di Machiavelli, così egli si era dato a credere, che l'Italia fosse piena di Machiavelli e di Borgia, ed aveva continuamente la fantasia spaventata da immagini di tradimenti, di fraudi, di congiure, di assassinj, di stiletti, e di veleni. Stimava, che la sincerità, e la lealtà fossero solo in Francia; nè le insidie, ed i tradimenti di Buonaparte, e del direttorio in Italia, quantunque fossero tanto manifesti, l'avevano potuto guarire. Con questi spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca, in cui scoverse, come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio, e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere, si aveva Ginguené apparecchiato un bello e magnifico discorso, non considerando, che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia. Traversate le stanze piene di soldati bene armati, e di cortigiani pomposi, entrava Ginguené in abito solenne e con una sciabola a tracollo, nella camera d'udienza, dove si trovò solo col principe. Stupì l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare il discorso, perchè e le adulazioni, ed i rimproveri erano ugualmente, non che intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, così favellava al re.

"Sire, il direttorio esecutivo della repubblica Francese, desiderando nodrire la buona amicizia testè introdotta tra la Francia ed il governo Piemontese, mi manda a vostra maestà. Porto con me da parte del direttorio fede, lealtà, rispetto ai trattati, rispetto all'ordine pubblico, rispetto al diritto delle genti. Spero trovare nei ministri, ed in tutti gli agenti di vostra maestà i medesimi sentimenti. Un operare sincero ed aperto solo conviensi ai governi veri. La nazione, che per le sue vittorie acquistò il nome di grande, non ne conosce alcuno diverso da questo. Ella fa della doppiezza e dell'astuzia nei negoziati la medesima stima, che della viltà nelle battaglie. Ella lascia con disprezzo i gabbamenti, e le machiavelliane fraudi a quei vili governi corrotti, e corrompitori, che da sei anni turbano l'Europa con le loro macchinazioni, e comprano a peso d'oro l'umano sangue. Quali frutti raccolto hanno dai perfidi consigli le docili potenze? Io non sono già, o Sire, per irritar quelle ferite, che il tempo solo, la pace, e la concordia possono saldare. Solo ho intento di dire, parlando a vostra maestà, a tutti i governi, che, come ella, sonsi ricondotti a consigli pacifici, che la prosperità loro, che la loro gloria, nella costanza e nella sincerità loro verso la Francese repubblica sono massimamente ed unicamente riposte. Piacemi sperare, o Sire, che quanto io dico, sia conforme all'animo di vostra maestà. Sarà per me gran ventura, se la mia condotta, ed i miei principj conosciuti nelle tempeste che turbarono la mia patria, potranno anticipatamente darvi buon concetto di me, se la elezione del direttorio nel mandarmi a vostra maestà le parrà segno delle sue intenzioni verso di lei, e se finalmente nel corso di questa mia tanto onorevole missione, io riuscirommi a dimostrare, che bene ha il direttorio esecutivo posto la sua fede in me, e che non indarno io ho sperato meritare la stima di vostra maestà".

Questo discorso, che ritraggo di maggior semplicità, ed è molto più purgato di quello tanto astruso, e tanto lambiccato di Garat al re di Napoli, non sarebbe, se non da lodarsi, se non fossero quelle punture date al governo del re; perchè, salve le precauzioni oratorie, esso niun'altra cosa voleva significare se non questa, che il governo Piemontese non era nè sincero, nè amico della repubblica di Francia, nè scevro dalle corruttele Inglesi. Le quali cose certamente credeva Ginguené, ed ebbele volute dire. Da un'altra parte quale sincerità fosse nelle parole di Ginguené, è facile giudicare. Portava egli opinione, e lo scrisse anche al suo governo, che un governo regio qual era quello di Piemonte, non poteva più lungamente sussistere, essendo posto fra tre repubbliche incitatrici, e che perciò era d'uopo operarvi buonamente una rivoluzione, la quale avrebbe potuto essere senza sangue; che se al contrario si aspettava ch'ella da se medesima nascesse, sarebbe violenta e sanguinosa: pareva a Ginguené, che il re dovesse restar contento della Sardegna. Ora qual fede, e qual lealtà verso il re vi fosse nel voler fare una rivoluzione ne' suoi stati, e cacciarlo dal Piemonte, ciascuno sel vede. Così chi poneva le cagioni, voleva anche gli effetti; e dalla necessità delle cagioni argomentava poi alla giustizia degli effetti. Certamente non era colpa del re di Sardegna, se si era creata una repubblica incitatrice in Francia, e simili, ed ancor peggiori repubbliche avevano i repubblicani Francesi creato in Lombardia, ed in Liguria.

Al discorso tanto squisito del repubblicano non rispose il re, non essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio, e della buona salute dell'ambasciatore: poi toccò delle infermità proprie, della consolazione che trovava nella moglie, che era sorella di Luigi decimosesto re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguené le parole, disse, ch'ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà e di virtù. Si rallegrava a queste lodi della regina il Piemontese principe, e mettendosi ancor egli sul lodarla, molto affettuosamente spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei, degli obblighi che le aveva, dei difetti di cui ella l'aveva corretto, massime di quelli della ostinazione e della violenza, della confidenza intiera che aveva in lei, e della pace, e del buon accordo, che, mercè le sue virtù, regnavano in tutta la famiglia. Poi seguitando, addomandava all'ambasciadore, se avesse figliuoli. Rispose del no. Al che il principe, tutto su l'orbezza propria intenerito, rispose, “nè anch'io ne ho, ma mi consolo per la virtuosa donna”. Queste cose io ho voluto raccontare, perchè mi parvero fare un dolce e consolatorio suono in mezzo alle stragi ed ai tradimenti del secolo. Ritirossi dalla reale udienza l'ambasciador di Francia, e sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta bontà, semplicità, e modestia del sovrano del Piemonte. Pure questo fu il principe, che divenne bersaglio di tanti oltraggi, di tanti furori, e di tante disgrazie.

Frequentavano la casa dell'ambasciator di Francia i desiderosi di novità in Piemonte, principalmente quelli, che volendo due repubbliche in Italia, portavano opinione, che il Piemonte dovesse essere unito colla Francia. Nella quale opinione concordavano alcuni nobili delle principali famiglie, o per amore di libertà, o per invidia di potenza verso la casa reale. Stando costoro continuamente ai fianchi di Ginguené, gli rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col falso sulle condizioni del Piemonte, e sulla facilità di operarvi la rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a versi delle sue opinioni, così ei se gli credeva molto facilmente. Per la qual cosa sentiva egli sempre sinistramente del governo, e volendo tagliarvi i nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse il re a licenziare i sei reggimenti Svizzeri, che tuttavia conservava a' suoi soldi.

Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori, vedendogli volentieri, e dando facile ascolto ai rapportamenti loro e dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri, i mali semi producevano in Piemonte frutti a se medesimi conformi. Sorgevano in diverse parti moti pericolosi suscitati da gente audace con intendimento di rivoltar lo stato. Il più principale pel numero e pel luogo, ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio, terra di qualche importanza, che obbediva al Piemonte, quantunque situata dentro al dominio Genovese, e cinta da ogni parte delle terre della repubblica Ligure. Quivi erano concorsi oltre un migliaio i fuorusciti Piemontesi, sì quelli, che per iscampo loro e per essersi mescolati nelle congiure precedenti, erano stati obbligati a spatriarsi, come quelli che per opinione abborrendo la potestà regia, si erano volontariamente condotti in paesi forestieri. Avevano fatto elezione di questo luogo, parte perchè per lui potevano facilmente insinuarsi nei siti montagnosi del Tortonese e delle Langhe, parte perchè non credevano che il re s'ardisse andar ad assaltargli, stantechè era per lui necessario passare pel territorio Ligure, e parte finalmente perchè i capi loro avevano forti aderenze nel Genovesato, massimamente in Genova. Nè le speranze riuscivano senza effetto: circa due mila soldati Liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica, ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio la squadra dei Piemontesi. Nè dubbio alcuno vi poteva essere sugli incitatori; perchè ed uscirono sotto condotta di un ufficiale Ligure, che poi se ne tornò sicuramente a Genova, ed erano ottimamente forniti di denaro. Al tempo stesso si recitava sulle scene Genovesi una commedia intitolata Furbo per furbo, piena di molti strazi e villanìe contro il re, e ad ogni tratto gridavano gli spettatori, “viva la libertà, morte al tiranno Piemontese”. L'inviato che quivi si trovava presente, per lo men reo partito elesse di ritirarsi. Le Gazzette poi di Genova, anche quelle che si pubblicavano sotto l'autorità del governo, continuamente laceravano il re, chiamandolo con ogni più obbrobrioso nome, ed innalzando fino al cielo l'impresa dei fuorusciti di Carrosio. Promettevano altresì, che quello che si tentava dalla parte della Liguria, si sarebbe anche tentato dalla parte della Cisalpina, e con parole infiammatissime pronosticavano la prossima ruina di Carlo Emanuele. Capi principali del moto di Carrosio erano uno Spinola, nobile, Pelisseri, e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita, ed intenta a novità. Un Guillaume, ed un Colignon Francesi erano con loro. Nissuno pensi, che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicato cose più immoderate contro i re di quelle, che costoro mandarono fuori contro quel di Sardegna. Poi per dar maggior terrore, e per far credere che non si consigliassero con fondamenti falsi, spargevano ad arte voci, che la repubblica Francese loro dava favore, e che appunto coll'intento di far sorgere la rivoluzione in Piemonte, il direttorio aveva scambiato il suo legato, mandando in vece di Miot, uomo, come dicevano, di pochi pensieri e repubblicano tiepido, Ginguené, amatore vivo di repubblica, e d'animo svegliato e forte.

Intanto dalle parole passavano ai fatti, e con infinita insolenza procedendo, svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci, bruttissimo preludio di libertà. Fatti poscia più audaci dal numero loro, che ogni giorno andava crescendo, marciarono armatamano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente, ed assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornarono con la peggio. Parecchj altri assalti diedero alla medesima fortezza con esito ora prospero, ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle frontiere del Piemonte.

Si moltiplicava continuamente il dispiacere, che riceveva il re dalle sommosse democratiche: infatti il prenunzio di romori di verso Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani Piemontesi, non senza intesa del governo Cisalpino, e del generale Brune, in Pallanza sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse l'adito facile, e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano, come capi principali, questo moto, Seras, originario di Piemonte, ma ai soldi di Francia, ed ajutante di Brune, ed un Léotaud Francese con un Lions Francese ancor esso, ajutante di Léotaud. Noveravansi in questa schiera meglio di seicento combattenti, bene armati, e partiti assai regolarmente in compagnìe. Risplendevano fra di loro non pochi giovani ingenui, e di natali onesti. Si scopriva la fortuna favorevole ai primi loro conati; conciossiachè avendo udito, che i regj giunti prima in Arona, poi già arrivati a Stresa, si apparecchiavano a combattergli, si deliberarono di prevenire i loro assalti con impadronirsi della fortezza di Domodossola; nella quale effettualmente, fatto un impeto improvviso, entrarono, non aspettando i regj una così repentina fazione, nè la fortezza essendo all'ordine per resistere. Vi trovarono i repubblicani alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro, e se gli menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria. Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle valli dei Valdesi, e già aveva occupato Bobbio, ed il Villard, moto molto pericoloso perchè accennava a Pinerolo, terra aperta, e poco lontana dalla città capitale di Torino. Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che il cuore stesso del Piemonte, che tuttavìa perseverava sano, avesse a fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva, se non lontano, ed inabile ad ajutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina. Pure intendeva all'onore, se alla salute più non poteva, e faceva elezione, giacchè si vedeva giunto al fine, di perir piuttosto per forza altrui, che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a sì rovinosi accidenti un editto, in cui mostrando fermezza d'animo uguale al pericolo, diè a vedere, che maggior virtù risplende in chi serba costanza a difender se stesso nell'avversità, che in chi assalta altrui con impeto nella prosperità. Andava in primo luogo rammentando quanto aveva operato, dalla sua assunzione in poi, pel sollievo dei popoli; si lamentava, che a malgrado di tante sue cure, e di tanta sollecitudine, spiriti sediziosi e perversi avessero il precedente anno volto a ribellione una moltitudine di persone, parte ree, parte imprudenti, le quali avevano empiuto il Piemonte di confusione, di terrore e di rapina; raccontava, che mercè della divina provvidenza, e coll'ajuto dei sudditi fedeli erano stati frenati i turbatori ed interrotto il corso alle indegne opere loro; che non ostante avevano trovato ricovero in grembo alle potenze vicine, donde avendo raccolto nuovi partigiani, novellamente s'attentavano di correre le province conterminali; che egli aveva mandato contro di loro truppe a sufficienza; ma perchè meglio i sudditi fossero tutelati, voleva, che tutte le città, che tutti i comuni, di concerto coi giudici regj, e sotto guida dei governatori, e dei comandanti delle piazze ponessero le armi in mano a tutti gli uomini dabbene ed affezionati, acciocchè, ove d'uopo ne fosse, potessero congiungersi con le genti regie, e correre insieme alla difesa comune; che sapeva altresì, e di certa scienza novellamente affermava, che ogni giorno riceveva tanto da parte dei generali, quanto da quella degli agenti del governo Francese, dimostrazioni non dubbie di buona amicizia; che finalmente con la sua reale sopportazione consigliandosi, offeriva perdono a chi pentito de' suoi errori se ne volesse tornare al suo grembo paterno.

Non ignorava il re, che la rabbia e la ostinazione delle opinioni politiche non lasciano luogo alle persuazioni. E però facendo maggior fondamento sulle armi, che sulle parole, aveva mandato sul lago Maggiore parecchj reggimenti di buona e fedele gente, affinchè combattessero i novatori dell'alto Novarese, e ritogliendo dalle loro mani Domodossola la restituissero al dominio consueto. Medesimamente mandava truppe sufficienti per difendere le frontiere verso la Liguria contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo si empiva di soldati, per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle valli dei Valdesi.

Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo, in cui la repubblica di Francia sentirebbe tutte queste Piemontesi sommosse; perchè, se ella le fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse, qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo Francese. Ragionava egli, e certamente con molto fondato discorso, che importava al re, che il direttorio si risolvesse sulle sorti Piemontesi; poter bene, allegava, resistere a questi nuovi insulti, ma non potere più lungamente sussistere nella condizione in cui era; rendersi perciò necessario, o che la Francia gli desse mezzi d'esistenza, o che a modo suo ne disponesse:

"Se è destinato dai cieli, diceva, che noi abbiamo a cessar di essere una potenza, se il corso delle cose, se la forza degli umani accidenti a ciò portano, che noi abbiamo ad essere spenti, noi preferiamo, noi anzi domandiamo, che una nazione grande, potente, e nostra alleata sia quella, che giudichi il destin nostro, ed eseguisca essa stessa quello, che abbia giudicato, piuttostochè vederci minacciati dai nostri stessi sudditi, che è indegnità insopportabile, piuttostochè vederci consumare appoco appoco, e languire in uno stato tale, che la morte non è peggiore".

Questi estremi lamenti della cadente monarchìa Piemontese non sono certamente segni di animo doppio, e non sincero; che anzi la sincerità è tale, che non solamente induce persuasione nella mente, ma ancora muove vivamente il cuore.

Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma del direttorio: che il governo Francese a modo nissuno fomentava quei movimenti; che l'animo suo verso il re era sempre il medesimo; ch'ei voleva adempire lealmente le condizioni dei trattati; che se un nemico esterno assaltasse il re potrebbe egli far capitale delle bajonette Francesi, ma che nel presente caso si vedevano sudditi volere la distruzione del suo trono; che per verità i suoi soldati avevano prevalso nei primi assalti; che sei mila fuorusciti Piemontesi, a cui stava a cuore la libertà, e che bramavano la vendetta, privi di ogni cosa necessaria al vivere, si aggiravano sull'estreme frontiere del regno; che si adunavano in grembo di nazioni libere; che quivi si accordavano ai disegni loro, e che coll'armi in mano assaltavano il re. Conviensi forse alla Francia implicarsi in tale faccenda? Certamente non conviensi. Ha la Francia armi potenti in Lombardìa, ed in Liguria: se in queste due repubbliche nascessero moti contrari al governo, se questo di per se non fosse abile al resistere, e richiedesse di ajuto la repubblica Francese, accorrerebbe ella certamente in soccorso di lui, e dissiperebbe i ribelli. Ma quando Piemontesi amatori di libertà si adunano per conquistarla, e per far la loro patria libera, volere che i Cisalpini, i Liguri, od i Francesi a loro si oppongano, è cosa del tutto sconveniente e vana. A questo dire aggiungeva Ginguenè rimprocci sul modo, con cui il governo Piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze, del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni. Concludeva, che i moti di sedizione non portavano con se alcun pericolo, se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito felice alla impresa dei sollevati: che però, esortava, preoccupassero il passo, e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo tutto quello, che si prometteva dalla rivoluzione. I rimproveri dell'ambasciadore sul mal governo del Piemonte erano, come di forestiero, inconvenienti; che la Francia poi non fosse obbligata a mantenere lo stato quieto al re, era falso, perciocchè a questo si era solennemente obbligata nel trattato d'alleanza.

In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguené, come se desiderasse torgli non solo la forza, ma ancora la mente ed il tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare, parte i comandamenti del direttorio, parte i propri spaventi. Chiedeva perciò, ed instantemente ricercava Priocca, operasse, che il re cacciasse da' suoi stati i fuorusciti Francesi, ed ancora proibisse, sotto pena di morte, gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re, se nol facesse, che disperdesse i Barbetti, che infestavano le strade, ed assassinavano i Francesi. Alle due prime richieste rispondeva Priocca, che quanto ai fuorusciti Francesi, desiderava sapere, se la Francia, e l'ambasciador suo intendessero, ch'e' fossero perseguitati, o che la qualità loro di fuorusciti fosse certificata in giustizia, o ch'ella avesse nissun fondamento legale, e solo fosse effetto dell'odio personale, dell'invidia e delle fraudi; desiderava sapere, se volessero parlare di una emigrazione di fatto, o di una emigrazione di dritto. Se di fatto, e' bisognava che l'ambasciadore si risolvesse a rendersi complice di tutti gli atti d'ingiustizia e di violenza commessi da agenti subalterni per interesse o per vendetta contro un numero infinito di Savoiardi e di Nizzardi. Non di tutti parlerebbe il ministro; solo rammenterebbe il conte Selmatoris, nato in Cherasco di Piemonte, impiegato ai servigi militari, ed in corte del re da più di trent'anni, il quale stato solo in tutto il tempo della sua vita quindici giorni nello stato di Nizza, era stato scritto nella lista dei fuorusciti di quel paese. Rammenterebbe altresì il cavaliere di Camerano, il quale, chiuso dall'ottantaquattro in poi nell'ospedal dei matti di Torino, era stato ancor esso nella lista fatale notato. Osservava oltre a ciò Priocca, che il trattato di pace, lasciando al re la facoltà di conservare a' suoi servigi i Savoiardi ed i Nizzardi, aveva riservato alla repubblica Francese il diritto di addomandar l'allontanamento di coloro, che si rendessero sospetti. Ora vorrebbesi forse, insisteva, che tali stipulazioni guardassero indietro, o statuire il principio, che ogni qualunque denunzia senza pruove faccia un uomo sospetto? E potrebbe ella forse, questa valorosa e virtuosa nazione, imputare a delitto ad un ufficiale del re l'aver guidato contro di lei soldati, che poco dopo ella credè potere far compagni delle sue fatiche e delle sue vittorie? Finalmente, concludeva, la giustizia è il primo dovere delle grandi nazioni; ella è anzi bisogno, non che dovere, se esse non vogliono rimanersi alla triste gloria di dominar con la forza, e col terrore. Ora la giustizia domanda, anzi comanda, che non s'incrudelisca contro persona per accuse meramente date da chi è mosso da brama detestabile di vendetta, o da sete vile d'interesse.

Rispetto agli stiletti ed alle coltella, affermava Priocca, non potersi i portatori di tali armi pel solo fatto del portarle punire colla pena di morte, senza una considerabile alterazione nel corpo delle leggi, e che nè la giustizia, nè la umanità permettevano, che per solo termine di polizia e di prudenza, si usasse il mezzo estremo della morte. Se si punisce di morte colui che portava un'arme, qual pena si darebbe ad un omicida? Bene si maravigliava Priocca, che queste atroci dottrine si professassero, e l'uso loro anche con minacce s'inculcasse da coloro, che continuamente avevano in bocca parole di filosofia e di umanità. Certamente non erano queste le dottrine di Beccaria.

Quanto agli assassini dei Francesi, allegava il ministro, che se gli autori ne fossero conosciuti, sarebbero incontanente castigati, e che a questo fine si era ordinato a tutti i magistrati sì civili che militari, che la sicurezza e la vita dei Francesi diligentemente preservassero; ma che sapeva bene l'ambasciatore, ed era anche vero, che intieramente non si potevano impedire gli effetti dei risentimenti particolari suscitati dagl'insulti, e dalla cattiva condotta dei Francesi; che il mutare la natura degli uomini, ed il fare che non si risentano alle ingiurie, è cosa del tutto impossibile.

Così affermava Priocca, che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto vigilante a render sicuri i Francesi in Piemonte, e quello che diceva, anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno, che secondo gli umori, od alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai democrati, che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare, anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Agitavasi la causa di un Richini, detto per soprannome Contino, capo di Barbetti, il quale accusato di grassazione contro un commissario Francese, che viaggiava da Torino a Susa, era stato arrestato per ordine regio, e tuttavia era sostenuto nelle carceri del senato a Torino. A costui fu suggerito da alcuni democrati, che se ne stavano carcerati con lui, un bel tratto, e questo fu, che affermando cose orribili ordite per suo mezzo dal governo regio contro i Francesi, l'avrebbero eglino scampato dal pericolo. Nè fu la risoluzione sua diversa dal consiglio; perchè testimoniò per iscritto, che il re defunto Vittorio Amedeo, il principe reale di Piemonte stato, dopo la morte di Vittorio, assunto al trono, ed il duca d'Aosta, figliuol secondogenito di Vittorio, gli avevano comandato, che se ne andasse nel contado di Nizza e nella riviera di Genova, e quivi avvelenasse tutti i fonti, ai quali necessariamente andassero ad abbeverarsi i Francesi; che quello, che gli era stato imposto, aveva mandato ad effetto; che per questo era sorta una grande mortalità così nei Francesi, come nelle bestie loro. Aggiunse questo Contino, che se n'era andato parecchie volte, per ordine espresso dei tre principi, ad arrestar i corrieri sulle strade, e che aveva da essi principi avuto la facoltà più ampia di ordinare sul colle di Tenda bande d'uomini armati col fine di assassinare i Francesi; ma che i principi medesimi per far vedere, che non l'avevano mosso a tutte queste enormità, l'avevano fatto carcerare, ed ordinato che se gli facesse, come affermava, un processo simulato. Io mi sento muovere a grandissima maraviglia, pensando che un ambasciatore di Francia, uomo del rimanente civile e buono, soffocata in lui la prudenza dall'illusione, non abbia abborrito dall'udire, credere, e rapportare, come fece, al suo governo calunnie tali contro principi religiosi e pii. Certo un deplorabile fantasma era quello, che gli occupava la mente. Il seguito fu, che Ginguené a nome del direttorio richiese solennemente il re, che gli desse Contino, ed il re gli satisfece dell'effetto, dandogli incontanente, e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un Francese: vergognosa vittoria per un governo, ed un ambasciatore di Francia.

I terrori di Ginguené erano anche fomentati dalle esorbitanze dei democrati più ardenti, i quali, veduto che i Francesi a tutt'altro pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler camminare da se, ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandogli di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, prese occasione di un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri, che si trovavano alle stanze di Torino, si misero a dire le cose più smodate, che uomo immaginar si possa. Nè contenti alle parole, mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguené. Egli era espresso in questa forma:

"Popoli della terra, e voi massimamente patriotti, ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i dritti degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno, che a loro voleva opporsi; ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso tutte le forze dei confederati d'Europa, che erano accorsi in suo ajuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti, perchè ha trovato dappertutto uomini, che e conoscevano la giustizia della sua causa, e non esitarono a dichiararsi per lei contro la tirannide. Si era la Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i popoli, e promettendo di ajutar quelli, che, com'ella, portassero odio ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo ch'ella si è proposto, è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra del trionfo dei dispoti. Gli agenti, che manda presso a loro per compiacere al loro orgoglio, e per istringere gli empj nodi della loro amicizia, in vece di vestirsi a lutto per la morte degli amici per la libertà, celebrano feste scandalose, e bevono nelle medesime coppe dei tiranni. Il sangue di coloro, che amici della libertà si protestano, scorre a rivi, e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarla. Gli splendori del trono gli rendono spettatori insensibili dell'orribile ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi, che l'oro dei tiranni corrompe! Popoli della terra, ascoltate le voci di un uomo, che è spettatore di tante sceleragini, e che ne pruova un dolore orribile. Ardete le dichiarazioni frodolente dei diritti dell'uomo, ch'eglino vi hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce, che risplende dal tempio della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro, abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non atterra più troni; essa gli difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto fatto alla tirannìa: con una mano opprime i popoli, ai quali per suo proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni, che divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni e ruine".

Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato, e principalmente diretto contro Ginguené, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la mente inferma, del cammino, a cui si andava con quegli amatori di libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare. Intanto tutta l'ambascerìa di Francia n'era mossa a romore. Ginguené prese contegno con Cicognara, a cui si era sempre dimostrato amico, ed egli a lui. Poi parendogli cosa d'importanza, ne scriveva al direttorio, con molta instanza pregandolo, operasse efficacemente col direttorio Cisalpino, affinchè Cicognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in ciò andarvi la salute di Francia.

L'ecatombe mentovata nello scritto fu questa. Eransi, come già abbiam narrato, i Piemontesi nemici al nome reale adunati sotto la guida di Seras e di Léotaud sulle rive del lago Maggiore, e già condottisi fin oltre Gravelona, marciavano contro i regj che loro venivano incontro. Erano stati armati, e forniti d'abiti, d'armi e di munizioni con secrete provvisioni del governo Cisalpino. Si noveravano nell'esercito regio circa quattro mila soldati descritti sotto le insegne dei reggimenti di Savoja, della Marina, di Peyer-Im-Off, di Zimmerman, e di Bacman. Le due parti si preparavano alla battaglia. Si combattè tra Gravelona ed Ornavasso. L'ala sinistra dei repubblicani, donde poteva venire il più grave pericolo, pareva fatta sicura dal fiume Toce, insino al quale ella si distendeva; ma siccome tutta l'importanza del fatto dipendeva dal vietare il passo del fiume ai regj, vi aveva Léotaud, per maggior sicurezza, collocato una compagnia di gente eletta, granatieri massimamente. Cominciavano i feritori alla leggiera una battaglia sparsa; poi le genti più grosse l'ingaggiarono per modo, che a mezzo giorno tutte le schiere menavano molto valorosamente le mani. La rabbia era uguale da ambe le parti, siccome di guerra civile, ma l'impeto maggiore da quella dei repubblicani. Questo era cagione, che i regj, quantunque fortemente resistessero, perdevano del campo, e pareva la fortuna inclinare del tutto a favore dei loro avversarj. Tanto bene ordinato era questo moto, sebbene avesse in se qualche cosa di tumultuario, e tanto era l'ardore, che animava a cose nuove quei giovani repubblicani! Mentre in questo modo si mostrava la fortuna favorevole agli sforzi dei novatori, ecco levarsi il grido, che i regj, aspramente urtata e rotta la compagnia guardatrice della Toce, avevano varcato il fiume, ed assaltavano, fremendo, le squadre repubblicane alle spalle. Nè era senza verità il grido spaventevole; imperciochè sei compagnìe di granatieri dei reggimenti di Savoja, e della Marina, con gagliardìa estrema combattendo, avevano e sbaraglialo i guardatori del varco, e passato il fiume, e già assaltavano alle terga i repubblicani. Questa mossa fe' del tutto prevalere i regj; i repubblicani assaliti da fronte e da dietro, e sopraffatti dal numero soprabbondante degli avversari che su quel forte punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta; nè fu più possibile ai capi di rannodargli, ancorchè Léotaud in questa bisogna virilmente si adoperasse. Cencinquanta repubblicani perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la battaglia, in poter dei regj. Perì, fra gli altri, Angelo Paroletti, giovane di costume angelico, e d'ingegno maraviglioso. I superstiti furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue condannati a morte.

In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi, che si accagionassero dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essere loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguené con instanti parole descritto al suo governo i supplizj del Piemonte. Il direttorio, che poteva meramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì diciotto maggio Taleyrand a Ginguené, che i moti d'Italia, quelli sopratutto, che erano sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di certa scienza, che si era ordita una congiura col fine di far assassinare tutti i Francesi in Italia; che sapeva ugualmente, che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè soccorsi di Francesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione s'indebolissero, e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini di uccidergli. Sapeva finalmente, che non contenti al dare compimento a sì scelerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro, che si credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguené ciò, che il direttorio aveva risoluto per salvare e l'Italia e i Francesi e gli amici della repubblica, dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto, che si appresentasse al governo del re, della orribile conspirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze straniere, e nemiche della Francia, e dimostrasse, volere il governo francese risolutamente, ch'ella e per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere, che prima di tutto, offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati, sì veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero; volere, che il re adoprasse le sue forze contro i Barbetti, che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare, che le strade tra Francia ed Italia fossero libere e sicure. A queste condizioni, e per allontanar il timore che le repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune, che apertamente, ed espressamente comandasse ai sediziosi, che dissolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso importante, ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizj arbitrarj, tanti supplizj crudeli contro uomini ragguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo parevano essere stati condotti all'ora estrema, perchè erano amatori della repubblica Francese, non permettevano che si frapponesse indugio. Se il governo Sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe manifesto, essere lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto, fingendo di temerle in palese. Del rimanente badasse bene Ginguené a non chiamare mai i sediziosi, patriotti, ma sì sempre amici della Francia. Nel che io non saprei giudicare, se vi sia derisione o fraude; perchè se i sediziosi erano incitati dall'Austria e dall'Inghilterra, come si dava sospetto, non si vede come si potessero chiamare amici della Francia; e da un'altra parte, se veramente era la Francia amica del re di Sardegna, come tutte le parole espresse suonavano, non si comprende, come ella chiamasse suoi amici i ribelli, che con le armi in mano apertamente combattevano l'autorità e la potenza del re.

Fece Ginguené molto efficacemente il dì ventiquattro di maggio l'ufficio. Vi aggiunse di per se parecchie parti, che furono quest'esse; che si cacciassero i fuorusciti, che attivamente si punissero gli uccisori dei Francesi, che con pena di morte si proibissero le coltella e gli stiletti, che si castigassero quei preti, che seminavano odj contro una nazione amica.

Ma parendo all'ambasciatore, che lo sforzare il re a perdonare ai ribelli, ed il chiamare amici di Francia coloro, che macchinavano contro il suo stato, fors'anche contro la sua vita, non bastassero a constituirlo in compiuta servitù, voleva, ed instava presso al direttorio, che la Francia dovea avere piena ed assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva sforzare il re a cambiare tutti i suoi ministri, ed a richiamare il conte Balbo da Parigi. Su questo punto principalmente insisteva l'ambasciatore: affermava, essere il conte l'agente di tutta la confederazione d'Europa in Parigi, spargervi, e spandervi denari in copia, seminarvi corruttele in ogni parte, rendere co' suoi dispacci il re sicuro, scrivere a Torino, che badassero a stare coll'animo riposato, che i rigori usati e da usarsi sarebbero approvati a Parigi, che gli agenti di Londra, e di Vienna, benchè fossero d'infimo grado, si adoperavano efficacemente contro Francia, e che del rimanente la repubblica rovinerebbe prima del Piemonte. Per tutti questi motivi richiedeva Ginguené, che si rivocasse il conte da Parigi, e che in oltre si eleggesse a sua scelta il successore.

Il governo Piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi minacce, ordinava il dì venticinque di maggio, che si sospendessero sino a nuovo ordine i processi dei non condannati, e si soprassedesse alle pene dei Francesi, che si fossero mescolati nelle ribellioni.

Intanto il dì ventisei di maggio alle ore quattro della mattina i fossi di Casale grondavano sangue. Léotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions ajutante di Léotaud, ambidue francesi di nascita, ma non di servizio, con otto altri parte forestieri, parte Piemontesi, che per aver combattuto nella battaglia di Ornavasso, erano stati dannati a morte, soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo Piemontese, per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente a pensare l'ora insolita dei supplizj, e la tardità della staffetta apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove ore in Trino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle, ed accelerato i supplizj, affinchè la salute arrivasse, quando già morte spaziava. Adunque il sangue, adunque l'ecatombe di Domodossola non bastavano? Bene ciò io debbo dire ai posteri, che questa crudeltà, degna di eterna riprensione, non fu opera di Priocca, ma bensì di chi in queste faccende camminava con più ferocia di lui. Si avvide il ministro in quale taccia incorresse, e perciò scriveva all'ambasciator di Francia, mostrando dolore dell'accidente, accusando il messo di tardanza, e giustificandone il governo. La uccisione massimamente dei due Francesi il travagliava: temeva di qualche subito sdegno di Francia. Per la qual cosa scrivendo a Ginguené spiegava, come il dritto pubblico, ed il dritto naturale avevano sempre voluto, che il giudice naturale di un delitto sia quello del luogo, in cui è il delitto commesso, e che come un Piemontese, che commettesse in Francia un delitto, dovrebbe essere giudicato da giudici Francesi, così un Francese, che commettesse un delitto in Piemonte, doveva esser giudicato da giudici Piemontesi. Levò Ginguené pei due Francesi morti gravissime querele, minacciò il governo Piemontese, scrisse a Parigi, che era oggimai tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso, che si faceva, ch'ella tollerasse le carnificine dei Francesi e degli amici loro, per forza dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo. Poscia le proposizioni del Piemontese ministro riprendendo circa il diritto pubblico e naturale, affermava, esser vere nei casi ordinari, ma non negli straordinari, e che quello era caso straordinario, da qualificarsi in realtà dritto di conquista, e quasi di guerra aperta sotto nome di pace e d'alleanza: parole verissime, che se giustificavano quello, che la Francia faceva contro il re, giustificavano del pari quello, che si supponeva che il re facesse contro la Francia. Adunque quello era tempo da cannoni, non da discorsi, da manifesti di guerra, non da proteste di amicizia.

Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria di Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più molesti; poichè crescendo di numero e d'ardire, sboccavano sovente a far correrìe sui territorj regj, dando loro facile adito i comandanti Liguri per le terre della repubblica. Fra le altre ci fecero una spedizione piena di molta audacia contro Pozzuolo, terra estrema verso le frontiere Liguri, e custodita da un forte presidio. Partiti con una squadra di circa quattrocento soldati al tramontar del sole del dì ventisei d'aprile, e viaggiato tutta la notte, arrivarono il giorno seguente improvvisi sopra Pozzuolo, ed investita la terra, dopo breve battaglia, la recarono in poter loro, con aver fatto prigioni circa quattrocento soldati. Portaronsi i Carrosiani molto lodevolmente in Pozzuolo, e non fecero ingiuria ai soldati cattivi. Poi se ne tornarono a Carrosio, donde di nuovo uscivano spesso a travagliare i confini.

Non ignorava il governo Piemontese, che i moti di Carrosio avevano più alte radici, che quelle dei repubblicani Piemontesi, perchè Brune e Sottin, segretamente e palesemente gli fomentavano. Tuttavia, non volendo mancare al debito della conservazione degli stati, si era deliberato a mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza traversare il territorio Ligure per arrivarvi, aveva rappresentato al governo Ligure, che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano liberamente per venir ad invadere il territorio Piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i nemici di sua maestà, che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o dissipargli essa medesima, o dare alle genti regie quel passaggio stesso, ch'ella dava a' suoi nemici.

Rispose la repubblica, che non consentirebbe mai a dare il passo; solo prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio Ligure per andar ad assaltare i regj, ed intraprendevano le vettovaglie, che per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e svaligiavano i corrieri. Nel che non la perdonarono nemmeno al corriero Ligure, a cui tolsero i pieghi diretti ai ministri regj, ed aprirono quelli dei ministri di altre potenze.

Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche perizia militare. Avvertinne il governo Ligure, avvertinne l'ambasciator di Francia, avvisando, che solo fine della spedizione era di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar quiete a' suoi stati.

Sentì sdegnosamente l'ambasciadore questa mossa d'armi, e rescrivendo al ministro Priocca, intimava, facesse incontanente, se ancor fosse tempo, fermar le genti, che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse possibile di assaltar questa terra senza violare il territorio Ligure; la quale violazione non poteva non portar con se gravi, e pericolosi accidenti. A questo modo l'ambasciatore presso ad una potenza, non solamente amica, ma ancora alleata, sofferiva pazientemente, che i ribelli di lei passassero pei territorj Liguri per andarla ad assaltare, e non tollerava, anzi si sdegnava, se essa potenza per riacquistare il suo toltole violentemente dai ribelli, attraversasse i medesimi territorj pei quali non avendo altra strada, le era necessità di passare.

Il re, stretto da tanti nemici, ed oppresso da chi doveva l'aiutare, non si perdeva d'animo, volendo, che il suo fine fosse, se non felice, almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione avesse che fare nel dominio della forza. Spiegava il regio ministro, che a norma dei principj del diritto pubblico, quando un principe è impossibilitato per impedimenti naturali a pervenire ad un territorio che gli appartiene, e che gli è stato tolto, se non col passare per quello, che da ogni parte il circonda, non vi poteva essere dubbio sulla legittimità del passo; e poichè la repubblica Ligure non aveva voluto nè rimuovere le cagioni, nè dare il passo, siccome dell'una e dell'altra cosa era stata richiesta, così a lei, non al re la violazione del territorio doveva imputarsi. I soldati regj, attraversato il territorio Ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio, e si facevano padroni della terra. Poscia, per maggior sicurezza, munirono di guardie tutte le alture circostanti.

A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si risentirono gravemente; le cose che scrissero, sono piuttosto pazze che stravaganti. Un Francesco Serra, figliuolo che fu di Giacomo, avanzò ogni altro con una scrittura tanto esorbitante, ed eccedente ogni modo di procedere civile, che se sola passasse ai posteri, non so con qual nome chiamerebbero l'età nostra. Ma Sottin non si ristava alle parole, anzi accesamente appresso al direttorio Ligure instando, operò di modo che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nemico della repubblica, e ad intimargli la guerra. Brune si rallegrava, che le cose gli andassero a seconda, ed aprissero l'adito a' suoi disegni ulteriori. Non dubitava, che quanto più il re fosse stretto da difficoltà, e quanto più bassa la sua fortuna, tanto meno sarebbe renitente al consentire alla Francia quello, ch'egli aveva in animo di domandargli, e che era piuttosto di estrema, che di somma importanza; proponendosi in tale modo il generale della repubblica di tirare a benefizio di lei la guerra, che fomentava egli medesimo sottomano contro Carlo Emanuele.

Mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguené voleva impedire, che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di questa discordia. Al che il ministro rispondeva proponendo, a fine di prevenire il sangue, e di mostrar desiderio di pace, che Carrosio si sgombrasse dalle genti regie, e si depositasse in mano dei Francesi. Solo domandava, che la repubblica Ligure cessasse le ostilità, e non desse più ricetto a masse armate contro il Piemonte. Non dispiacque all'ambasciadore la proposta, e mandava il suo segretario a Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo Piemontese, non aspettate le intenzioni di Brune, volendo, o per amore di concordia, o per timore di Francia gratificare all'ambasciadore, aveva operato, che le truppe si ritirassero da Carrosio, e ritornassero nei dominj Piemontesi oltre i confini Liguri. Per la ritirata dei regj non cessavano le ostilità; anzi i Liguri venuti avanti coi novatori Piemontesi sotto la condotta del generale Siri s'impadronirono, dopo un violento contrasto, della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti si erano fatti signori di Loano. I soldati Piemontesi presi in questo fatto furono condotti dai vincitori a guisa di trionfo nel gran cortile del palazzo nazionale di Genova, dove sedevano i consigli legislativi. Sorsero molte allegrezze. Le solite imprecazioni contro i re, massime contro quel di Sardegna, montarono al colmo.

Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per far calare il re a quello, che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille spaventi. Già Ginguené parlando con Priocca aveva tentato per ogni modo di spaventarlo. Affermava, che in ogni parte apparivano segni di una feroce congiura contro i Francesi in Italia; che già Napoli armava; che già l'imperatore empiva gli stati Veneti di soldati; che in ogni parte si fomentavano sedizioni; che in ogni parte con infiammative predicazioni si stimolavano i popoli contro i Francesi; che questo fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica Francese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato d'affari d'Inghilterra? che essi potevano dar denari al re, dei quali quale uso egli facesse, ben si sapeva; che i fuorusciti Francesi, che le macchinazioni dei preti, che la parzialità dei magistrati, che il parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Francesi della gente in ufficio non lasciava luogo a dubitare, che qualche gran macchina si ordisse contro Francia.

A così gravi accusazioni rispondeva il ministro, non per persuadere l'ambasciador di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole, ma per purgare il suo signore delle note che gli si apponevano, che bene si maravigliava, che s'imputassero al re i preparamenti, o veri o immaginari, di Napoli o dell'Austria, poichè sua maestà non aveva alcuna intima congiunzione con Napoli, nissuna con Toscana; che assai freddamente se ne viveva coll'Austria; che di ciò poteva far testimonianza Bernadotte, ambasciatore di Francia a Vienna; che l'Austria aveva in Torino solamente un incaricato d'affari temporaneo, quasi senza carattere pubblico; che quanto alle congiunzioni recondite, e quanto ai corrieri, ed altri mandatari segreti, poteva con una sola parola rispondere, cioè che tutto era falso, e che sfidava l'ambasciador di Francia alle pruove; che ne seguitava, non essere in alcun modo il Piemonte partecipe di quanto accadesse negli stati monarcali d'Italia, ed essere del tutto assurdo, ch'ei partecipasse nelle cose del Nord; che non era mai stato obbligo di niuna potenza di derogare alle amicizie con altre potenze, nè di cacciare i loro agenti, solo perchè con una potenza amica di quella avevano guerra; che risultava dal trattato d'alleanza, avere il re facoltà di conservare appresso a se i ministri delle potenze nemiche della Francia; che la presenza loro in Torino era un mero cerimoniale senza importanza alcuna; che Stakelberg, ministro di Russia, che Jacson ministro d'Inghilterra non avevano forse due volte in un anno fatto ufficj al governo, e questi ancora per cose di nonnulla: che potevano pel Piemonte fare la Russia, e l'Inghilterra così lontane? "“Che volesse pur il cielo, sclamava Priocca, che denaro ci potessero dare! che ci verrebbe ad un bel bisogno; il che Ginguené ottimamente sapeva; ma che bene l'Austria e la Russia avevano altri usi a fare del denaro loro, che quello di darlo a chi nulla poteva per loro”". Che finalmente per favellare dei fuorusciti, dei preti, dei magistrati, degl'impiegati, o erano falsi i rapporti, od opere d'uomini privati, che siccome dal governo non procedevano, così non potevano ragionevolmente dar fondamento di giudicare sinistramente di lui, nè impedire, ch'ei potesse sostenere in cospetto d'Europa di aver sempre conservato fede inviolata ai trattati; che pertanto il governo regio si trovava innocente di tutti i carichi che gli si davano, non con altro fine, che con quello di perderlo. Concludeva il ministro, che sarebbe stato meglio, e più onorevole per la Francia lo spegnerlo, che il martirizzarlo.

Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro degli affari esteri di Francia a Ginguené, che manifestavano uno sdegno grandissimo pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati: essere, scriveva il ministro, la crudeltà del governo Piemontese nel suo colmo; i mezzi di dolcezza e di persuasione non potersi più usare; voler riferire al direttorio lo stato del Piemonte; non dubitare, ch'egli fosse per abbracciare i consigli di Ginguené; voler proporre per condizione prima, che si allontanasse il conte Balbo, il quale col rendere sicuro il suo governo, il portava a commettere tutti i delitti, di cui era Ginguené testimonio, ed a credere che sarebbero impuniti. Pure il conte non fu mandato via; perchè o il ministro non propose, il che io credo, o il direttorio non accettò la risoluzione dell'allontanarlo, sicchè continuò a starsene in Parigi insino alla ruina totale del regno.

In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguené venuti alle strette per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per pacificare il Piemonte voleva, che si concedesse ai sediziosi. Avrebbe l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca, che aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo Francese esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne con Ginguené nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse solamente i delitti politici anteriori, e non gli estranei alla sedizione; non guardasse nel futuro, ed in modo alcuno non impedisse il governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto alcuno ripigliassero le armi contro il re.

Brune, al quale Ginguené aveva annunziato le condizioni dell'indulto, e che evidentemente mirava più oltre, che alla servitù del re verso Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando, voleva, che si domandasse la consegnazione, quale deposito, in mano dei Francesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre, che il re licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di Carrosio, e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla cittadella, domandassela Ginguené, e se la domanda gli ripugnasse, domanderebbela egli. Per tal modo a quel soldato repubblicano pareva, che lo spogliare il sovrano del Piemonte dell'ultima fortezza, che gli fosse rimasta, che il voltar le bocche dei cannoni della repubblica contro la sua stessa reale sede, che il torgli per forza i servitori più fedeli, che lo sforzarlo a dare un compenso alla repubblica Ligure per avere, lei fomentato i suoi nemici, e corso armatamente contro di lui, fossero cose di poco momento, e da domandarsi con un girar di discorso.

Non abborrì l'animo di Ginguené da sì insolente proposta, dalla quale nondimeno avrebbe potuto facilmente esimersi, stantechè il generale, si offriva a far da se. A questa moderazione avrebbe dovuto tanto più volentieri attenersi quanto più gli era pervenuto comandamento espresso da Parigi di non aggravar le condizioni, e di stipularle tali quali il governo gliele aveva mandate. Ma siccome aveva molta fede in Brune, ed era continuamente aggirato dai democrati, consentì a quello, da che ed il carattere suo d'ambasciadore, e la sua qualità d'uomo civile lo avrebbero dovuto stornare. Insistè adunque con apposita scrittura appresso al ministro Priocca notificando, che Brune si era risoluto a non accettar le condizioni. Aggiunse di proprio capo, che i Liguri gridavano vendetta per le ingiurie sì recenti che antiche; che i Cisalpini erano pronti ancor essi a correre ai risentimenti; che dai Liguri e dai Cisalpini avevano i sediziosi soccorsi di consiglio, d'armi e di denaro; che già cresciuti di numero e di forze minacciavano il cuore del Piemonte; che le campagne erano in armi, che il fanatismo spingeva i contadini ad ammazzare i Francesi; che i fuorusciti di Francia, ed i nobili del Piemonte ammassavano genti per correre contro i Francesi, che ogni cosa vestiva sembianza da nemico, ogni cosa mostrava odio irreconciliabile, ogni cosa prenunziava la guerra; che in tale condizione di tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire una sicurtà era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che questo gran preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per ogni lato, dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte appianerebbe la strada a buona concordia; che i democrati armati deporrebbero le armi, vedendo l'indulto guarentito da tale atto; poserebbero la Cisalpina e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete dello stato stabilmente confermata. Quale difficoltà, quale timore potrebbe opporsi a sì sana risoluzione? Forse il timore, che i Francesi di questa nuova condizione fossero per abusare, per non adempire i patti dell'alleanza fin'allora tanto scrupolosamente da loro osservati? Avere testè salvo ed incolume il Piemonte, un grosso esercito repubblicano attraversato questo paese: temere, che i Francesi vogliano abusare della possessione della cittadella contro il governo Piemontese sarebbe far ingiuria alla repubblica Francese; che se i Francesi nodrissero tali pensieri, non avrebbero, per mandargli ad esecuzione, bisogno della cittadella; sperare pertanto, concludeva, sperare l'ambasciatore, sperare il generale, che per l'amore e per la stabilità della pace consentirebbe il re alla consegnazione della cittadella; dal quale atto ne seguiterebbe incontanente, ch'egli con ogni più efficace mezzo, e con intatta fede procurerebbe la pace, e la quiete del Piemonte.

Persistettero Ginguené e Brune nel volere la cittadella, sebbene il ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore, che le condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo Francese, stante le disposizioni d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò richiedevano dalla Francia; che per questa cagione, e per avere Sottin trasgredito questi ordini, l'aveva il direttorio richiamato da Genova, e soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. Infatti era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso nello spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla quale deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le sue instanze e diligenze il conte Balbo a Parigi.

A così strana domanda, si commosse il governo Piemontese, e già certo del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò primieramente il marchese Colli a Milano, affinchè facesse opera con Brune, che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva all'ambasciador di Francia queste parole, che, siccome pare a noi, potrebbero servir d'esempio ai governi ridotti agli estremi casi da chi fa suo dritto la forza. Il terzo capitolo dell'indulto, enunziava, solo fare difficoltà; consentire il re a rinunziarvi, quantunque ei conoscesse essere necessario alla quiete del regno, ed alla sicurtà personale sua, ma rinunziandovi, richiedere il governo Francese, ed i suoi rappresentanti di giustizia; importare massimamente al re il soggetto presente; però richiedere la Francia di giustizia: volere la Francia procurar salute a coloro, ch'ella chiamava suoi amici; consentire il re alla salute loro, consentire anzi, che fossero liberi da ogni molestia: ma volere forse la Francia, che per le trame e macchinazioni di costoro fosse continuamente il Piemonte in pericolo di nuove turbazioni? Fosse la sicurezza del re, suo alleato, insidiata? Non potere volerlo senza ingiuria della giustizia, senza ingiuria della lealtà, senza ingiuria dell'interesse suo: non potere volerlo senza taccia di connivenza nelle opere criminose loro, cosa contraria a' suoi principj, alle sue promesse, ai patti giurati: non volere il re fare alcun male a coloro, che avevano voluto, e tuttavia volevano fargliene, ma dover assicurare la tranquillità del regno, la conservazione del suo governo; avere di ciò non solo dritto, ma dovere; quanto alla repubblica Francese, il vantaggio, ch'ella procurava a' suoi nemici, essere per lei un obbligo di più ad interdir loro in modo positivo ed efficace ogni tentativo ulteriore; volere e domandare, che il manifesto da pubblicarsi per ordine del direttorio da Brune fosse accompagnato da provvedimenti di tal sorte, che ne fossero il Piemonte ed il suo governo fatti sicuri delle loro macchinazioni. Circa il preliminare della cittadella, che l'ambasciador domandava per ordine di Brune, certamente dovere l'ambasciatore medesimo di per se pensare, quanto il re ne fosse stato maravigliato e commosso; sapere essergli questa domanda fatta senza ordine, e contro l'intenzione del direttorio; per questo l'ambasciadore medesimo avere appruovato, che il re mandasse un suo ufficiale appresso al generale della repubblica per farlo capace della falsità dei rapporti, per dimostrare la lealtà del governo Piemontese, per isvelare la perfidia de' suoi nemici; credere il ministro debito suo essere di osservare in poche parole all'ambasciadore di Francia, che l'armarsi delle campagne era falso, che qualche omicidio cagionato in parte dai disordini commessi dai soldati Francesi non pruovava un fanatismo micidiale contro i medesimi; che non conosceva il governo, sebbene attentamente vegliasse, ed ogni cosa sopravvedesse, un armarsi di fuorusciti, e manco ancora di nobili, cosa del rimanente del tutto assurda negli ordini attuali del Piemonte; che primo e principal suo desiderio era di conoscere, per raffrenarle, queste opere ancor più contrarie ai diritti del regno, ed alla quiete del paese, che alla sicurezza dei Francesi; che del resto crederebbe il re far torto a se medesimo, se giustificasse in cospetto del mondo per una condiscendenza tanto decisiva, e tanto eminente le calunnie tanto assurde, quanto atroci, con cui i malvagi il perseguitavano.

Brune, che fomentava le sollevazioni contro il re con pensiero di ridurlo agli estremi spaventi, perchè rimettesse in sua mano la cittadella di Torino, non voleva a modo niuno udire, che ella non gli si consegnasse: ed ora spaventando con minacce di nuove ribellioni, ed ora allettando con isperanza di quiete, se si acconsentisse alla sua domanda, perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano rappresentavano instantemente in contrario i ministri, che in un caso tanto grave, ed in cui il generale non aveva avuto da Parigi comandamento alcuno, si rimetterebbero volentieri in arbitrio del direttorio. Si risolvettero finalmente a consentire, in ciò mostrando una debolezza inescusabile, a quella condizione, che toglieva al re le ultime reliquie della sua dignità, e della sua independenza. E perchè i posteri conoscano qual fosse la natura di quel governo repubblicano di Francia, dirò, che, non che biasimasse e castigasse Ginguené e Brune dello aver trasgredito in un caso di tanta importanza i suoi ordini, lodò, e si tenne cara la cittadella rapita con inganno evidente, e con disubbidienza formale a quanto aveva loro prescritto.

Stipulavasi il dì ventotto giugno a Milano fra Brune da una parte, ed il marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli del quale erano i seguenti: che i Francesi occupassero il dì tre di luglio la cittadella di Torino; che il presidio Francese di lei non potesse mai passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e liberamente, e quietamente potesse esercitare il suo officio, nè fosse lecito ad alcuno insultare, o cambiare quanto si appartenesse alla religione; che il governo Francese si obbligasse a cooperare alla quiete interna del Piemonte, e nè direttamente, nè indirettamente desse soccorso, o protezione a coloro, che volessero turbare il governo del re; che Brune con atto pubblico ordinasse, e procurasse con ogni mezzo, che in suo poter fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del Piemonte; che infine usasse il generale tutta l'autorità, e tutti i mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse, e la buona vicinanza, e l'antico assetto di cose si rinstaurassero. Per tutto questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati, a consentire, che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò non si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro talento; che farebbe finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le strade del Piemonte fosse a tutti libero, e sicuro.

Per condurre ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti d'indulto a favore dei sollevati. Brune da Milano il dì sei di luglio pubblicava queste cose: che l'Europa conosceva gli accidenti sanguinosi d'Italia; che questa provincia libera dalla guerra esterna, era straziata dalla guerra civile; che le esortazioni del direttorio della repubblica Francese non avevano potuto frenar popolazioni pronte a correre alla discordia, ed al sangue le une contro le altre; che l'esercito Francese cinto da ogni parte da congiure e da guerre civili, aveva dovuto mettersi in guardia; che in tutto questo si vedeva chiaramente l'opera dei perfidi Inglesi, che con ogni delitto, e pur troppo spesso ancora con usare le generose passioni stesse intendevano continuamente a turbare la quiete del mondo; che vedeva la repubblica i suoi nemici, che vedeva ancora in compagnìa loro amici traviati; che voleva torre ai primi la facoltà di nuocere, tornare i secondi ad un quieto e felice vivere; che aveva il re di Sardegna, alleato della repubblica, ad instanza formale del direttorio, perdonato intieramente agli autori delle ultime turbazioni, e per la sicura fede delle sue promesse posto in mano di un presidio Francese la cittadella di Torino; che per tale modo dovevansi spegnere tutte le faci della civil guerra, e che la repubblica, sempre intenta alla pace d'Italia, non sarebbe per tollerare, che di nuovo a sacco ed a sangue questo bel paese si riducesse. Esortava pertanto, ed ammoniva tutti gli amici dei Francesi, che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle minacce e dalle persecuzioni della parte contraria, avevano prese la armi per difendere la vita e l'onore, deponessero queste armi, e tornassero alle sedi loro, dove troverebbero sicura e quieta vita. Circa quelli poi, minacciava, che, tenute in niun conto queste solenni ed amichevoli esortazioni, si adunassero a far corpi armati, non dipendenti dagli ordini dell'esercito Francese, o dalle truppe dei governi d'Italia, gli chiarirebbe nemici della Francia, partigiani dell'Inghilterra, autori di sedizioni, e come gente di tal fatta gli perseguiterebbe.

Addì tre di luglio entravano i Francesi condotti da Kister nella cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento di Monferrato, che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose donne, ed i galanti giovani concorrevano volontieri, essendo il tempo bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così contro la fede data, e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia.

Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo, e l'incaricato d'affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani loro per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo Emanuele, non più re di Sardegna, ma servo di Francia, e l'ambasciator Francese, vero e reale sovrano del Piemonte.

Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava al tempo stesso, per mezzo di Ginguené al re, sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si uniformava Carlo Emanuele all'intento, non senza però lamentarsi, e protestare con forti e generose parole contro quella insolente imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini, solo i regj fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano, ed altri paesi perduti nella contesa precedente; le quali raccontare sarebbe troppo minuta, e fastidiosa narrazione.

Mi accosto ora a raccontare un fatto orribile in se, orribile per le cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi, nemici del nome reale, tornati a stanziare, ed a far massa in Carrosio, dopochè il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le sue genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso da quelli stessi, che più intimamente assistevano ai consigli segreti di Brune, dell'accordo, che si trattava tra Francia e Sardegna, per la rimessa della cittadella, e per la quiete del Piemonte. Nè parendo loro, che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo, ogni speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere obbligati a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il divieto con fare un moto, il quale confidavano, avesse ad allagare, se non tutto, almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento di questa macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero improvvisamente verso Alessandria; gli ufficiali del generale Menard, che comandava a tutte le truppe Francesi in Piemonte, avevano loro dato speranza, che le truppe repubblicane di Francia, che stanziavano in quella città, si accosterebbero loro ad impresa comune contro il re. Non dubitavano, che un moto di tanta importanza, accresciuto dalla fama della congiunzione delle armi di Francia, non voltasse sossopra tutte le province che bevono le acque del Tanaro; il che giunto all'occupazione della cittadella di Torino, persuadeva ai novatori, che anche le province del Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta vittoria aspettavano di tutto il Piemonte. Era stato l'indulto pubblicato in Torino il lunedì secondo giorno di luglio, ed il giorno seguente erano i Francesi entrati nella cittadella.

La mattina del cinque molto per tempo uscivano i sollevati in numero circa di mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Francesi, che presidiavano la piazza, facessero alcun motivo per impedirgli, marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto pericolosa, se Solaro governatore di Alessandria, non avesse avuto avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il quale per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti, e cento cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati da Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto avverso ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo effetto; imperciocchè uscendo i regj alla impensata dall'agguato, e con repentino remore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani, che a tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, gli ruppero facilmente togliendo loro due cannoni, e bestie da soma cariche di non poche munizioni. I soldati regj, salvo nel primo impeto della battaglia, si portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e gli arrendentisi: ma si erano a loro mescolati gli abitatori della Fraschea, gente fiera di natura, ed avversa al nome Francese, ed a coloro che l'amavano. Costoro crudelmente procedendo, ammazzavano e spogliavano chiunque veniva loro alle mani. La crudeltà loro era venuta in abbominio agli ufficiali, ed ai soldati regj, che si sforzavano, sebbene con poco frutto, di moderare il loro furore. Nè la barbarie si ristette alla battaglia: nella sparsa e precipitosa fuga essendosi i vinti repubblicani nascosti, chi qua chi là per le selve, pei vigneti, e per le campagne feconde di biade, erano spietatamente ed alla spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni momento si udivano per quei luoghi folti, spari annunziatori della morte dei repubblicani. Durò ben due giorni questa piuttosto caccia, che battaglia, e piuttosto carnificina, che uccisione. Perirono seicento: morì fra loro uno Scala, giovane di natali onesti e di molta virtù, e che non ebbe altro difetto, se non di opinioni false, ed esagerate in materia di libertà.

Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto per far rivoltare gli stati del re. Allegossi, avere lui a bella posta indugiato sino ai sei del mese a pubblicare i suoi ordini per la risoluzione delle masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin dal giorno dell'accordo fatto con San Marsano si era obbligato. Fu accusato Menard dell'avere incitato con promesse di aiuto delle sue genti i sollevati, poi dell'avergli traditi col rivelare al governo regio tutto ciò che macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco di quei tempi, se si considera la natura di Menard. Certo è bene, che gli ufficiali, che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard, spendevano presso ai sollevati il nome loro per far credere, che questi due generali secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto a Brune, egli è certo, che con parole forti e sdegnose risolutamente negava ogni partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo regio dell'avere, dopo di aver per forza consentito all'indulto, in tale modo ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare a suo piacere il sangue a copia, ed affermossi, che il governator d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da questo, che l'indulto pubblicato ai due in Torino, non fu pubblicato se non ai sei in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni; colpa, dicevano, del governatore, che aveva sete di sangue. Scrissene molto risentitamente Ginguené a Priocca. Rispondeva risolutamente il ministro, che anche alle orecchie sue erano pervenute certe cose pur troppo dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere, perchè il picciol corpo dei sollevati si fosse con tanta confidenza condotto tanto avanti, e che se in questa faccenda vi era perfidia, certamente non era dalla parte degli agenti del re; parole terribili, e pregne di cose molto sinistre. Poscia aggiungeva, che troppo infame esorbitanza era quella di calunniare un uomo tanto savio, qual era il governator d'Alessandria, uomo del quale tanto si erano per le sue virtù lodati tutti i commissari Francesi; che pur troppo assurdo era l'imputargli l'indugio della pubblicazione dell'indulto in Alessandria, stantechè negli ordini del Piemonte ai governatori non s'appartiene il fare tali pubblicazioni; che l'unica e vera cagione dell'indugio era nello avere spedito da Torino il manifesto per lo spaccio ordinario, che partiva il mercoldì quattro del mese, giorno appunto precedente a quello, in cui i sollevati si erano mossi al tentativo; che del rimanente, e per certo non ignoravano essi l'indulto, del che si offeriva a dare pruove autentiche ed irrefragabili; che infine non poteva restar capace, come si potesse aver per male, che una popolazione fedele e minacciata d'aggressione avesse prese le armi per la difesa comune.

L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati e le promesse, essere cagione di concordia fra le due parti, e di sicurtà pel Piemonte, partorì al contrario maggiori sdegni, e per poco stette, ch'ella non facesse sorgere una sanguinosa battaglia tra i Francesi ed i Piemontesi nel grembo stesso della real Torino. Solevano i Francesi sul battere della diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la città, ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenevano neanco da quelle, che tutto il mondo conosceva essere state composte in ischerno, e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione. Mescolavansi in mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi non conoscesse i tempi, nella cittadella medesima voci, e motti ingiuriosi al re. Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale Collin, il quale, siccome quegli che faceva professione di repubblicano vivo, e teneva pratiche coi novatori, che ad ogni ora lo infiammavano, si mostrava molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste intemperanti dimostrazioni. Ne nasceva, che ogni sera accorrevano da tutte le parti ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per scioperìo, i novatori per disegno, e si faceva calca presso alle mura della cittadella. Il governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla salute del regno, mandava soldati per prevenire ogni scandalo; ma essi, udendo il vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima rabbia si concitavano, ed a mala pena potevano frenar se stessi, che non venissero ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano le ire soldatesche, ed un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul Piemonte. Il marchese Thaon di Sant'Andrea, governatore, aveva con iterate istanze pregato Collin, acciocchè si astenesse da usi tanto pericolosi. Rispondeva il repubblicano, ora negando parte dei fatti, ora allegando, che pure i repubblicani dovevano suonare le loro arie repubblicane, come i regj le regie. Le tresche continuavano, il pericolo cresceva. In questo estremo caso scriveva Priocca a Ginguené il dì quindici settembre, che la sera dei quattordici, oltre la solita musica, si eran fatte sentire parecchie volte dalla cittadella grida indecenti, ed ingiuriose alla persona del re; che il governo guarentiva la quiete di Torino, se non si provocasse il popolo; ma che, se con nuovi stimoli se gli stesse continuamente ai fianchi, se ogni sera se gli desse occasione di far calca, non poteva più promettere alcuna cosa, e l'ambasciadore sarebbe tenuto dei funesti accidenti che ne seguiterebbero.

Rispose l'ambasciadore, che non rifiutava il carico, ma che bene si maravigliava dello stile dello scritto; che del rimanente l'aveva comunicato a Collin. Dal che si vede, che i repubblicani di quei tempi, che con solenni scritture chiamavano quasi ogni giorno il governo Piemontese crudele, traditore e perfido, non potevano poi, per la superbia loro, sopportare, che il governo medesimo, le cose col proprio nome chiamando, gli avvertisse, e gli imputasse dei pericoli, ch'essi stessi evidentemente eccitavano.

L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti: appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il sedici settembre, o che fosse sola imprudenza giovanile, o disegno espresso, come si credè con maggior probabilità, dei novatori, massimamente di quei più arditi, che dipendevano dal fomite Cisalpino, si venne ad un fatto mostruoso, che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò, che di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meriggiane una vergognosa, e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una tratta di tre carrozze, nelle quali si trovavano femmine vivandiere travestite alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali ammascherati ancor essi alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri, con grandi parrucche, con borse nere ai cappelli, con lunghe spade con l'else d'acciaio, pure nere, e con piccoli capelli sotto braccio, tutto alla foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati parimente all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più evidente, precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con bacchette di corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro ussari Francesi, comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali mascherati il vicegerente, ed il segretario di Collin. Andavano attorno per tutti i canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i corrieri con mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar davanti le brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San Salvario sulla passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava divotamente intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli ussari, crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza gran romore, i circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di sdegno. Posta in tale guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto indecente della corte, e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era la solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a guisa di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie donne, affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze della mascherata: al tempo medesimo gli ussari menavano piattonate forti a tutti, che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso dalla cittadella suonava, e risuonava. Allora non vi fu più modo al furore, che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero in Torino, o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del tutto a discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno alla sua regia sede; il che come disegno sinistro gli fu poscia imputato dai repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva; i soldati Piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare, accorrevano a furore; alcuni soldati Francesi restarono uccisi. Lo spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I Francesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi, e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano armati, e pronti a far battaglia contro i regj. Una estrema ruina sovrastava, presente il re, alla reale Torino.

In questo punto (tanto fu il cielo propizio in mezzo a quel furioso tumulto, ai fati del Piemonte) il generale Menard, che non per ufficio, ma per accidente si trovava a Torino, veduto, che se più oltre si procedesse, vi andava in quel fatto la salute dei Francesi, la salute dei Piemontesi, correva in mezzo a' suoi, comandava a Collin, che non si muovesse, e con le sue esortazioni, con le sue minacce, con l'autorità del suo grado tanto operava, che fece fermare, e tornare in cittadella i repubblicani, impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e frenò un impeto, il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe stato funestissimo. Il governatore non tralasciò ufficio, perchè il furore improvviso dei soldati Piemontesi si raffrenasse, e diede ordini, perchè se ne tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale del Piemonte dalla generosità di Menard, e dalla moderazione di Thaon di Sant'Andrea.

L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso dell'accidente, prima da alcuni uomini fidati, poscia dal governatore, il quale già innanzi che da Menard a ciò fare fosse invitato, gli aveva mandato per sua sicurezza una banda di soldati. Il ministro Priocca il mandava pregando, che ritornasse tosto, della sicurtà di lui, e di tutta la sua famiglia promettendo. Tornato l'ambasciatore la sera del medesimo giorno, da quell'uomo diritto, e dabbene che egli era, quando non era sviato dai soliti fantasmi, si dimostrò molto sdegnato contro Collin, condannando con forti parole la sua condotta, e la schifosa mascherata. Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella, e surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo Piemontese, che vedeva ad un uomo rotto e dipendente dai novatori, surrogato un generale, che non amava le rivoluzioni, e non si dimostrava alieno dal favorire la sicurezza del paese. Queste cose faceva Ginguené sano; ma aggirato di nuovo dai novatori, tornò sul suo male, ed ingannandosi novellamente incolpava il governo regio di congiura per ammazzare tutti i Francesi il giorno stesso, che si era fatta la mascherata, come se ella, e le insolenze, e gl'insulti fatti dagli ussari e dai corrieri, che l'accompagnavano, fossero stati opera non di Francesi, ma di gente che gli volesse ammazzare. Ma a queste considerazioni non ristandosi, e trasportando le congiure da coloro che le facevano, in coloro contro i quali si facevano, e troppo facilmente condiscendendo ai desiderj di Brune, di nuovo tormentava Priocca. Addomandava con insolente instanza, che il re licenziasse tutti i suoi ministri, e nuovi ne creasse in luogo loro: voleva specialmente, che togliesse la carica a Thaon di Sant'Andrea, al conte Revello suo figliuolo, governatore d'Asti, l'uno e l'altro qualificando, come Nizzardi, di fuorusciti di Francia. Ancora voleva, che il re dismettesse il conte Castellengo, vicario di Torino, ed un David, impiegato di lui, uomini, secondo che allegava, autori di quella orribil trama di assassinamenti di Francesi. Tacque di Priocca, perchè parlava a lui. Lo sforzare un re non solo independente ma eziandio alleato, ad allontanare da se i suoi servitori più fedeli, con qualificargli anche di capi d'assassini, è un atto di cui solo si trovano esempi nei tempi sregolati, che sono il soggetto delle presenti storie. Essendo caso d'importanza, il ministro Priocca richiese l'ambasciatore di abboccamento; accordaronsi, si farebbe in casa di Francia. Il ministro vi si condusse: si confortava col pensiero di non mancare nè di fede, nè di costanza al suo signore. Incominciò a dire, che, quanto a lui, molto volentieri darebbe luogo, e la sua licenza chiederebbe, se credesse ciò aver a ridondare a soddisfazione dei Francesi, ed a quiete del regno, che a parte delle faccende pubbliche era venuto non richiedente, le abbandonerebbe non mormorante, che nissuno meglio di lui sapeva, quanto dolorosa cosa fosse il servire in quei tempi; che non ostante, non l'amarezza dell'ufficio, ma l'utile della sua patria, e la salute del regno, se ciò richiedessero, il farebbero ritrarre; che costanza aveva sufficiente per sopportar ogni peggior male pel sovrano, ambizione non sufficiente per volere star in carica contro gl'interessi del suo paese; che quanto alle domande d'esclusione, perchè potesse farne proposta, era necessario, che non generali parole, ma fatti precisi si adducessero. Ginguené rispondendo, tornava sulle coltella, sugli stiletti, sugli assassinj: insisteva massimamente sulla necessità di allontanare dai consigli, e dal Piemonte Thaon di Sant'Andrea, e tutti i suoi figliuoli, come fuorusciti di Francia. In questo punto successe un accidente, e fu, che Marivault segretario della legazione, improvvisamente uscendo da una porta segreta, e nella stanza, dove i due ministri Francese e Piemontese negoziavano, entrando con un gran viluppo in mano di coltelli e di stiletti, sulla tavola con irato piglio gittandolo, ed a Priocca rivolgendosi, “guardate”, disse, “se non vi sono coltelli, e se non sono stati distribuiti; poi dite, che le accusazioni sono fondate in aria”. A questo atto del quale, il minor male, che si possa dire, è, che fu una commedia molto ridicola, rise di disprezzo, e di sdegno Priocca: Ginguené prima vergognoso si tacque: poi a Marivault voltosi, gli disse, “andatevene, e portatevene le coltella; che qui non si tratta di coltella”. Portate via le coltella da Marivault, le quali come pruovassero, che il governo Piemontese facesse con ordini espressi ammazzare i Francesi con le coltella sulle strade, Dio solo il sa, ritornarono l'ambasciadore, ed il ministro sul negoziare. La somma fu, che non potè il primo allegare fatti precisi, o pruove del suo dire. Promise non ostante il secondo di farne rapporto; con temperate, ma efficaci parole dolendosi, che di continuo il governo regio, come instigatore, e pagatore di assassini, e la nazione Piemontese, come una banda di assassini si rappresentassero.

Parlato col re, rispondeva da parte sua Priocca, che il ministro Taleyrand, favellando col conte Balbo, ambasciatore a Parigi, aveva detto che il governo Francese non desiderava scambio nei capi del Piemontese; che del resto nè Sant'Andrea, nè i suoi figliuoli erano fuorusciti di Francia, e che gli altri magistrati, di cui si addomandava la rimozione, non solamente non erano colpevoli di quanto loro s'imputava, ma che ancora erano stati operatori, che fosse stata in Piemonte salvata la vita a molti Francesi: che perciò il re non voleva far cambiamenti, poichè non gli poteva fare con giustizia.

Dalle precedenti narrazioni si raccoglie, che le cose tra l'ambasciatore di Francia, ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava Ginguené presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente instava, acciocchè chiamasse Ginguené. Questi chiamava Balbo spargitor d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo, e pericoloso di tutta la lega Europea contro Francia. Balbo chiamava Ginguené uomo buono, e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno di fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle folìe, ed alla calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di penna intemperante, e di natura tale che non lasciasse pur respirare un momento quel governo, che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo mentre le novelle della mascherata, e della domanda fatta da Ginguené della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente, e con molta instanza Balbo dei due accidenti, come già si era prevalso della domanda della cittadella. Per la qual cosa giuntovi eziandio, che Taleyrand sapeva, che la nuova confederazione contro Francia si preparava, ma non era ancor matura, e però voleva allontanar le cagioni di nuovi scandali, prevalse l'ambasciador Piemontese. Fu Ginguené, per decreto del direttorio dei ventiquattro settembre, richiamato dalla sua carica d'ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza lettere, che letterato, amatore dei letterati, e di natura dolcissima, ma non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria in tempi tanto tempestosi.

Desiderava Ginguené, prima di tornare in Francia, visitare l'Italia, perchè già insin d'allora pensava all'opera, che con sì bell'arte, e tanto plauso dei buoni scrisse poi della storia letteraria d'Italia. Brune, che in mezzo agli sdegni ed alle abitudini soldatesche, amava ed accarezzava i letterati, gli offeriva denaro per far il viaggio; ma poco tempo dopo, essendo stato scambiato con Joubert, non potè Ginguené mandar ad effetto il suo intendimento, e tornossene direttamente in Francia. Fu Ginguené uomo, non solo di probità apparente, la quale non è altro che ipocrisìa, ma di probità vera, austera e reale: aveva l'animo benevolo, e volto alla vera filosofia, amatrice degli uomini. La mente sua ornavano le lettere, non poche e superficiali, nè quali si trovano sulle lingue facili dei frequentatori delle compagnevoli brigate; ma vaste e profonde; nè in lui alcuna cosa lodevole, ed egregia si sarebbe desiderata, se in età meno pazza, ed in tempi meno strani fosse vissuto. Ma i tempi l'ingannarono, siccome tanti altri puri e sinceri uomini ingannarono, rimastisi al velame delle cose, non penetranti nella sostanza; imperciocchè amava Ginguené la vera e buona libertà, ma errò col credere che là fosse, dov'era il suo contrario; e siccome fra le altre sue qualità aveva la fantasìa ardente, e l'opinione tenacissima, non solo nell'error suo persisteva, ma in lui vieppiù sempre s'internava, credendo costanza quello, che era ostinazione. Certo, ei fu sincero nel suo inganno, e di esso si dee piuttosto compassionare, che rimproverare. Bene quest'inganno medesimo il fece trascorrere in termini molto biasimevoli contro il governo del re di Sardegna; ed io, che fui suo amico, e che dell'amicizia sua mi onoro e pregio, non ho nè potuto, nè voluto astenermi dal raccontar le azioni sue, come ambasciadore, non secondo l'affezione, ma secondo la verità. Bene altresì dico e protesto, che, se si eccettua la sua ambasciata di Piemonte, Ginguené fu uno degli uomini, dei quali più debbe l'età nostra ed onorata e fortunata tenersi.

Già altri fatti si apprestavano all'Italia. Non ignorava il direttorio, che di nuovo contro di lui si collegavano i principi, e si riforbivano le armi d'Europa. Tuttavia, avendo il suo miglior esercito, ed il miglior capitano in lidi lontani, le finanze in condizione povera e sregolata, l'esercito Italico pieno di mala contentezza, se ne andava temporeggiando, e migliori condizioni aspettando; che se di nuovo gli era necessità di correre all'armi, voleva almeno non far la parte di aggressore: aspettava, che lo assaltassero. Dal canto suo l'Austria attendeva, che arrivassero sui campi, in cui si doveva combattere, i soldati di Paolo imperatore. In questo stato dubbio venne ad accelerar le sorti la subita presa d'armi del re di Napoli. Da questo fatto non fu malagevole al direttorio l'accorgersi, che il terrore delle sue armi era molto intiepidito nella mente degli uomini, e che la gran macchina, che si andava apprestando contro di lui, era, più che non aveva creduto, vicina a scoppiare. Non gli pareva dubbio, che il re Ferdinando non si sarebbe deliberato ad affrontare tutta la mole della repubblica di Francia da se solo, se non avesse avuto speranza di pronti e grossi soccorsi. Adunque bene considerate tutte queste cose, e poichè non poteva non far guerra a Napoli, stantechè Napoli la faceva a lui, e dubitando di un subito assalto dell'Austria sulle rive dell'Adige e dell'Adda, perciocchè gli Austriaci occupavano il paese de' Grigioni, deliberossi di assicurarsi almeno alle spalle con impossessarsi del tutto del Piemonte, che fu sempre stimato dai Francesi scaglione opportunissimo a salire alla signoria d'Italia. Inoltre ei si era persuaso, che l'amicizia di Sardegna fosse mal sicura, e dubitava, che ove le genti repubblicane, o venissero alle mani con l'Austria sui territorj Veneti, o s'affrontassero coi Napolitani sullo stato Romano, il re, facendo una mutazione improvvisa desse, coll'accostarsi ai confederati, il crollo alla bilancia. Sapeva il direttorio le ingiurie fatte a Carlo Emanuele, sapeva l'oppressione, sotto la quale era stato tenuto, e il dolore del perseverare in tante molestie; perciò non dubitava, ch'ei non pensasse a risorgere ed a vendicarsi. Alla quale opinione tanto più volentieri si accostava, quanto più il re aveva perduto la speranza, per la forma definitiva data alle repubbliche Cisalpina e Ligure, e per la protezione di Spagna verso Parma, di essere ricompensato della Savoja e di Nizza. Che nel più intimo del cuore il re non amasse il governo di Francia, era cosa piuttosto certa che verisimile, ma che di fatto macchinasse contro di lui, che tutta la sua salute non avesse posta nell'amicizia di Francia, che non fosse fedele ai patti giurati con lei, che alla prima mossa d'arme non fosse per congiungere con debita fede le sue genti a quelle della repubblica, nissuno, che di sana mente sia, sarà mai per affermare. Dalle quali cose conseguita, che quand'anche cauta si potesse stimare la risoluzione, che fece il direttorio di dichiarar la guerra, e di torre lo stato al re di Sardegna, certamente non si potrà affermare, che non sia stata iniqua, perchè questo principe nè ruppe fede a Francia, nè era per romperla, nè nissuna congiunzione segreta aveva con Napoli; e manco ancora con l'Austria.

Mentre con maggiori dimostrazioni di fede e di amicizia era l'ambasciadore Balbo accarezzato da tutti i ministri, e massimamente da Taleyrand in Parigi, mandava il direttorio il generale Joubert in Italia con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoja, e di far rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo, che i tempi stringevano, non frappose indugio al mandar ad effetto ciò, che gli era stato commesso. Ma prima di venirne ad una deliberazione del tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Musnier con ordine di richiedere il re, che desse incontanente i diecimila soldati, ai quali era obbligato per trattato d'alleanza, e gli mandasse a congiungersi coi Francesi, ed oltre a ciò che rimettesse in mano di lui l'arsenale di Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella città stessa, e vicino alla cittadella.

Rispose, che darebbe incontanente i diecimila soldati: mandò il giorno stesso della richiesta gli ordini, perchè si adunassero; spedì un ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al modo del marciare dell'esercito Piemontese verso il Francese, e del vivere, e del servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse, non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo a posta, affinchè questo emergente si accordasse col direttorio.

Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello che gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva che la possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei repubblicani. Perlocchè il generalissimo vi mandava a governarla il dì venzette novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, che era stimato od abborrente per natura da sì gravi ingiurie, o non alieno dal favorire gl'interessi del re. Aveva Grouchy da Joubert il mandato di fortificar vieppiù la cittadella, di fornirla di munizioni, di moltiplicar le artiglierie sulla fronte che guarda la città: sperava, che col terrore potrebbe indurre il governo Piemontese a venire a qualche accordo. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per se stesso, senza che si venisse all'esperimento delle armi. Ora che dirà la posterità di quello sdegno di Ginguenè, solo al pensare, quando addomandava la cittadella di Torino che il re potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare della possessione di lei contro di lui, e di quel gridare, e di quel lamentarsi che faceva, che un tale sospetto era un insulto fatto alla lealtà Francese? Non sapeva egli, che il direttorio non aveva fede, e che i Francesi obbedivano al direttorio? Perchè ingaggiar lealtà di Francia, quando la lealtà di Francia non dipendeva dai Francesi? Ma dubitando, che l'apparato della forza non bastasse a muovere l'animo di Carlo Emanuele, si usò anche l'astuzia. Per la qual cosa non sì tosto era Grouchy giunto a Torino, che con tutte le arti procurava di sapere per mezzo dei democrati del paese, e di quanti altri potesse adescare, quali fossero le intenzioni del re e del ministri, e sopratutto quali mezzi di difesa avessero. Nè abborrirono gli agenti del direttorio, sapendo quanto Carlo Emanuele fosse dedito alla religione, dal tentar mezzi insoliti di seduzione con volersi insinuare presso al suo confessore, affinchè l'esortasse alla rinunziazione. Nè solo l'abdicazione procuravano, ma volevano, che il re per l'atto stesso della rinunzia ordinasse ai Piemontesi, ed a' suoi soldati, che non si muovessero, ed obbedissero al governo temporaneo che sarebbe instituito. Riuscì il generale di Francia, che sul suo primo giungere si era tenuto nascosto, a procacciarsi segrete intelligenze con uomini di importanza, poichè a lui non solo concorrevano cupidamente gli amatori di cose nuove, ma ancora alcuni nobili che avevano cariche, si facevano rapportatori di quanto sapessero della corte, e dei ministri. Ma il tentativo della confessione non ebbe effetto per la rettitudine del confessore. I nobili subornati gettavano in corte parole dei pericoli che sovrastavano, delle minacce dei Francesi, dell'impossibilità del resistere, della necessità del venirne ad una risoluzione terminativa. Tutti questi maneggi erano indarno, perchè, se non altro, la religione confortava Carlo Emanuele. Moltiplicavansi intanto le bocche da fuoco contro la città: il terrore cresceva; chiamava il governo i reggimenti sparsi a difendere Torino, ed eglino con presti passi accorrevano: i fati sovrastavano; e chiamavano a rovina e la reggia, e i popoli, e Piemonte. Già i repubblicani ordinati da Joubert marciavano a distruggere un re tante volte assalito con ingiurie, di cui con fraude avevano occupato la fortezza difenditrice de' suoi tetti, e dei suoi penetrali stessi, ed al quale altro fondamento non restava, consolativo, ma insufficiente, che la fede del soldati, e la divozione dei popoli. Pubblicava Joubert il dì cinque decembre queste parole:

"La corte di Torino ha colmo la misura, ed ha mandato giù la visiera: da lungo tempo gran delitti ha commessi; sangue di repubblicani Francesi, sangue di repubblicani Piemontesi fu versato in copia da questa corte perfida: sperava il governo Francese, amatore della pace, con mezzi di conciliazione rappacificarla, sperava ristorar i mali di una lunga guerra, sperava dar quiete al Piemonte con istinguere ogni giorno più la sua alleanza con lui: ma fu Francia vilmente ingannata delle sue speranze da una corte infedele ai trattati. Per la qual cosa ella comanda oggi al suo generale di non più prestar fede a gente perfida, di vendicar l'onore della grande nazione, e di portar pace, e felicità al Piemonte: per questi motivi l'esercito repubblicano corre ad occupare i dominj Piemontesi."

Nel mentre che Joubert così parlava, Victor e Dessoles raunatisi colle schiere loro nelle vicinanze di Pavia, ad Abbiategrasso, ed a Buffalora, passato il Ticino, si avviavano a Novara, nella quale entrarono per uno stratagemma militare di soldati nascosti in certe carrette. Presa Novara, spingevano le prime squadre insino a Vercelli. L'aiutante generale Louis s'impadroniva di Susa, Casabianca di Cuneo, Montrichard di Alessandria, sorprendendo in ogni luogo i soldati regj, facendone prigionieri i governatori. Avuta Alessandria, Montrichard s'incamminava ad Asti, donde spingendosi più avanti, andò a piantar gli alloggiamenti sulla collina di Superga, che da levante signoreggia la capitale del regno. In questo mezzo tempo ordinava Grouchy, che gli ambasciadori di Francia e della Cisalpina si ricovrassero nella cittadella; il che tostamente eseguirono, tolte prima dalle loro case le insegne delle loro repubbliche. Poi penuriando la cittadella di munizioni, massimamente di proietti, poichè intenzione dei repubblicani era di voltar sottosopra, e d'incendiare Torino, se l'esercito francese fosse obbligato di rendersene padrone per forza, operarono di modo che si trasportassero di nascosto dall'arsenale nella fortezza armi e munizioni di ogni genere, procurandosi in tale modo le armi del re per combatterlo e distruggerlo. Era di non poca importanza pei repubblicani, che in loro potere recassero Chivasso, terra munita di un forte presidio, e per cui Victor doveva passare per venirsene da Vercelli a Torino. A questo fine, e per obbedire al generalissimo, mandava Grouchy segretamente una colonna di buoni soldati, i quali arrivati inopinatamente sopra Chivasso, ed aiutati dai soldati di nuova leva, che quivi per accidente alloggiavano, l'occuparono facilmente. Rovinava tutto ad un tratto, e per ogni parte lo stato del re, usando i repubblicani per sorpresa contro di lui gli estremi della guerra, quantunque ancora il governo loro non l'avesse dichiarata.

Intanto si continuava nelle dissimulazioni. Scrivevano al governatore di Torino assicurandolo, che quanto si faceva, solo si faceva per modo di cautela, e che se per questo si attentasse di por le mani addosso ad un solo amatore di libertà, o Francese o Piemontese che si fosse, incendierebbero la città, e farebbero, che di lei pietra sopra pietra non restasse. Il governo pubblicava un manifesto, con cui esortava gli abitatori a starsene quieti, chiamava i francesi gli alleati più fedeli che si avesse, affermava che niuno niuna cosa aveva a temere da loro. Mentre si appiccava questo manifesto sui muri, ecco giungere le novelle, che già erano prese Novara, Susa, Chivasso, Alessandria, che già Torino era stretto da ogni parte da gente nemica, che già le truppe regie sorprese, ed assaltate all'impensata, erano state disarmate, e poste in condizione di prigioniere. Vide allora il re, che ogni speranza era spenta, che i fati repubblicani prevalevano, ch'era perduto il regno, che mille anni di dominio nella sua reale casa erano giunti al fine. Restava, poichè perdeva la potenza, che non perdesse l'onore; volle che i posteri sapessero, che periva innocente. Pubblicava adunque Priocca il dì sette decembre quest'ultime parole:

"Dopochè col manifesto di ieri, pubblicatosi dal governatore di questa città, si son fatte note al pubblico per ordine di Sua Maestà le dichiarazioni del generale Francese, comandante nella cittadella, e le intenzioni della Maestà Sua sempre pacifiche ed amichevoli verso i Francesi, è venuto a notizia di essa Maestà, che vari corpi di truppe Francesi siensi impadroniti di Chivasso, Novara, Alessandria e Susa, con aver fatto prigionieri gli rispettivi presidj di regia truppa. Sì fatto avvenimento non può ad altro attribuirsi, che ai sospetti calunniosamente insinuati dai nemici di Sua Maestà nell'animo dei Francesi, onde far loro concepire il vano timore, che declinando la Maestà Sua dalla fedeltà dovuta ai pubblici trattati, abbia potuto entrare in concerti opposti agl'interessi della repubblica Francese. Sua Maestà ha dato mai sempre al governo Francese le più autentiche e notorie pruove di esatta fede nell'osservanza dei patti con esso stabiliti. Guidata costantemente dalla mira di allontanare maggiori calamità dai suoi amatissimi sudditi, ha sempre mai aderito alle richieste della repubblica Francese, ora di tratte di generi, ora di vestiari, ora di munizioni per l'esercito d'Italia, sebbene oltrepassassero le sue obbligazioni, e riuscissero di sommo aggravio al regio erario: per assicurare la tranquillità dello stato, ha consentito a porre in mano dei Francesi la cittadella di Torino: invitata a fornire all'esercito Francese la parte di truppe stipulate nel trattato d'alleanza, vi si è dichiarata pronta nel giorno stesso della richiesta, ha dato senza ritardo gli ordini opportuni per la riunione della parte suddetta, ed ha spedito un ufficiale presso al generalissimo di Francia per concertare con lui intorno al modo di regolarne le mosse ed il servizio: nè ha tralasciato di spedire a Parigi per trattare colà sull'altra domanda statale pur fatta della rimessione dell'arsenale, a cui non credette di dover aderire, come non appoggiata al trattato d'alleanza, non meno che sopra vari altri oggetti di comune interesse. Mentre si aspetta l'esito dei negoziati presso il governo Francese, e presso il suo generale in Italia, si prendono dai Francesi stanzianti nella cittadella di Torino le più valide risoluzioni di difesa verso la città medesima, si ritira nella cittadella l'ambasciadore della repubblica, facendo togliere dal suo palazzo lo stemma della medesima, si arresta un regio corriere proveniente da Parigi con dispacci diretti alla legazione di Spagna, ed ai ministri di Sua Maestà; e finalmente si occupano colla forza le città di Novara, Alessandria, Chivasso e Susa. Sua Maestà vivamente commossa da sì inopinati eventi, ma sempre intenta ad allontanarne dei più funesti, non ha tralasciato di tentare ogni via di trattato coll'ambasciatore, sì per mezzo de' suoi ministri, sì col prevalersi dei buoni uffizi di una corte amica, ed ha perfino spedito un uffiziale al generalissimo, onde tentare ogni mezzo di arrestare i progressi delle calamità minacciate. Sua Maestà conscia a se stessa di non aver mancato ai sacri doveri di fedeltà verso gli amici, e di amore verso i suoi sudditi, vuole che sia a tutti nota la sua leale e sincera condotta, e la protesta che fa al cospetto di tutti, di non avere dato motivo alle disavventure, che sovrastano agli amati suoi sudditi, alla fedeltà ed all'affezione dei quali essa corrisponde mai sempre con affettuosa tenerezza".

Così parlava un re di Sardegna venuto in forza altrui, ma anche queste generose querele, e queste giuste difese gli vennero poco dopo interdette, ed anzi imputate a delitto da chi non solo abusava della forza propria, ma ancora si sdegnava della ragione altrui.

Intanto, perchè si venisse a conclusione, si moltiplicavano le arti e gli spaventi: si parlava, che a nissun'altra condizione sarebbero i Francesi contenti, che all'abdicazione. Cedessi al fato, nè v'era modo di ostare, giacchè Carlo Emanuele era chiamato a distruzione dal suo alleato. L'atto di abdicazione fu accordato, e stipulato il dì nove di decembre in Torino, per parte della repubblica dal generale Clauzel, e per parte del re da Raimondo di San Germano, personaggio di molta, anzi di unica autorità appresso di lui. Non si soddisfecero i repubblicani di torgli lo stato, ma vollero anche amareggiarlo, obbligandolo a ritrattarsi pubblicamente del manifesto del giorno sette, ed a mandar Priocca in mano loro nella cittadella, come sicurtà di non resistenza, e come testimonio di ritrattazione. Vollero eziandio, essendosi persuasi che il duca d'Aosta fosse mosso da avversioni eccessive contro di loro, e capace di venire a qualche tentativo d'importanza, che anch'esso sottoscrivesse l'abdicazione. Per questa cagione si legge sul fine dell'atto, dopo il nome di Carlo Emanuele, quello di Vittorio Emanuele con queste parole: “io prometto di non dare impedimento all'esecuzione di questo trattato”. Fu in buon punto pel re, e per tutta la sua famiglia, che Grouchy, e Clauzel con tanta pressa lo avessero sforzato alla rinunzia; conciossiacosachè aveva il direttorio comandato, che fossero condotti in Francia, compiacendosi nel pensiero di mostrare ai repubblicani, come a guisa di trionfo, un re e molti principi debellati e cattivi. Ma Taleyrand, al quale se piacevano le opere astute, non piacevano le giacobiniche, aveva mandato a Joubert, innanzi che spedisse gli ordini del direttorio, che sforzasse presto il re alla rinunzia, non imponendo la condizione della cattività dei reali. Dal che ne seguitò, che già avevano fatto la rinunzia, e già erano arrivati a Parma, quando pervenne a Joubert gli spacci per la cattività loro. Clauzel, che aveva richiesto sui primi negoziati la persona del duca d'Aosta, come ostaggio per la osservanza dei patti, e qualche timore del suo nome, udite le rimostranze del re e della regina, facilmente se ne rimase: il che fu cagione, che il re il presentasse della celebre tavola di Gerardo Dow, in cui è dipinta con tanta maestria la idropica.

Accordossi nell'atto dell'abdicazione, che il re rinunziava alla sua potestà, e comandava ai Piemontesi, che obbedissero al governo temporaneo da instituirsi dal generale di Francia: comandava altresì a' suoi soldati, che come parte dell'esercito Francese si sottomettessero al generale medesimo; che il re disdiceva il manifesto del giorno sette, e mandava il suo ministro Damiano di Priocca nella cittadella; che il governatore della città si conformasse alla volontà del comandante della cittadella; che fosse sicura la religione, sicure parimente le persone e le proprietà; che i Piemontesi, che desiderassero spatriarsi, il potessero fare liberamente con facoltà di portarsene il loro mobile, e di vendere gli stabili, e che i Piemontesi fuorusciti, che volessero ripatriarsi, medesimamente il potessero fare, e ricuperassero tutti i diritti loro: potesse liberamente il re con tutta la sua famiglia ritirarsi in Sardegna: finchè in Piemonte fosse, si conservassero i suoi palazzi e le sue ville libere; gli si dessero i passaporti, e scorta mezza Francese, e mezza Piemontese; se il principe di Carignano eleggesse o di rimanersi in Piemonte, o di andarsene, sì liberamente il potesse fare, con godersi, o con disporre de' suoi beni; incontanente si suggellassero gli archivi, e le casse dell'erario: non si accettassero nei porti della Sardegna le navi delle potenze nemiche alla Francia.

Creava Joubert governo, che per modo di provvisione, ed insino a tanto che i tempi permettessero un assetto definitivo, reggesse il Piemonte. Vi chiamava per un primo decreto Favrat, Botton di Castellamonte, San Martino della Motta, Fasella, Bertolotti, Bossi, Colla, Fava, Bono, Galli, Braida, Cavalli, Baudissone, Rossi, Sartoris; poi per un secondo Cerise, Avogadro, Botta, Chiabrera, Bellini. Erano uomini d'onorate qualità, ed i più splendevano egregiamente o per dottrina, o per virtù, o per altezza di cariche, o per nobiltà di natali, e molti per tutte queste qualità insieme; nè erano certamente degni di governare in tempi sì miseri la patria loro ridotta in forestiera servitù. Che se l'ambizione guidava alcuno di loro, bene non indugiarono a conoscere, quanto fosse amaro il servire altrui; perciocchè in breve, non per colpa propria, ma dei tempi, perdettero presso i compatriotti loro la confidenza, presso i forestieri l'amicizia: tempi funestissimi, in cui si distruggevano i governi antichi per rabbia, si corrompeva l'onorato nome dei buoni per compagnìa.

Grouchy, conseguita una tanta mutazione, sforzava i soldati Piemontesi a giurare in nome della repubblica Francese: il che fecero piuttosto sbalorditi dal caso, che per volontà deliberata. Aggirati da accidenti tanto insoliti, e comandati dal loro signore, non si erano mossi ad alcuna impresa. Solo il reggimento dei cacciatori di Colli, che aveva le stanze al Parco, mezzo miglio lontano da Torino, voleva sdegnosamente correre a dar l'assalto alla cittadella, e l'avrebbe anche fatto, se i capi non avessero frenato quell'impeto più lodevole che considerato. Poco stante arrivava nella cittadella il generalissimo Joubert, il quale continentemente portandosi, non volle udire le proposte di regali, che i repubblicani erano venuti offerendogli. Bensì diedero trecento mila lire di Piemonte ad un certo Roccabruna, che era suo aiutante, repubblicano assai focoso, siccome ne faceva professione, ma che sotto quel titolo feudatario di Roccabruna altri non era, che un certo Matera Napolitano.

Damiano di Priocca andava a porsi in cittadella in potestà dei repubblicani. Ma quali fossero più degni di compassione del carcerato, o dei carceratori, giudicheranlo gli uomini diritti e dabbene. Scrivelo anche la storia, che, come la giustizia gl'innocenti dai rei, sebbene a passo lento, così i buoni dai tristi distingue, ed ai posteri secondo le opere loro raccomanda. Sarà Priocca, finchè fia in pregio la virtù fra gli uomini, lodato e celebrato, come esempio di quanto possano un animo forte, una mente sana, una sincerità singolare, ed una fede inalterabile. Sogliono le repubbliche o adulare, o calunniare, o uccidere i loro cittadini grandi. Sogliono le monarchìe, ogni cosa al re riferendo, soffocare la fama e le opere egregie dei servitori magnanimi. Ma non potranno tanto o una invidia consueta, o una prudenza ingrata, che non passi Priocca ai posteri, non solo lodato, ma ancora amato e riverito, come uno degli uomini, dei quali l'Italia e l'umanità più si debbono pregiare. Servì senza ambizione lo stato; tollerò senza abiezione il carcere e l'esiglio, e quel che più degno è di lode, questo è, che sopportò con equalità d'animo la calunnia; e mentre nei tempi che seguirono, i suoi persecutori corsero, per amor dell'oro e della potenza, agli allettamenti altrui, se ne visse e morì Priocca oscuro, modesto, temperato, e contento in Pisa, ancorchè fosse stato più volte chiamato alle ambizioni da chi tanto poteva, e tanto amava tirar dietro a se, come mezzo di potenza, gli uomini venerandi. Non fu da noi conosciuto Priocca nè per beneficio, nè per ingiuria, nè mai il volto suo vedemmo; ma bene abbiamo tanto conosciuto l'animo di lui, che l'essere nati nel medesimo paese, che egli, ci rechiamo a parte di gloria.

Abbandonava il re, abbandonavano i reali di Piemonte la gloriosa sede degli antenati loro. Era la notte fra le nove e le dieci della sera, oscura e piovosa; occupava la città un alto terrore: scendevano al lume dei doppieri le scale, ed usciti dalla porta, che dà nel giardino, e quivi in carrozza montati per l'altra porta, che è tra le due del palazzo e del Po, alla strada maestra di verso Italia pervenivano. Lasciava il re nelle abbandonate stanze per una continenza, che mai non si potrà abbastanza lodare, e per debito di religione, come protestava, le gioie preziose della corona, tutte le argenterie, e settecento mila lire in doppie d'oro in oro. Alcuni fra i principi piangevano; il re e la regina mostravano una grandissima costanza. Scortavangli ottanta soldati a cavallo Francesi, altrettanti Piemontesi: gli accompagnarono insino a Livorno, di Piemonte. Corse fama, e fu anche affermato, che o per timore volontariamente, o perchè fossero dai cieli serbati a tanta indegnità, a ciò costretti dai soldati repubblicani, acconciassero ai cappelli loro le nappe di tre colori; ma io non lo posso dir per certo; certo è bene, che i valletti, mentre la real famiglia scendeva le scale del palazzo, andarono cercando a tutta fretta le nominate nappe. Condussersi gli esuli principi in Parma, poi in Firenze: quivi furono accolti dal gran duca, come si conveniva al grado, alla parentela, ed alla disgrazia. Fu suggellato il palazzo reale dal commissario del direttorio Amelot, e dall'architetto Piacenza, architetto del re. Ma alcuni giorni dopo, rotti i suggelli da uomini rapacissimi, furono portate via le gioie, e le altre suppellettili preziose, alle quali Carlo Emanuele per la sua illibatezza e sincerità aveva, partendo, portato rispetto.

Così ruinò la casa reale di Savoja. Non so ora, se mi debba raccontare l'intimazione di guerra fatta il dì dodici decembre dal direttorio, quando già la guerra non solo era stata fatta, ma anche terminata con la distruzione dell'autorità regia in Piemonte. Accusò il direttorio con isfrenatissime parole le coltella, i veleni, gli assassinj; disse, che il re di Sardegna s'intendeva con quel di Napoli; tacciò di perfidia la corte per non avere, come affermava, pubblicato in tutti i suoi stati il trattato di pace; allegò che favorisse ed incitasse i fuorusciti, ed i preti non giurati a macchinare contro la repubblica; che con modi orribili ed immani facesse assassinare i Francesi con coltella e con stiletti; che facesse uccidere i Francesi implicati nel moto di Domodossola, dopo promesse di perdono; che il duca d'Aosta, qual altro vecchio della montagna ordinasse e pagasse sicari, acciocchè amazzassero i Francesi: che il governo del re facesse avvelenare i fonti a morte certa dei Francesi; che insultasse i Francesi; che imprigionasse gli amici della repubblica; che chiamasse all'armi i soldati provinciali quando Napoli assaltava Roma; che quasi assediasse la cittadella; che munisse d'artiglierie i monti, che la signoreggiano. Le quali furibonde querimonie in quale conto si debbano tenere, facilmente potrà giudicare chi attentamente avrà letto il presente libro di queste mie storie.

Partito il re da Livorno di Toscana in sull'entrare del novantanove, arrivava il dì tre di marzo in cospetto di Cagliari. Quivi vistosi in potestà propria, e considerato, che le deliberazioni generose, e magnanime nascono anche, e finalmente piene di comodità e di profitto, volle fare manifesto a ciascuno, e pubblicò solennemente, che l'onore della sua persona, l'interesse della sua famiglia e de' suoi successori, e così medesimamente le sue congiunzioni di amicizia con le potenze amiche, da lui, come di un debito sacro, richiedevano, che altamente, ed in cospetto di tutta Europa protestasse contro gli atti, per forza dei quali era stato costretto ad abbandonare i suoi territorj di terraferma, ed a rinunziare per un tempo all'esercizio della sua potenza. Dichiarava ed affermava, fede e parola di re, che non solamente non aveva mai violato, neanco menomamente i trattati fatti con la repubblica Francese, ma che anzi tutto al contrario, gli aveva con tale scrupolosità, e con tali dimostrazioni di amicizia e condiscendenza osservati, che di gran lunga aveva ecceduto gli obblighi contratti con la repubblica; che era notorio a ciascuno che egli ogni pensiero, ed ogni cura aveva continuamente posto, perchè ogni cittadino Francese, e principalmente i soldati, che o ne' suoi territorj stanziavano, o per loro passavano, fossero da tutti rispettati e sicuri, perchè coloro, che gl'insultassero, fossero frenati, e puniti, e perchè anzi si calmassero gli sdegni di coloro, che mossi da giusto risentimento per oltraggi ricevuti dai soldati licenziosi fossero trascorsi contro di loro ad atti violenti. Protestava medesimamente ed affermava, fede e parola di re, contro ogni scritto, ovunque fosse pubblicato, per cui venisse ad insinuarsi, che sua maestà avesse avuto intelligenze segrete con le potenze nemiche alla Francia; che in pruova di cotesto si riferiva, e con intiera fede si riposava, non solamente sui rapporti mandati al governo Francese, e su quanto i suoi generali avevano detto, e scritto più volte, ma eziandio sulle sincere testimonianze che i ministri, e i rappresentanti delle potenze, che sedevano in Torino, avevano mandato alle loro rispettive corti; che poteva vedere, e giudicare facilmente ognuno per se, e solo dai fatti noti a tutto il pubblico, che l'avere aderito a quanto gli fu imposto dalle superiori forze della repubblica, solo era temporaneo, ed altro fine non poteva avere, se non quello di allontanare dai suoi sudditi in Piemonte quelle calamità, che una giusta resistenza avrebbe partorito, essendo stato il re oppresso da un assalto improvviso, assalto, che non avrebbe mai dovuto aspettarsi da parte di una potenza sua alleata, e nel momento stesso, in cui per richiesta di lei aveva posto le proprie forze nel grado della più profonda pace. Mossa da tutti questi motivi si era sua maestà risoluta, tostochè in poter suo fosse, di far nota a tutte le potenze d'Europa l'ingiustizia del procedere dei generali ed agenti Francesi, e la nullità delle ragioni addotte nei manifesti loro, e d'invocare altresì al tempo stesso la sua rintegrazione nei dominj de' suoi maggiori.

Questi lamenti e proteste del re, quando il confessare l'intelligenze avute coi nemici della Francia, se fossero state vere, gli sarebbe stato utile, e conducevole alla rintegrazione, dimostrano, non solamente sincerità, ma ancora grandezza d'animo. Così acquistava lode nella disgrazia, mentre la prosperità fruttava infamia al direttorio.

Accoglievano i Sardi, come ben si conveniva, con dimostrazioni di rispetto e d'amore l'esule stirpe d'Emanuele Filiberto.

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