LIBRO DECIMOSESTO

SOMMARIO

Guerra nello stato Romano. I Napoletani cacciati da Championnet. Mack, generale dei regj, si ritira, e fa un suo principale alloggiamento a Capua. Il re Ferdinando si ritira in Sicilia. Le provincie tumultuano contro i Francesi, Napoli stessa si muove a furia di popolo contro di loro. Feroci battaglie tra i Francesi ed i lazzaroni. I Francesi entrano in Napoli. Continente condotta di Championnet: crea a Napoli un governo provvisorio; è richiamato dal direttorio, e perchè: gli vien surrogato Macdonald. I popoli delle province si muovono quasi universalmente contro i Francesi. Mossa importante del cardinal Ruffo. Guerra terribile, crudele, e sanguinosa. Rivoluzione di Lucca. Accidenti gravi del Piemonte: domanda la sua unione alla Francia. Scherer surrogato a Joubert nel supremo grado dell'esercito d'Italia, e perchè. Nuova guerra. Scherer vinto da Kray a Verona, poi a Magnano. I Russi sotto la condotta di Suwarow arrivano in Italia ad ingrossar gli Austriaci. Moreau subentra a Scherer, e combatte infelicemente a Cassano: si ritira prima ad Alessandria, poi sul territorio Ligure oltre gli Apennini. Milano in poter dei confederati. Moti incomposti dei Piemontesi. Suwarow arriva in Piemonte, e vi crea un governo provvisorio. Presa della cittadella di Torino. I repubblicani d'Italia o sono carcerati, o si ricoverano in Francia: benevolenza dei Francesi verso di loro.

Mentre la sede antica dei re di Sardegna diveniva preda dei repubblicani, più abili a sconvolgere, che ad ordinare, le sorti della parte meridionale d'Italia imprudentemente, e forse temerariamente tentate dal re di Napoli, partorivano accidenti insoliti e terribili. Non aveva il generale Mack trovato nello stato Romano quel seguito, che si era concetto colla speranza, poichè l'essersi ritirati, ma intieri, non rotti, i Francesi, e la fama ancor fresca del loro valore, davano timore che, ove fossero ingrossati, si precipitassero di nuovo alle offese con danno estremo di coloro, che troppo vivamente si fossero scoperti contro di loro. Nè ignoravano i popoli, che sebbene un odio grande ai nuovi repubblicani si portasse, non pochi erano, che con le ricchezze, con le esortazioni, e con tutta l'opera loro gli secondavano: il che faceva che ognuno credesse, che la parte loro fosse maggiore di quello, che era veramente. Ne nasceva altresì, che i Francesi erano, per mezzo degli aderenti, ottimamente informati di quanto più importava loro sapere per la salute dell'esercito. Il terrore poi concetto per le infelici pruove fatte contro i medesimi in parecchie parti d'Italia, massimamente il caso spaventoso di Verona, teneva sospeso l'animo di ognuno, impediva che si movesse cosa alcuna contro i repubblicani, e frenava i popoli desiderosi di prorompere. Nè potevano persuadersi facilmente, che le truppe Napolitane, di cui si conoscevano piuttosto i vanti che i fatti, fossero abili a resistere a genti tanto riputate per esperienza e per valore: la troppo facile vittoria, essendosi i Francesi ritirati piuttosto volontariamente, che per battaglie infelicemente combattute, aveva allontanato dai Napolitani ogni occasione di mostrare ciò, che potessero contro quei campioni formidabili della repubblica, per modo che era la fama dei repubblicani intatta, quella dei regj dubbia. Per la qual cosa dalla occupazione dei territorj in fuori, acquistati piuttosto senza contrasto, che per forza, la riputazione e la probabilità della vittoria stava tuttavia dal canto dei vincitori audacissimi d'Italia. Si aggiungeva, che sebbene i Romani odiassero i Francesi, non amavano però i Napolitani, e pareva loro di uscire da una servitù abbominata per sottentrare ad un'altra forse non meno odiosa. Nè il procedere dei Napolitani era atto a rattemperare gli odj; perchè oltre le parole al solito gonfiamente lanciate, il che irritava la Romana natura assuefatta a mirar al reale, non al vano, i fatti erano piuttosto da conquistatori provocati, che da amici chiamati, e l'Italia andava a sacco e da chi pretendeva liberarla con parole di libertà, e da chi pretendeva liberarla con parole di conservazione. Tutte queste cose non erano nascoste a Mack, e però argomentando, che la guerra era piuttosto incominciata di nome che di fatto, e che se con qualche fazione importante, in cui si venisse al sangue, non dimostrava che le mani fossero tanto forti, quanto le lingue pronte, il tempo avrebbe presto condotto una mutazione di fortuna, si deliberava ad andar all'incontro delle armi repubblicane. Del che tanto maggiore necessità gli sovrastava, quanto Championnet raccoglieva genti in fretta, e continuamente s'ingrossava.

Avendo adunque avuto avviso, che con felice navigazione era Naselli sbarcato a Livorno, e Ruggiero di Damas ad Orbitello, si muoveva a tentare la fortuna delle battaglie. Siccome poi credeva, se prosperamente nei primi incontri combattesse, di trovare, se non maggiore inclinazione di popoli, almeno maggiore sicurtà di governo nella Toscana, provincia suddita a principe Austriaco, elesse di far impeto contro l'ala destra dell'esercito Francese, che governata dal generale Macdonald, da Terni si distendeva fin verso Nepi, Civitacastellana, e Monterosi. A questo partito dava anche favore il pensare, che Naselli, e massimamente il conte Ruggiero venivano alla volta sua per la strada del littorale, coi quali desiderava, ed era punto principale della sua impresa, il congiungersi. Nè era di poca importanza il moto della città di Viterbo, che a furor di popolo si era scoperta contro i Francesi. Marciava Mack, divisi i suoi in cinque schiere, il dì cinque decembre, da Baccano contro i repubblicani, mentre al tempo stesso ordinava un moto verso Civitaducale, per tener in rispetto i Francesi da quella banda. Prevaleva di gran lunga di numero, conducendo quarantamila soldati contro un nemico, che se arrivava agli ottomila, non gli passava, poichè in questo numero consisteva l'ala destra dei repubblicani. Sboccava la prima schiera Napolitana verso Nepi, la seconda, insistendo sull'antica via Romana, verso Rignano, la terza verso Santa Maria di Falori, schiere tutte destinate a combattere sulla destra sponda del Tevere. La quarta aveva il carico d'impadronirsi di Vignanello per guadagnare la terra d'Orta, e quivi varcare il fiume. Finalmente per fare un po' di spalla a destra a tutte queste genti, la quinta schiera dei regj marciava contro a Magliano, e già aveva traversato il Tevere al passo di Ponzano. I Francesi, sentita prestamente la venuta del nemico, non si fermarono ad aspettarlo, ma siccome quelli, che stimavano se stessi da quegli uomini valorosi che erano, e tenendo in poco conto le genti Napolitane, uscirono incontanente ad incontrarle. I capi poco dubitavano della vittoria, perchè oltre il provato valore dei soldati, sapevano, che gli assalti dei Francesi, per la natura pronta della nazione, sono sempre più fortunati che le difese. Non fu l'esito diverso dalle speranze. Kellerman, figliuolo del vecchio generale di questo nome, e giovane commendabile per valore e per bontà, contuttochè sulle prime trovasse un duro incontro, ruppe la prima Napolitana schiera, cacciolla insino a Monterosi, e quivi rompendola di nuovo tagliava a pezzi i valorosi, disperdeva i codardi. Non procedettero con maggior riputazione le cose dei Napolitani dall'altre parti: il colonnello Lahure ruppe la schiera di Rignano, sebbene sulle prime avesse perduto del campo; perchè Macdonald con pronti ajuti soccorrendolo, lo ebbe tostamente abilitato alla vittoria. S'incontrava la schiera che giva all'assalto di Santa Maria di Falori in una squadra Polacca capitanata dal generale Kniazewitz, e che aveva con se una legione Romana, che aveva alzate le bandiere della repubblica. Polacchi e Romani valorosissimamente combatterono: i Napolitani andarono in volta, non senza grave perdita d'uomini, d'armi, e di bagaglie. Il generale Maurizio Mathieu affrontava, così avendo ordinato Macdonald, la quarta schiera, la quale cedendo si ricoverava nella terra di Vignanello forte per sito, e cinta di buone mura. Si difendevano i Napolitani virilmente, sapendo, che questa fazione era di grandissima importanza; erano anche ajutati dai terrazzani, nemicissimi del nome Francese. Ma Mathieu tanto fece con le armi e con le minacce, che sforzava i Napolitani a lasciar la terra libera al vincitore. Entraronvi i Francesi trionfando, non senza qualche licenza, come di gente vincitrice, ed irritata. Acquistato Vignanello, correva Mathieu ad assicurare il ponte di Borghetto.

Restava la quinta schiera, che camminava verso Magliano, ma udite le infelici novelle delle compagne, se ne tornava, senza aver combattuto, per Ponzano, al principale alloggiamento dell'esercito regio. Così pel valore delle sue genti, e per l'arte egregia, con la quale le mosse, venne fatto a Macdonald di variare lo stato della guerra, e di riuscir vincitore da un assalto molto pericoloso. Bene si può biasimare Mack dello aver diviso i suoi in tante parti, convenendogli piuttosto, siccome a quello che aveva l'esercito molto più grosso, il marciare unito; perciocchè con un solo sforzo avrebbe vinto, mentre con molti perdè. Ma voleva Mack mostrar sempre in tutte le sue cose un'arte molto squisita e non gli andavano a grado le mosse semplici. Così nella propria perizia ravviluppandosi, ed impacciandosi, si esponeva ad un più gran numero di casi fortuiti, ed apriva un maggior adito alla fortuna. Ma, non ostante le battaglie combattute infelicemente dal generale Napolitano sulla destra riva del Tevere, la guerra non era ancora vinta; perchè da una parte il conte Ruggiero di Damas venendo da Orbitello si avvicinava, dall'altro rimanevano ancora sulla sponda sinistra del fiume ai Napolitani genti superiori per numero ai loro nemici. Per la qual cosa Mack, non disperando ancora delle sorti, si accingeva a fare un nuovo sforzo sulla sponda medesima, il cui fine era di rompere la schiera di mezzo di Championnet: il che avrebbe disgiunto le due ali Francesi, di cui la destra guidata da Macdonald insisteva tra il mare ed il Tevere, e la sinistra militava sotto la condotta di Duhesme oltre l'Apennino, tra questo monte e le spiagge dell'Adriatico. Ebbe il generale Francese sicuro e pronto avviso dell'intento del suo avversario. Laonde per resistere a quel nuovo impeto, e non si commettere se non con vantaggio alla fortuna, ristringeva i suoi ed affortificava con nuove genti i luoghi di Contigliano e di Magliano. Poi fe' ritirare Macdonald da Civitacastellana, solo lasciato un presidio nel forte a Borghetto, affinchè quivi validamente difendesse il passo del fiume. Finalmente chiamava il generale Lemoine, che oltre l'Apennino sotto il freno di Duhesme combatteva contro il cavaliere Micheroux, generale del re, ad occupare Civitaducale, e Rieti, la prima, città del regno, la seconda, dello stato Romano. Pensier suo era in questo, che Lemoine tempestando sulla destra di Mack, gli troncasse il suo pericoloso pensiero di spartire in due l'esercito repubblicano. Dal canto suo Mack aveva per primo fine, spingendosi avanti, di acquistare Terni, il che sarebbe stato il compimento del suo disegno. Con questo intento, mandata una colonna ad occupare Civitacastellana, avviava grosse squadre ai monti di Buono, a Cantalupo, ad Aspra, e già faceva le viste di assaltare Otricoli, fazione, per la posizione dei luoghi, di grandissima importanza. Aveva poi il suo alloggiamento principale, e come quasi primario fondamento alla vittoria, sul monte di Calvi. Le cose succedevano a prima giunta prosperamente ai Napolitani; conciossiachè, sebbene per opera di Mathieu fossero stati cacciati da Magliano, che già avevano conquistato una loro schiera di gran polso, sotto guida del generale Moesk, si era, cacciatone di forza i Francesi, impadronita di Otricoli, e già faceva correre da suoi cavalleggieri la strada per a Narni. La guerra diveniva pericolosa pei Francesi. Ma non perdutisi punto d'animo, si risolvevano al combattere, e provarono tostamente, che nelle battaglie più può l'ardire che la prudenza; poichè Mathieu, per comandamento di Macdonald, assaltò furiosamente i Napolitani in Otricoli, e quantunque valorosamente vi si difendessero, gli vinse con perdita di due mila soldati, di cinquecento cavalli, di otto cannoni, e di tre bandiere. Diedero in questo fatto pruove di singolar valore i Polacchi, e fu ferito gravemente in una gamba un Santacroce, principe Romano, che combatteva per la repubblica. Ritirossi Moesk colle reliquie de' suoi a Calvi, dove per la fortezza del sito si poteva sostenere, e fare ancor dubbia la vittoria. Ma lo stesso Mathieu, già vincitore di tanti fatti per valore di questa Napolitana guerra, mandato da Macdonald, vincitore ancor esso dei fatti medesimi per perizia, occupate le eminenze, che stanno a sopracapo alla terra, e minacciato aspramente Moesk, se non si arrendesse, il costringeva, ajutato anche dalla presenza di Macdonald sopraggiunto in quel frangente, alla dedizione. Questo fatto ruppe ad un punto tutte le speranze che Mack aveva concette di poter durare nello stato Romano, e lo fece accorgere, che niun altro scampo gli restava, che quello di ritirarsi con presti passi nel regno. Già il re, udite le sinistre novelle, ed abbandonata Roma, si era avviato, prima a Caserta, poscia a Napoli: Mack, raccolti più prestamente che potè tutti i suoi, andava a Capua, in cui sperava di difender Napoli, giacchè non aveva potuto difender Roma nè a Calvi, nè a Cantalupo. Entrarono i Francesi vittoriosi in Roma, donde diciassette giorni prima erano partiti non vinti. Tornaronvi i consoli ad occupare le perdute sedi.

Le cose dei Napolitani non avendo fatto sulla destra del Tevere quella resistenza, che il conte Ruggiero aveva sperato, gli era divenuto impossibile di congiungersi con la sua schiera sinistra: le rotte sulla sinistra gli tagliavano ogni strada a potersi congiungere col grosso dell'esercito, e niun altro scampo gli lasciavano, che quello di aprirsi il passo per forza, o di conseguirlo di queto dal vincitore, o di retrocedere per andarsi a rimbarcare in Orbitello. Rifulse in sì estremo accidente la virtù del conte; poichè non isgomentatosi punto, se ne continuava a marciare con settemila soldati da Baccano verso Roma. Championnet attonito a caso tanto improvviso, mandava il suo ajutante Bonami a sapere, che cosa volesse dir questo. Gli fu risposto dal conte, che voleva passare o per amore, o per forza per ritornare nel regno; ed ottenuto un indugio dal nemico per trattare un accordo, avvisando che Bonami non aveva dato tempo per altro motivo, che per far accorrere nuove genti, levava, più tacitamente che poteva, il campo, incamminandosi più che di passo alla volta di Orbitello. Giunto alla Storta, vi fu il suo retroguardo combattuto dai repubblicani: ma difesosi virilmente, acquistava facoltà del continuare a ritirarsi. Calava intanto a far le sue condizioni più pericolose Kellerman da Borghetto. Incontratisi repubblicani e regj a Toscanella, si travagliavano con un conflitto molto aspro. Il conte, contuttochè fosse ferito gravemente da una scheggia in una gamba, continuava a combattere valorosamente; i Napolitani incoraggiti dall'esempio del loro capo, si difendevano anch'essi con molta costanza: nè si spiccarono dalla battaglia, se non quando per l'arrivo delle cavallerìe di Kellerman, era diventata troppo disuguale. Intanto non aveva omesso il conte, mentre col retroguardo arrestava l'impeto dei repubblicani, di accostarsi vieppiù coll'antiguardo, e col grosso della schiera, ad Orbitello. Queste due squadre nella cercata terra essendo giunte, tostamente vi s'imbarcarono sulle navi Napolitane, che quivi le attendevano. Restava, che si conducesse a salvamento il retroguardo, che era furiosamente seguitato dai Francesi; ma non così tosto il conte col retroguardo medesimo (imperciocchè sebbene molto patisse della sua ferita, aveva sempre in mezzo a quest'ultima parte del suo esercito combattuto) vi entrava, che chiuse le porte sul viso al nemico, faceva le viste di volersi difendere. Si appiccava intanto una pratica tra di lui e Kellerman, per la conclusione della quale fu fatto abilità al conte d'imbarcarsi con tutte le sue genti, solo lasciando in mano dei Francesi le artiglierìe. Bello e lodevole fatto del conte Ruggiero fu questo, e che dimostrò, che se i buoni soldati fanno i buoni generali, ancora e molto più i buoni generali fanno i buoni soldati. Viterbo vinta ed occupata dal vincitore, pagò le pene dello aver anteposto lo stato antico e dispotico, allo stato nuovo e tirannico. Ciò non ostante non vi furono vendette esorbitanti, ed il giovine Kellerman vi si portò più moderatamente che i tempi non comportavano.

Riconquistata Roma, ed atterriti i Napolitani, pensava Championnet ad assicurarsi, e ad ampliare la vittoria; ed ancorchè non avesse un esercito bastante pel numero dei soldati a conquistare il regno, tuttavia, considerato il loro valore, l'efficacia della fresca vittoria, il terrore dei nemici, e la forza delle opinioni favorevoli, che da lungo tempo e largamente vi si erano sparse, e che ora più potentemente operavano per la vicinanza dei Francesi, e per la sconfitta dell'esercito regio, si risolveva a tentar l'impresa. A questo fine era necessario il debellare Capua, ultimo propugnacolo di Napoli per la fortezza della città, per la profondità delle acque del Volturno, e per avervi Mack adunato tutte le genti, ancora forti, se non per valore almeno pel numero. Adunque il generale della repubblica spartiva i suoi in due principali schiere, delle quali la sinistra governata da Macdonald, correndo pei luoghi superiori e più vicini agli Apennini, doveva, là dove è meno grosso per la prossimità de' suoi fonti, varcare il Garigliano ai passi del Castelluccio e di Caprano, e al tempo stesso dare facoltà alle genti di Duhesme e di Lemoine di congiungersi con lui a sforzo comune contro Capua. La seconda schiera sotto la condotta di Rey, radendo il lido, s'incamminava verso Terracina, con pensiero di acquistare, strada facendo, Gaeta per una battaglia di mano, poi comparire sotto le mura della desiderata Capua. Nè l'esito fu diverso del disegno; perchè e Macdonald e Rey, superati tutti gli ostacoli, arrivavano alla destinata oppugnazione sulle sponde del Volturno. Ai passi stretti e forti di Fondi e d'Itri fecero i Napolitani debole resistenza: a Gaeta, piazza forte per sito e per arte, e con un presidio di più di tremila soldati, con provvisioni e munizioni abbondanti, niuna. Vennero a Gaeta in poter dei vincitori circa cento pezzi di cannoni, piatte per ponti, barche armate, e barche annonarie provviste, e vettovaglie in copia. Precipitavano a gran rovina le cose del regno, non essendosi mostrato in sua difesa valore nissuno, se si eccettua il caso del conte Ruggiero. Duhesme e Lemoine, ai quali andava avanti, come speculatore ed apritor di strade, quell'arrisicato condottiere Rusca, sui sinistri gioghi dell'Apennino insistendo, travagliavano più per gli assalti improvvisi delle popolazioni mosse a romore, ed armate di ogni sorte d'armi, che per le battaglie delle genti regolari. Principalmente nelle contrade del Tronto, e verso Teramo, i paesani mossi a romore, e condotti dai preti, infestavano le strade, davano addosso agl'isolati, ed impedivano le comunicazioni tra l'una parte e l'altra dei repubblicani. Ciò ritardava l'impeto dei Francesi, che da questa parte non poterono seguitare di pari passo le genti vincitrici di Championnet, e di Macdonald. Tuttavia appoco appoco prevaleva il valore regolato. Lemoine acquistava Aquila, dove trovava munizioni da bocca in abbondanza. Poi si conduceva a Sulmona, dove mettono capo tutte le strade dell'Abruzzo, con intenzione di aspettar quivi Duhesme, che più vicino correva le sponde dell'Adriatico. Grave intoppo ai disegni di Duhesme era Pescara, città, che con la sua fortezza situata in luogo eminente domina tutto il pian paese all'intorno, e la sola strada a riva il mare, per la quale possono passar le artiglierìe. Questa era la principale piazza dei Napolitani su quei lidi, sì per l'importanza del passo, e sì perchè difende la foce del fiume Pescara, che si distende a guisa di porto. Due mila soldati la presidiavano; ma non fecero miglior pruova dei difensori di Gaeta; perchè, come prima i soldati leggieri della repubblica si mostrarono sulle alture che stanno a sopracapo al ponte di Pescara, e le altre truppe a Pianella ed a Civita di Penna, il comandante pensò alla dedizione, dando in mano dei Francesi quel luogo tanto forte per arte e per natura, e tanto importante alla sicurezza del regno. Vi trovarono i vincitori armi, e munizioni in copia. Acquistata Pescara, procedeva Duhesme a congiungersi per la strada di Popoli con Lemoine a Sulmona, donde varcato il sommo giogo dell'Apennino, condussero entrambi tutta l'ala sinistra sotto le muraglie di Capua. Così non solo erano in veemente movimento le cose di Napoli, ma ancora cominciavano a precipitare a manifesta rovina.

Naselli, lasciato Livorno, perchè oltre le sconfitte dei regj, aveva udito che Serrurier con una mano di soldati della repubblica già aveva occupato Lucca, e si apparecchiava ad andarlo a combattere, imbarcate le genti sulle navi apprestate, veleggiava alla volta del Garigliano.

Non erano senza fortezza i nuovi alloggiamenti di Mack. Posto il campo col grosso de' suoi nella pianura di Caserta, per modo che fosse abile a difendere il passo del Volturno, aveva fatta Capua sicura con un presidio di diecimila soldati. Tra per questi, e le genti del campo, aveva ancora un novero di combattenti superiore a quello dei Francesi, e se avesse avuto o migliori soldati, o più fedeli capitani, o minore capriccio in una certa squisitezza d'arte, che gli faceva sempre moltiplicare i casi fortuiti con allargar troppo il campo, poteva ancor tenere la fortuna in pendente. Bene l'evento dimostrò, che Capua si poteva difendere, e si perdè non per forza, ma per accordo. Ma già i casi di Napoli diventavano più forti di tutte queste condizioni unite insieme. Il ritorno tanto subito del re, le novelle sinistre che ad ora ad ora pervenivano, l'aver perduto in più breve tempo quello, che in breve tempo si era acquistato, le dedizioni tanto importanti d'Aquila, di Pescara, e di Gaeta, l'avvicinarsi continuo del nemico al cuore stesso del regno, i soldati o dispersi, o fuggitivi, che per escusazione propria magnificavano le cose, l'arrivo stesso di Mack in Napoli, venutovi per consultare sulle ultime speranze, rinnovando la memoria delle vittorie dei francesi in Italia, e il terrore delle armi loro rinfrescando, avevano prodotto un grande abbattimento d'animo in chi sapeva, rabbia e disperazione in chi non sapeva. Titubavano i consiglieri di Ferdinando sul partito, che fosse a prendersi, alcuni propendendo ad armare il popolo, altri opinando ch'egli avesse tostamente a ritirarsi oltre il faro. Intanto il volgo, fattesi alcune instigazioni, anche da parte del governo, si armava da se: la città fra il terrore ed il furore aveva un aspetto molto sinistro, e, come si usa in simili casi, le voci popolari già accusavano di tradimento i ministri. S'incominciava a por mano nel sangue degli avversari o veri o supposti del governo regio, poi si trascorse in quello degli amici. Un Alessandro Ferreri, corriero per gli spacci, mandato con lettere a Nelson, che con alcuni suoi vascelli stanziava nel porto di Napoli, restò ucciso a furia di popolo sul molo; il suo cadavere sanguinoso tratto a forza sotto le finestre della reggia, fu mostrato al re, gridando orrendamente i feroci uccisori, e l'invasata moltitudine, che gli accompagnava, “muojano i traditori, viva la santa fede, viva il re”. Già non vi era più freno. L'orrore concetto per la fresca uccisione del corriero aveva persuaso a Ferdinando, che, tralasciando anche la forza Francese, che si avvicinava, non poteva più rimanersi a Napoli con dignità, nè fors'anche con sicurezza. S'aggiunse che Mack, non confidando di poter far guerra felice con quei soldati, che per altro quanto potessero valere aveva dimostrato l'esempio del conte Ruggiero, consigliava un accordo.

Tutte queste considerazioni, e forse più ancora il timore di qualche congiura per opera dei novatori, essendo la rabbia loro grandissima pei sofferti supplizj, fecero prevalere la sentenza di coloro, che consigliavano, che il re si ritirasse in Sicilia. Fatta la deliberazione, si mandò tosto ad esecuzione, non senza terrore e confusione, come suole in simili accidenti; l'ultima notte del novantotto, s'imbarcarono sulle navi Inglesi e Portoghesi, che erano sorte nel porto, il mobile più prezioso dei palazzi di Caserta e di Napoli, le gioje della corona, il tesoro di San Gennaro, in cui erano meglio di venti miglioni coniati, ed oro, ed argento vergati in quantità: a queste ricchezze s'aggiunsero le singolarità più preziose di Ercolano. Imbarcati i denari e le suppellettili, creava Ferdinando suo vicario il principe Pignatelli con facoltà amplissime, anche di concludere un accordo coi Francesi, col consentire all'occupazione di Napoli, purchè la città salva ed incolume si conservasse. S'imbarcava Ferdinando la notte medesima sulla nave di Nelson con Acton, Hamilton, ed i cortigiani. Il giorno seguente, non avendo ancor salpato pei venti contrarj, sorse uno spettacolo miserabile; poichè, fatte uscir prima le navi Napolitane, sì grosse che sottili, che potevano mareggiare, fece Nelson appiccare il fuoco alle altre, fra le quali campeggiava il Guiscardo grossa nave di settantaquattro cannoni. Arsero in cospetto del re, che di non lontano luogo rimirava il fumo ed il fuoco, che le proprie sue forze consumava. Si abbruciarono anche con disegno espresso le barche armate della costa di Posilippo, ed i magazzini dell'arsenale: la rabbia civile consumava le opere egregie della pace. Fu nella città desolata dolore e terrore per la partenza della reale famiglia. Il volgo sollevato mandò deputati a pregar Ferdinando, affinchè restasse proferendo le sostanze e le vite a difesa ed a conservazione sua, ma fu negata ai deputati la presenza di lui dagl'Inglesi. Nulla più restava da trasportare e da ardere: la dolorosa flotta salpava il dì due gennaio, infelice pell'aspetto terribile di Napoli, che ancora agli occhi dei naviganti appariva, più infelice pei venti avversi e le tempeste, che poco dopo la percossero. Fu lungo e travaglioso il tragitto: accrebbe la mestizia ed il dolore la morte del principe Alberto, figliuolo del re, fanciullo di sette anni, che in mezzo alle furiose burrasche rendè l'ultimo spirito nel grembo stesso della già tanto addolorata madre. Finalmente le sbattute e travagliate navi afferravano Palermo: le dimostrazioni amorevoli dei Siciliani, mitigarono l'amarezza concetta per l'esiglio, e per la fresca orbezza del morto figliuolo. Accrebbe una calunnia l'infelicità della madre, poichè trovo scritto, che la regina avesse, partendo, comandato, che si armasse il volgo a furia, che Napoli s'incendesse, che anima vivente, che sopra la condizione di notajo fosse, non vi restasse. Bene mostrò soverchia asprezza Carolina ai tempi, che seguirono, ma che abbia ordinato una immanità tanto barbara, non è da credersi, se non da coloro che si lasciano tirare dalle passioni estreme, e dall'amore detestabile delle parti.

La partenza del re fu in mal punto per l'infelice regno, perchè già la fortuna si dimostrava più propizia alle sue armi. Erano, non senza gravi difficoltà per le popolazioni armate, che loro contrastavano il passo, Duhesme e Lemoine giunti al campo sotto le mura di Capua. Intanto le popolazioni medesime, principalmente quelle dell'Abruzzo superiore, e dell'antico Sannio, crescevano di numero, di forze e di furore, e già facendo in ogni luogo suonare le armi e le grida di vendetta, niuna cosa lasciavano sicura alle spalle dei francesi. La rabbia loro era incredibile, e commettevano contro i repubblicani, che viaggiavano alla spicciolata, atti di ferità più bestiale, che inumana. Dei venuti in mano loro, alcuni furono vivi tagliati a pezzi, altri legati agli alberi a fuoco lento arsi, altri gettati a furia a rompersi sugli scogli, altri precipitati nelle profonde valli, altri orribilmente mutilati e lasciati vivere di una vita peggiore che la morte. A tali atti applaudivano con forsennate grida le turbe furibonde. Già Itri, Fondi e Sessa erano in poter dei sollevati; già San Germano si muoveva a stormo; già Teano, alloggiamento principale di Championnet, era stato assaltato e preso; già Piedimonte sul sommo giogo dell'Apennino pericolava; una massa di popoli incitatissimi s'avvicinava al Garigliano, e non lasciava alcuna speranza ai repubblicani in picciol sito oramai ristretti. Mandava Championnet ad incontrarla Rey, il quale avendo combattuto più valorosamente che prosperamente, fu fatto tornare con grave perdita frettolosamente nel campo. Il prospero evento aggiunse nuova furia a quelle genti sdegnate e crudeli: spintesi avanti assaltarono il ponte, che i Francesi avevano fabbricato sul fiume, sel presero, e più oltre procedendo nel parco di riserva rapirono le artiglierìe, fracassarono i carretti, trasportarono quante munizioni da guerra poterono. Per tale guasto le cartucce di provvisione vennero mancando ai Francesi: già le vettovaglie mancavano, nè v'era modo di andar alla busca per pascere l'esercito, perchè i sollevati inondavano le campagne; il vigore delle menti con gli stromenti di difesa mancava. Da un altro lato la popolosissima Napoli si muoveva, apprestandosi a correre al Garigliano in ajuto di Capua, e dell'esercito che ancora la difendeva. Nè è da passarsi sotto silenzio, che la virtù dei Francesi, oltre il suono delle armi dei sollevati, che romoreggiavano tutto all'intorno, incominciava a indebolirsi per un'infelice pruova testè fatta contro Capua. Avendo dato Macdonald un furioso assalto alla piazza, ne era stato respinto con danno gravissimo. Fu anzi in questo abbattimento ferito Mathieu da una palla, che gli guastò il braccio per modo che non potè più militare in tutta questa Napolitana guerra. Ciò dava loro a temere, che i soldati Napolitani incominciassero ad agguerrirsi. Si aspettavano d'ora in ora alla foce del Garigliano le genti tornate da Livorno, che dando animo e forza alle turbe stormeggianti sulla destra del fiume, avrebbero fatto un pericoloso assalto a tergo dei Francesi, mentre sboccando Mack da Capua, gli avrebbe assaliti in viso. Per la qual cosa con un esercito a fronte, che si ostinava a voler difendere una città, ed un passo tanto abili ad esser difesi, con gli Abruzzesi ed i Campani alle spalle, con la poderosa Napoli in cospetto, rimaneva ai Francesi poca speranza di salute; nè solo della perdita dell'impresa per loro si trattava, ma della vita stessa fra sdegni tanto frenati.

La debolezza del vicario Pignatelli, per non usare parole più gravi, aperse improvvisamente una via di scampo ai Francesi, che già incominciavano a disperarsi. S'aggiunse il poco animo di Mack, il quale dimostrò, quando la fortuna già risorgeva, abiezione uguale a quell'eccessivo ardimento, che aveva scoperto, quando con le fresche e fiorite schiere assaltava lo stato Romano. Perì Napoli per mano di coloro, ai quali maggior debito pesava di difenderla. Arrivavano in quell'ora tanto pregna di dubbio avvenire pei Francesi agli alloggiamenti di Championnet il principe di Miliano, e il duca di Gesso, che mandati dal vicario venivano chiedendo un accordo. Mostrò sulle prime Championnet qualche durezza, conosciuta la timidità di chi reggeva Napoli, e volendo mostrare abilità al combattere. Ma infine pregato da coloro, che dovevano minacciare, venne ad un accordo con loro, del quale le principali condizioni furono, che si sospendessero le offese sino alla ratificazione delle due parti: se una ricusasse di ratificare, rincominciassero le offese dopo avviso anticipato di tre giorni; Capua si consegnasse in mano dei Francesi: l'esercito di Francia occupasse il paese alla destra dei laghi Napolitani sino alla foce dell'Ofanto; si serrassero i porti alle navi nemiche della repubblica; non si riconoscessero le opinioni; pagasse il re alla repubblica dieci milioni di tornesi, cinque in cinque giorni, e cinque in dieci; fossero aperte le strade ad ambe le parti pel commercio. Non piacque quest'accordo a nissuna delle parti, perchè il re negò la ratifica, e mandò Pignatelli tornato in Sicilia pel sollevamento di Napoli, che or ora racconteremo, nella fortezza di Girgenti.

I Napolitani, sottili estimatori, come gente Greca, delle cose, affermarono, essere stata un'insidia di Acton, nemico di Pignatelli, dell'averlo messo, partendo, in quella vertigine, acciocchè vi perisse. Mostrossi il direttorio sdegnato contro Championnet, come di accordo vile. Ma piacque il trattato, come riscatto e come insidia, a Championnet; perchè con quello e salvava l'esercito, e si procurava abilità d'intendersela coi novatori per far del tutto sovvertir Napoli, e convertirlo in repubblica. Infatti aveva con se alcuni fuorusciti Napolitani, il principale dei quali era il conte Ettore Caraffa, signor d'Andria e di Ruvo, giovane di spiriti ardenti, di pensieri vasti e smisurati, e strumento molto atto a turbare il regno. Questi incominciarono a tener pratiche segrete coi loro compagni di Napoli per modo che il generale Francese era per l'appunto informato di quanto alla giornata vi avvenisse. Non riposavano essi mai, godendone Championnet, repubblicano sincero, ora magnificando la potenza dei Francesi, e l'impotenza del resistere, ora preponendo la repubblica al regno, ora con vivi colori dipingendo la crudeltà di Carolina, la superbia di Acton, l'imbecillità, come la chiamavano, del re. Mali semi sorgevano; si aspettava la occasione. Pignatelli o non sapeva, o non poteva, o non voleva rimediare: un accidente grave e funesto era imminente. Una cagione, che dipendeva dal trattato della tregua, fe' trascorrere le acque mosse, ma in verso contrario: i vesuviani spiriti eran prossimi a prorompere. Un Arcambal, commissario Francese, era andato a Napoli per levarvi il denaro pattuito, e già i carri si apprestavano. Ciò venne a luce; il volgo se ne accorse. Spargevansi voci, che il popolo era tradito, che si voleva dar Napoli ai Francesi, le condizioni dell'accordo tenute a bella posta segrete, diventavano palesi: si accusava Mack, si accusava Pignatelli di tradimento: il mal umore nasceva in ogni parte. S'incominciò a mormorare, poi a gridare, poi a minacciare, si trascorse finalmente agli sdegni, e sorse in tutta la città fra i lazzaroni un tumulto, ed un rumore incredibile. Uscivano furibondi dai nascondigli loro, correvano per le contrade e per le piazze, s'armavano a vicenda, l'un l'altro stimulavano, tutti gridavano: “muojano i traditori; viva San Gennaro, viva la santa fede, viva il re”. Avidi di far sangue già facevano pruova di manomettere Arcambal, e lo avrebbero anche fatto, se per opera di alcuni Napolitani affetti ai Francesi non avesse trovato modo di porsi in salvo. Fece Pignatelli qualche provvisione per frenare quel cieco impeto per mezzo dei soldati, e della guardia urbana. Ma altra medicina era richiesta a tener i lazzaroni, ed il rimedio fu peggior del male, perchè il volgo vieppiù inferocito a quel ritegno, trascorse in maggior furore, chiamando a morte e Pignatelli, e Mack, e i soldati, e tutti che governavano. Nissuno pensi, che un'avviluppata simile a questa sia stata mai in alcuna città mossa a furore nelle faccende più gravi dello stato, e nelle più ardenti ire civili. I lazzaroni occupavano i castelli Nuovo, Sant'Elmo, e del Carmine: indi correvano all'armerìa, dove, prese e distribuite fra di loro le armi, s'indirizzavano a opere maggiori. Pignatelli e Mack pensarono, che quello non fosse più tempo da starsene a Napoli, e fuggirono il primo in Sicilia, il secondo all'alloggiamento di Championnet. La guardia urbana fu disarmata. Dell'esercito, che da Capua consegnata ai Francesi se ne veniva alla volta di Napoli, parte sbandatosi, cercò ricovero in mezzo ai Francesi, parte sotto il governo del duca di Salamandra, si unì alla plebe commossa, gridando: “viva la patria, viva Napoli, viva il re”. Fatti più arditi dal numero e dall'impeto, assaltarono rabbiosamente la guardia Francese al ponte di Rotto, e parte la ruppero, parte l'uccisero. Protestò Championnet per questo fatto, che i Napolitani avessero rotto la tregua, ed aperto l'adito all'ostilità, come se il tendere insidie, com'ei faceva, col tramare per mezzo dei novatori di far ribellare lo stato, e volgerlo a repubblica, non fosse peggior rompimento della tregua, che il violarla apertamente con le armi. Fuggiti Pignatelli e Mack, una licenza senza freno dominava Napoli sconvolta. In ogni parte erano assalti, depredazioni, incendi, e morti. Fulminavano i cannoni dai castelli, fulminavano ai capi delle strade. Fra le grida dei moribondi, fra le minacce degli uccisori si udivano, cosa che ad ognuno recava maggior terrore, “viva San Gennaro, viva la santa fede”. Durò gran pezza il tumulto spaventevole.

Stanco finalmente di far bottino e sangue, l'impazzato volgo s'avvedeva, che bisognava pensar ad altro, perchè il disordine ammazzava se, e l'ordine gli altri: s'avvisarono dunque di creare un capo, che gli ordinasse e difendesse. Elessero il principe Moliterni, figliuolo del principe di Marsiconuovo, giovane ardente, e che aveva dato segni di valore nelle fazioni di Capua contro i Francesi. Poichè fu eletto, gli facevano intorno le più pazze grida del mondo, ed ei se la godeva, perchè era ambizioso, ed aveva altre mire. Prima cosa, diede opera a piantar certe forche smisurate in parecchj luoghi con minaccia, che impiccherebbe chiunque si muovesse senza suo ordine. Poi creava ufficiali municipali, e capi del popolo, ed attendeva con manifesti e con bel comparire in pubblico a calmare quegli spiriti infieriti, e a dar qualche sesto alle cose. Ed ecco spargersi subitamente voce, marciare i Francesi contro Napoli; già essere giunti ad Aversa. Infatti Championnet, saputo il tumulto, ed i preparamenti fatti a' suoi disegni de' suoi partigiani, ed un altro accidente di tutti questi più efficace, che si racconterà poco appresso, non volendo trasandare la occasione, si avviava velocemente verso la commossa città. Fu Moliterni a parlamento con lui nei campi d'Aversa. Riportonne, che il generale di Francia non voleva udire proposta alcuna d'accordo, se prima non se gli dessero in mano i castelli, e non si togliessero le armi a chi non fosse soldato. Qui non è bisogno aggiunger parola, perchè per poco stette, che non facessero Moliterni a pezzi, e l'avrebbero anche fatto, se non si fosse schivato, gridandolo a furore assassino e traditore. Nè volendo più udire capo di sorta, meno ancora Moliterni, tornarono in sul saccheggiare, ed in sull'uccidere più fieramente che prima. Uccisero il duca della Torre, uccisero suo fratello, Clemente Filomarino, ambi rispettabili per ingegno e per virtù, maltrattarono con infami improperii Zurlo, ministro che era stato delle finanze. Nè più guardavano ai forestieri che ai nazionali: trucidarono un ufficiale di marina Inglese, trucidarono un fuoruscito Tolonese: facevansi della barbarie gioja. Un forestiero venuto loro in sospetto, alla porta di una bottega mani e piedi inchiodarono, e sì a colpi di scuri e di bajonette il martirizzarono. Lacombe San Michele, ambasciadore di Francia, essendo chiamato a morte dal popolo furioso, fu nascosto, e salvato da alcuni amatori del nome reale, che più risguardarono all'umanità che alle opinioni. I popoli sommossi penetrano bene la natura degli uomini, ai quali hanno dato il governo di se stessi, perciocchè il sospetto aguzza l'intelletto, e raddoppia l'attenzione. Certo è, che Moliterni non secondava più le intenzioni del popolo, tendendo i suoi andamenti ad affidare Napoli alla presenza ed al patrocinio dei Francesi, verisimilmente perchè credeva, che quello fosse il solo modo di salute che restasse. Per arrivare a questo suo fine, poichè nell'abboccamento di Aversa Championnet gli aveva affermato, che non entrerebbe, se prima non gli fosse assicurata la possessione del castel Sant'Elmo, aveva introdotto in questa fortezza molti de' suoi aderenti, e molti ancora che parteggiavano per la repubblica; ed inoltre armandone quanti più gli venne fatto di armare, gli aveva distribuiti nei luoghi più opportuni. Trovo consegnato nei ricordi delle storie, che, essendosi di ciò prima indettato con Championnet, abbia propagato ad arte la opinione fra l'acceso volgo, che era necessario andare ad assaltar i Francesi che venivano contro Napoli, con dire, che il picciol numero loro sarebbe facilmente oppresso dalla sopravvanzante moltitudine del popolo. Avvisavano Championnet e Moliterni, che il vincere i lazzaroni in Napoli tanto numerosi, coraggiosi, ed arrabbiati sarebbe stato piuttosto impossibile che difficile; perchè ogni casa sarebbe diventata per loro una fortezza, ed il sapere le strade era per loro di grandissima importanza, e le città, e le abitazioni proprie sono più patria, e con maggiore animo si difendono, che le campagne e le abitazioni aliene. Il combattere poi in paese piano ed aperto faceva ai Francesi, quantunque fossero in picciol numero, le condizioni migliori, perchè avevano qualche nervo di cavallerìa, artiglierìe meglio ordinate, più perizia di battaglie. Come era ordito il disegno, così riuscì l'effetto. Usciva il popolo più impetuoso, che esperto di battaglie, a combattere contro i Francesi, che per la speranza di Sant'Elmo, e di trovare in Napoli una parte forte in favor loro, ordinati si avvicinavano. S'affrontarono le due parti tra Aversa e Capua; ne seguitava una mischia molto tremenda. Prevalevano i Francesi per le armi e per l'ordine, prevalevano i Napolitani pel numero e pel furore. Durò per ben tre giorni con variati eventi la battaglia. Le artiglierìe di Francia fulminando in quelle spesse squadre, vi menavano uno scempio orribile, ed atterravano le file intere. Rimettevansi i lazzaroni, e più aspramente di prima menavano le mani, cercando di avvicinarsi, e di venire alle strette col nemico, per fare con lui una battaglia manesca. Le artiglierìe gli guastavano da lontano, le bajonette da vicino; ma le morti non gl'intimorivano, anzi piuttosto gl'infierivano. Nei due primi giorni ruppero parecchie volte i repubblicani; ma questi, come destri, e sperimentati soldati, tosto si rannodavano. Nè la notte arrecava riposo; perchè se al chiaro più si udivano le grida dei combattenti, al bujo più si udivano quelle degli straziati; e pure neanche di notte si perdonava alle ferite ed alle morti. Accresceva il terrore, che in tutti i villaggi circonvicini un suonare di campana e martello spesseggiava senza intermissione, ed i contadini accorrevano in folla variamente armati in ajuto dei cittadini combattenti. Non era guerra in un sol luogo, ma guerra dappertutto e dappertutto si versava sangue o per uccisioni agglomerate fra corpi grossi, o per uccisioni spicciolate fra masse vaghe ed erranti, e fra guerrieri isolati. Continuavano a Napoli le carnificine; vi si aggiungeva furore a furore. Fumavano al tempo stesso le incenerite terre dell'Abruzzo, del Sannio, e della Campania, che la rabbia di guerra, e la soldatesca rabbia avevano agli ultimi e più miserandi casi ridotte. Nuovi vespri siciliani, e nuove vendette di vespri siciliani si agitavano. Un Proni assassino guidava le genti arrabbiate, i curati coi crocifissi le animavano; solito costume dei civili furori, e delle popolari guerre. Fumava Castelforte arso da Rey: mescolavavisi alle fiamme il Napolitano sangue sparso dal capitano Francese, perchè tal era stata la resistenza, e tale la ostinazione dei difensori, che gli abbisognò prender d'assalto non solamente le mura, ma le case ad una ad una, dalle quali piovevano palle, sassi, travi, acqua, ed olio bollenti. Grondava sangue l'egregia Isernia per opera di Monnier irritato pel valore più che umano, col quale i terrazzani, ajutati dalla gente venuta dal contado, l'avevano difesa; d'assalto presa, fu sottoposta a quanto di più crudele, e di più empio sogliono pruovare le infelici città prese d'assalto; ma qui le abbominevoli cose furono anche maggiori, perchè era una guerra tra gente stimata nemica di Dio, e tra gente stimata assassina: nascevano opere da una parte e dall'altra più che di barbari. Le Caudine Forche superate con singolar valore ed arte da Broussier, tiepide ancor esse di sangue paesano ed estero, attestavano le battaglie valorosamente combattute da ambe le parti, ma più felicemente, che nell'antichità, dagli esteri, più infelicemente dai paesani. In questa guisa travagliavano al tempo medesimo gli Abruzzi, il Sannio, la Campania, e la popolosa Napoli. Città incenerite, turbe uccise, superstiti addolorati, un calpestìo di guerra tremendo tra Capua e Napoli, e dove mancavano le forze, suppliva il furore. Non mai i Francesi si trovarono ridotti a sì duro passo, nè mai con tanta valenzìa sostennero un urto di guerra. Infine un buon consiglio fece sopravvanzare i repubblicani. Championnet mandava Lemoine, e Duhesme a ferire con truppe fresche, strigatesi testè dagl'impacci dei monti, il fianco destro dei combattenti lazzaroni, i quali, affievoliti dalla fatica e dalla strage, andarono in volta, sparsi e sanguinosi riparandosi in Napoli.

Mentre nel raccontato modo si combatteva, Moliterni recatosi in mano, non solamente il castello di Sant'Elmo per mezzo de' suoi fidati, ma ancora quello dell'Uovo, vi aveva inalberato il vessillo tricolorito in segno di pace e di possessione verso Championnet. Spediva anzi a lui uomini a posta, perchè accordassero il modo di rimetter in poter suo la città. Tentò anche il castello del Carmine; gli fu sdegnosamente risposto dal presidio. Ma quando i lazzaroni superstiti alla passata uccisione videro sventolare su quei due forti le odiate insegne, tosto tornarono su i furori, e di nuovo prese le armi, si accingevano a voler impedire ai francesi la possessione. Facevano esortazioni, parte feroci, parte ridicole, ordinavano processioni di San Gennaro, si armavano, si rannodavano, s'incitavano: da capo ricominciarono a dire, che non temevano nè santi, nè diavoli, nè Francesi, e che non volevano repubblica, e che l'avrebbero veduta. Nè si rimasero alle minacce; perchè assaltato impetuosamente Capochino e Capodimonte, ne ebbero a viva forza cacciati i Francesi, che poi tornati più forti rincacciarono di bel nuovo i lazzaroni. A porta Capuana succedeva una battaglia asprissima, prima colla peggio dei Francesi, poi colla peggio dei Napolitani: magnifici edifizj incesi a bella posta per necessità dai Francesi. Facevano anche forza di entrare verso il palazzo reale per la protezione dei castelli Sant'Elmo, e dell'Uovo; ma i lazzaroni essendosene accorti, contrastavano con grandissima gagliardìa il passo. Pendeva tuttavìa in bilico la fortuna, quando ecco calare dai castelli Moliterni con le sue genti, ed assaltar alle spalle coloro, che loro capo l'avevano creato. Seguitava un durissimo combattimento fra i popolani ed i repubblicani, finchè questi superarono del tutto gli avversarj, cinti e bersagliati da tutte le bande. Allora i Francesi, benchè i lazzaroni ancora in quest'ultimo frangente fortificassero le strade con isteccati, e combattessero dalle case con ogni sorta d'armi, si fecero forzatamente strada sino al palazzo reale, e l'occuparono. Poco poscia un'altra squadra di Francesi preceduti da novatori del paese, s'introdussero per forza nella contrada principale di Toledo, e se ne fecero signori. Tuttavìa combattevano ancora sparsamente i lazzaroni con pericolo di sacco e d'incendio: il castel del Carmine appresentava un duro intoppo a superarsi. Per risparmiare il sangue, e terminar totalmente quelle moleste battaglie con altro che con armi, uomini astuti, per suggerimento dei novatori, insinuarono ai lazzaroni, che saria bene mandar a sacco il palazzo del re. A tale suono quegli uomini privi di tanti compagni uccisi, e straziati essi medesimi da tante ferite ricevute in difesa del re (io narro cose strane ma vere) si calarono, e rinunziando alle armi, misero in preda le reali spoglie. Alcuni dei Francesi fra i più perduti, che alla guardia del palazzo se ne stavano, si mescolarono coi rapitori Napolitani nella medesima infamia. Restava, che il castello del Carmine cedesse. Si venne all'assalto, perchè il presidio non volle mai udire parole d'accordo. Ostinatamente vi si difesero; pure infine il forte cesse in poter dei repubblicani: la sanguinosa Napoli tutta era in potestà loro. Ma rimarrà eterna memoria dello sforzo fatto da un popolo forte, il quale, ancorchè fosse privo di capi, per poco non metteva a distruzione un esercito famoso per tante vittorie, e l'avrebbe anche fatto, se alla forza non si fossero congiunte le insidie.

Il generale della repubblica fatto sicuro dell'acquisto di Napoli per l'occupazione dei castelli, mandava al pubblico, ch'egli frenava i suoi soldati, desiderosi di vendicare il sangue dei compagni morti nelle battaglie combattute contro gente prezzolata; che sapeva, essere i Napolitani un popolo buono, e che bene nel cuor suo si doleva degli strazj sofferti da lui: però rientrassero in se stessi, esortava, deponessero le armi nel Castelnuovo, e con questo conserverebbe la religione, le proprietà, e le persone salve ed intatte: al tempo stesso arderebbe le case, e darebbe a morte coloro, che contro i Francesi usassero le armi: se la tranquillità tornasse, dimenticherebbe il passato, e restituirebbe la felicità a quelle ridenti contrade. Partorì questo manifesto l'effetto, che Championnet se n'era promesso; Napoli fu ridotta in tranquillo stato, perchè tutti quietarono, chi per timore dei Francesi, e chi per timore del volgo. Ma siccome non bastava mettere in calma la metropoli, ma ancora abbisognava ordinare lo stato, seguendo Championnet il suo talento repubblicano, creava un governo, a cui chiamava venticinque persone, la più parte assai risplendenti o per dottrina, o per virtù, o per natali, o per tutte queste qualità congiunte insieme. I più amavano la libertà con animo sincero e benevolo. Alcuni, essendosi mescolati nelle congiure precedenti, erano stati dannati dal governo regio o all'esilio, o al carcere, o forse più ancora odiavano l'antico stato che amassero la libertà. Del rimanente uomini tutti, dico i Napolitani, sinceri d'opinione, continenti da quel d'altrui, e quanto degni di esser vissuti ai tempi antichi, tanto inabili a governar la nave dello stato in tempi tanto tempestosi. Furono quest'essi: Abbamonti, Albanese, Baffi, Bassal Francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano, Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riario, Rotondo. Partironsi, secondo il solito, in congregazioni, le quali avevano la potestà esecutiva, mentre tutti insieme collegialmente uniti usavano la legislativa. Fu diviso il regno, pure secondo il solito costume servile, in undici spartimenti. Chiamaronsi della Pescara con Aquila capitale, del Garigliano con San Germano, del Volturno con Capua, del Vesuvio con Napoli, del Sangro con Lanciano, dell'Ofanto con Foggia, del Sele con Salerno, dell'Idro con Lecce, del Brendano con Matera, del Grati con Cosenza, della Sagra con Catanzaro. Fatti gli spartimenti, crearonsi i distretti, poscia i municipj, ogni cosa a norma delle fogge Francesi: tutto questo chiamossi repubblica Partenopea.

Sono i Napolitani, siccome Greci, di natura molto acuta, trascorrenti nelle astrazioni, e misuratori delle cose secondo l'immaginazione, non secondo la realtà. Se si aggiunge la qualità molto favellatrice, sarà facile far concetto in quante reti ed andirivieni s'inretino e s'impaccino, sì che vogliano il bene, e sì che vogliano il male. Il persuadergli ed il ravviargli non è cosa agevole; perchè più ciò fare t'ingegni, e più si ravviluppano nelle astrattezze, e nel loicare, e finiscono con avvilupparvi anche te. Ora pensi il lettore, se sottilizzassero, e se oltre portassero quei principj politici di filosofia Francese, i quali starian forse bene fra uomini migliori di noi, ma in questa età, sono, pur troppo, come bei colori su legni fradici. Compiacevano a se stessi con immagini lusinghevolissime: la repubblica di Platone pareva loro non solo possibile, ma ancora non sufficiente; una maggior perfezione sognavano, e si promettevano. In queste chimere i migliori, ed i più sapienti avevano più capriccio degli altri. Cirillo, Conforti, Logoteta, Russo, e più di tutti Mario Pagano, dei quali e di molti altri compagni loro non si potrà mai tanto ammirare la virtù, nè piangere la fine, che non meritino molto più, erano nel sognare queste felicità singolarissimi. Nè le donne si rimanevano: la virtuosa, dotta, e sventurata Eleonora Fonseca Pimentelli risplendeva fra le prime, e, siccome donna, spandeva attorno di se raggi più soavi dell'amorevolezza comune. I più belli, i più cortesi, i più colti spiriti con esso lei conversavano, e già virtuosi, a maggiore virtù per le esortazioni ed esempio suo si accendevano. Platone dominava: dolcissimi affetti da sì copiosi fonti in ogni parte scorrevano e s'insinuavano. Io mi sento muovere ad una compassione grandissima pensando, che un sì felice immaginare, un sì pietoso desiderare, un sì giocondo ammaestrare s'abbattessero in un campo pieno di ire tanto sfrenate, di strazi tanto crudeli, di latrocinj tanto violenti, di uccisioni tanto disumanate. Parmi, quanto l'esile creatura umana immaginar può, che Dio avrebbe dovuto fare i buoni esenti dal contatto dei malvagi, e lasciar questi straziarsi da se: certo la funesta mescolanza mi spaventa. Sognava nella sanguinosa Napoli Pagano misero la felicissima repubblica: i lazzaroni intanto saccheggiavano, e gli Abruzzesi con le armi, con le mani, e perfino coi denti i Francesi laceravano, e con pari furore i Francesi gli Abruzzesi straziavano. Nè i romori tanto detestabili, che d'ogni intorno risuonavano di tradimenti, di morti e di rapine, potevano svegliare dal dolce sonno quegli uomini benevoli. Argomentavano sottilmente del bene e del meglio, quando il male ed il peggio signoreggiavano, e più s'accendevano nelle speranze, quando e più vi era luogo a disperazione. Non s'avvedevano, che il predominio era dei ladri e dei tiranni, e che i ladri ed i tiranni, gridando libertà, di loro e della libertà si ridevano. Ed essi pure con la mente occupata, come di malattia dolce ed incurabile, non se ne accorgevano, e traevano dietro alle utopìe. Età strana e feroce, che produsse i buoni per perdergli, i tristi per fargli trionfare. Queste cose abbiamo vedute in tutte le parti della desolata Italia, ma nella gigantesca Napoli più che in tutte. Là più santi corpi si ruppero, là più grossi rivi di sangue scorsero. La posterità ne avrà pietade e spavento insieme: gli uomini odierni o non sentono, o ridono, od applaudono, e pazzo chi vuol seminar fra di loro semi salutiferi. I frutti soavi son diventati veleni per l'infausta terra. Così il gridare virtù fia creduto bugia, il gridare vizio fia creduto verità, e la scorza civile, che ci copre, ben cela schifosi aspetti. Se un benigno risguardo del cielo non ci salva, il dispotismo fia stimato rimedio, perchè non si è saputo nè ordinare, nè usare, nè sopportare la libertà, ed a questo dolce fiore concorsero in troppo gran numero insetti pestiferi.

Di tale benevolenza, e di tali errori furono segnate le operazioni del governo nuovo di Napoli. Ma prima di raccontar le cose da lui fatte, necessario è per noi il descrivere, come Championnet operasse per solidare l'impresa nel regno. Era egli uomo dabbene, il che è qualche cosa più che uomo ingegnoso; perciocchè l'ingegno suo era piuttosto sufficiente che grande; ma come buono si rimetteva facilmente nell'opinione dei buoni, o di coloro che buoni riputava. Laonde, volendo far di Napoli altro che quello, che si era fatto di Roma, intendeva non solo a fondare la nuova repubblica, ma ancora a farle sostegno, non della forza, ma dell'amore. Chiamato il popolo a parlamento nella chiesa di San Lorenzo, bandiva solennemente in nome del governo Francese, e della grande nazione la libertà e l'independenza degli stati Napolitani, rinunziava ad ogni ragione di conquista, solo si riservava la facoltà di mettere per una volta tanto una contribuzione militare per dare a' suoi soldati i soldi corsi di sei mesi. Fu la contribuzione di settantacinque milioni, compresi dieci per la sola città di Napoli e contado; taglia assai grave, ma che avrebbero i popoli portato volentieri, se non fossero al tempo stesso stati costretti a dare il vitto ed il vestito a quei medesimi soldati, che già pagavano. Sapendo poi, quanto importassero in quei popoli ardenti le opinioni attinenti a religione, mandava una guardia d'onore a San Gennaro, e detto a chi l'aveva in custodia, ch'ei desiderava, che il santo facesse il miracolo, il santo il faceva, e i lazzaroni applaudivano, sclamando, non esser poi vero, che i Francesi fossero empj, come la corte aveva fatto spargere; nè mai si sarebbero risoluti a credere, che la volontà di Dio non fosse, che i Francesi stanziassero in Napoli, poichè in presenza loro si scioglieva il sangue del santo. Non ometteva il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli, a ciò esortato dal governo, e il faceva anche volentieri, di confortare con lettere pastorali i popoli ad obbedire alle nuove potestà, la libertà e l'egualità, come conformi ai precetti del vangelo, lodando e raccomandando. Queste cose mitigavano le opinioni contrarie, e vieppiù confermavano la quiete. Championnet mostrava in tutti i suoi discorsi, ed in tutti gli atti desiderio di alleggerire ai Napolitani il peso del forestiero dominio, e di fondare nel regno una repubblica libera e indipendente.

Aboliva il governo i diritti feudatari, ed i fidecommessi, e preparava per mezzo della congregazione legislativa la constituzione, che avesse a reggere la repubblica. Fu questa constituzione opera principalmente di Mario Pagano, ed in mezzo alla imitazione servile degli ordini di Francia vi si vedevano alcuni ordini nuovi di non poca importanza, e di utilità evidente. Fuvvi principalmente la potestà censoria commessa ad un tribunale di cinque, il cui carico fosse di vegliare, acciocchè i cattivi costumi si correggessero, i buoni si conservassero; fuvvi anche l'eforato, a cui doveva appartenersi la facoltà di veder, che la constituzione in tutte le sue parti salva ed intatta si conservasse, che i magistrati oltre i limiti delle potestà concedute dalla constituzione non trascorressero, quelli che trascorressero alla debita moderazione richiamasse, e gli atti oltre i limiti da loro emanati annullasse, che le riforme della constituzione dimostrate necessarie dall'esperienza al senato proponesse; di modo che l'atto annullato per decreto degli efori, quand'anche fosse legge promulgata dal corpo legislativo, nissuno più obbligasse, ed il corpo legislativo stesso obbedisse; gli efori solo quindici giorni all'anno sedessero, ed il seder di più fosse caso di stato; niun altro maestrato esercitar potessero; stessero in grado solo un anno; fossero eletti dal popolo in ogni spartimento della repubblica, ed uno per ispartimento, e non più si eleggesse. Potessero essere eletti all'arcontato, che era la potestà suprema per l'esecuzione delle leggi, se non dopo cinque anni, dappoichè erano usciti dall'eforato; al corpo legislativo, se non dopo tre: usciti, il titolo di eforo mai non portassero. Sono questi ordini dell'eforato degni di molta lode, ed atti ad impedire nelle repubbliche, ed anche nei governi regj, che hanno qualche parte di repubblica, molte gare e sovvertimenti civili. Certamente, ove fossero confermati dall'autorità del tempo, potrebbero arrecar grande giovamento agli stati liberi. Degni anche di commendazione furono gli ordini proposti per le scuole pubbliche, i quali, mutati i soggetti d'insegnamento, potrebbero utilmente accettarsi anche nelle monarchie. Queste cose trovava Mario Pagano nel suo ingegno; il resto, il copiava dalla constituzione Francese, dando in tal modo a conoscere e la capacità della sua mente, e la servilità dei tempi. Nè debbe essere passato sotto silenzio il ragionamento, che si leggeva preposto al modello della constituzione; opera in cui tutto l'acume dei Greci ingegni si discopriva, atti sempre a pruovare principj astratti con astrattezze maggiori.

Le astrattezze lusingavano gli uomini, le realtà gli sdegnavano; colpa, parte di Championnet, parte del governo, parte dei tempi. Era Championnet come abbiamo narrato, di natura buona, ma non aveva nervo tale, che potesse frenare i suoi, già avvezzi alla licenza negli stati Romani e Cisalpini: onde gl'insulti alle persone, anche ai magistrati, massime municipali, e le tolte violente erano frequenti. I popoli si sdegnavano. A questo si aggiungevano le intemperanze dei democrati più ardenti.

I baroni, come aristocrati, siccome gli chiamavano, erano scherniti con dileggi aminti, o provocati con ingiurie, il che gl'inimicava, e siccome quelli che avevano una grande dipendenza sì per le loro ricchezze, e sì per l'effetto degli antichi ordini feudatari, procuravano con arti e con istigazioni nemici potenti e numerosi alla nuova repubblica. Nè solo con inconvenienti dicerie si provocarono i baroni, ma nelle tasse sforzate, che per soddisfare ai conquistatori il governo metteva, erano con brutti arbitrj aggravati, come se la opinione, e non le sostanze si dovessero tassare. Nè altra libertà di stampa vi era, se non quella d'inveire contro gli aristocrati. Aveva il governo mandato nelle provincie per far capaci le popolazioni dei vantaggi del nuovo stato, gli amatori più vivi. Questi per leggerezza, e per fissazione conforme alla stagione, trascorrevano pur troppo in ischerni ed in minacce contro gli aristocrati, e contro i preti. Spesso ancora, stimando che nei casi straordinarj le facoltà straordinarie si dovessero usare, commettevano atti arbitrarj, ora privando altrui degl'impieghi, ora della libertà, cose tutte da far rovinare facilmente ogni più forte stato, non che uno tanto tenero sui principj come era il Napolitano. Seguitava a tutte queste un'altra peste, ed era quella dei ritrovi politici, in cui giovani infiammatissimi, ed invasati delle nuove opinioni, si adunavano a ragionare pubblicamente di cose appartenenti allo stato. Nè i mali prodotti in Francia da simili ritrovi gli rendevano savi, perchè con la medesima veemenza parlavano.

Bene ogni speranza di salute è spenta, ed il fondare uno stato buono impossibile, quando i cittadini son giunti a tale che l'amore della patria collocano nelle esagerazioni; perciocchè la natura delle cose è inflessibile e resiste, e se si può vincere, solo si può col vezzeggiarla, non con l'assaltarla. Ne seguitava, che, per le immoderate cose che si dicevano in quei ritrovi, i popoli si alienavano. Peggio poi, che non era cosa che gli energumeni, violenti in tutti i paesi, violentissimi in Napoli, non dicessero, per stravagante ed eccessiva che si fosse, contro il governo proprio, e contro coloro che il componevano. Il che toglieva agli uomini dello stato con la riputazione anche la potenza. Eppure era vero, che eglino erano per dottrina, per virtù, e per amore di patria dei più ragguardevoli del regno. Adunque queste moleste e brutte improntitudini dimostravano, il che non solamente si vide in Napoli, ma ancora in tutta Italia, che non l'amore della libertà, ma l'amore della potenza muoveva coloro che le facevano. Fatto il moto contro il governo antico per ambizione, volevano anche fare il moto contro il nuovo per l'ambizione medesima, e dove questa ambizione cupidissima fosse per arrestarsi, non si può affermare, se non forse là dove un solo di questi uomini sfrenati, spenti tutti gli altri, acquistasse il dominio. Quando prevale il costume che gli uomini più eccellenti sono stimati perfidi, vili, corrotti e tirannici, solo perchè occupano le cariche dello stato e tengono i magistrati, ogni libertà diviene impossibile, e lo stato è preda degli ambiziosi. Questa è stata la principale infezione della moderna Europa, e che fu ed è cagione che la libertà non vi si possa fondare, e non so, se i posteri più rideranno di lei per le sue pazzìe, o più la compatiranno per le sue disgrazie.

Tal era la condizione del governo Napolitano che odiato dagli aristocrati, biasimato dai democrati, oppresso dai Francesi, non aveva modo nè di riputazione nè di forza per operare, non che il bene della repubblica, alcun bene che fosse. Restava ai reggitori di Napoli un solo conforto, e quest'era la presenza di Championnet, sempre pronto, per quanto fosse in lui, a frenare la licenza de' suoi, ed a secondare gli sforzi di coloro, che più avevano in animo l'ordinare un buono stato, che il signoreggiarlo. Accadde, che il direttorio di Francia, il quale sapeva, che i guerrieri erano soliti a fare a modo loro, non a modo suo, aveva mandato a Napoli, per soprantendere ai frutti della conquista, una commissione civile, di cui era capo quel Faipoult, già mescolato nelle rivoluzioni Genovesi. Come prima ei giungeva a Napoli, stimando, che, quanto ai diritti di conquista ed alle esazioni, Championnet fosse stato troppo indulgente, pubblicava un editto, con cui dannando quanto il generale avea fatto, come se oltre i limiti della sua autorità fosse trascorso, affermava, che niun altro magistrato che la commissione civile aveva potestà di por le tasse, e che chi le pagasse in tutt'altra cassa, che in quella della commissione, male pagherebbe. Ad atto tanto ardito contro un capitano vittorioso non si sarebbe mosso Faipoult, se non avesse saputo, che già il direttorio cominciava a portar mala volontà a Championnet. Poscia più oltre procedendo ordinava, che in proprietà di Francia erano caduti per diritto di conquista tutti i beni appartenenti alla famiglia reale, spiegando, che in esso diritto cadevano non solamente quanto il re possedeva, come palazzi, ville, cacce e simili, ma ancora i beni Farnesiani, che erano di proprietà privata di Ferdinando, quei dell'ordine di Malta, i Costantiniani, i Gesuitici, quei destinati alle pubbliche scuole, i beni stessi dei banchi, che altro non erano che un deposito del denaro dei particolari, e tutte le casse pubbliche, e fino anche i decorsi delle contribuzioni. Così da Napoli si richiedeva un gran dispendio per l'esercito, e al tempo stesso gli si toglieva ogni fonte di rendita, per cui potesse supplire. Sdegnossi gravemente Championnet all'ardimento del commissario, e lo cacciava soldatescamente da Napoli. Era discordia tra i Francesi, discordia fra i Napolitani: tutti venivano in dispregio: il terrore delle armi solo sosteneva lo stato. Preparavasi in questo mentre un accidente molto grave contro i Napolitani. Era Championnet venuto in disgrazia del direttorio, perchè non contento allo aver rincacciato dallo stato Romano i Napolitani, avesse subitamente, non aspettati nuovi comandamenti, invaso il regno; le cose non essendo ancora rotte con l'Austria, e tenendosi ancora per gli Alemanni la fortezza di Ebrestein, forte propugnacolo di Alemagna, desiderava il direttorio di temporeggiare. A questa cagione dei tempi presenti se ne aggiungeva un'altra molto potente dei tempi futuri, ed era che Championnet si apparecchiava a fare una spedizione in Sicilia per torre al re quell'ultima parte de' suoi dominj; della qual cosa sperava poter venire facilmente a capo, sì per la poca forza che Ferdinando aveva in Sicilia, sì pel terrore impresso dalle sue armi, massime in su quel primo giungere, e sì finalmente per la efficacia delle opinioni, che credeva, che anche oltre il Faro si fossero introdotte. Le dimostrazioni di Championnet contro di quell'isola non erano segrete, e già aveva mandato soldati in Calabria sotto colore di combattere certe bande di regj, che scorrazzavano il paese. Questo intento toccava certi tasti molto reconditi. Il ministro Taleyrand voleva, che si facesse ai Borboni il minor male che si potesse. Fors'anche intrinsecamente nodriva il desiderio di vedergli ristorati in Francia. Alcuni suoi parenti, ricoverati in Sicilia, lo tenevano, siccome corse fama, con avvisi segreti bene edificato verso la famiglia reale di Napoli, ed instantemente gli raccomandavano il re Ferdinando. Per la qual cosa egli, che molto acconciamente sapeva far queste cose, accennando col direttorio in un luogo col pretendere il motivo, che bisognasse frenare quello spirito ambizioso di Championnet, e battendo veramente in un altro, aveva operato che il direttorio rivocasse il generale. A questa medesima risoluzione cooperarono i desiderj di Macdonald, che dopo l'invasione del regno, in cui aveva combattuto tanto egregiamente, ed acquistata principalmente Capua, se ne viveva in poca concordia col generalissimo; e siccome quegli, che uomo valoroso era, ambiva molto, e forse troppo di mostrarlo. Lasciate le sue squadre vincitrici, partiva Championnet libero da Napoli; ma, arrestato fra Napoli e Roma, fu condotto, prima nella cittadella di Torino, poi in Francia: il volevano processare sì per le anzidette cagioni, e sì per aver cacciato Faipoult. Prese Macdonald il governo supremo dei Francesi; tornò Faipoult in Napoli ad estenuare i miseri Partenopei.

Mentre si travagliava con poco frutto nella capitale per la repubblica, moti di grandissima importanza accadevano nelle provincie. Non amavano i baroni il nuovo stato, manco ancora i Francesi, e siccome tutti avevano bande di bravi, che da loro dipendevano, uomini audacissimi, ed alcuni facinorosi, le spingevano a tentare rivoluzioni contro coloro che dominavano. Gli ecclesiastici, che non ignoravano, che sebbene fossero vezzeggiati in quei primi principj del governo, erano da lui veduti malvolentieri, con le maggiori persuasioni che potessero, promuovevano le inclinazioni contrarie. Molti soldati vecchi del re, non essendosi voluti accomodare al dominio dei nuovi signori, si erano ritirati nei luoghi più lontani ed inaccessi: quivi attendevano a fomentare discordie e sollevazioni. A questi si accostavano molti altri uffiziali e soldati dell'esercito regio, i quali dopo di essersi dimostrati pronti a servire i repubblicani, da loro non curati, o per necessità per la penuria dell'erario, o perchè non se ne fidassero, si erano sdegnosamente partiti, e condottisi nelle province, quivi con le parole incendevano, e con la presenza animavano le popolazioni ad insorgere. Tutti questi erano anche confortati da qualche corpo di gente armata, che dopo l'occupazione di Napoli, o si erano ritirati interi, od erano mandati dalla Sicilia appunto coll'intento di sostenere quei moti, che si manifestavano sulla terraferma in favore della potestà regia. A questi motivi tanto potenti si aggiungevano i romori che correvano delle armate Turche e Russe, che dovessero fra breve arrivare nell'Adriatico con grossi soccorsi di genti da sbarco in favore dei regj. Era vero infatti che, conclusa la pace tra la Russia e la Turchìa, aveva un'armata Russa passato i Dardanelli, e congiuntasi con quella del gran signore si era impadronita di tutte le isole Veneziane dell'Arcipelago o dell'Ionio, aveva posto assedio alla principale di Corfù, e principiava a mostrarsi sulle spiagge del regno. Questi ajuti parte veri, parte ancora esagerati dalla fama, mirabilmente infiammavano i popoli a proseguire i disegni, che già avevano concetti. Tanto era l'odio che si portava al nuovo stato, che popoli cattolici, condotti da vescovi e da preti, volonterosamente si univano a genti scismatiche e maomettane per ispegnerlo.

Dimostravano quanto fossero deboli nelle province i fondamenti del governo nuovo i successi avuti nelle terre d'Otranto e di Bari da alcuni fuorusciti Corsi, che sulle prime avevano maggior desiderio di fuggire, che di combattere; conciossiachè trovavansi eglino in Taranto ad aspettare un vento propizio per Corfù o per Trieste, quando vi fu bandita la repubblica e per timore se ne fuggirono per la strada di Monteasi alla volta di Brindisi. A Monteasi, detto ad una donna che gli alloggiava, per procurarsi miglior servizio, essere con loro il principe ereditario, spargevasene la voce, un Girunda contadino, uomo di seguito nella terra, gli secondava, la provincia si levava a romore, tutti gridavano; “viva il re, muoja la repubblica”. Arrivavano questi Corsi, piuttosto portati dalle spalle dei popoli, che da se, a Brindisi, dove il supposto principe dava ordini; i popoli gli obbedivano, come se principe fosse. S'imbarcava per la Sicilia, promettendo di andare dal re suo padre, perchè mandasse genti soccorritrici alle fedeli popolazioni. Lasciava, come esecutori de' suoi comandamenti, due suoi generali, come diceva, i quali altri non erano che due oscuri Corsi per nome Boccheciampe, e de Cesare. Si fermava il primo nella terra di Otranto, sottomessa la città principale di Lecce; se ne giva il secondo a far tumultuare la terra di Bari, soggiogate in sul correre Martina ed Acquaviva, terre, che si erano scoperte favorevoli alla repubblica. Insomma il moto fu d'importanza: accorrevano buoni, e cattivi, nobili, plebei, laici, ecclesiastici, e da un accidente fortuito nasceva un gran fondamento a far risorgere in quelle parti l'autorità del re.

Quasi al tempo stesso sbarcava con poche genti a Reggio di Calabria il cardinale Ruffo, al quale il re aveva dato facoltà amplissime, chiamandolo suo vicario. Il secondavano il preside della provincia Winspear, e l'uditor Fiore. Scrivono alcuni, che il cardinale desse anche a voce, che fosse fatto papa. Ciò dissero di lui, perchè lo credevano capace di dirlo. Questo debole principio in poco spazio di tempo cresceva a dismisura, e produceva un moto, che fu cagione di accidenti di grandissimo momento. Primieramente nella ulteriore Calabria, per le aderenze che la sua famiglia vi aveva, trovava il cardinale molto seguito: poi qualche nervo di truppa reale gli si aggiungeva, e finalmente chi voleva il re, o le vendette, o il sacco, a lui cupidamente si accostava. Guadagnò prima le campagne, poscia le terre aperte, finalmente le murate, e tanto crebbe la sua potenza, che presi Mileto, Monteleone e Catanzaro, riduceva in poter suo tutta la Calabria ulteriore. Il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli, lo scomunicava, ed egli scomunicava l'arcivescovo. Nè contenendosi nelle parole, anzi seguitando il corso favorevole della fortuna, assaltava Cosenza, capitale della Calabria citeriore, e quantunque ella fosse una forte sede di repubblicani, dopo una battaglia assai feroce, se ne impadroniva. Prese, non senza una ostinata difesa, Rossano, prese Paola, bellissima città di Calabria, la prese, e l'arse per l'animoso contrasto fattovi dai repubblicani; quest'era la pessima delle guerre civili. Ruffo prevaleva; il terrore l'accompagnava, e gli dava in mano tutte le Calabrie insino a Matera. Quivi si congiunse con de Cesare, sommovitore della provincia di Bari.

Tumultuando le Calabrie, non si mostravano le province, anche le più vicine a Napoli, più quiete: gente sfrenata guidata da capi ancor più sfrenati commettevano, sotto specie di voler rinstaurare il governo regio, e difendere la religione, atti della più eccessiva barbarie. Uno Sciarpa antico soldato, uomo tanto audace, quanto feroce, aveva posto a romore le rive del Sele, tempestando fin sotto alle mura di Salerno, non che gl'importasse del re, ma, siccome quegli che si gettava volentieri ai partiti estremi, disprezzato dai repubblicani, ai quali si era offerto, si vendicava della repubblica sotto nome di affezione al governo regio. Fecero i Lucani quanto per loro si era potuto, per impedire la congiunzione di Sciarpa con Ruffo, ma si sforzarono indarno, perchè niun soccorso arrivava loro da Napoli; così le sommosse si dilatavano. Dalla parte della Campania era sorto in Sora un moto pericolosissimo, suscitato specialmente da un Mammone Gaetano, prima mulinaro, poi capo dei sollevati di Sora. Commise costui opere indegnissime. Uccise con palle soldatesche più di cento prigioni fatti in guerra, saccheggiò, ed incese più terre, che tutti gli altri capi delle sollevazioni insieme; aveva carceri orribili, inventava tormenti nuovi, e nuove fogge di morti: per avvezzarsi al sangue, come se bisogno ne avesse, beveva salassato il sangue proprio, si pasceva in cospetto di teschi sanguinosi, beveva in un cranio: si dilettava di lamenti d'uomini tormentati, purchè repubblicani fossero ed anche qualche volta, ancorchè repubblicani non fossero, e cercava pretesti per isfogare l'incredibile sua barbarie: questi erano gli stromenti, che ajutavano Ruffo a riporre in seggio il re. Dall'altra parte dell'Apennino incrudeliva Proni con le sue Abruzzesi bande, risorto a nuovo furore, perchè Duhesme e Lemoine si erano condotti sotto le mura di Capua e di Napoli. Ma la più pericolosa e più importante sommossa, dopo quella del cardinale, ardeva nella Puglia, sì perchè era molto grossa per se, sì perchè a lei si erano congiunti gli Abruzzesi, sì perchè alle Pugliesi rive avevano adito le armate Russe, Ottomane ed Inglesi, e sì finalmente perchè la Puglia per la feracità delle sue terre nodrisce la popolosa Napoli.

A questo modo, non ostante la gloriosa vittoria di Championnet, da Napoli in fuori, e da alcune rare terre nelle provincie, in cui i repubblicani si difendevano piuttosto con valore smisurato, che con isperanza di vincere, tutto il paese si era commosso a favore dal re, quantunque i modi, che si usavano, non fossero degni nè del re, nè di alcun altro governo che sia al mondo. Pressavano massimamente le cose della Puglia per motivo delle vettovaglie. Inoltre diminuivano i Francesi per tanto ardimento dei popoli, continuamente di riputazione, ed ogni giorno più si rendeva necessario, che con qualche nuovo e segnalato fatto mostrassero, che non era cessato in loro per le delizie di Napoli il valore, e che da quella opinione si riscuotessero, in cui erano venuti, che se san bene resistere e vincere gli eserciti giusti ed ordinati, non sanno parimente resistere e vincere, quando vengono alle mani con popoli sollevati. Per la qual cosa erasi deliberato Championnet (queste cose accadevano prima della sua partenza), a fare due spedizioni, una contro la Puglia, massime contro San Severo e Trani, dove erano le adunate più forti dei sollevati, l'altra contro la Calabria, quella principalmente per vincere, questa per contenere. Commetteva la prima alla fede ed al pruovato valore di Duhesme, che era suo aderente molto affezionato, la seconda al generale Olivier, dedito a Macdonald, emolo di Championnet. Accompagnava Duhesme, da parte del governo Napolitano con una legione Napolitana, ma con le compagnie ancor non piene, il conte Ettore di Ruvo, che già sopra abbiam nominato, giovane d'incredibile ardire, d'animo feroce, e capace di tentare qualunque più difficile e pericolosa impresa. Già fin quando era ancora in Napoli lo stato regio, si era il conte Ettore mostrato amante di novità, e mescolato in varie congiure, ancorchè fosse maggiordomo del re, e suo padre primo maggiordomo di corte. Era nemicissimo di Medici, aveva fatto stampare in Napoli la constituzione di Robespierre. Scoperte le sue trame, le quali anche poco ascondeva, per la sua natura animosa e temeraria, fu carcerato in castel Sant'Elmo per opera di Medici; ma una fanciulla, figliuola di un ufficiale del presidio, innamoratasi di lui, il calava con corde per le mura del castello, poi pel monte molto dirupato. Ricoverossi in casa di alcuni suoi parenti in Portici; poi per sentieri rimoti ed ermi arrivava a salvamento in Milano. Quivi, siccome quegli che molto entrante era ed animoso, piacque ai Francesi, e venne in grazia con Joubert, che conosciuta l'indole del giovane, giudicò, che fosse stromento potente a turbare, quando che fosse, le cose di Napoli. Infatti quando Championnet si mosse alla spedizione, Joubert mandò con lui il conte Ettore, e per mezzo suo fu facilitata la conquista del regno, massimamente quella della capitale. Ora il governo Napolitano, conoscendo la natura indomabile e irrequieta di quest'uomo, che sempre pasceva l'animo di pensieri smisurati, e si mostrava più inclinato a comandare che ad obbedire, il mandava con Duhesme in Puglia, dove erano le sue terre, sotto colore che trovandosi in paese proprio, e pieno di parenti e d'amici, vi facesse gente. Fecevi gente in verità, e per pagarla, poichè ai mezzi non guardava, ma solo al fine, e neanco se questo fosse giusto o no, che ciò poco gl'importava, pose taglie, e fece depredazioni incredibili, non considerando nè come, nè contro chi, o repubblicani, o regii che si fossero: soldati e denaro per pagargli, questo solo voleva. Il governo aveva qualche sospetto di lui: eppure era egli il solo uomo capace di puntellare quello stato cadente: l'avrebbe anche fatto, ma forse per se, non per la repubblica. Pure da cosa nasce cosa, e primo pensiero dei repubblicani doveva esser quello di tener lontano il re.

Accompagnava Olivier per alla volta della Calabria uno Schipani, piuttosto repubblicano ardente, che buon soldato, e non di natura tale, che potesse star a fronte dell'audace Sciarpa, e dell'astuto ed animoso cardinale. Se le guerre con le parole si vincessero, avrebbe questo condottiere repubblicano potuto vincere; ma altro è parlare in aringa, altro veder in viso il nemico, non ch'ei non avesse animo, che anzi era coraggiosissimo, ma non conosceva le guerre. Partivano Duhesme ed il conte Ettore: marciavano cauti per paura d'agguati e d'assalti improvvisi in un paese sollevato: marciavano spigliati e divisi per ispazzare largamente il paese: con loro, e con ciascuna schiera marciavano le diete, o vogliam dire i consigli militari, sempre pronti a dannare a morte gli autori delle sollevazioni. Molti presi furono, ed incontanente uccisi. Così dall'un cauto Duhesme ed il conte Ettore incrudelivano coi supplizi contro i regj, dall'altro Sciarpa, Mammone e Ruffo incrudelivano anche coi supplizi contro i repubblicani. Le ire erano crudeli, le vendette terribili; le ire chiamavano le vendette, le vendette le ire. Era disegno del generale Francese, prima, di pacificar il paese tra Napoli e la Puglia, poi di andar a disfare quella testa grossa di regj a San Severo. Aveva con se preti e vescovi, che predicavano per la repubblica, gli avversari avevano preti e vescovi, che predicavano pel re: il fanatismo religioso si mescolava alla rabbia civile. Marciava Duhesme spartito in tre colonne, una per Avellino, Ariano e Bovino alla volta di Foggia: l'altra per Arienzo, Benevento e Troia a Lucera: la terza, che era il retroguardo, per la strada di Arienzo, Benevento, Ariano e Bovino a Foggia. Troia, Lucera e Bovino, deposte le armi, si davano in potestà dei repubblicani. Foggia, che abbondava di repubblicani, lietissimamente riceveva i Francesi. Barletta e Manfredonia, che assaltate dai regj pericolavano, furono preservate. Ma tumultuavano tutti i popoli all'intorno per le speranze di San Severo, nè altre terre possedevano i repubblicani che quelle, in cui avevano le stanze. Perlocchè si deliberava Duhesme ad andare all'assalto di San Severo, perchè, distrutto quel nido principale, sperava, che gli altri si sottometterebbero. Erano i regj in San Severo grossi di dodici mila combattenti fra soldati vecchi, e gente collettizia. Prese le stanze sopra un monte fecondo di ulivi, dominavano tutta la pianura sottoposta, che avevano assicurata con cavalleria e cannoni piantati contro la stretta, che alla pianura medesima apriva l'adito. Accorgendosi i regj che i repubblicani si distendevano a sinistra per assaltargli di fianco ed alle spalle, si calarono con grandissimo ardire, ed attaccarono con loro una sanguinosissima battaglia. Da sì sfrenati sdegni credevano alcuni dover sorgere il governo regolato del re, ed il governo libero della repubblica. Durò lunga pezza la battaglia con grave uccisione da ambe le parti, perchè il valore era uguale nei due eserciti nemici, e se prevalevano i regj di numero, prevalevano i repubblicani di perizia. Infine andarono i primi in volta per lo scontro più efficace delle genti regolari, e già al punto stesso il generale Forest arrivava loro alle spalle. Allora fuvvi piuttosto carnificina che uccisione, perchè i regj avviluppati e rotti male si potevano difendere, ed i repubblicani con una rabbia incredibile intendevano ad ammazzare. Tre mila sollevati vi perdettero la vita: tutti, o la più parte, l'avrebbero perduta, se una moltitudine di donne e di fanciulli in abito squallido e lugubre, miserando spettacolo, non fosse venuta a chiedere umilmente ed instantemente al vincitore la vita dei padri, dei mariti e dei figliuoli loro. Piegavasi Duhesme a misericordia, quantunque fosse molto sdegnato, e comandava che cessassero le ferite e le morti. Senza questa pietà nuova, intenzione era di ardere San Severo, nel che aveva anche per confortatore il conte di Ruvo, perchè ed era San Severo sede principale della sollevazione, ed avevano i San Severini, per la rabbia delle opinioni, ucciso alcuni preti ed il vescovo stesso, perchè parteggiavano pei Francesi e per la repubblica; ma il fatto parve a Duhesme troppo orribile, essendo San Severo terra grossa e fiorita, però se ne rimase mosso anche dai pianti e dalle preghiere degli abitatori.

La fama della vittoria di San Severo ridusse ad obbedienza le contrade vicine, il monte Gargano, i monti Liburni, Corvino e Lecce stessa: aperse anche le strade per Pescara, cosa di molta importanza pei Francesi. Restava in poter dei regj la città di Trani, con la quale ancora consentivano Andria e Molfetta. Le nimichevoli inclinazioni erano tenute vieppiù vive dalla vista delle navi Russe e Turche, che correvano l'Adriatico. Avrebbe desiderato Duhesme acquistare quelle terre alla repubblica; ma dappoichè licenziato Championnet, aveva Macdonald assunto il governo, non solo Duhesme era stato richiamato dalla Puglia, ma ancora gli fu comandato che ritirasse le genti appresso a Napoli. Le quali cose saputesi dai regj, inondavano di nuovo la provincia, e tagliavano le strade della Puglia a Napoli. Solo Foggia continuava a tenersi, per la forza dei repubblicani che vi erano dentro: pure era in pericolo di perdersi, se non si soccorreva. Fu ben forza allora, se non si voleva che Napoli affamasse, il pensare a riconquistar le terre perdute, ed a rompere quella testa di regj, che si era adunata in Trani. Era Trani, come anche Andria, munita con fortificazioni vecchie e nuove: le porte, eccetto una sola, murate, e chiuse con un fosso ed un parapetto, le contrade rotte, e serrate con fossi e con isteccati, le case merlate, le porte abbarrate, pieno tutto d'uomini armigeri, rabbiosi e risoluti al difendersi. S'incominciava l'assalto da Andria; in tale modo Broussier, al quale era commessa la cura di tutta questa impresa, l'ordinava. Doveva il conte Ettore, che era intento in questo fatto per esser Andria sua patria (le cose che fece, e che disse quest'uomo tremendo, secondo l'impeto delle sue cupidità, e tirato da fini smisurati, non si potrebbero raccontare così facilmente), assaltare con la sua legione, e con pochi Francesi la porta Comozza, Ordonneau quella di Barra, Broussier quella che accenna a Trani: ad estremo pericolo era per succedere estrema barbarie.

Incominciò la battaglia con furor civile da ambe le parti; gli assalitori combattevano con egregio valore, ma con non minor animo si difendevano gli assaliti; nè i primi facevano frutto di momento. Già venivano alle scale, cimento per essi molto pericoloso, quando il tirar di un obice atterrava la porta di Trani. Precipitaronvisi i Francesi condotti da Broussier; a loro si accostavano i Napolitani condotti dal conte Ettore, ed i soldati stessi di Ordonneau, che avevano fatto infelice pruova delle loro armi per la ostinata resistenza dei difensori alla porta di Barra; fattosi da tutti insieme un impeto, entrarono sforzatamente. Continuarono ciò non ostante a difendersi furiosamente da tutte le case i regj, scagliando dai tetti e dalle finestre ogni sorte di armi sopra gli odiati repubblicani. Ogni casa era fortezza, i difensori più che uomini. Non venne la città intieramente in poter dei repubblicani, se non dopo che tutte le case, le contrade, le piazze furono piene di cadaveri e di sangue. Nè tante morti, nè tanto sangue bastarono: non fu contento il destino, se non alla distruzione totale della misera terra. Irritati i vincitori dalla resistenza, dalle ferite proprie, e dalla morte di tanti compagni, fecero quello da che avrebbero dovuto abborrire, e che quantunque sia solito a vedersi nelle guerre civili, e nelle piazze prese d'assalto, non iscusa per questo, anzi accusa la barbarie degli uomini. Seimila Andriotti furono in poco d'ora mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i vecchi, le donne, i fanciulli soli, e neanco tutti, furono risparmiati. Le ceneri e le ruine d'Andria attesteranno ai posteri, che gl'Italiani non son vili nelle battaglie, e che la umanità era del tutto sbandita dalle guerre civili di Napoli. Forestieri antichi, forestieri moderni, e talvolta i paesani stessi straziarono l'Italia, e se ella è ancor bella, certamente non è colpa degli uomini.

Trani tuttavìa si teneva pei regj, nè lo sterminio d'Andria l'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con ottomila difensori usi alle armi, ed accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva piuttosto atta a pigliarsi per assedio, che per assalto. Ma il tempo stringeva, ed i repubblicani, sì Francesi che Napolitani, erano pronti a qualunque più pericolosa fazione. Andavano all'assalto di Trani nel seguente modo ordinati da Broussier. I Napolitani da una parte, una banda di Francesi dall'altra facevano le viste di dare la batterìa sui fianchi, mentre Broussier conduceva i suoi a dare il vero assalto all'altra parte della terra. Ma i regj, essendosi accorti del disegno, si assembrarono grossi ad aspettarlo al luogo destinato. Ardeva la battaglia, e succedevano molte morti, senza frutto alcuno per l'esito del fatto, da ambe le parti. In questo mezzo tempo i difensori, tutt'intenti a tener lontani dalle mura gli assalitori, indebolirono le difese di un fortino situato a riva il mare: della quale occasione prevalendosi tosto i repubblicani, se n'impadronirono, e voltarono i suoi cannoni contro la città. Questo grave accidente sconcertò le difese: già i repubblicani, non senza però molto scempio loro, perchè si sforzavano contro una tempesta assai fitta di palle, saliti sulle mura facevano inchinar la fortuna a loro favore. Tuttavia i regj continuavano a difendersi ostinatamente, essendo, come in Andria, ogni casa ed ogni contrada fortezze. Sarebbe stata ancor lunga e sanguinosa la battaglia, se Broussier non avesse avvisato di far salire, rotte le porte delle prime case, i suoi sopra i terrazzi, che coronano per l'ordinario le case in quei paesi. Per tale modo di terrazzo in terrazzo andando, dall'alto all'imo combattendo, i repubblicani sforzavano i regj a sgombrare successivamente le case, e già da quei luoghi sublimi si avvicinavano al grosso forte di Trani. Come poi accosto a lui furono giunti, si attaccò fra di loro ed i difensori che dai luoghi superiori del forte combattevano, una battaglia strana e quasi aerea. Sparso molto sangue in una pertinacissima difesa, i regj, assaliti donde non aspettavano, abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi, che nel porto erano allestite, per fuggire. Ma nemmeno in questo trovarono scampo; poichè Broussier, avendo preveduto il caso, aveva armato alcune navi, che vietarono loro il passo. Alcune delle regie furono prese per assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi fuggiva sul lido era senza misericordia, e remissione alcuna ucciso dai trionfanti repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data al sacco ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli, che o portavano, o potevano portar armi, mandati a fil di spada; carnificina orribile di guerra civile, nè fia l'ultima che noi avremo a raccontare. Quietava, ma non del tutto, la Puglia per queste vittorie; nuove adunazioni di genti regie si facevano a Bitetto ed a Rutigliano, non molto minacciose pel presente, molto per l'avvenire.

Schipani mandato a combattere i sollevati, ed a sopire le cose di Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e conflisse infelicemente, ed irritò con parole ed atti repubblicani molto estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo provocasse. Prese sul primo impeto Rocca di Aspide e Sicignano; ma assaltata la terra di Castelluccio, forte pel sito, e per la pertinacia di chi la difendeva, ne fu risospinto con grave perdita di soldati e di riputazione. Per questo infelice caso non gli giovarono gli sforzi di Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, e Capaccio, terre che parteggiavano fortemente per la repubblica, e fu costretto a ritirarsi. I sollevati di questa provincia ebbero facoltà di unirsi con le bande del cardinal Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le Calabrie e la terra di Bari sollevate a romore impugnavano coll'armi in mano la recente repubblica. Nè i Francesi potevano porvi rimedio, perchè non si fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della città stessa di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo, pensavano piuttosto a mantenersi nella capitale, che a conquistare le provincie. Schipani, tentate invano le Calabrie, se ne giva a far guerra contro i sollevati di Sarno, che più vicini a Napoli tumultuavano. Vi fece opere repubblicane secondo i tempi; esortava, confortava, esaltava il governo della repubblica, e per passatempo ardeva i ritratti del re e della regina dove gli capitavano alle mani. Ma fu lasciato dire, e i popoli gridando viva il re, lo combatterono per guisa che fu costretto ad andarsene. Vi si condussero i Francesi; saccheggiarono Lauro, poi se ne tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed i Lavriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di Salerno, e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del regno. Accresceva il pericolo l'avere gl'Inglesi occupato, non senza un valoroso fatto di Francesco Caracciolo, che gli combattè per molte ore, le isole d'Ischia e di Procida, che, per esser situate alle bocche del golfo di Napoli, ne danno la signorìa a chi le tiene. Così ardeva la sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno, e s'incominciava a temere, che l'impresa di Championnet fosse stata più imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da ambe le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regj poscia i repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le case, e gli edifizj tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era questa, siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima degli abitatori e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli contro i padri, fratelli contro i fratelli, e perfino mariti contro le mogli, e mogli contro i mariti. Nè i preti si ristavano; perchè preti repubblicani, combattevano contro preti regj, preti regj contro preti repubblicani, e la croce, ed il vessillo di Cristo l'uno contro l'altro cozzavano nelle sanguinose battaglie. Pretendevano questi e quelli parole di vangelo alla impresa loro, gli uni chiamandolo pieno di precetti democratici, gli altri affermando, che quel dettato divino aveva statuito, niun'altra cosa essere al mondo, che chiesa e Cesare, e quello che della chiesa non è, essere, non del comune, ma di Cesare. Per atterrire chi atterriva, Macdonald mandava fuori addì quattro marzo un aspro e furioso decreto, nuovo esempio del quanto le rivoluzioni stravolgano gli uomini.

Incominciato con dire, sapere, che uomini prezzolati dagl'Inglesi, e dai furti di una corte infame e perfida, correvano le città e le campagne per traviare il popolo, e stimolarlo alla ribellione, e che preti fanatici ordinavano trame per ispegnere il governo, ed ammazzare i repubblicani, veniva ordinando, che ogni comune che si sollevasse, sarebbe tassato soldatescamente e soldatescamente trattato; che i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i parochi, e tutti gli altri ministri della religione, fossero tenuti personalmente dei tumulti e delle ribellioni; che ogni ribelle preso coll'armi in mano fosse incontanente fatto passar per l'armi; che ogni prete, o ministro della religione che fosse arrestato in qualche unione di sollevati, fosse anch'egli fatto morire senza processo; che fosse autorizzato il governo ad arrestare i sospetti; che chi denunziasse, o facesse arrestare un fuoruscito Francese, od un agente dello scaduto re di Napoli, avesse una larga ricompensa, ed il suo nome non si palesasse; che similmente chi un magazzino segreto di armi sì da fuoco che bianche denunziasse, si ricompensasse; che quando battesse la raccolta, ognuno tostamente si ritirasse; che in caso di terrore improvviso le campane non si potessero suonare, e ne andasse la vita a chi le suonasse, ed essere a ciò tenuti tutt'insieme i preti, i religiosi, e le religiose; che chi spargesse false novelle, fosse punito come ribelle, e chi le propagasse, come sospetto si arrestasse e si esiliasse; che a chi fosse dannato a morte, si sequestrassero e confiscassero i beni sì mobili che stabili a benefizio delle repubbliche Francese e Napolitana; che ogni licenza di cacciare si intendesse abolita, e chi fosse trovato con un fucile da caccia, come ribelle fosse punito; che di nuovo egli protestava, e confessava di portar rispetto alla religione ad al culto, e prometteva, che sotto la protezione vivrebbero sì i suoi ministri, come le proprietà e le persone; che infine i magistrati eseguissero questi suoi comandamenti, ed i parochi gli leggessero dal pulpito. Nè contento a questo pubblicava il generalissimo Macdonald il dì nove del medesimo mese un manifesto molto eccessivo contro il re per animare i popoli a difendersi contro le truppe ed i sollevati regj; imperciocchè il re aveva fatto sapere, che fra breve sarebbe tornato nel regno.

Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani instituiti in Italia, e contro i Francesi, si accresceva vieppiù dalle sommosse, che nate ora in un luogo ed ora in un altro travagliavano lo stato Romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini, ed impedivano le strade fra Terni e Spoleto, e quantunque il generale Grabruschi co' suoi Polacchi si affaticasse per sottomettergli, non poteva venirne a capo, perchè spenti in un luogo pullulavano in un altro, e già Rieti pericolava. Civitavecchia si era ribellata contro i nuovi signori; durò un pezzo il generale Merlin a sottometterla, ancorachè con palle infuocate la combattesse. Stroncone, e Alatri parimente romoreggiavano; Orvieto anch'esso aveva fatto mutazione, ed ostinatissimamente si difendeva contro i repubblicani. L'incendio si dilatava: ogni luogo era o mosso con le armi impugnate, o poco sicuro anche nella quiete.

Non ostante i pericoli, che correvano, il direttorio di Francia, o non curandogli, o facendo sembianza di non curargli, si era risoluto a far mutazioni nel governo di Napoli. Sapeva, che il commissario Faipoult non era grato all'universale, e che Championnet sul suo primo giungere non aveva ordinato le cose per modo che nè per l'opinione nè per la forza potessero partorire quegli effetti ch'egli desiderava. Si aggiungeva, che le grida, le vociferazioni, le calunnie di coloro che ambivano le cariche, contro quelli che le avevano, e principalmente contro i membri del governo, avevano fatto perder loro, od almeno ai più, ogni riputazione. Tutto questo considerando il direttorio, aveva mandato a Napoli un uomo pratico e dabbene, acciocchè riordinasse ogni cosa, e con le virtù sue rattemperasse gli sdegni produtti dalle insolenze dei precedenti commissari ed agenti, rimedio buono, se fosse stato accompagnato dalla libertà, non in parole, ma in fatti, e se fossero stati lontani i pericoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario del direttorio, il quale prevalendosi dei buoni si sforzava di consolare gli uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle finanze, e fecene delle lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava; gli ordini politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo di Francia, non avuto alcun riguardo al modello della constituzione proposto dalla congregazione Napolitana, e di cui abbiamo sopra parlato. Creò fra gli altri un direttorio, imitazione servile. Ma quel che l'ordine aveva in se di cattivo correggeva con le persone. Chiamovvi Ercole d'Agnese, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe Albanese, e Melchior Delfico, uomini tutti migliori dei tempi, e di non ordinaria virtù. Certamente, se i fatti non fossero stati tanto contrari, e se una nuova piena non fosse venuta a sobbissare l'Italia dal settentrione, avrebbe questo buon Francese corretto in Napoli quanto il soldatesco furore, e la civile cupidigia vi avevano guasto e corrotto. Diede egli pruova notabile, tacendo le altre, dell'animo suo civile, quando Macdonald mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi casi Sorrento, patria di Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e Salernitane rivoluzioni si era levata a romore contro i Francesi; imperciocchè operò col generale che la casa dei discendenti della sorella del poeta, quando la terra fosse presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse. Diè molto volentieri Macdonald, ed a modo di generosa gara con Abrial, ordini accomodati al comandante della fazione, acciocchè l'effetto seguisse. Fra le uccisioni, gl'incendj e le ruine dell'infelice Sorrento, pruovarono i discendenti del cantore di Goffredo, quanto potessero in animi civili la memoria, ed il rispetto verso quel principal lume dell'Italiana poesia. Vollero riconoscere la conservata salute, offerendo a Macdonald, perchè non sapendo di Abrial, a lui la riferivano, il ritratto del Tasso dipinto dal vivo, come si crede, da Francesco Zuccaro. Il ricusava Macdonald, facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del benefizio, ed essa, l'immagine del poeta salvatore ad Abrial offerendo, pagava con segno di gratitudine unico al mondo un immenso beneficio. L'accettava di buon animo Abrial, e molto caro se lo serbava, e tuttavia serba, dolce e pietosa conquista; e volesse pure il cielo, che i repubblicani di Francia non altre conquiste che di questa sorte avessero mai fatte in Italia!

Il piacer non dura nello scrivere le storie dei nostri tempi. Restava, che i due fiori d'Italia, dico Lucca e Toscana, si guastassero. Di Lucca dirò adesso, di Toscana più sotto. Entrava sul principiar dell'anno in Lucca accompagnato da quattrocento cavalli Serrurier, che tornava dalla Toscana: tosto si pubblicava le solite lusinghe dell'esser venuto non per distruggere il governo, ma per fare, che si portasse rispetto alle persone, alle proprietà, ed alla religione, come se queste cose non si rispettassero in Lucca, e bisogno avessero di soldati forestieri, perchè si rispettassero. Il fine primo, ma non primario, dell'invasione Lucchese era il pretesto di due milioni di franchi, che dai Lucchesi si richiedeva, pei servigi dell'esercito: poi si voleva venire alla mutazione del governo, benchè le parole suonassero in contrario; nè pareva, nè era cosa possibile, che in mezzo a tante romorose democrazìe una quieta aristocrazìa si conservasse. Già Lucca era serva, poichè l'antico governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno, se non appruovato da Serrurier: quest'era il rispetto che si portava all'independenza. Miollis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà di gennajo tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna, addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello stato popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e forestiere.

Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che deliberanti, e cedendo al tempo, stanziarono, che fosse abolita la nobiltà, che il popolo Lucchese riassumesse la sovranità, che dodici deputati si eleggessero per ordinare una constituzione democratica secondo il modello di quella, che reggeva Lucca prima della legge Martiniana. Furono eletti Giacomo Lucchesini, Paolo Garzoni, Cosimo Bernardini, Alessio Ottolini, Lelio Manzi, Vannucci, Pellegrino Frediani, Rustici, Pio Poggi, Paoli, Samminiati, Francesco Burlamacchi; la maggior parte nobili, che non erano alieni dal voler ritrarre lo stato ad una forma repubblicana più larga, ma conforme piuttosto agli ordini Lucchesi che ai Francesi. I democrati pazzi non vollero udire parole Italiche; però fecero accettare le forme Francesi. Nacquero adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a Milano, a Genova, a Roma, i due consigli col direttorio. Incominciossi a dar mano a spogliar l'erario di denaro, le armerìe di armi, i granai di vettovaglie, in poco d'ora i frutti dell'antica e mirabile provvidenza Lucchese furono dissipati e guasti: le vettovaglie si mandarono in Corsica ad uso dei presidj, le artiglierìe, sopra tutt'altre bellissime, a far corpo con quelle dell'esercito Francese, massime ad assicurare il golfo della Spezia. Lucca serva principiò a parlare con lingua servile, e non so, se sappiano più di adulazione, o di sconcio di lingua Italiana gli atti del governo Lucchese di quei tempi. Quindi vi sorsero le parti, perchè chi voleva vivere Lucchese, e chi unito alla Cisalpina. Si arrosero le solite tribolazioni di dover vestire, pascere, alloggiare, pagare i soldati forestieri, che andavano, e venivano, o stanziavano, ora Liguri, ora Cisalpini, ora Francesi, con molte altre molestie, accompagnature insolenti del dominio militare. Brevemente la fiorita ed intemerata Lucca divenne sentina di mali, e ne fu desolata. Questo le fecero i repubblicani, prima per darla in preda a se stessi, poi per darla in preda ai re.

Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione del re, un governo ch'io non so con qual nome chiamare, poichè nè monarcale nè aristocratico era, e manco ancora democratico, si conobbe tostamente, che le recenti mutazioni non erano a grado dei popoli. I soldati massimamente non vi si potevano accomodare, perchè ed erano avversi per le passate instigazioni ai soldati Francesi, e questi, in grado di vinti tenendogli, non gli trattavano di compagni. La qual cosa gli muoveva a sdegno grandissimo. Si aggiungevano le solite insolenze, che infiammavano a rabbia un popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era adunque in Piemonte quiete apparente, e sostanza minacciosa. Parve principalmente a tutti cosa enorme lo spoglio fatto, come già abbiam narrato, non da Piemontesi, del palazzo del re coll'averne rotto i suggelli. Venne il governo, per non aver potuto impedire un fatto sì grave, in voce di quello che era veramente, cioè di servo d'altri, e fu tolta fede alle sue parole. Il suo buon concetto diminuiva anche l'avere mandato in sul primo sorgere, i capi di famiglia della primaria nobiltà, come ostaggi, a Grenoble. Mandovvi fra gli altri Priocca, mandovvi quel Castellengo, vicario di polizia in Torino. Priocca se ne viveva molto modestamente nella capitale del Delfinato; Castellengo, per istinto, spiava ogni cosa, ed il bene ed il male, e più ancora il male che il bene, investigatore assiduo di mercati, di taverne, di bische e di ritrovi sì pubblici che privati; uomo veramente di abilità singolare nel conoscere gli uomini fu costui, ed i repubblicani ebbero torto a non vezzeggiarlo; ma essi erano meri partigiani, e dello stato non s'intendevano.

Grande scapito poi alla riputazione di chi reggeva aveva recato la faccenda dei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne il valore, poi il risecava dei due terzi, il che fu grave ferita a coloro che gli possedevano. Bene, e necessario era il farlo; poichè il debito dello stato era tanto enorme, che lo spegnerlo, o diminuirlo in altro modo, si vedeva impossibile: ma quell'aver detto di non voler fare quello, che pochi giorni dopo fece, il rendè disprezzabile. Questi biglietti erano una perpetua molestia, perchè scapitando sempre del loro valore, anche ridotto, la fede dei contratti si contaminava, le casse dell'erario accettandogli al valor legale, ne venivano a scapitare della differenza. Per ajutarsi dei beni ecclesiastici a spegner questi biglietti, il governo gli vendeva, ma il mezzo non bastava per ritornare questa molesta carta all'intera riputazione, e sempre disavanzava. Non si omisero, ma indarno, vari altri rimedi: infine si voltarono, come lettere di cambio, ai ricchi, massime a quelli che si erano dimostrati più accesi in favore dell'antico stato, ed essi erano per legge obbligati ad obbedirgli con pagarne la valuta, e si compensassero coi beni della nazione. Riuscì di qualche efficacia il temperamento, ma sopravvennero nuove mutazioni, e non ebbe se non debole effetto. Sobbissava il Piemonte pei debiti, nè poteva bastar alle spese. S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi, del vestito, del cibo, delle stanze, dei passi pei soldati forestieri. Rovinava a precipizio lo stato: in tre mesi, sebbene si estremassero le spese pei servigi Piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata ed in sostanze, meglio di trentaquattro milioni. A qual fine si andasse, nissuno il sapeva; il mancar di fede era inevitabile: si prevedeva, che altro fra breve non sarebbe rimasto ai Piemontesi, se non le terre, e queste ancora incolte; se non le case, e queste ancora guaste. La desolazione e la solitudine erano imminenti.

Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già abbiamo detto in parte ciò, che rendeva il governo poco accetto. Seguitava, che i municipali di Torino, imitando in questo quei di Parigi ai tempi della rivoluzione, l'emolavano, e traevano con se molto seguito. A questo erano stimolati da alcuni repubblicani Francesi in grado, i quali si lamentavano di non aver avuto dal governo Piemontese quelle ricompense, che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine.

I musei intanto, e le librerìe si spogliavano: rapivasi la tavola Isiaca, rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio, e quanto si credeva poter ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In mezzo a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci, ed il conte Laville deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della data libertà, il tenessero bene edificato, ed esplorassero qual fosse il suo pensiero intorno alle sorti future del Piemonte. S'appresentarono anche per mandato espresso al conte Balbo, perchè si era udito dei denari mandati dal re al suo ambasciadore, del conto del ricevuto denaro richiedendolo. Rispose, al re solo potere e volere render conto; nè volle riconoscere le mutazioni fatte in Piemonte. Fu l'intromessione del conte Balbo molto utile al re in Parigi, nè bisogna giudicare dell'operato dall'evento; perchè i tempi troppo furono contrari, e se corruppe alcuno con denari, il che non è da lodarsi, maggior biasimo meritano coloro, che si lasciarono corrompere. Non era alieno il conte dall'amare un reggimento più largo, ma più per ragione che per indole, perchè per questa amava piuttosto i reggimenti stretti: non credeva una moderata libertà biasimevole, ma detestava con tutti i buoni il modo, col quale in Francia si era voluto recare ad effetto. Del resto uomo d'ingegno non mediocre, letterato di valore, dotto anche in materie scientifiche, affezionato alle lettere Italiane, amico ai letterati, amatore del giusto, conoscitore della natura umana, erano in lui tutte le parti, che in chi s'ingerisce nello stato si richieggono, se non forse una grande pertinacia non le guastava, quando però non si voglia credere, ch'ella, come spesso la sperienza dimostra, sia anche una delle buone. Questa tenacità medesima usava nella comune vita, e perciò le sue affezioni, come le avversioni, fondate o no, erano indomabili.

Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione fu sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che si era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di nobiltà, e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello.

Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti Piemontesi, si moltiplicavano, e s'inasprivano. Chi voleva esser Francese, chi Italiano, chi Piemontese. I primi argomentavano dalla servitù delle repubbliche Italiane, dalla potenza della Francia, dalla vicinità dei luoghi; i secondi dalla bellezza del nome Italiano, dalla lingua, e dai costumi; i terzi dall'antichità, e dalla fama dello stato Piemontese, dagli ordini suoi tanto diversi da quei di Francia e d'Italia, dal suo esercito tanto valoroso, che si conveniva conservare col proprio nome. Si viveva in queste incertezze, quando arrivava da Parigi l'avvocato Carlo Bossi, uno degli eletti al governo. Risplendeva in Bossi una natura molto nobile, benevola, amica all'umanità. Per questo gli piaceva la libertà, perchè gli pareva, che al ben essere dell'umanità conferisse. Ciò nondimeno per la qualità dell'animo amava egli piuttosto il tirato. Aveva a vile la loquacità, e le sfrenatezze dei democrati di quei tempi, perchè s'accorgeva, siccome quegli che nelle faccende di stato era di giudizio finissimo, e forse unico al mondo, ch'esse non potevano condurre a niun governo buono, e manco ancora al libero. Del resto, quantunque alcuni amatori di libertà l'avessero per sospetto, parendo loro ch'egli amasse piuttosto il comandare che l'obbedire, se si vuol fare stima di lui, come uomo privato, nissuno amico più tenero de' suoi amici, nissun uomo più retto, o più generoso di lui si potrebbe immaginare. Non dirò del suo ingegno piuttosto mirabile che raro, perchè è noto a tutta Italia, e gli scritti suoi ne faranno ai posteri perpetua testimonianza. Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da Taleyrand e da Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio voleva fare del Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse l'essere congiunto con chi comandava, che con chi obbediva, si era deliberato a proporre in cospetto del governo il partito dell'unione colla Francia. Seguì tosto l'effetto, perchè avendo favellato con singolare eloquenza, e confermato il suo favellare con raziocinj speciosissimi, perciocchè nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo, vinse facilmente il partito, non avendovi nissuno contraddetto, perchè alcuni non vollero, altri non seppero, stantechè la proposta era inaspettata. Accettatosi dal governo il partito dell'unione, furono tentati al medesimo fine i municipali di Torino. Vi aderirono volentieri. La deliberazione della capitale fu di grandissima importanza, perchè essendo conforme a quella del governo, facilmente tirava con se tutto il paese. Si mandarono commissari nelle province a far gli squittini per l'unione. I popoli non l'intendevano, e certamente ripugnavano. Ma l'autorità del governo, e la presenza dei Francesi facevano chiarire i magistrati in favore. I più sospetti di avversione allo stato presente si scopersero i primi favorevolmente: vescovi, abbati, canonici, preti, frati sottoscrissero la maggior parte per il sì: parve partito vinto generalmente. Mandavansi a Parigi per portar i suffragi Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato valore, e di gran fama in Piemonte; ma vissuti discordi in Parigi, produssero discordia nella patria loro.

Questa risoluzione del governo, lo scemò di riputazione, perchè il popolo non amava l'imperio dei forestieri; gl'Italiani si adoperavano per farlo vieppiù odioso. Fantoni, poeta celebre, che all'alito delle rivoluzioni sempre si calava, udito di quel moto Piemontese, si era tosto condotto nel paese, e quivi faceva un dimenare incredibile contro il governo, e contro la sua risoluzione, qualificandola di tradimento contro l'Italia. Insomma tanto disse e tanto fece, che fu forza cacciarlo in cittadella. Certamente Fantoni amava molto l'Italia, ma egli era un cervello così fatto, che se fosse stato lasciato fare, il manco che le sarebbe accaduto, fora stato l'andar tutta sottosopra.

La risoluzione di volersi unire a Francia fu, non cagione, ma occasione di un moto più feroce e ridicolo, che nobile e pericoloso nella provincia d'Acqui. Vi si spargevano voci, non già per ispirito Italico, ma per avversione allo stato nuovo, che unirsi a Francia era un perdere la religione, che grandi eserciti marciavano a liberare l'Italia dai Francesi, che in ogni lido seguivano sbarchi di gente nemica a Francia. Rivalta, terra piena d'uomini armigeri, si levava a romore, cacciava il commissario; per poco stette, che non l'uccidesse. Strevi seguitava con maggior furore, ed atterrato l'albero della libertà, ed oltraggiati i municipali, mostrava desiderio di cose nuove. Il comandante d'Acqui, Plaizat, con cencinquanta cacciatori, soldati nuovi ed inesperti, vi andava per frenar quel tumulto, e vi restava ucciso; i soldati disordinati si ritiravano. Vi andava per calmarlo Della Torre, vescovo di Acqui; i paesani lo volevano ammazzare. La ritirata dei soldati Francesi diede animo a quelle popolazioni non consideratrici del pericolo, al quale si mettevano; un medico Porta le instigava, Vigone, Riccaldone Alice, Moirano aiutavano i tumultuosi: una moltitudine disordinata, ed armata in varie e stravaganti forme, s'impadroniva di Acqui e del suo castello; creava a voce di popolo, e fra uno schiamazzo incredibile un intendente, un comandante ed i magistrati municipali. Arrestava i giacobini, ma, ricevuto denaro, gli liberava. Le più strane cose si dicevano da quelle genti ignare ed infiammate. La conquista di tutto il Piemonte, e la cacciata dei francesi pareva loro il manco che potessero fare. Ed ecco, che si ode uno fra di loro più impazzato degli altri gridare, doversi conquistar Alessandria. Porta, aiutato da un Laneri scritturale, scriveva lettere circolari ai comuni, affinchè per raccor gente suonassero campana a martello; onde il sinistro suono si udiva tutto all'intorno. L'arciprete Bruno, che non voleva, che nella sua parrocchia di Montechiaro a tal estremo si venisse, fu barbaramente ucciso da' suoi parrocchiani. Partiva quell'informe ammasso di gente male armata, e peggio disciplinata per all'impresa d'Alessandria. Strada facendo sollevava a romore i comuni; quei, che non si volevano levare, saccheggiava. Nizza della Paglia resistè, come terra più grossa, e non gli lasciava entrare. Comparivano otto in dieci mila sollevati sotto le mura d'Alessandria; il medico Porta precedeva senz'armi in atto di voler venire a parlamento, sperando che si facesse dentro dal popolo qualche movimento in suo favore. Ma il comandante della piazza, che aveva a tempo avuto notizia del fatto, a ciò esortato dal marchese Colli Alessandrino, capitano di molto valore, mandava fuori quaranta soldati Piemontesi, che primieramente arrestarono Porta; poi con le sciabole tirando di piatto e di taglio, ma più di piatto che di taglio, dissiparono fra breve tutta quella imbelle moltitudine, non assueta alle ordinanze, nè stabile in campagna. Intanto, mentre già l'impresa era perduta, si spargevano liete novelle fra i sollevati in Acqui: che Alessandria fosse presa, la cittadella conquistata, che tutto l'Alessandrino, che tutto il Tortonese in favor loro si muovevano. Suonavano le campane a festa, cantavano l'inno delle grazie: gridavano, “viva Acqui, viva Strevi, viva la nostra faccia”, e qualche volta, “viva il re”. Già pareva loro, che il mondo non gli potesse più capire, e si promettevano la mutazione di ogni cosa. Credutisi sicuri mettevano a ruba le case dei gallizzanti, o stimati tali, sotto pretesto di cercar armi nascoste. In questo mezzo, e quando più si persuadevano di essere in possessione della vittoria, un rumor cupo, poscia voci più aperte incominciavano a torre al falso l'apparenza del vero, ed al vero l'apparenza del falso. Chi lo disse il primo, fu messo per la peggiore. In fine, romoreggiando già le armi Francesi e Piemontesi da vicino, la verità si apriva l'adito: allora prevalendo nei sollevati il timore al furore, e vedutosi da loro, che quello non era tempo da aspettare, si sbandarono, non senza però aver dato una seconda mano di sacco alle case dei benestanti, massime degli ebrei. Arrivavano i soldati della repubblica, prima condotti da un Flavigny, comandante d'Asti; poi in numero più grosso da Grouchy. Flavigny incese Strevi; Grouchy accompagnato dall'avvocato Colla, commissario del governo, pose a taglia Acqui; arrestò gl'intinti ed i sospetti: ma non fe' sangue. Porta fu fatto morire col supplizio soldatesco in Alessandria. Mostrossi Grouchy continente; Colla ed Avogadro, cui il governo aveva dato carico di assestar le cose disordinate dalla sollevazione, continentissimi. Flavigny non ebbe risguardo, che Acqui già fosse stato saccheggiato dai sollevati: il suo nome sarà perpetuamente udito con isdegno in quella travagliata città. Così finì la informe abbaruffata degli alti Monferrini; dopo il fatto, tutti dicevano, non esservisi trovati.

Avuto il suffragio dell'unione, e conoscendo il direttorio di Francia, che il governo del Piemonte, per aver perduto la riputazione, gli era divenuto uno stromento inutile, vi mandava Musset con qualità di commissario politico e civile, affinchè ordinasse il paese alla foggia Francese. Arrivato, tutte le ambizioni e di nobili e di plebei si voltavano a lui, ed ei si serviva dei gallizzanti, temeva degl'Italici. Fece i soliti spartimenti del territorio, creò i tribunali, i magistrati distrettuali e municipali, secondo gli ordini usati in Francia. Per riordinar le finanze tanto peggiorate chiamava a se Prina, che molto, ed anche troppo se ne intendeva. S'ingegnava di sopire le passioni accese, perchè era uomo buono, ma l'incendio era troppo grave; già nuovi nembi, che s'ingrossavano verso settentrione, dando nuovi timori, e svegliando nuove speranze, infiammavano viemmaggiormente le passioni già tanto accese.

Così come abbiam raccontato, eran condizionati Napoli e Piemonte. Genova e Milano meglio si mantenevano per aver governi più ordinati, ma più la prima che il secondo, perchè l'amor dell'adulazione verso i forestieri vi era minore. Roma era straziata continuamente da uomini avari, e da importune mutazioni in chi governava. Dappertutto erano, per imprudenza, apparecchiate le occasioni alla tempesta che già si avvicinava ai confini d'Italia.

Le arti, le instigazioni e le offerte dell'Inghilterra, delle quali abbiamo parlato in uno dei precedenti libri, partorivano gli effetti che da loro si erano aspettati, e già tutta Europa novellamente si muoveva a' danni della Francia, e dei nuovi stati ch'ella aveva creato. Aveva l'Austria mandato un forte esercito in Italia, alloggiandolo sulle sponde dell'Adige e della Brenta. Al tempo stesso, maneggiandosi nascostamente, aveva operato che la parte, che nei Grigioni inclinava a suo favore, la chiamasse sotto colore di preservar il paese dall'invasione dei Francesi. Vi aveva pertanto mandato nuovi battaglioni per occupar quelle montagne, per modo che le sue prime guardie si estendevano, da una parte sino ai confini della Svizzera, dall'altra sino a quei della Valtellina. Aveva dato motivo a questa deliberazione dell'imperatore e dei Grigioni l'occupazione fatta dai Francesi della Svizzera, dalla quale potevano facilmente, ove le ostilità si rinnovassero, correre contro il Tirolo, e gli stati ereditari da una parte, contro lo stato Veneto dall'altra. Possente freno a questo disegno pareva che fosse, ed era veramente il paese dei Grigioni, posto, come cittadella naturale, incontro agli Svizzeri, ed a difesa del Tirolo, e che accenna ugualmente in Italia. Omessi i generali vinti, commetteva l'imperatore Francesco il governo militare a pruovati capitani, a Bellegarde nei Grigioni, a Melas in Italia: era con lui Kray, guerriero che si era acquistato buon nome nelle guerre Germaniche, e molto amato dai soldati. In tale guisa l'Austria si preparava alla guerra. Ma il fondamento principale di tutta l'impresa erano i soldati di Paolo imperatore, che, già lasciate le fredde rive del Volga e del Tanai, marciavano alla volta della Germania, ed erano destinati a fare cogli Austriaci uno sforzo contro l'Italia. Conduceva questi soldati tanto strani il maresciallo Suwarow, capitano uso per l'incredibile suo ardimento a rompere piuttosto che a schivare gli ostacoli di guerra. A tutta questa mole, già di per se stessa tanto grave, si aggiungevano le forze marittime dell'Inghilterra, della Russia e della Turchìa, le quali l'Adriatico dominando, ed il Mediterraneo correndo, potevano effettuare sulle coste d'Italia subiti trasporti, e sbarchi, abili a disordinare i disegni dei capitani della repubblica. Nè, come abbiam veduto, era l'Italia sana rispetto ai Francesi, perchè infiniti sdegni vi erano raccolti sì per la contrarietà delle opinioni attinenti allo stato, od alla religione, e sì per le offese recate dal nuovo dominio.

Dall'altro lato era intento del direttorio di far la guerra con tre eserciti, dei quali il primo condotto da Jourdan avesse carico, varcato il Reno, di assaltare la Baviera, che si era accostata alla lega, il secondo governato da Massena negli Svizzeri facesse opera di cacciare gli Austriaci dai Grigioni, d'invadere il Tirolo, e camminando avanti, di dar la mano a Jourdan dall'una parte, dall'altra a Scherer in Italia. Era stato preposto alle genti Italiche il generale Scherer, vincitore di Loano. Questo terzo esercito, spingendosi anch'esso avanti, doveva, passate le Alpi Giulie e Noriche, congiungersi coi due precedenti per conquistare gli stati ereditari, e Vienna capitale. Aveva con se congiunti i Piemontesi ed i Cisalpini. Joubert, che era per lo innanzi generalissimo, e molto capace per l'ingegno, l'ardire, e l'esperienza, di governar questa guerra, amico a Championnet, e, come egli, nemico dei depredatori, scontento a non potergli frenare, aveva chiesto licenza. Il direttorio, che riteneva in tutte le cose le solite sospizioni, temendo di lui, e non ancora ben riavuto dalle buonapartiane apprensioni, molto volentieri gliel'aveva conceduta. La licenza di Joubert fe' cader l'animo agl'Italiani amatori degli stati nuovi, perchè si riposavano con intiera fede nel valore, nell'ingegno, e nell'integrità sua, e più ancora l'amavano, perchè il conoscevano amico all'Italia. Compariva Scherer, non senza Parigino fasto; il che rendeva più notabile la semplicità del vivere di Joubert, e lo squallore dei soldati. Ciò fece anche sospettare, che le opere del peculato avessero peggio che prima, a ricominciare; ognuno stava di mala voglia.

Non ostante le ostili dimostrazioni, la guerra non era ancor rotta fra le due parti, perchè il direttorio prima di risentirsi dell'avvicinarsi dei Russi aspettava che la fortezza di Erebrestein venisse in poter suo. L'Austria stava attendendo, per non trovarsi a combatter sola, mentre poteva combattere accompagnata, che le genti Russe alle sue si congiungessero. Finalmente dopo un lungo assedio, astretto dalla fame, Erebrestein si dava ai repubblicani. Insorse incontanente il direttorio, e mandò dicendo all'imperator d'Alemagna, che se i Russi non fermassero i passi contro Francia, e dagli stati imperiali non retrocedessero, l'avrebbe per segno di guerra: la corte imperiale diè risposte ambigue, e si temporeggiava per dar comodità ai soldati di Paolo di arrivare. Conobbe l'arte il direttorio, e però si determinava del tutto alla guerra, volendo prevenire quello, che l'Austria aspettava. Per la qual cosa Scherer altro non attendeva per dar principio alle ostilità, che l'udire, che Jourdan e Massena avessero fatto il debito loro sul dorso Germanico delle Alpi. Sentite le novelle del passo effettuato sul Reno dal primo, e dello aver combattuto il secondo prosperamente, non senza però sanguinosissime battaglie, nei Grigioni, sperando che Dessoles e Lecourbe con un corpo di repubblicani scendendo dalla Svizzera il seconderebbero di verso la Valtellina, si risolveva a non più porre tempo in mezzo per assaltar il nemico. Erano i due nemici schierati nella seguente guisa: aveva il generalissimo di Francia il suo alloggiamento principale in Mantova, dove aveva adunato gran copia di munizioni sì da guerra, che da bocca. Assicuravano la sua ala sinistra la fortezza di Peschiera, e la destra la città ed il castello di Ferrara. Erano con lui circa cinquanta mila combattenti, fra i quali i reggimenti Cisalpini e Piemontesi. Oltre a questo altre genti Francesi ed alleate occupavano, e guarentivano i passi situati alle spalle tra il Mincio e le Alpi.

Gli Alemanni si erano distesi ad alloggiare in linea parallella all'Adige dalle frontiere del Tirolo Italiano insino a Rovigo; trenta mila combattenti lungo l'Adige, altrettanti sulle sponde della Brenta. Sulla sinistra procurava loro sicurtà la fortezza di Legnago, sul mezzo la città di Verona con tutti i suoi forti: i villaggi di Santa Lucìa e di San Massimo, come antemurali di Verona, erano muniti di trincee e di presidj gagliardi. Quanto alla dritta, che portava maggior pericolo, perchè non vi era fortezza artefatta, e nella sua difesa consisteva l'esito felice di quella guerra, che già manifestamente incominciava ad apparire, conciossiachè, perduti quei luoghi, i Francesi si sarebbero introdotti fra gli stati ereditari e lo stato Veneto, l'aveva Kray fortificata con molte trincee provviste d'artiglierìe nel luogo di Pastrengo presso a Bussolengo. Avevano anche gli Austriaci posto, per facilitare i transiti, e munito quattro ponti sull'Adige, a Parona, a Pescantina, a Pastrengo, ed a Polo. Corpi assai grossi, e distribuiti nei loro alloggiamenti per modo che l'uno potesse facilmente accorrere a soccorrer l'altro, guernivano tutti questi luoghi, uno ad Arquà, terra celebre per esser quivi morto il Petrarca, un altro a Bevilacqua, cinque miglia sopra Legnago, un terzo tra Conselve ed Este, un quarto finalmente a Bussolengo.

Credeva il direttorio, avvicinandosi la guerra contro l'Austria, non si poter fidare del gran duca Ferdinando di Toscana, e perciò si era risoluto a cacciarlo da' suoi stati. A questo fine, toccato prima, che avesse dato asilo al papa, e passo ai Napolitani, ed affermato che s'intendesse segretamente coi confederati a' danni della repubblica, Scherer ordinava, che il dominio di Francia s'introducesse in Toscana. Così il direttorio stringeva nelle sue mani tutta l'Italia a quel momento stesso, in cui era vicino a perderla tutta. Partitosi inaspettatamente il generale Gaultier da Bologna, dove aveva le sue stanze, entrava nella felice Toscana, e il dì venticinque di marzo, conducendo con se un grosso corpo di cavallerìa con qualche nervo di fanterìa, e col solito corredo di artiglierìe e di salmerìe, faceva, qual trionfatore, il suo ingresso armato per la porta di San Gallo nella pacifica città di Firenze. Così la sede di civiltà venne occupata da insolite e forestiere soldatesche. I trionfatori disarmavano i soldati Toscani, s'impadronivano delle fortezze, del corpo di guardia del palazzo vecchio, e delle porte. Al tempo medesimo Miollis, assaltata ed occupata Pisa, se ne andava a Livorno, e quivi, disarmate le truppe del gran duca, poneva presidio nei forti, guardie sul porto, mano sui magazzini Inglesi e Napolitani. Un Reinhard, commissario del direttorio, recava in sua potestà la somma delle cose, ed ordinava che i magistrati continuassero a fare gli uffizi in nome della repubblica Francese. Disfatto dai repubblicani il governo Toscano, partiva per Vienna con tutta la sua famiglia il gran duca, e gli fu dato facoltà dagli occupatori del suo stato di portar con se parte del mobile del palazzo Pitti, e alcuni capi di pittura e di scoltura notabili. Il caso strano mosse, non tutti, ma parte dei Toscani: piantarono i soliti alberi sulle piazze, fecero discorsi, gridarono libertà. Pure non si fecero tanti schiamazzi, come altrove.

Il dominio dei Francesi in Toscana cominciò da opere spietate. Gli esuli Francesi, o preti o laici che fossero, che sotto il placido dominio di Ferdinando si erano ricoverati, furonne senza remissione cacciati. Restava papa Pio, che vecchio, infermo, ed oramai vicino all'ultimo termine della vita se ne stava assai riposatamente nella Certosa di Firenze. Quest'ultima quiete gli turbarono i repubblicani, sforzandolo a partire alla volta di Parma, poi fin oltre in Francia al tempo stesso della partenza di Ferdinando. Tanto era il timore, che avevano di un'opinione! Partiva il canuto e cadente pontefice, poco conscio di se per l'infermità e per la disgrazia, molto salutato dalle pietose e meste popolazioni. Strada facendo era chiuso nelle fortezze, poi venne serrato in Brianzone, finalmente trasportato in Valenza di Delfinato: quivi concluse nell'esilio una vita, che con tanto apparato di maestà e di potenza aveva incominciato. L'accompagnò sempre lo Spina, che fu poi cardinale, dolce e pietoso officio. Da questo esempio imparino i popoli, quanto siano flusse, e labili queste umane sorti, e che se la libertà può nascere qualche volta dalle guerre, non può mai dal disprezzo delle cose tenute rispettabili per lunga età da popoli intieri.

Ad uno spettacolo compassionevole succedeva uno spettacolo orrendo. I Francesi partiti in tre schiere affrontavano valorosamente il dì ventisei di marzo i Tedeschi sulle sponde dell'Adige. Montrichard con la destra faceva forza d'impadronirsi di Legnago; Victor e Hatry con la mezzana, assaltate le terre di Santa Lucìa e di San Massimo, difese esteriori di Verona, si sforzavano di aprirsi il passo a questa città; Moreau finalmente, con cui militavano Delmas, Grenier e Serrurier, aveva carico di vincere, e questo era il principale sforzo, Pastrengo, e Bussolengo, di passar l'Adige, e di riuscire minaccioso sul fianco di Verona, e degl'imperiali. Ad un punto prese tutte le tre schiere andavano alla fazione loro, e già la battaglia ardeva con molta uccisione per ambe le parti da Legnago fin oltre Bussolengo. Al primo romore delle armi era corso il presidio di Legnago governato dal colonnello Skal ad occupar le mura e la strada coperta; le guardie esteriori già si urtavano coi Francesi, ai quali davano favore i fossi, le siepi, e gli alberi che ingombravano il terreno. Si combatteva con grandissimo valore dai Francesi e dai Tedeschi sotto le mura di Legnago, presso Anghiari, ed a San Pietro per alla strada di Mantova. Combatterono i repubblicani felicemente a San Pietro, infelicemente ad Anghiari, con fortuna pari a Legnago; ma la fortezza del luogo sosteneva gli avversarj. Kray, che si era alloggiato con una grossa banda a Bevilacqua, come prima ebbe udito il pericolo, spediva il tenente maresciallo Froelich per soccorrerlo. Urtarono queste genti fresche i Francesi in parecchj luoghi, ma principalmente a San Pietro, dove erano più forti e già vittoriosi, e superata finalmente la forte ed ostinata resistenza loro, gli costrinsero a piegare, ed a ritirarsi oltre Anghiari e Cerea verso il Tartaro. Vinto Montrichard a Legnago con perdita di circa due mila soldati, gli Alemanni si mettevano in punto di perseguitarlo. Ma sopraggiungevano a Kray le novelle, che Victor e Hatry, battute aspramente le terre di Santa Lucia e di San Massimo, si erano impadroniti della prima, e si sforzavano di occupare fermamente la seconda, dalla quale, entrati a viva forza già sette volte, altrettante erano stati risospinti. Restarono feriti in questa ostinata mischia i due generali Austriaci Liptay e Minkwitz. Soprantendeva alla difesa di questi luoghi, e di Verona stessa il tenente maresciallo Keim, buono e valoroso soldato. Così in questa parte stava la battaglia in pendente per l'acquisto di Santa Lucìa dall'un de' lati, e per la conservazione di San Massimo dall'altro. Tuttavia vi si continuava a combattere: un terrore profondo occupava Verona, non sapendo i Veronesi qual fine fosse per avere quel lungo ed aspro combattimento, e molto temendo dei Francesi per le ingiurie antiche e nuove. A questo stato dubbio sotto le mura di Verona s'aggiunse la rotta toccata dalle genti Alemanne sull'ala loro destra, governata dai generali Gottesheim♠ ed Esnitz; il che fece fare nuovi pensieri a Kray, distogliendolo del tutto dal seguitare i repubblicani oltre l'Adige verso Mantova. Era, come abbiam detto, il sito di Pastrengo e Bussolengo munitissimo per molte fortificazioni, che consistevano in ventidue ridotti, in frecce, trincee di campagna, e teste di ponti. Urtarono i Francesi condotti da Delmas e da Grenier, con tanto impeto tutte queste opere, che sebbene gli Austriaci vi si difendessero virilmente, le sforzarono. Il caso fu tanto subito, che questi ultimi non poterono rompere i ponti di Pastrengo e di Polo, per modo che i repubblicani acquistarono facoltà di passar l'Adige, e di correre per la sinistra sua sponda contro Verona, e quella parte degl'imperiali, che aveva le stanze sulla strada verso Vicenza. Al tempo stesso in cui Delmas e Grenier vincevano a Bussolengo, Serrurier più oltre, e più su distendendosi a stanca, aveva cacciato i Tedeschi dai monti di Lazise, in ciò ajutato efficacemente dal capitano di fregata Sibilla, e dal luogotenente Pons colle navi sottili, con le quali custodivano il lago di Garda. Perdettero gli Austriaci in questi fatti cinquemila soldati tra morti e feriti, con mille prigionieri, e sette cannoni. Mentre si combatteva sull'Adige, i Francesi assaltavano Wukassowich sulle frontiere del Tirolo sopra il lago di Garda. Già si erano fatti signori di Lodrone, ed avevano guadagnato molto spazio oltre i laghi d'Iseo e d'Idro. Ma infine vennero in ogni parte respinti, perchè Wukassowich era uomo di valore, conosceva i luoghi, ed in quella proporzione più forza acquistava, che più negli stati ereditarj s'internava. Non così tosto ebbe Kray inteso la rotta della sua ala destra, che, lasciato un presidio sufficiente in Legnago, s'incamminava a presti passi, malgrado della stanchezza de' suoi soldati, a Verona, per preservarla dal gravissimo pericolo che le sovrastava. Vi arrivava il venzette e ventotto, e l'assicurava. Nè contento a questo, mandava Froelich più oltre in ajuto dell'ala sua destra, che pericolava a cagione del passo acquistato dai Francesi sull'Adige. Ma Scherer, forse intimorito per le rotte di Legnago e di Lodrone, se ne ristette, e non fece più alcun movimento d'importanza per usare la vittoria di Bussolengo. I due eserciti stanchi dal lungo combattere, pieni di morti e di feriti, convennero di sospendere le offese un giorno per dar sepoltura ai primi, e cura ai secondi. Continuavano i Francesi in possessione della sinistra riva dell'Adige, ed era forza, o che i Tedeschi ne gli cacciassero, o ch'essi cacciassero i Tedeschi di Verona. Se cadeva Verona, era vinta la guerra pei primi, e Suwarow avrebbe potuto arrivare senza frutto. Se i Francesi erano cacciati dalla riva sinistra, era vinta la guerra per gli Austriaci. Sovrastava adunque agli uni ed agli altri la necessità del combattere, ma più ai repubblicani che ai loro avversarj, perchè se gl'imperiali reggevano contro l'impeto loro insino al giungere dei Russi, ogni probabilità persuadeva, che l'aggiunta di una forza tanto potente renderebbe preponderanti le partite in favor dei confederati.

Adunque alle dieci della mattina del trenta marzo, i Francesi condotti da Serrurier, passato sugli acquistati ponti il fiume in grosso numero, assaltarono Esnitz e Gottesheim, ai quali già si era congiunto con genti fresche Froelich. Un'altra parte di repubblicani condotta da Victor si innoltrava verso i luoghi superiori della valle, ed in Montebaldo verso la Chiusa e Rivole, coll'intento di occupare i monti ai quali si appoggiavano i Tedeschi, e di guadagnare la strada di Vicenza. Avevano i Francesi del Serrurier, assaltando con un impeto grandissimo, guadagnato molto campo, e già insistevano sopra Parona, luogo distante ad un miglio e mezzo da Verona. In questo pericoloso momento, Kray mandava fuori ottomila soldati, e partitigli in tre colonne, gli sospingeva ad urtare i Francesi. La prima gli assaliva dalla parte di Parona, la seconda per la strada del Tirolo verso Rivole, la terza lungo le montagne di Mantico. Ne sorse un combattimento molto fiero, in fin del quale prevalsero gli Austriaci, ed i Francesi pensarono al ritirarsi, non senza qualche dissoluzione nelle ordinanze. In questo fatto per frenare l'impeto del vincitore, e dar campo ai vinti di ritirarsi, prestò opera egregia la cavallerìa Piemontese. Restava che si potesse ripassare a salvamento il fiume; una parte passò; ma Kray, avendo occupato i ponti con la cavallerìa, e rottogli per mezzo dei granatieri di Korber, Fiquelmont e Weber, tagliò la strada ai superstiti, che, deposte le armi, vennero in suo potere. Quasi tutta la parte che era salita ai monti, fu in questa guisa superata e presa. Noverarono i Francesi mille soldati tra morti e feriti: dodici centinaja venuti sani in poter delle genti imperiali ornarono il trionfo di Kray. Non conquistarono i Tedeschi alcuna artiglierìa, perchè un solo pezzo aveva con se condotto Serrurier. Perdettero gli Austriaci poca gente, sì per le buone mosse ordinate dal generale loro, e sì per l'ardore inestimabile, col quale andarono all'assalto, e che sopraffece in breve tempo il nemico.

Dalle raccontate fazioni si vede, che Scherer aveva con arte lodevole ordinato la battaglia di Verona, ma che fece errore nel non seguitare subitamente l'aura favorevole della fortuna sull'ala sinistra, che era nel primo fatto rimasta vittoriosa; poichè se il giorno medesimo della battaglia, cioè il ventisei, od almeno il ventisette avesse fatto passar il fiume a tutta l'ala medesima, e l'avesse spinta gagliardamente contro il fianco di Verona, se ogni probabilità non inganna, avrebbe rotto Keim, che solo si sarebbe trovato a combattere, ed acquistato la città, innanzi che Kray arrivasse in ajuto con le genti vincitrici di Legnago. Ognuno vede, quali effetti avrebbe partoriti la presa di una città così nobile, e di sito tanto importante, con la sconfitta di due ali degl'imperiali. Non errò dunque Scherer per difetto di arte, ma bensì per mancanza d'ardire tanto più da condannarsi, quanto più quello fu il solo adito, che la fortuna in tutta questa guerra gli abbia aperto alla vittoria. Narrasi, che Moreau lo confortasse al raccontato partito, ma che non vi si volle risolvere.

Risultava dalle due battaglie di Verona, che gli Austriaci passavano l'Adige a portar guerra sulla sua destra sponda. Dal canto suo Scherer si era accampato dietro il Tartaro, tra Villafranca e l'Isola della Scala, attendendo a fortificarsi ed a riordinare i suoi: aveva fermato il suo campo principale a Magnano. Ma le sue condizioni divenivano ogni ora peggiori; perchè il nemico incominciava a romoreggiarli sui fianchi ed alle spalle con truppe armate alla leggiera. Wukassowich, sceso dal Tirolo tra il lago di Garda e l'Iseo, minacciava Brescia, oltrechè il colonnello San Giuliano mandato da Wukassowich aveva spazzato tutto il campo tra la destra dell'Adige ed il lago di Garda, per modo che il navilio, che i Francesi avevano sul lago, era stato costretto a cercar ricovero sotto le mura di Peschiera. Da un'altra parte Klenau, partitosi dall'ala sinistra Austriaca con soldati corridori, era comparso sul Po, aveva messo a romore le due sponde, precipitato in fondo le navi Francesi, e costretto i repubblicani a rifuggirsi o in Ferrara, o in Ostiglia. Si trovava adunque il generalissimo di Francia in grave pericolo, ed aveva tanto più forte cagione di temere, quanto il suo esercito scemato per le perdite fatte nelle giornate precedenti, era divenuto di numero inferiore a quello d'Austria. Oltre a tutto questo non isfuggiva a Scherer, che a Suwarow, ritardato solamente dalle piogge insolite, che avevano fatto gonfiare oltre modo i fiumi ed i torrenti, si accostava: il che avrebbe del tutto fatto prevalere il nemico se prima dell'arrivare del Russo non ristorava la fortuna cadente. Ricordavasi delle antiche vittorie, considerava esser quei medesimi Francesi, vincitori di tante guerre, avvertiva, quelle terre medesime, sulle quali insisteva essere state poco tempo innanzi testimonio di tante e sì gloriose loro fazioni. Mosso da tutto questo, nè mancando anche d'animo per se medesimo, si risolveva a cimentarsi di nuovo col nemico, sperando che Magnano avrebbe restituito le cose perdute a Verona. Dall'altro lato il generale Austriaco, non fuggendo il tentar la fortuna da se solo, agognava ancor esso la battaglia, perchè non voleva dar tempo al nemico di riordinarsi, e riaversi dall'impressione delle rotte precedenti, nè lasciar raffreddare l'impeto de' suoi tanto più imbaldanziti dalle vittorie recenti, quanto più le avevano acquistate, mentre era ancor fresca la memoria di tante loro sconfitte. Forse ancora Kray nel più interno del suo animo desiderava una nuova battaglia per operare, che per suo mezzo la guerra fosse del tutto vinta innanzi che arrivassero il generalissimo Melas, ed il forte maresciallo di Paolo. Se tale fu il suo pensiero, come è da credersi, e' bisognerà confessare, ch'egli avesse una gran fede in se medesimo, e nissun dubbio della vittoria; perchè se perdeva coi possenti ajuti tanto vicini, avrebbe meritamente incorso molta riprensione per aversi commesso colle sole armi Austriache alla fortuna. Ivano all'affronto i due nemici divisi in tre schiere, il dì cinque aprile. La destra dei repubblicani guidata da Victor e Grenier marciava all'assalto di San Giacomo: la mezzana governata da Montrichard e Hatry, sotto guida suprema di Moreau, doveva sloggiare l'inimico da' suoi posti tra Villafranca e Verona. La sinistra sotto la condotta di Serrurier aveva il mandato d'impadronirsi di Villafranca e di andarsi approssimando all'Adige. Delmas, soldato animoso, e molto arrischiato, accennava con un po' di antiguardo a Dossobono per fare spalla alla mezzana. Il generale Austriaco col fine di superare il campo di Magnano, e di cacciare i Francesi oltre il Tartaro ed il Mincio, aveva ordinato i suoi per modo che il generale Zopf guidasse la destra, Keim la mezzana, ed il generale Mercatin la sinistra: un antiguardo condotto da Hohenzollern assicurava Zopf, ed un grosso retroguardo di tredici battaglioni sotto guida di Lusignano, non obbligandosi a luogo alcuno, era presto per accorrere ai casi improvvisi, e soccorrere quella parte che inclinasse. Al tempo stesso Kray aveva comandato al presidio di Legnago, che uscisse a percuotere nel fianco destro del nemico, ed a Klenau, che turbasse viemaggiormente le rive del Po. Sorgeva una fierissima battaglia; benchè i Francesi fossero inferiori di numero guadagnavano nondimeno, valorosissimamente combattendo, del campo, e facevano piegar l'inimico. Si vedeva in tutto questo ed il valore solito dei soldati repubblicani, e la perizia dei loro capitani. Serrurier, risospinto prima ferocemente da Villafranca, fatto un nuovo sforzo, e riordinati i suoi, se ne impadroniva. Delmas si spingeva ancor esso avanti; Moreau il seguitava con eguale prudenza e valore. Victor e Grenier sforzavano San Giacomo, e vi si alloggiavano.

Volle Kray rompere Moreau con aver fatto girar un grosso corpo a fine di attaccar il Francese alle spalle, ed al tempo medesimo urtava impetuosamente Delmas. Questa mossa ottimamente pensata poteva trarre a duro partito Moreau, s'ei non fosse stato quell'esperto capitano ch'egli era. Ma risolutosi incontanente su quanto gli restava a fare in sì pericoloso accidente, invece di camminare dirittamente, si voltava con grandissima audacia a destra, ed assaltava sul destro fianco coloro, che disegnavano di assaltarlo alle spalle. Per questa tanto bene ordinata mossa gli Austriaci furono rotti, e fugati verso Verona, a cui si accostavano Delmas e Moreau con le altre due schiere compagne: già il terrore assaliva la città. Pareva in questo punto disperata la battaglia pei Tedeschi: ma Kray ordinava a nove battaglioni del retroguardo, che si spingessero avanti, condotti dal generale Lattermann, ed urtassero il nemico, tre da fronte a sinistra, cinque di fianco. Fu questo urto dato con tanto ordine ed impeto, che i Francesi, svelta per forza la vittoria dalle loro mani, se ne andarono rotti in fuga. Così chi aveva vinto con sommo valore, era stato vinto con pari valore. A questo decisivo passo ordinarono Scherer e Moreau un po' di retroguardo, che loro restava, quest'era l'ultima posta, e mandatolo contro il nemico insultante, non solamente ristoravano la fortuna della battaglia, ma ancora rompevano del tutto la mezzana schiera degl'imperali, e fugavano Keim fin quasi sotto alle mura di Verona. Restava un ultimo rimedio a Kray; quest'erano i restanti battaglioni del retroguardo. Se essi fallivano, la fortuna Austriaca era vinta, ed i trionfi dei Francesi ricominciavano su quelle terre già tanto famose per le segnalate fatiche loro. Serraronsi i freschi battaglioni Alemanni, adoperandosi virilmente Lusignano sui Francesi con un incredibile furore. Non piegarono i repubblicani, ma s'arrestarono: nasceva un urtare, un riurtare tale, che pareva che più che uomini tra di loro combattessero. Stette lungo spazio dubbia la vittoria, e già, checchè la fortuna apparecchiasse ad una delle parti, era per ambedue salvo l'onore. Finalmente la tenacità Tedesca prevaleva all'impeto Francese; i repubblicani furono piuttosto che cacciati, svelti dal campo di battaglia. Rotto l'argine, precipitaronsi impetuosamente contro i vinti i vincitori, e ne fecero una strage grandissima. La schiera di Serrurier, che si era conservata intiera, e tuttavia teneva Villafranca, fu costretta a mostrar le spalle al nemico, non senza scompiglio nelle ordinanze, pel caso improvviso, lasciando il fardaggio, le artiglierìe, ed i feriti in poter del vincitore. Non fu fatto fine al perseguitare, se non quando sopraggiunse la notte. Perdettero i repubblicani più di quattromila soldati tra morti e feriti, con tremila prigionieri: rimasero in preda al vincitore diciasette pezzi d'artiglierìa, con salmerìe, munizioni e bagaglie in quantità. Noveraronsi fra i feriti Beaumont, Dalesme, Pigeon e Delmas. Nè fu la vittoria senza sangue per gl'imperiali, perchè desiderarono circa tremila soldati tra uccisi e feriti. Quasi un ugual numero erano venuti come prigionieri in mano dei Francesi, ma la più parte furono riscattati durante la rotta. Mercantin, capitano in molta stima presso gli Austriaci sì pel suo valore, come per la dolcezza della sua natura, fu tra gli uccisi. Morirono altri uffiziali di grado e di nome, fra i quali il maggiore Voggiasi, che avendo combattuto valorosamente nel precedente fatto di Legnago, si era meritato la croce di Maria Teresa. Durò la battaglia dalle ore sei della mattina sino alle sei della sera. Il valore vi fu uguale da ambe le parti, la vittoria utilissima alle armi imperiali. Spianò Kray col suo valore la strada alle vittorie di Melas e di Suwarow.

Scherer, scemato il numero de' suoi, e scemato altresì l'animo loro per le sconfitte, dopo di aver fatto alcune dimostrazioni, come se volesse fermarsi sul Mincio, si deliberava a ritirarsi sulla sponda destra dell'Adda, per ivi fare opera, se ancora possibil fosse, di arrestar l'inimico, e difendere la capitale della Cisalpina. A questa deliberazione, piuttosto inevitabile che volontaria, dava motivo la grande superiorità del nemico, accresciuto dalle forze Russe per guisa che sommava a sessantamila combattenti, non noverati quei di Wukassowich e di Klenau, che romoreggiavano sui corni estremi, mentre il suo, tolti i pressidj, ch'era obbligato a lasciare in Mantova ed in Peschiera, ed in altre fortezze di minor importanza, non passava i ventimila. La medesima deliberazione rendevano necessaria i progressi fatti, e che tuttavia facevano Wukassowich e Klenau, il primo verso i monti sulla sinistra dei repubblicani, il secondo sulle rive del Po, dove metteva ogni cosa a romore. Si levavano i popoli a calca al suono delle vittorie Tedesche, e dell'arrivo dei Russi, gente strana, e riputata d'invincibile valore, non considerando, se il dominio Austriaco e Russo avesse a mostrare maggiore benignità, che quello che volevano levarsi dal collo. Ma il presente sempre noja i popoli, mentre il futuro gli alletta, perchè giudicano del primo col senso, del secondo coll'immaginazione.

Bene è da condannarsi, che i comandanti Russi ed Austriaci queste mosse popolari in paesi estranei a loro con parole, con iscritti e con fatti suscitassero e fomentassero. Perciocchè nelle sollevazioni dei popoli, e nelle guerre civili ogni più peggior male si contiene, ed ai forestieri; che non possono vincere con le sole armi, l'umanità prescrive che se ne astengano, e che lascino riposare altrui. Le guerre bisogna lasciarle fare a chi ha il carico di farle, non a chi ha il carico di pagarle. Oltre a ciò, siccome gli eventi delle guerre sono sempre dubbj, poco umana cosa è il sollevare i popoli contro coloro, che possono tornare a vendicarsi. Queste sommosse molto ajutavano gl'imperiali, perchè intimorivano gli avversarj, tagliavano le strade, e davano spiatori utilissimi ai nuovi conquistatori. Esse erano più o meno forti, secondo le varie inclinazioni dei luoghi, ma molto romorose nel Polesine e nel Ferrarese. Grandi tempeste ancora si levavano contro i Francesi nel Bresciano e nel Bergamasco: Wukassowich vi trovava molto seguito.

Arrivati i Francesi sulle sponde dell'Adda, fiume assai più grosso, e di rive più dirupate che il Mincio e l'Oglio non sono, nel seguente modo vi si alloggiavano. Serrurier con la sinistra custodiva le parti superiori del fiume, stanziando a Lecco sul lago, dove aveva una testa di ponte fortificata, a Imbezzago ed a Trezzo. In quest'ultima terra si congiungeva con la battaglia, o mezzana schiera, alla quale erano preposti Victor e Grenier, e che, sprolungandosi a destra, si distendeva sino a Cassano. Possedeva sulla destra del fiume una testa di ponte con trincee munite di artiglierìe, ed oltracciò le artiglierìe del castello dominavano questa parte. Un grosso di cavalleria (perchè essendo Cassano posto sulla strada maestra per a Milano, i repubblicani presumevano che i confederati avrebbero fatto impeto contro di questa terra), stava pronto, alloggiato essendo dietro a Cassano, ad accorrere, ove d'uopo ne fosse. La destra sotto la condotta di Delmas, si sprolungava lungo l'Adda, con assicurare Lodi e Pizzighettone. Quest'era l'alloggiamento preso dai Francesi sulle rive dell'Adda, in cui giudicarono poter arrestare il corso alla fortuna del vincitore. Intanto una grande mutazione si era fatta nel governo supremo dell'esercito. I soldati repubblicani stimandosi invincibili, perchè non soliti ad esser vinti, avevano concetto un grandissimo sdegno contro Scherer, di tutte le loro disgrazie accagionandolo. I meno coraggiosi si erano anche perduti d'animo, e questo sbigottimento di mano in mano si propagava: l'immagine di Francia già s'appresentava alla mente dei più, e quelle terre Italiane diventavano loro odiose. Le subite ed estreme mutazioni dei Francesi davano a temere ai capi per modo, che dubitavano aver presto a contrastare non solamente col nemico, ma ancora con la cattiva disposizione dei propri soldati. Già si mormorava contro Scherer, ed il meno che dicessero di lui, era, che non sapeva la guerra. Certo, essendo tanto declinato del suo credito, ei non poteva più oltre governar con frutto, e la confidenza ed il coraggio dei soldati per nissun altro modo potevano riaccendersi, che con quello di mutar il capo, e di surrogargli un generale amato da loro e famoso per vittorie. Videsi Scherer queste cose, e conformandosi al tempo, rinunziò al grado, con rimetterlo in mano di Moreau, e con pregare il direttorio, che commettesse in luogo di lui la guerra al capitano famoso per le Renane cose. Piacque lo scambio: Scherer, confidate le sorti Francesi al suo successore, se ne partiva alla volta di Francia. I repubblicani intolleranti di disgrazie l'accusarono in varie guise; ma se la disciplina non era buona, ciò dai cattivi esempi precedenti si doveva riconoscere. Quanto alla perizia nell'arte della guerra, non si vede di quale altro fatto si possa biasimare, se non di non aver corso gagliardamente, e senza posa contro Verona nella giornata dei ventisei, quando, rotta l'ala destra Austriaca, si era fatto signore del passo del fiume. Del rimanente il disegno principale di questo stesso fatto dei ventisei, e così quello dell'asprissima battaglia di Magnano, non sono se non da lodarsi, nè la sua ritirata dall'Adige all'Adda in circostanze tanto sinistre mostra un capitano di poco valore: ma l'aver fatto guerra infelice in Italia in memoria tanto fresca di Buonaparte nocque alla sua fama, ed accrebbe l'impazienza dei repubblicani. Da un altro lato non si debbe defraudare della debita lode Moreau per aver consentito al recarsi in mano il governo di genti vinte, e quando già poca o niuna speranza restava di vincere. Sapeva egli, che il difendere lungo tempo le rive dell'Adda contro un nemico tanto potente, non era possibile: ma andò considerando, che il cedere senza un nuovo esperimento la capitale della Cisalpina, che aveva i suoi soldati congiunti co' suoi, e che era alleata della Francia, gli sarebbe stato di poco onore, ed oltre a ciò voleva, con ottenere qualche indugio, dar tempo al munire di provvisioni le fortezze del Piemonte. In questo mezzo arrivavano alcuni ajuti venuti di Francia, dal Piemonte, e dalla Cisalpina. Per tutto questo deliberossi di voltar il viso al nemico, e di provare se la fortuna fosse più favorevole alla repubblica sulle sponde dell'Adda, che su quelle dell'Adige.

Arrivava Suwarow a fronte del nemico, e senza soprastare, si risolveva a combatterlo. Suo pensiero era stato, dappoichè aveva il freno dei collegati, d'insistere sulla destra verso i monti, piuttosto che seguitare il corso del Po, perchè desiderava di disgiungere i Francesi, che combattevano in Italia, da quelli che guerreggiavano nella Svizzera. Per la qual cosa andava radendo le falde dell'Alpi, ed amò meglio tentare il passo del fiume più verso il lago, che verso il Po. Divideva, come i Francesi, i suoi in tre parti: commetteva la prima che marciava a destra al generale Rosemberg, che aveva con se Wukassowich, guidatore dell'antiguardo. Questa parte aveva il carico di aprirsi il varco in qualche luogo vicino al lago. La seconda, cioè la mezzana guidata da Zopf e Ott, doveva far opera di passare in cospetto di Vaprio, e d'impadronirsi di questa terra. Finalmente la terza, che camminava a sinistra, commessa al valore del generalissimo Austriaco Melas, andava porsi a campo a Triviglio contro l'alloggiamento principale dei Francesi a Cassano. Francesi e Russi, nuovi nemici, eccitavano l'attenzion del mondo.

Serrurier, dopo di aver combattuto, e respinto con sommo valore i Russi condotti dal principe Bagrazione, che avevano assaltato la testa del ponte di Lecco, aveva, ritirandosi per ordine di Moreau verso il centro, lasciato alcune reliquie di un ponte di piatte rimpetto a Brivio, per cui egli si era trasferito oltre il fiume. La notte dei ventisei aprile Wukassowich di queste reliquie presentemente valendosi, ed avendo riattato il ponte, varcava, e s'insignoriva di Brivio, dove non trovava guardie di sorte alcuna. Nè noi possiamo restar capaci, come in tanta vicinanza del nemico, ed in tanto sospetto di una battaglia imminente, i Francesi non abbiano riguardato questo passo importante con un gagliardo presidio. Passato, correva Wukassowich la vicina contrada, e non trovava vestigia di nemico, se non se ad Agliate, ed a Carate. Ciò non ostante molto pericolava la sua squadra, se le altre non avessero passato nel medesimo tempo. Andava Suwarow accompagnato da Chasteler generale dell'imperator Francesco, capitano audacissimo e di molta sperienza, sopravvedendo i luoghi per trovar modo di passare all'incontro di Trezzo. Pareva anche agli ufficiali, che soprantendevano l'opera delle piatte, e del passare i fiumi, il varcare impossibile per la rapidità e profondità delle acque, e per la natura rotta e scoscesa delle grotte. Tuttavia non disperava dell'impresa Chasteler; però fatto lavorar sollecitamente i suoi soldati nel trasportar le piatte e le tavole necessarie, tanto s'ingegnò, che alle cinque della mattina del ventisette mandava a pigliar luogo sulla destra un corpo di corridori, che vi si appiattavano, senza che i Francesi se ne accorgessero, e poco poscia passava egli stesso con tutte le genti della mezza schiera armate alla leggiera. Parve cosa strana a Serrurier, il quale, udito del passo conseguito da Wukassowich, marciava per combatterlo, e si trovava a Vaprio. Ma da quell'uomo valente ch'egli era, raccolti subitamente i suoi, anche quelli che erano stati fugati da Trezzo, ingaggiava la battaglia col nemico, non ben ancor sicuro della possessione della destra riva. Piegava al durissimo incontro l'antiguardo dei confederati, e sarebbe stato intieramente sconfitto, se non arrivava subitamente al riscatto con tutta la sua schiera l'Austriaco Ott. Si rinfrescava la battaglia più aspra di prima tra Brivio e Pozzo. Mandava Victor alcuni reggimenti dei più presti in aiuto di Serrurier, il quale valorosissimamente instando, già era in punto di acquistare la vittoria, quando giungevano in soccorso di Ott le genti di Zopf, e facevano inclinar la fortuna in favor degli alleati; perchè dopo un sanguinoso affronto cacciarono i Francesi da Pozzo, e gli misero in fuga. Un colonnello Austriaco fu morto in questo combattimento, il generale Francese Baker fatto prigione. Ingegnossi Grenier di raccozzare a Vaprio le genti rotte, ma indarno, perchè assaltato dagli Austriaci e Russi fu rotto ancor esso, ed obbligato a ritirarsi frettolosamente. Era accorso Moreau in questo pericoloso punto, ma la sua presenza non valse a ristorare la fortuna della battaglia. Per questa fazione fu Serrurier respinto all'insù, ed intieramente separato dall'altre parti dell'esercito.

Mentre nel raccontato modo si combatteva fra le due schiere superiori, Melas più sotto non se n'era stato ozioso. Avevano i Francesi con forti trincee munito una testa di ponte sul canale Ritorto, pel quale avevano l'adito libero sulla riva sinistra. Melas, che sebbene fosse già molto innanzi con gli anni, era nondimeno uomo di gran cuore, assaltava col fiore de' suoi granatieri questa testa di ponte; ma vi trovava un duro intoppo, perchè con estremo valore ostarono i Francesi, ed anzi parecchie volte il ributtarono. Infine dopo molto sangue e molte morti, superava tutti gl'impedimenti, e si rendeva padrone del passo del canale Ritorto. Restava a superarsi, opera molto più difficile, la testa del ponte sull'Adda molto fortificata. Quivi fuvvi il medesimo furore per l'assalto, il medesimo valore per la resistenza. Ma crescevano ad ogni momento i soldati freschi ai confederati, per modo che spingendosi avanti sui cadaveri dei loro compagni, che quasi pareggiavano il parapetto, con le bajonette in canna superarono il passo, e fecero strage del nemico. Moreau, che in questa orribile mischia si era mescolato coi combattenti, comandava a' suoi, che, abbandonato e rotto il ponte, si ritirassero. Ciò mandarono ad effetto, aspramente seguitati dal nemico. Ebbero comodità di rompere, non tutto, ma solamente una parte del ponte: sulla opposta riva attendevano a riordinarsi. Ristorava prestamente Melas il ponte, ed una nuova, ed ugualmente aspra battaglia ingaggiava coi repubblicani, che animati dalla presenza e dai conforti del loro generalissimo virilmente si difendevano. Ma già la fortuna più poteva che il valore; già tutte le schiere superiori erano o separate, o volte in fuga, e già, oltre la schiera di Melas passata a Cassano, una novella squadra, che aveva varcato a San Gervasio, urtava i Francesi per fianco: già Moreau medesimo era in pericolo di esser preso dai vincitori, che il cingevano d'ogn'intorno.

Altro consiglio non gli restava se non quello di partirsi prestamente con tutte le sue genti, lasciando intieramente la vittoria in poter di coloro, che l'avevano acquistata. Ma questa risoluzione non era facile a condursi ad effetto, perchè gli Austriaci vincitori da ogni parte baldanzosamente instavano. Pure pel disperato valore de' suoi soldati, che amavano meglio perdere la vita, che il loro capitano, Moreau si riscattava da quel duro passo, e perduta intieramente la battaglia, e lasciato Milano sicura preda ai confederati, gli parve di condurre a presti passi l'esercito sulla destra sponda del Ticino. Melas e Suwarow si ricongiunsero a Gorgonzola. Da quanto si è fin qui raccontato si vede, che nissuna speranza di salute restava a Serrurier. Fu assaltato dai due corpi riuniti di Rosemberg e di Wukassowich. Si difendeva con un valore degno di lui e de' suoi soldati; e sebbene il combattimento fosse tanto disuguale pel numero, tanto fece, che si condusse intero a Verderia, e quivi affortificatosi con molta prestezza ed arte attendeva a difendersi. Ma essendosi finalmente accorto dal continuo ingrossar del nemico, dell'infelice successo della battaglia sulle altre parti, e tempestando da tutte le bande le artiglierìe nemiche sopra uno spazio assai ristretto, chiese i patti, e gli conseguì molto onorevoli. Gli ufficiali avessero la facoltà di tornarsene sotto fede in Francia, i soldati fossero i primi ad avere gli scambi. Combatterono in questo fatto con molta fede e valore i reggimenti Piemontesi condotti dal generale Fresia. Serrurier e Fresia furono trattati umanamente dai vincitori. Un presidio lasciato in Lecco sotto il colonnello Soyez, imbarcatosi sul lago, e giunto con prospera navigazione a Como, arrivava a salvamento sulle rive del Ticino; difficile, e coraggiosa impresa. Mancarono in questa battaglia di Cassano, che fu una delle più aspre e sanguinose che si siano vedute, dei Francesi meglio di due mila uccisi, ed altrettanti feriti: cinque mila prigioni vennero in poter del vincitore; tra questi Serrurier, Baker e Fresia. Furono scemati gl'imperiali di tre mila soldati o morti, o feriti. Molte armi e bandiere conquistate accrebbero l'allegrezza loro. Più di cento cannoni venuti in poter loro attestarono massimamente la grandezza della vittoria. Errarono, come è evidente, i Francesi in questa battaglia, prima per aver troppo disteso le ali loro, poi per negligenza nel sopravvedere: il che diè comodità a Wukassovich ed a Chasteler di passare a Brivio ed a Trezzo; del resto combatterono col solito valore. Debbonsi lodare i confederati di un valor pari, di molta destrezza, e di maggior audacia nell'aver passato. Tuttavia, se non era Chasteler, che prestamente accorse in ajuto dei passati con genti fresche, la cosa si sarebbe ridotta dal canto dei confederati in gravissimo pericolo, e probabilmente la loro audacia sarebbe stata stimata temerità.

La vittoria di Cassano, che compiva quelle di Verona e di Magnano, e faceva tanto crescere il nome imperiale in Italia, recò in poter degli alleati tutta la Lombardia, ed il Piemonte. In tanta disuguaglianza di forze militari, ajutate dalle inclinazioni dei popoli, non si comprende come i Francesi si siano risoluti a lasciare tanti presidj nelle fortezze dei paesi abbandonati, era evidente, che sarebbero stati costretti a capitolare, atteso massimamente che le più non erano difendevoli lungo tempo. Mantova sola poteva, e doveva guardarsi, perchè abile a sostenersi, e ad aspettare i sussidj di Francia, e quanto portassero i destini da Napoli per opera di Macdonald. Se dopo le rotte di Verona e di Magnano, si fossero chiamati i presidj a congiungersi colla parte principale avrebbero potuto combattere del pari, e tenere in pendente la fortuna. Ma avendo voluto combattere spartitamente, furono anche spartitamente debellati, colpa o di soverchia confidenza in se stessi, o di poca avvertenza dei loro generali.

Le genti Russe più affaticate delle Austriache per lungo viaggio, si riposarono dopo la battaglia. Fu perciò commessa la cura a Melas di condurre quelle dell'imperatore Francesco in Milano già vinto prima che occupato. Importava altresì, che un paese Austriaco fosse dagli Austriaci ritornato alla consueta obbedienza. Vivevasi in Milano con grandissima sospensione di animi, perchè i reggitori della repubblica, con tutti gli addetti ed aderenti loro, non avevano altra speranza in tanta mutazione di fortuna, che quella di salvarsi esulando in Francia. I partigiani del governo antico sollevavano gli animi a grandi speranze, e si promettevano nella depressione altrui l'esaltazione propria. Ognuno pensava od a fuggire la tempesta che sovrastava, od a farla fruttificare in suo pro. Gli amatori del governo imperiale buoni compassionavano i repubblicani, stimandogli piuttosto fanatici che malvagi, i cattivi gli volevano perseguitare, i pessimi denunziare, i profligati calunniare. Questi umori covavano. Era un gran fatto, che la sede di una repubblica riconosciuta dalla maggior parte dei potentati d'Europa, e che poc'anzi pareva, a tanti gloriosi gesti, ed alla forza dei Francesi appoggiandosi, che fosse per durare molti secoli, ora con tanto precipizio cadesse, ed al nulla si riducesse. Il pensare da una parte agli ordinamenti sì civili che militari, che vi regnavano, alle pompe che vi si spiegavano, ai discorsi che vi si facevano, agli scritti che vi si pubblicavano, ai trionfi che vi si menavano, alle imprese ed alla militare gloria di Buonaparte che vi risplendevano; dall'altra alla sembianza, ch'ella, non che fra pochi dì, fra poche ore avrebbe, dee soprapprendere con maraviglia e con istupore qualunque uomo, anche di quelli che più sono avvezzi a considerare queste umane vicissitudini. Sapevano i capi della repubblica, quale ruina sovrastasse, ma le cattive novelle si celavano al volgo, ed inorpellate cose si dicevano, ora di vittorie francesi, ora di alloggiamenti insuperabili da loro fatti, ora di fiumi impossibili a varcarsi, ora di mosse maestrevoli e sicure eseguite dai repubblicani, ora di una apprestata per arte, e prossima ruina di tutte le genti imperiali: questa fama nutricavano diligentemente, e con ogni studio. Con questo falso corrompevano il vero; i popoli si confondevano. In su questo, ecco arrivare a porta Orientale dalla parte di Cassano soldati repubblicani alla sbandata, carri di feriti, fastelli di munizioni e di bagaglie, armi sanguinose, ogni cosa retrograda. Principiava il popolo a fare discorsi ed adunanze; la sera cresceva il terrore degli uni, l'ansietà degli altri. Partivano; scortati da qualche squadra di cavalleria alla volta di Torino i direttori della repubblica Marescalchi, Sopransi, Vertemati-Franchi, e con loro quasi tutti coloro, che, o nei gradi fossero, o no, avevano maggiormente partecipato del governo repubblicano. Portò il direttorio con se denaro del pubblico, di cui una parte mandava a Novara: venne poco dopo in poter degli alleati. Rimase in Lombardìa Adelasio, uno dei quinqueviri, avendo trovato grazia appresso agl'imperiali per aver loro svelato i depositi dei denari, e degli archivj della repubblica. Degli altri repubblicani Italiani che fuggivano, e con loro le donne ed i figliuoli, che erano uno spettacolo compassionevole, i più se ne partivano poveri, perchè ai ladronecci avendo mostrato piuttosto sdegno che imitazione, potevano meglio essere accusati d'illusione che di vizj. Nè il duro dominio, di cui erano stati testimonj e vittime, nè le Tedesche grida che loro suonavano alle terga, gli svegliavano dal lusinghevole sonno; che anzi varcando miseri, esuli, e squallidi le Alpi durissime, andavano ancora sognando la loro felice repubblica, sì forte era la malattia, che gli occupava. Quanto a quelli che non avevano sognato, le stesse Alpi in cocchi dorati coi depredatori della patria loro varcavano.

Arrivava il vincitore Melas il dì ventotto aprile in cospetto della città. Gli andavano all'incontro sino a Cressenzano, l'arcivescovo, ed i municipali. Poco dopo entrava trionfando, accorrendo il popolo in folla, e con lietissime grida salutandolo. Udivansi le voci: “Viva la religione, viva l'imperatore Francesco secondo”. Cresceva ad ogni momento la calca; pareva, che tutta la città si versasse a vedere, ed a salutare i soldati, e le insegne dell'antico signore. La sera si accesero i lumi alle case, si fecero cantate, balli, fuochi d'allegrezza: dimostrazioni tutte, che si erano fatte per lo innanzi ad ogni novella di rotte Austriache. La bontà del popolo Milanese risplendette in questo importante fatto: non fece ingiuria, nè minaccia ad alcuno. Ma quando arrivò la gente del contado, s'incominciarono le persecuzioni contro i giacobini, o veri o supposti, e andò a sacco il palazzo del duca Serbelloni. Per frenar il furore di quest'uomini facinorosi in paese tanto riputato per la dolcezza degli abitatori, l'amministrazione temporanea, che si era creata, esortava il popolo ad astenersi da ogni ingiuria, ed a non contaminare con insolenze e persecuzioni l'allegrezza comune. Avvisava inoltre, che chi non obbedisse, sarebbe castigato. Volendo Melas, ed il commissario imperiale Cocastelli dare maggior nervo a queste esortazioni, avvertivano, che al governo solo s'apparteneva la punizione de' rei, e che chi s'arrogasse vendette private, o turbasse il pubblico, sarebbe senza remissione punito militarmente. A questo modo si frenarono in Milano le intemperanze popolari. Solo, poco tempo dopo, si udì il mal suono, che erano stati arrestati alcuni dei capi dello stato repubblicano, che poi si mandarono carcerati alle bocche di Cattaro. Fu questa, non so se cautela o castigo, cagione di grave dolore e terrore, perchè i presi erano uomini ragguardevoli per dottrina e per virtù. Si sentiva tosto un'altra voce sinistra, che le cedole del banco di Vienna avessero a spendersi come contante: parve enorme in quel fiorito paese, in cui era ignota la peste delle carte pecuniarie. Incominciossi a temere delle persone e degli averi: ciò contaminava l'allegrezza recente. Arrivava intanto Suwarow; il guardavano come un nuovo uomo: disse all'arcivescovo, essere venuto a rimettere la religione in fiore, il papa in seggio, i sovrani in onore. Si maravigliavano i popoli a tanto amor del papa: si taceva che fosse scismatico. Soggiunse ai municipali venuti a fargli riverenza, che gli vedeva volentieri; che solo desiderava, che come suonavano le parole loro, così avessero i sentimenti. Dal che si vede, che Suwarow vecchio se ne intendeva.

Restavano a compirsi da Suwarow due imprese, secondo che il consigliasse il procedere dell'avversario: quest'erano, o di premere a destra per disgiungere i Francesi d'Italia da quei della Svizzera, o d'incalzare sulla stanca, passando il Po, per impedire la congiunzione di Macdonald con Moreau. Sulle prime, non ben certo della risoluzione del generale di Francia, accennava all'una parte ed all'altra, mandando dall'un lato Wukassowich grosso ad invadere il Novarese ed il Vercellese, dall'altro Rosemberg, grosso ancor esso a romoreggiare sul Vogherese. Così aspettava a pigliare deliberazioni più risolute, secondo che insegnassero gli andamenti del nemico.

Dal canto suo Moreau, essendo ridotto il suo esercito a quindici mila combattenti, aveva considerato, che senza pericolo di estrema ruina, non poteva starsi a difendere la fronte del Ticino, siccome quella che era troppo estesa, e non corroborata da alcuna fortezza. Pertanto si era risoluto ad abbandonarla, portandosi più indietro. Ma a quale parte gli convenisse condursi, stava in dubbio; perchè o doveva ancor egli pensare al tenersi accosto all'Alpi per consentire con Massena, che continuava a combattere aspramente in Isvizzera, o al piegarsi sulla destra del Po per dar la mano a Macdonald, al quale aveva mandato ordine, che da Napoli partendo, e prestamente viaggiando venisse a congiungersi con esso lui sulle sponde della Trebbia. Elesse questo secondo partito, nè perchè non si sia deliberato a condursi direttamente a Genova, passando il Po tra Pavia e Voghera, a noi non appare, se forse non fu per dar animo con la sua propinquità ai comandanti delle fortezze assediate di sostentarsi. Per la qual cosa visitato Torino, e quivi informatosi diligentemente, se le strade da Genova a Piacenza fossero praticabili per le artiglierìe, nè temendo di essere seguitato così presto, perchè i grossi torrenti del Canavese si erano per le pioggie smisurate gonfiati strabocchevolmente dietro a lui, e le strade ne erano soffocate, conduceva l'esercito nei contorni d'Alessandria, alloggiandolo in un sito molto forte. L'ala sua destra era assicurata da Alessandria e dal Tanaro, la sinistra da Valenza e dal Po. Per tal modo non abbandonava del tutto le pianure, e si teneva la strada aperta verso gli Apennini. Per la quale deliberazione del capitano di Francia fu necessitato Suwarow a fermare la guerra tra la destra del Po, e la catena di quei monti. Erano cinte d'assedio dagli alleati Peschiera, Pizzighettone, il castello di Milano, e Mantova. Ma non indugiarono lungo tempo ad arrendersi Peschiera ed il castello, fatto leggiere difese; Pizzighettone si tenne più lungamente, infine un caso fortuito di una conserva di polvere, che accesa da una bomba, aveva intronato tutta la terra, diè causa di dedizione ai difensori. Rimanevano in favor dei Francesi Mantova, intorno alla quale, siccome piazza di maggiore importanza, Kray si affaticava, e con Mantova tutte le fortezze del Piemonte. Ingrossati gli alleati dai corpi che avevano oppugnato le fortezze conquistate, e fatti arditi dalle sollevazioni dei popoli in loro favore, si accostavano a Moreau coll'intento di cacciarlo per forza da quel forte nido, in cui si era ricoverato. Ma credendo, che egli fosse più debole, o i Francesi più perduti d'animo, in vece di andar all'incontro con forze grosse ed unite per venirne ad una battaglia giusta, giudicarono di poterlo snidare con dimostrazioni parziali, e con romoreggiarli all'intorno. Passarono i confederati, massimamente Russi, il dì undici maggio, il Po a Bassignana; i Francesi, essendo andati ad urtargli, gli ruppero, e tuffarono nel fiume. Ripassaronlo più grossi il giorno seguente, ed assaltarono virilmente i repubblicani; ma essi più virilmente ancora resistendo, rimasero superiori, ed uccisero gran numero d'imperiali; i superstiti cacciarono nel fiume. Nè quale utilità avessero questi assalti particolari, io non lo so vedere, perciocchè, quando puoi vincere con tutte le forze, non ti devi mettere a pericolo di perdere con una parte. Dall'altro lato Keim, acquistato Pizzighettone, era venuto ad ingrossare Rosemberg sulla destra del Po, e fatto forza contro Tortona, facilmente la recava in suo potere, essendosi i Francesi ritirati nel forte. Tentata invano l'ala sinistra di Moreau, avvisarono i confederati di far pruova, se minacciando sulla destra, il potessero sforzare alla ritirata. A questo fine si appresentarono molto grossi a San Giuliano, che accenna a Marengo, luogo vicino ad Alessandria. Ma Moreau, che conosceva l'arte, ed aveva penetrato l'intento del nemico, ricusava il combattere, difendendosi con la fortezza degli alloggiamenti. Ciò fu cagione, che Suwarow pensasse a fare il principale sforzo della guerra sulla sinistra del Po. Della qual cosa accortosi il generale di Francia, usciva, traversata la Bormida, dal suo campo, ed assaltava con impeto grandissimo Keim e Froelich, che avevano le stanze a San Giuliano, ed obbedivano a Lusignano. S'ingaggiava una battaglia molto viva, traendo i Francesi a scaglia, e caricando con la cavallerìa. Avrebbero anche vinto quella pugna, se per caso fortuito non sopraggiungeva con genti fresche Bagrazione, che entrando nella battaglia nel momento, in cui già i confederati piegavano, gli sostenne, ed obbligò Moreau a tirarsi indietro. Ritirossi infatti, ma intiero e minaccioso, tornando nel suo sicuro alloggiamento fra i due fiumi. Fu sanguinosa la zuffa da ambe le parti, ed ambedue si attribuirono la vittoria. Così Moreau dimostrava, che era ancor vivo, e che gl'infortunj presenti non gli avevano tolto nè la mente, nè la fortezza d'animo.

Oramai la guerra, che gli romoreggiava tutto all'intorno, lo sforzava a far nuove deliberazioni. Wukassowich, accompagnato da un principe di Roano, conquistato il Vercellese, si era fatto avanti sino alle prime terre del Canavese, e tutto vi metteva a romore. Keim ancor egli tempestava sulla destra del Po, per modo che il generale Francese si trovava spuntato da ambi i lati. Oltre a ciò i popoli del Canavese, condotti da preti e frati si erano levati a calca contro i repubblicani. Mondovì parimente si muoveva contro di loro; Fossano e Cherasco il seguitavano. Ceva incitata da un ufficiale Tedesco di singolare audacia, prese le armi, tumultuava. Alba si sommuoveva, e creato il suo vescovo Pio Vitale, comandante delle armi, si avventava contro i Francesi ed i democrati del paese. Si commisero sotto l'imperio del vescovo atti di grande crudeltà. Asti stesso tanto vicino al campo di Moreau, invaso da contadini armati, e stimolati da alcuni curati, di cui avevano le lettere, vide saccheggiarsi il palazzo municipale, e la chiesa del Carmine da questa plebe sfrenata, che gridava “viva la fede, viva San Secondo”! Il presidio Francese non penò poco a cacciargli: pure finalmente gli cacciò, uccidendone un centinajo. Poi venne il generale Meusnier saccheggiando il paese per punirgli, e ne fece per giudizj militari uccidere un altro centinajo. I compagni gli gridavano martiri. Le terre Astigiane grondavano sangue, quasi in sul cospetto di Moreau. Pensava egli alla salute de' suoi: vedendo piena troppo grossa, e che non era più tempo di aspettar tempo, passando per Asti, Cherasco e Fossano, e lasciate ben guardate Alessandria e Tortona, andava a porsi alle stanze di Cuneo, per avere le strade libere verso Francia pel colle di Tenda, e per la valle dell'Argentera. Mandava una grossa banda a castigare Mondovì; come i sollevati a niuna cosa avevano perdonato, che fosse, o paresse, o si supponesse a loro contraria, nemmeno alle donne di coloro che chiamavano a morte, perciocchè crudelmente le svillaneggiavano e stupravano; così i repubblicani parimente a niuna cosa perdonarono, non salvando nemmeno l'onestà dei monasterj delle donne. Preti e frati, capi delle sommosse, dopo di aver ucciso crudelmente i repubblicani, furono essi medesimi uccisi soldatescamente dai repubblicani. In mezzo a questi atroci accidenti, di cui ambe le parti si rendevano ree, Buronzo del Signore, arcivescovo di Torino, mandava fuori, a petizione di Musset, commissario di Francia, lettere pastorali lodatrici del governo repubblicano, e pareggiatrici delle sue massime a quelle del Vangelo. Poi crescendo vieppiù la rabbia dei popoli, pubblicava una pastorale esortatoria, in cui molto amorevolmente citando frequenti passi delle sacre scritture, confortava i popoli a quietare, e ad obbedire ai magistrati. Questi erano veri ufficj di pastore delle anime; ma la rabbia, e la concitazione degli altri cherici erano più potenti delle amorevoli esortazioni dell'arcivescovo: dicevano, che le faceva per forza, e forse era vero; altri il chiamavano giacobino. Da Cuneo il generale della repubblica, lasciatovi un forte presidio, si conduceva, essendo oggimai stremo di genti, sul destro dorso degli Apennini.

Partiti i Francesi, ciò fu cagione che l'amministrazione del Piemonte, che Moreau passando per Torino aveva creato di quattro persone, Pelisseri, Russignoli, Capriata e Geymet, in surrogazione di Musset tornatosi in su quei primi romori, in Francia, andasse a far capo in Pinerolo, perchè le valli dei Valdesi, vicine a questa città, ed abitate da popoli quieti e nemici di ogni scandalo, davano un adito sicuro a ripararsi in Francia. Quivi concorrevano tutti i Piemontesi, ed altri Italiani, che avevano più speranza nella fuga, che nella benignità del vincitore. Le cose erano disperate: pure quest'uomini ingannati dalle solite fantasime, con grandissima acerbità sdegnati minacciavano ancora i nemici, ed incitavano i popoli ad armarsi in sostegno della repubblica. Per la partenza medesima dei soldati di Francia si moltiplicavano a dismisura in Piemonte le sommosse popolari. La rabbia politica, il zelo, come pretendevano, della religione, spesso ancora l'amore del sacco, e gli odj privati producevano questi effetti. Sorse ad accrescergli un manifesto mandato da Suwarow ai Piemontesi dalle sue stanze di Voghera, il quale con parole aspre e minatorie spiegava le intenzioni imperiali: che gli eserciti vincitori mandati dall'Austria e dalla Russia in nome del legittimo sovrano del Piemonte verso il Piemonte volgevano il passo; che venivano per rimettere il re sul trono de' suoi augusti antenati, del quale per la perfidia loro l'avevano i suoi nemici detruso; che venivano, perchè la religione trionfasse, perchè il Piemonte da quel duro e tirannico giogo, al quale da' suoi oppressori era stato posto, si liberasse, perchè il mal costume, che essi in tutti i cuori andavano seminando, si spegnesse; che sapevano quale amore, quale fedeltà i Piemontesi portassero all'augusta casa di Savoja, la quale da tanti secoli con tanta gloria e sapienza gli aveva governati; gli esortavano pertanto ad armarsi per una causa nell'esito felice della quale tutta la felicità loro consisteva: pensassero ai loro antenati, quelle armi in mano di nuovo si recassero, che erano state sì spesso vittoriose contro il comune nemico; accorressero sotto le insegne dell'esercito vittorioso, ch'egli reggeva, si unissero, e sarebbero gl'impostori, che per opprimergli gli avevano ingannati, cacciati per sempre dalle terre loro; che alle armi gl'invitava solo pel sostegno della religione; che alle medesime gl'invitava solo per la conservazione delle proprietà: che i due imperatori, ed ei per loro, promettevano protezione, ed assistenza ai fedeli, perdono al deboli, castigo ai scellerati. Si armassero adunque, concludeva, si armassero, ed alle genti imperiali si accostassero: pensassero, quanto fosse pietoso il liberare il Piemonte dalla tirannide acerbissima dei giacobini; ciò da loro richiedere l'onore, ciò richiedere il dovere; non gli rattenessero le false promesse: solo valere il giuramento antico, non quello prestato ad un governo iniquo; le sublimi virtù dei due imperatori abbastanza dimostrare, che la fede sua nel promettere o benignità o castigo, viverebbe santa ed inviolata.

Queste parole atterrivano maravigliosamente gli uomini avversi, perchè sapevano, che Suwarow era uomo capace di fare più che non diceva. Dall'altro lato le genti stimolate si sollevavano: atroci fatti seguitavano parole incitatrici. Carmagnola, città vicina a Torino, si levava a romore, ed ammazzava i repubblicani che viaggiavano alla spicciolata: i repubblicani accorsi armatamente da Pinerolo ammazzavano i Carmagnolesi, ardevano le case loro, e davano inesorabilmente a morte i frati, autori della sommossa. Queste cose succedevano a ostro di Torino: a tramontana delle peggiori. Il Canavese, provincia dotata di popoli armigeri e fieri, vieppiù s'infiammava; vi sorgevano opere, parte da commedia, parte da tragedia. Un antico ufficiale in riposo d'Austria, che Branda-Lucioni aveva nome, giudicando che quello fosse tempo da prevalersene, si era fatto capo di villani armati, e già aveva corso sollevando, e depredando il Novarese ed il Vercellese, quando fermatosi in Canavese, pose la sua sede in Chivasso. Le turbe agresti che il seguitavano, erano andate, strada facendo, ingrossandosi: le chiamava masse cristiane. Questo Branda con le sue masse, quando arrivava in una terra, prima cosa, atterrava l'albero della libertà, e piantava in suo luogo una croce: quivi poscia s'inginocchiava, e stava un pezzo orando. Poi trovava il paroco, e si confessava e comunicava. Nè dimenticava la cura del corpo; perchè si dava al desinare, ed usava anche del vino immoderatamente: la massa cristiana vedeva spesso andar a onde il buon uomo. Nè gli importava, che due più che una volta le medesime cose nello stesso giorno facesse, perchè quanti villaggi visitava, tante le ripeteva. S'informava, se nella terra fossero giacobini, ed avveniva, che i giacobini erano sempre i più ricchi: erano messi o a taglia o a ruba. Chi non pagava, predato o carcerato, ma il pagar la taglia mezzo sicuro di riscatto. Due cappuccini aveva per segretari: preti, curati e frati l'accompagnavano con forche, picche, pistole e crocifissi. Frati erano d'ogni sorta e di ogni colore, ed armati in varie e strane guise: un curato accinto di pistole assai ben grosse, custodiva il passo della Stura. I villani seguitando facevano gesti e schiamazzi, parte ridicoli, parte tremendi. Il terrore dominava il Canavese. Non solo chi aveva opinione contraria, ma chi aveva o lite, o interesse contrario con alcuno di quest'uomini fanatici, era chiamato a strazi, a prigionìa, ed a morte. Nè preservava l'età, o la virtù, o l'innocenza; tutti erano da un incomposto furore lacerati. Sonsi vedute donne tratte, per opinioni o vere o supposte, alle ingiurie estreme da uomini sceleratissimi: sonsi veduti magistrati rispettabili legati con corde, e svillaneggiati con ogni obbrobrio da uomini facinorosi, che avevano anticamente, e sotto il governo regio chiamati a giustizia per commessi delitti: sonsi veduti vecchi infermi, o scempiati da queste masse furibonde, o fuggenti con istento la cieca rabbia, che gli perseguitava. Le matte cose, che questo Branda dava a credere alle sue masse, sono piuttosto di un altro mondo, che di questo; perchè diceva, che con bastoni e con pali avrebbe preso la cittadella di Torino, ed elle se lo credevano; che avrebbe preso Francia, e se lo credevano; che Gesù Cristo gli compariva, e se lo credevano; e preti e frati applaudivano, e più applaudivano, nelle meriggiane ore, che nelle mattutine. Credo, che scena simile a questa non sia stata al mondo mai. Intanto il buon uomo si prendeva le taglie, ed attendeva al vino. Infine, prima i preti timorosi, poi i villani sospettosi incominciarono a subodorar l'umore, e diedero mano al mormorare. Brevemente, vedendosi scoperto, si cansò, e temendo, che i generali Russi o Tedeschi, ai quali non piacevano le opere nefande, gli dessero premio secondo i meriti, andava domandando attestati di ben servito a questo ed a quello, massime ai preti: alcuni gliene diedero, o per compassione o per timore; i più gli ricusarono. Il vescovo, e la città di Novara sdegnosamente glieli negarono, fu posto pe' suoi portamenti in carcere a Milano, e vi stette tre mesi. Durerà lungo tempo la memoria di questo Branda in Canavese, come caso di credulità sciocca, e di furore pazzo. Ai tempi che seguirono, e quando i repubblicani tornarono in Piemonte, prevalse fra di loro l'uso, che chi parteggiava, o fosse creduto parteggiare pel governo regio, Branda da questo lepido capo si chiamasse. Intanto le masse sollevate continuavano, nè furono sciolte, se non quando i confederati, fatti più sicuri dalle vittorie, giudicarono, i moti composti essere migliori degl'incomposti.

Frattanto Suwarow intendeva l'animo all'acquisto di Torino, perchè essendo città capitale, si stimava che la possessione di lei, facendo risorgere l'immagine del regno, inviterebbe i popoli a tornar all'antica obbedienza. Oltre a questo, importavano agli alleati il suo sito, molto accomodato alla guerra, e la copia delle artiglierìe e delle munizioni, che vi si trovava ammassata. Non aveva potuto Moreau, per la debolezza delle genti, che gli restavano, lasciar in Torino un presidio sufficiente, e dalla guarnigione della cittadella in fuori non vi era forza che potesse preservar la città quantunque fosse cinta di mura forti, ed ordinate, secondo l'arte, a difesa. Ad un recinto tanto largo appena avrebbe potuto bastare contro l'oppugnazione tutto l'esercito, che il generale di Francia aveva condotto oltre i sommi gioghi dei monti. Solo vi era dentro una guardia cittadina, che prima urbana, poscia nazionale chiamata, ed avendo oggimai a noja e le mutazioni e le guerre, e le grida di questo o di quello, intendeva solamente a conservare intatte le proprietà e le persone. Arrivava Wukassowich con genti regolari, e turbe paesane; faceva la chiamata. Rispondeva Fiorella, volersi difendere. L'Austriaco, occupato il monte dei Cappuccini, che dalla riva opposta del Po sopraggiudica la città, e piantatevi alcune artiglierìe, non grosse, ma da guerra sciolta, principiava da quel luogo rilevato a dar la batterìa; rispondevano, ma debolmente le artiglierìe della mura. Non facendo frutto con le palle, provò le bombe, perchè sapeva, che si resisteva piuttosto pel difetto delle armi, e delle genti necessarie ad espugnare, che per la sufficenza del presidio. S'accesero alcune case vicine alla porta di Po; il che fra quello strepito di artiglierìe accrebbe molto il terrore; già le menti commosse credevano approssimarsi l'estremo sterminio. In questo punto la guardia urbana apriva la porta. Entrarono a furia i soldati corridori di Wukassovich; gli accompagnavano, cosa di grandissimo spavento, le turbe informi di Branda-Lucioni. Salvaronsi frettolosamente in cittadella i pochi soldati repubblicani, che alloggiavano in città, dei quali alcuni furono presi, altri uccisi. Già Torino non era più in poter di Francia, ma non era ancora del tutto in poter d'Austria, perchè su quel primo giungere le turbe contadinesche dominavano. Per primo fatto, ed in sul bell'entrare uccisero un Ghiliossi, ufficiale d'artiglierìa molto riputato, il quale, quantunque fosse in voce di amare il governo nuovo, si era mescolato, certo molto imprudentemente, coi circostanti per vedere passare quegli uomini arrabbiati. Scoperto, “oh, ecco un giacobino”, dissero, e tosto l'ammazzarono. Il suo cadavere fu lasciato giacere nel sangue lungo tempo, e ad esso con gli scherni e con gl'impropreri insultavano. Le feroci masse ebbre di rabbia e di vino, correvano le contrade, riempiendo l'aria di grida orribili; si promettevano il sacco. Un cavaliere Derossi, colla spada nuda in mano, gli guidava ed animava, e correndo con loro gridava, e faceva che gridassero “Viva il re, viva la casa di Savoja, muojano i giacobini”. In mezzo a queste grida la moltitudine sfrenata dava il sacco alle case Ferrero e Miroglio, ed al caffè di Scanz, a quelle come di giacobini, a questo per non so quale insegna repubblicana. Derossi faceva minacce a chi affacciatosi alle finestre, non gridasse: “Viva il re”. Mangiari di ogni sorta, e fiaschi di vino si calavano continuamente e so dire, molto volentieri, dalle finestre, perchè non era tempo da esitare. I villani gridavano senza posa, “muojano i giacobini! dove sono questi giacobini? che ci si diano qua: che stiam facendo, che non gli ammazziamo tutti?” Giacobini e non giacobini si nascondevano, perchè sapevano, qual discernimento abbia in simili casi il volgo. Insomma Torino pieno di spavento aspettava qualche gran ruina, e se i confederati non fossero stati presti ad accorrere, ed a frenare quegli uomini furibondi, sarebbero forse avvenuti mali peggiori di quelli che si temevano. Premevano gli animi di tutti i pensieri delle cose presenti e future.

Quando i tumulti, che avevano conquassato il Piemonte, alcun poco restarono, entrava a guisa di trionfatore il generalissimo Suwarow. Andava in sul giungere nella chiesa metropolitana di San Giovanni per ringraziare Iddio dell'acquistata vittoria. Fu ammesso molto volentieri al bacio della pace, ed alla celebrazione dei divini misteri dall'arcivescovo Buronzo, il quale, dopo di aver lodato alcuni giorni prima la repubblica, ora chiamava nelle sue nuove pastorali il generale Russo, inviato del Signore, novello Ciro. Nè si oppose al vedere certe immagini, che si andavano vendendo, e che il volgo ignaro osservava maravigliando, nelle quali la Russia, l'Austria e la Turchia erano rappresentate con gli attribuiti della Santissima Trinità. Queste cose io narro bene a mala voglia; pure son costretto a narrarle per amor della verità, e perchè i nostri nipoti sappiano, quanto noi siamo stati pazzi.

Intanto Fiorella, che governava la cittadella, traeva con le artiglierìe; i confederati traevano contro di lui: era vicino un altro sterminio; i miseri Torinesi tra Francesi, Russi, Austriaci, repubblicani, regj, dalle paure e dai dolori non potevano respirare. Infine le due parti convennero, perchè altrimenti la sede del re ne andava in sobbisso, che i confederati non assalterebbero la cittadella dalla parte della città, ed i Francesi non infesterebbero la città dalla cittadella. Era Suwarow continuamente veduto, e corteggiato dai nobili; i più savi consigliavano la moderazione, gli altri il rigore.

Il Russo, quantunque fosse di natura molto risentita, ed anzi acerba, massime in queste faccende di stato, più volentieri udiva i primi che i secondi, perchè giudicava secondo la ragione, non secondo le parzialità del luogo, o i desiderj dì vendetta. Gli pareva, sebbene fosse venuto dall'Orsa, che fosse oggimai tempo di riordinare lo stato, piuttosto che di alterarlo con le acerbità, che generano nuove nimicizie e nuovi sdegni. Chiamava a se il marchese Thaon di Sant'Andrea, e gli dava carico di riordinare i reggimenti del re. Il marchese con un acconcio manifesto esortava i soldati Piemontesi a tornare sotto le antiche insegne, promettendo, che si sarebbero perdonate le trasgressioni, e si aprirebbe volentieri il grembo a tutti gli sviati, che per le difficoltà dei tempi si erano voltati a servire ai governi nuovi, e che prontamente si rimettessero nell'obbedienza: a queste parole senza tardità i soldati si raccoglievano. Poi Suwarow consigliandosi col marchese medesimo, e con gli altri capi del governo regio creava, per dar forma alle cose sconvolte, un governo interinale sotto nome di consiglio supremo, insino al ritorno del re. Riputando poi a proposito di lui il dare la potestà ai più affezionati, vi chiamava il marchese, i capi delle tre segreterìe, i primi presidenti del senato e della camera dei conti, l'avvocato, ed il procurator generale, l'intendente generale delle finanze, il contador generale, ed il reggente il controllo generale; voleva, che i magistrati antichi riprendessero gli uffizi; ordinava, che il consiglio supremo fra le leggi emanate dopo la partenza del re, scegliesse quelle che si dovessero conservare. Grave peso era addossato al consiglio: le cose scomposte oltre ogni credere, massimamente le finanze. Oltre la voragine della guerra, e le molestie, le fraudi, e le rapine degli amministratori degli eserciti Russo ed Austriaco, certamente non più continenti dei repubblicani, quei biglietti di credito laceravano lo stato. Per liberarsene, decretava che si spendessero, e nei pagamenti si accettassero, non a valor di segno nè di editto, ma a valor di cambio, deliberazione giusta in se rispetto ai particolari tra di loro, non rispetto al governo. Parve decreto enorme: gravi risentimenti aveva prodotto la legge precedente, che aveva scemato dei due terzi il valore dei biglietti, ma questa del consiglio, sancita, come si disse, a petizione del conte Balbo, soprantendente le finanze, del valore che solo valessero a valor di cambio, ne partorì dei più gravi. Oltrechè i possessori si trovarono offesi della differenza tra il valore edittale, e quel di cambio, la legge del governo istituito dai Francesi aveva offeso solamente gl'interessi privati, mentre questa offendeva gl'interessi privati ed il buon costume, ed aperse la porta ad abusi innumerabili; imperciocchè s'incominciò a far disegni, ed a negoziare sull'aggio, pessima corruttela dello stato sociale. Grande difficoltà era pure nel provvedere le vettovaglie necessarie alle popolazioni paesane, ed a tante genti forestiere; perchè la vernata essendo stata molto aspra, vi era estrema carestia; e siccome i più forti erano i primi a procacciarsele, così i vincitori, che si chiamavano amici ed alleati, se ne vivevano largamente, mentre gli uomini del paese pativano all'estremo dei cibi necessarj, ed erano tormentati dalle ultime necessità; alcuni se ne morirono di fame. I vincitori pascevano i cavalli coi granelli della saggina o sia meliga, che è il principal cibo dei contadini del paese, ed i Piemontesi affamati ne domandavano invano. Furon visti uomini costretti dalla estrema fame razzolare, crudo ed insolito spettacolo in Piemonte, nello stallatico dei cavalli, e pascersi dei granelli superstiti, miserabili reliquie. A questo si aggiungeva, che se i villani frenati dai capitani, avevano cessato, sebbene non intieramente, dal sacco e dalle persecuzioni, i Cosacchi, i Panduri, e non so qual altra peste di questa sorte, avevano principiato a far da loro. La parzialità pei Francesi era il pretesto, la cupidigia la cagione, la violenza il mezzo, il furto il fine. I Piemontesi non erano sicuri nè in casa, nè fuori; le case andavano in preda, o per forza o per inganno; le ingiurie per le strade, ed anche per le contrade della real Torino si moltiplicavano; varie erano le forme: alcuni rapivano gli orologi di tasca, dicendo, “Jacob, Jacob”, come dir giacobino; e gli rapivano ai giacobini, ed ai non giacobini ugualmente. Toccavano altri i capelli, credendo, che i giacobini gli avessero mozzi, e se venivano, gridavano “Jacob, Jacob”, e mettevano l'uomo per la peggiore: nelle campagne, veduto chi andasse per la strada ai fatti suoi, tosto gridavano “Jacob”, correvano dietro, ed era forza riscattarsi, quando non si poteva fuggire. Io ho conosciuto un repubblicano, che era fatto fuggire su pei monti da una stretta di Panduri, che gli teneva dietro, gridando “fermati Jacob, fermati Jacob, che siam truppe dell'imperatore”. Quella gente zotica si persuadeva, che perchè eran truppe dell'imperatore, il repubblicano dovesse fermarsi; ma ei si dileguava loro davanti con migliori gambe. Insomma la guerra è guerra, i vincitori sono vincitori, ed il ciel guardi gli stati deboli dagli alleati potenti. Non mai il Piemonte fu tanto squallido, quanto ai tempi della presenza degli Austriaci e dei Russi.

Non si fece sangue per giudizj civili nè sotto il governo di Joubert, nè sotto quello di Suwarow; ma dominando il Russo, molti partigiani del nuovo stato, fra i quali non pochi virtuosi uomini, furono carcerati, parte per odio, parte per assicurarsi di loro massimamente perchè i repubblicani innanzi che partissero, avevano arrestato, e condotto ostaggi in Francia per sicurezza dei compagni, i capi delle principali famiglie nobili del Piemonte. Il collegio dei nobili di Torino pieno di questi prigionieri di stato: eranvi il conte San Martino, il conte Galli, il conte Avogadro, l'avvocato Colla, il giudice Braida, e con molti altri quel Ranza, che al suono della rivoluzione del Piemonte sua patria, era prestamente accorso da Milano, dove secondo la sua disordinata natura, ma pure con sincerità d'animo, non contento di cosa che si facesse, o di anima che vivesse, scriveva contro tutti senza freno alcuno quanto gli suggeriva la mente sua torbida ed inquieta. Gli scherni che loro si facevano dal popolazzo erano gravi, le minacce ancor più gravi; le medesime carcerazioni nelle provincie.

Vedeva il consiglio, che per confermare lo stato del re, principalmente nella capitale, si rendeva necessario l'espugnare la cittadella; perchè non solamente ella era di sicurtà grande alle cose del Piemonte, ma non si giudicava nemmeno onorevole l'avere quel morso in bocca nella sede stessa della podestà suprema: laonde, acciocchè la faccenda camminasse con maggior diligenza, si offerse a far le spese dell'oppugnazione. Il giorno tredici giugno principiarono i confederati a lavorare al fosso, ed alla trincea della prima circonvallazione, che si distendeva dalla strada di San Calvario a quella di Susa, ed era distante solamente a trecento passi dalla strada coperta. Non mancarono gli assediati a se medesimi nel voler impedire colle artiglierìe, che i nemici tirassero a perfezione la trincea. Ma questi con le solite arti affaticandosi, ed ajutati con molto fervore dai contadini, che niuna fatica o pericolo ricusavano, apprestarono le batterìe, e la mattina del diciotto diedero mano a bersagliare la fortezza. Circa cento bocche da fuoco buttavano contro di lei, parte di punto in bianco, parte e molto più di rimbalzo; la quale ultima maniera di trarre fece nella piazza danni e rovine grandissime; perchè siccome lo spazio, per non essere la cittadella molto grande, in cui piovevano le palle, era angusto, così coi salti, coi ribalzi, e coi rimandi loro avevano rotto tutte le traverse, fracassato i carretti, ferito a morte un gran numero di cannonieri: il suolo si vedeva smosso, ed arato per ogni verso. Tiratori Piemontesi abilissimi dalle trincee con grosse carabine molto aggiustatamente traevano, ed imberciavano i cannonieri per le cannoniere: i parapetti in molte parti già squarciati e rotti. Faceva Keim, che da Suwarow aveva avuto carico di quest'oppugnazione, la intimata alla piazza: rispondeva Fiorella, volersi tuttavia difendere. Il bersaglio rincominciava più forte che per lo innanzi, e continuava sino al mezzodì del diecinove. La caserma, i magazzini, la casa stessa del governatore Fiorella ardevano: una conserva di polvere aveva fatto scoppio; le casematte, per esservi trapelata molt'acqua, non offerivano rifugio. Morti erano la maggior parte dei cannonieri, le batterìe scavalcate, i parapetti distrutti; la piazza ridotta senza difese d'artiglierìe. Già la seconda circonvallazione si scavava a gittata di pistola dalla strada coperta, e gli oppugnatori la continuavano con la zappa per modo che già erano vicini a sboccare nel fosso. Il perseverare nella difesa sarebbe stato piuttosto temerità, che valore; perciò Fiorella trattò della resa. Si fermarono il dì venti i capitoli, pei quali si pattuì che il presidio uscisse con gli onori di guerra; che deponesse le armi; che avesse libero ritorno in Francia coi cavalli e colle bagaglie; che desse fede di non servire contro i confederati fino agli scambj; Fiorella, e gli altri ufficiali maggiori fossero, come prigionieri di guerra fino agli scambj, condotti in Germania. Uscirono i vinti in numero di circa tremila. Entrarono i vincitori il dì ventidue. Trovarono trecentosettantaquattro cannoni, centoquarantatrè mortai, quaranta obici, trentamila fucili, polvere, ed altre munizioni da guerra in grande abbondanza; insigni spoglie conquistate in pochi giorni. In così breve spazio di tempo ebbe la sua perfezione l'opera di sforzare la cittadella di Torino, e fu costretta alla dedizione una fortezza, che in una guerra anteriore aveva per ben quattro mesi vinto la contesa contro un esercito assai grosso di Francia. Gli uffiziali d'artiglierìa, ed i cannonieri Piemontesi, che in questo fatto combatterono pel re, fecero opere di egregio valore. Dimostrossi massimamente singolare la virtù di un Ruffini, capitano di non mediocre perizia, e molto dedito all'antico governo. Ottenuta la cittadella, se ne giva Keim ad ingrossare sulle sponde della Bormida Suwarow, al quale la fortuna stava preparando nuove fatiche, e nuovi trionfi. Fecersi in Torino molti rallegramenti civili, militari, e religiosi per la riacquistata cittadella. Ne pigliarono i regj felici augurj. Mandava Suwarow pregando il re, acciocchè se ne tornasse nel regno ricuperato. Ma l'Austria, che aveva altri pensieri, o che era sdegnata per avere lui seguitato sino all'estremo la parte di Francia, attraversava questo disegno: singolare condizione di Carlo Emanuele, che la sua fede verso Francia tanto con lei non gli abbia giovato ch'ella nol rovinasse, e che la sua ruina operata dalla Francia tanto non abbia potuto coll'Austria, ch'ella il rintegrasse.

Per la conquista fatta dagli alleati dello stato di Milano, del Piemonte, e delle tre legazioni, ne seguitava, che una moltitudine quasi innumerevole di repubblicani italiani d'ogni sesso, d'ogni grado, e d'ogni età, che si erano scoperti per la repubblica, fuggendo la furia boreale che gli perseguitava, si erano ricoverati in Francia massimamente nei dipartimenti vicini del Montebianco, dell'Isero, delle Alpi alte, basse, marittime, e delle bocche del Rodano. Coloro che si trovavano in maggiori angustie, si fermarono in questi dipartimenti, sperando, che presto la Francia, dalla bassa fortuna in cui era caduta, riscuotendosi, avrebbe di nuovo aperto loro le strade per tornarsene nella patria. I più ricchi o i più ambiziosi, andarono ai piaceri ed alle ambizioni di Parigi. Erano fra tutti diversi umori. I più timidi, deplorando l'esiglio, che riusciva loro insopportabile, e stimando che fosse aver diletto di ingannarsi da loro medesimi il nutrire speranza che la Francia fosse per risorgere, perchè per le rotte d'Italia pareva loro impossibile fermare tanta rovina, considerato massimamente che le sinistre novelle ogni giorno più si moltiplicavano, desideravano di rappattumarsi coi vincitori. I più costanti volevano aspettare qualche tempo per vedere a qual cammino fossero per andare quelle acque così grosse. I più animosi, non dubitando che la vittoria potesse visitar di nuovo le insegne di Francia, facevano ogni opera per stimolarla a non lasciar cadere le cose d'Italia, e con ogni istanza sollecitavano una nuova passata dei repubblicani. Mettevano avanti la ricchezza del paese, l'importanza di lui per la repubblica, la gloria acquistata, le menti sdegnate alle enormità dei confederati, i desiderj rinnovellati di Francia; cose tutte, che accrescevano facilità alla vittoria. Promettevano, si offerivano, la potenza loro oltre ogni ragione magnificavano.

Intanto il tempo passava, l'esiglio si prolungava, le speranze scemavano, i bisogni crescevano, il forestiero aere diveniva loro ad ogni ora più grave e più nojoso. In tanto infortunio la Francia gli raccoglieva benignamente; conciossiachè, oltre qualche soccorso, col quale il governo alleggeriva la sventura loro, trovarono nella cortesìa dei Francesi ospitalità tale, che a loro tutte le cose erano in pronto, salvo quelle che la sola patria può dare. Nè in questo pietoso ufficio le opinioni operavano, perchè molti Francesi furono visti, ai quali era in odio la repubblica, avere sollecitamente cura dei fuorusciti, nelle case loro ricoverandogli, e con ogni più amorevole servimento consolandogli. Tutte le terre Francesi, alle quali lo spettacolo degli esuli era pervenuto, nel far loro benefizio emolavano le une alle altre. Chambery, Grenoble, e Marsiglia si dimostrarono per questi benigni risguardi piuttosto mirabili, che singolari. In mezzo al conforto ch'io provo nel raccontare questa Francese umanità, non so s'io mi debba dire una cosa orribile: pure per far conoscere l'età, io non sarò per tacerla, e questa è, che a questi sfortunati Italiani si dimostrarono duri, spietati, ed inesorabili la maggior parte di coloro, che erano carichi delle spoglie d'Italia. Costoro altri fra gl'Italiani non vedevano, se non quelli che avevano tenuto loro il sacco, e gli uni e gli altri in mezzo alle gozzoviglie, dell'Italia e della Francia ridevano. Avrebbero veduto con ciglia asciutte rovinare, e gir sottosopra il mondo, se del mondo pei loro male acquistati piaceri non avessero avuto bisogno. Così il ricco ed il povero, il repubblicano ed il regio, gli amatori e gli odiatori dell'impresa d'Italia davano sulla ospitale terra di Francia, quanto era in facoltà loro, ed amorevolissimamente ai miseri Italiani. Solo coloro che principale cagione erano, ch'eglino fossero caduti in quel caso estremo, e che dall'Italia solamente avevano acquistato quello, che gli metteva in grado di beneficare altrui, pane alcuno, neppure l'amaro, ai depredati offerivano. Che anzi non solamente dalle laute e lascive mense loro gli allontanavano, ma ancora dagli atrj, e perfino dalle porte crudelmente gli ributtavano. Così al tempo stesso si vedeva quanto la umanità ha di più tenero e di più generoso, e quanto l'avarizia ha di più duro e di più spietato: tanto è vero che un sol vizio gli tira a se tutti, ed una sola virtù tutte!

Gl'Italiani ricoverati in Francia, dico quelli che si erano acquistato maggior credito nelle faccende, avevano persuaso a loro medesimi, che in tanta tempesta di fortuna grande mezzo a far risorgere l'Italia, e ad ajutare lo sforzo della Francia per ricuperarla, fosse il pretendere il disegno di unirla tutta in un solo stato; perchè non dubitavano, che a questa parola di unità Italica, gl'Italiani bramosamente non concorressero a procurarla. Per la qual cosa volendo trar frutto dall'occasione, si appresentarono, oltre le esortazioni non istampate, e presentate ai consigli legislativi, con una rimostranza stampata, e diretta al popolo Francese, ed a' suoi rappresentanti, la quale favellando della necessità di creare l'unità d'Italia, con queste parole incominciava:

"Il tradimento e la perfidia hanno soli dato la vittoria ad un nemico barbaro e crudele. Chi con maggiore efficacia gli favoriva, reggeva allora la vostra Francia. Voi foste, come noi, ingannati, voi, come noi, traditi da coloro, che dell'assoluta potestà dilettandosi, volevano voi tutti in un con la libertà dei popoli precipitare in quell'abisso, che le empie mani loro avevano aperto. Per pochi giorni stette, che gli abbominevoli disegni loro, accompagnati da atroci delitti, non si compissero; per pochi giorni stette, che voi, come noi, più non aveste nè patria, nè leggi. Violando essi i vostri diritti più santi, vendettero a prezzo, come gli spietati padroni vendono gli schiavi loro, la libertà vostra, la libertà dei vostri alleati. Ma ora s'incomincia a sperare. Quanto dolce ai nostri cuori mostrossi la vera ed amichevole ospitalità, che in Francia trovammo, e quanto ella è diversa dalle avare vessazioni degli agenti, dei somministratori, delle compagnìe, che hanno spogliato l'Italia! Gli ajuti da quest'uomini vili non ci vennero, nè noi gli avressimo accettati. Il gittare i nostri liberi sguardi verso la patria nostra, mandare in dimenticanza, se fia possibile, la grandezza dei mali, che da tutte le tirannidi sofferto abbiamo, rintracciarne le cagioni, mostrarne i rimedj, collocare le speranze nella giustizia, nella lealtà dei Francesi, e nei principj che hanno manifestato, pruovare, che i popoli d'Italia debbono essere amici ed alleati naturali della Francia, mostrare che vogliono esser liberi, porre in chiaro finalmente, che l'unità d'Italia è necessaria alla felicità, ed alla prosperità dei due popoli, fia l'argomento dello scritto, che indirizziamo al popolo Francese, ed a' suoi rappresentanti".

Dette poscia molte altre cose parte vere, parte di poca entità sull'unità d'Italia, terminavano dicendo:

"Se la repubblica Francese finalmente non dichiara l'unità d'Italia, essa non potrà mai purgarsi da quella opinione, in cui è venuta, quantunque ingiustamente, di perfidia nei negoziati, di fraude nei patti, alla quale il direttorio ha dato occasione di sorgere in tutta Europa per mezzo de' suoi agenti tanto perfidi, quanto corrotti. In nome della repubblica Francese osarono essi cacciare con le bajonette il popolo dalle assemblee primarie; in nome della repubblica Francese esclusero dai consigli legislativi i rappresentanti più fedeli, per sostituire ai luoghi loro gli agenti dell'aristocrazìa, i fautori dei tiranni; in nome della repubblica Francese obbligarono ad accettare trattati ingiusti, poi gli violarono; in nome suo il libero parlare, ed il libero scrivere fu spento, in nome suo cacciati dagli uffizj arbitrariamente gl'impiegati, in nome suo rotto, anche di nottetempo, l'asilo sacro dei cittadini, in nome suo tolto loro per forza le proprietà, confuse le potestà civili e criminali: in nome suo dichiarati licenziosi e nemici della libertà coloro, che ancora avevano il coraggio di amare la virtù, e di opporsi ai loro scialacqui ed alle loro depredazioni, in nome suo rifiutarono le armi ai repubblicani, e chiarirono ribelli coloro, che volevano difendere le native sedi contro il tradimento di Scherer, in nome infine della repubblica Francese introdussero la oligarchìa, contaminarono con istudiate corruttele il retto costume, e per tale guisa prepararono le sollevazioni dei popoli sdegnati da tanta oppressione e licenza. La repubblica Francese, che va a gran destino, debbe dimostrare al mondo con fatti, che opera di lei non sono tanti mali prodotti, tanti delitti commessi, e cui ella è debitrice di ricorreggere. Dicelo il popolo Francese ne' suoi scritti indirizzati al corpo legislativo; diconlo aringando i rappresentanti suoi, pieni di sdegno alle disgrazie d'Italia: palesano questi scritti, palesano questi discorsi l'affezione, che si porta all'Italia. Nel loro giusto sperare i repubblicani d'Italia d'ogni ingiuria, e d'ogni danno dimenticandosi, nell'esiglio loro solo sono intenti a ristorare la patria loro, dalle immense sue ruine liberandola. Pruovarono, che la ragione eterna, che la naturale legge richieggono la libertà e la unità d'Italia, e si persuadono, che la giustizia e l'affezione dei Francesi, quello, che la natura vuole, con la volontà loro confermando, s'apprestino ad incamminare a tal destino questa bella, ed infelice parte d'Europa".

Onorati e numerosi nomi sottoscritti davano autorità, e valore al discorso.

Gravi parole erano queste, e parte ancora vere, e parte ancora eccelse, ma mescolate ancora di non comportabile intemperanza; perchè, se era lodevole e generoso il richiedere dai Francesi la libertà e l'unità d'Italia, bene era da biasimarsi quel voler giudicare il governo Francese, quel volersi intromettere nelle faccende domestiche di Francia, quel chiamar traditore un capitano, a cui mancò piuttosto la fortuna, e forse l'animo in un solo fatto, che la rettitudine e la fede verso la patria. Il direttorio disprezzava queste improntitudini, perchè l'unità della nazione Italiana, come emola, ed essendogli molesta la sua potenza, non gli andava a grado. I rappresentanti anche i più vivi, e che si dimostravano più propensi agl'Italiani, abborrivano ugualmente dall'unità d'Italia, non avendo inclinazione alla sua grandezza; ma di queste cose si servivano nei discorsi ed orazioni loro, per isbattere la riputazione e la potenza del direttorio, ed aspreggiare i popoli contro di lui. Intanto le armi settentrionali viemaggiormente prevalevano; nè era conceduto dai cieli ai gridatori di Parigi, od ai capitani che allora tenevano il campo in Europa per la repubblica, di rintuzzarle, e di restituire alla Francia il dominio d'Italia.

Share on Twitter Share on Facebook