LIBRO DECIMOSETTIMO

SOMMARIO

Guerra in Grecia, e suoi crudeli accidenti. Corfù, e le altre possessioni Ioniche di Venezia conquistate dai Russi e Turchi. Continuazione della guerra in Italia. Avvisamenti di Moreau per resistere ai confederati. Macdonald lascia Napoli per venir a congiungersi con esso lui nell'Italia superiore. Avvenimenti sanguinosi di Roma e di Toscana. Prime battaglie tra Macdonald e gli alleati nel Modenese: le tre battaglie della Trebbia tra Macdonald e Suwarow. Moreau scende al piano, poi si ritira di nuovo ai monti. Oppugnazione, e presa di Alessandria, Mantova e Serravalle. Battaglia di Novi con morte del generalissimo Joubert. Tortona si arrende ai confederati. Guerra nel Piemonte, e presa di Cuneo.

La guerra, che insanguinava le terre Italiche, non risparmiava le Greche. Le isole del mare Ionio tolte sotto specie di amicizia dai repubblicani di Francia all'imperio dei Veneziani, vennero per forza d'armi sotto quello dei Turchi e dei Russi. Dominavano i confederati l'Ionio con le armate loro, e già con molta felicità si erano impadroniti delle isole di Cerigo, Zante, Cefalonia, ed Itaca, delle prime con l'opera efficace degl'isolani mossi a tumulto dai nobili contro i Francesi, dell'ultima non senza grave rammarico degli abitatori, ai quali in quei grandi pericoli non rifuggì l'animo dal mostrarsi favorevoli ai repubblicani, e dall'accarezzargli con ogni segno di affezione insino all'ultimo. Bene e meritamente, come pare, fu biasimato dagli uomini periti di guerra il generale Chabot, che reggeva tutti quei paesi nuovamente acquistati alla Francia, del non avere, quando vide avvicinarsi un nemico più potente di lui, ristretto, abbandonando le altre isole, tutte le sue genti in Corfù; perchè all'ultimo a chi rimanesse l'imperio di quest'isola rimaneva quello delle possessioni Joniche. L'avere tenuto le sue forze spartite fu la cagione, che più di mille buoni soldati vennero in poter dei confederati nelle isole poco difendevoli, che abbiamo sopranominate, e Corfù non ebbe per la vastità delle fortificazioni presidio sufficiente al difendersi. Solo il castello di Santa Maura si difendè gagliardamente, e lungo tempo, ma finalmente fu costretto di cedere alla fortuna del vincitore con la prigionia della valorosa guernigione. Pel medesimo errore aveva Chabot munito con presidj i luoghi della terra ferma, che essendo di antico dominio veneziano, erano venuti in mano dei Francesi. Nè alcuno può restar capace, come egli sperasse di potervisi mantenere contro tutta la potenza di Alì, Pascià di Ianina, che già, meno per obbedire ai comandamenti della Porta Ottomana, che per ingrandire se stesso in quel rivolgimento di stati, si era risoluto a combattere i Francesi. Era Alì uomo di perfida e feroce natura: aveva vezzeggiato i Francesi, quando, trovandosi forti, pensava che la forza loro fosse per tornare in sua utilità propria. Ma ora, abbassatasi la fortuna, si era indotto a dar loro l'ultima pinta: o per inganno, o per forza, che sel facesse, non gl'importava. Aveva sperato che i Francesi, quando già erano minacciati, gli avrebbero dato in mano Corfù, perchè poteva spendere molto denaro, e misurava altrui da se stesso. Di ciò aveva anzi mosso parole con Chabot, il quale, siccome quegli che per integrità e per fede verso la sua patria non era a nissuno secondo, aveva sdegnosamente ricusato. Per questo Alì si era apprestato, avendo considerato che le fraudi non fruttavano, a combattere con tutte le forze i repubblicani, che tuttavia tenevano piede nel continente a Butintrò, a Parga, a Preveza, ed a Nicopoli. Ma già la guerra romoreggiava intorno a Corfù; Butintrò, combattuto aspramente dagli Albanesi e dai Turchi di Alì, era stato sgombrato da Chabot, non senza grave perdita di parecchi valorosi soldati. Fu ferito in questo fatto un Petit colonnello, uomo di squisitissimo valore. Fe' anche sgombrare Parga, del che non poco dolore sentirono i Parganiotti, che si erano affezionati ai Francesi, e temevano la ferocia di Alì. Ma già le cose si riducevano alle strette in Corfù, a Preveza, ed a Nicopoli: imperciocchè i confederati comparsi con l'armata nel braccio di mare, che separa l'isola dal vicino Epiro, impedivano i soccorsi, che da Ancona avrebbero i repubblicani potuto mandare, ed avendo sbarcato genti in sull'isola, e piantato artiglierìe sul monte Oliveto dall'una parte, sul monte Pantaleone ed alle Castrate dall'altra, avevano incominciato a battere la fortezza. Al tempo stesso parecchie sommosse sorte nell'isola, principalmente alle Benizze, luogo abbondante di acque chiare e dolci, ajutavano gli assalitori, e travagliavano gli assaliti. In queste sollevazioni si mescolavano volentieri i Corfiotti, accesi in questa disposizione da alcuni nobili, i quali poco amavano il nome Francese, e molto il Russo; nel che procedevano con maggiore affetto il conte Bulgari, personaggio di ottima natura, ricco, e di molta dipendenza nell'isola, e la famiglia dei Capo d'Istria. La religione anch'essa operava efficacemente in quei capi Greci tanto vivaci, e tanto facili a dar la volta. Hanno i Greci la medesima religione che i Russi, e pareva loro, che il dominio Russo importasse per loro il divenire da servi padroni. Fra tutti un grave tumulto contro i Francesi sorgeva nel Mandruccio, sobborgo della città posto sotto tutela del monte Oliveto, a frenare il quale spesero i Francesi molta fatica e molto sangue.

Intanto Alì, radunato il suo esercito, in cui si noveravano meglio di undici migliaja di combattenti, la maggior parte a cavallo, si apparecchiava a dar l'assalto a Preveza, e massimamente a Nicopoli, dove era ridotto il maggior campo dei Francesi, circa settecento soldati, fra i quali sessanta Sullioti, e ducento Prevezani. Era questo campo fortificato con alcune trincee, ma ancora imperfette, ad al governo del generale Lasalcette, che udito il pericolo di Nicopoli, vi si era trasferito da Santa Maura, dove aveva le stanze, per non defraudare i suoi in quell'estremo accidente della sua presenza, e del suo esempio. Era fatale, che non pochi valorosi Francesi perissero in istranj lidi, non di buona, ma di barbara guerra, perchè fossero soddisfatti i desiderj smisurati di chi colà gli aveva mandati, ed all'ambizione di cui pareva, che il mondo non potesse bastare. Si avventava Muktar, figliuolo di Alì, contro i Nicopolitani alloggiamenti ferocemente, e più ferocemente ancora ne era dai difensori ributtato. Nasceva nelle barbare schiere uno schiamazzare orribile: gli uni stimolavano gli altri alla vendetta, perchè le armi repubblicane, massimamente la scaglia, avevano di loro fatto molta strage. Le grida e le imprecazioni atrocissime, e le minacce, e l'impeto nuovo, e gli squadroni grossi dei barbari spaventavano i capitani Prevezani, che con le loro genti tenevano il mezzo dell'esercito repubblicano; davansi alla fuga, e fuggendo traevano con se quasi tutti i soldati loro. Questo impensato accidente disgiunse le due ali estreme dei Francesi, e fu lasciato fra di esse uno spazio vuoto. Del quale favor di fortuna subitamente valendosi Muktar, ed Alì medesimo, che in su quel fatto con tutte le genti era sovraggiunto, mettendosi di mezzo, perchè Lasalcette, quantunque avesse voluto, non era stato a tempo di rannodarsi, inondarono tutto il campo, troncando ai loro nemici ogni speranza di salute. Vide quel Greco suolo, già tanto famoso per le battaglie di Augusto e d'Antonio, i medesimi miracoli di valore dall'un canto, maggior barbarie dall'altro; poichè non mai la virtù Francese nelle battaglie si mostrò tanto eminente, quanto in questa, nè mai una scelerata barbarie tanto infierì contro infelici e buoni guerrieri quanto in questo, e dopo questo miserando fatto. Rotti e scompigliati gli ordini dei Francesi dai barbari, che da ogni parte insultavano, era la battaglia ridotta in affronti particolari in cui venti combattevano contr'uno. Perivano i Francesi, ma dopo vendette a cento doppi fatte; perchè in loro quel che non poteva la forza naturale, poteva l'incredibile coraggio. Lasalcette medesimo, ed un Hotte, colonnello della sesta, con le mani loro si difendevano al pari dei gregarj. Combattevasi dai Francesi non per altra cagione che per morire onoratamente, e da uomini forti; ma anche in questo era la fortezza maggior di quel che appare; posciachè, che le generose opere loro venissero raccontate ai posteri, siccome quelle che in terre prive di ogni civiltà si commettevano, era nelle menti loro più che incerto. Adunque combattevano piuttosto per virtù propria, che per lode altrui. Infine fattosi dai Francesi, non quello, ma più di quello, che per la natura umana si può, piuttosto per stanchezza insuperabile, che per libera volontà, si diedero in poter dei vincitori, forse cento soldati, soli superstiti di sì grosso corpo. Lasalcette, e Hotte incontrarono la cattività medesima, nè non ignoravano, che quella gente barbara tra capi e subalterni non avrebbero fatto differenza.

Mentre con tanto valore si combatteva alle trincee di Nicopoli, succedeva nella vicina Preveza un fatto non meno del raccontato maraviglioso, e che in se non ebbe nè minore crudeltà dall'un de' lati, nè minor valore dall'altro. Era al governo di Preveza un Tissot, capitano della sesta, con ottanta Francesi. Avendo egli inteso della fiera battaglia che ardeva a Nicopoli, lasciati alcuni de' suoi alla guardia, si era avviato coi restanti al soccorso dei compagni; ma già la fortuna aveva concluso la tragedia di Nicopoli, e già Lasalcette era venuto in poter dei barbari. Di ciò ebbe le novelle Tissot, e la forza del nemico, che d'ogni intorno correva la campagna, gliene dava anche manifesto argomento. Ritraeva il passo verso Preveza, continuamente assalito da torme innumerevoli di Albanesi a cavallo, dalle quali, ristretti i suoi in gomitolo, ed usando l'opportunità dei luoghi, con immenso valore si difendeva. Ma il nemico, che tanto abbondava di soldati corridori, si era condotto a Preveza, dove aspramente combattuta la piccola guernigione lasciatavi da Tissot, e combattuto anche aspramente da lei, si era impadronito di una parte della terra. Giunto il capitano Francese in Preveza tanto fece con la sua debole squadra, che, uccisi quanti Albanesi se gli pararono davanti, e calpestando i mucchi dei cadaveri loro, riusciva sul porto, donde poco lontano discopriva una nave bombardiera della repubblica, ed alcune barche venute da Santa Maura, che gli arrecavano qualche ajuto di genti e di munizioni. Sorgeva nuova speranza in coloro, ai quali niun'altra speranza era rimasta, se non quella di una morte onorata; perciocchè gli Albanesi raccolti a torme inondavano Preveza e le campagne, e troncavano ogni via di scampo. Ma la speranza non fu lunga: succedeva una disperazione tanto più dolorosa, quanto più la speranza era stata viva ed inaspettata. Un Prevezano affezionato a Tissot si offeriva per andar ad avvertire il capitano della nave del pericolo de' suoi compatriotti, acciocchè accorresse prestamente in soccorso, se non per vincere, che ciò era impossibile, almeno per iscampargli. Facevalo il Prevezano, non curando le armi dei barbari, che gli suonavano d'ogni intorno. Ma un Francese, tace la storia il nome di questo piuttosto mostro che uomo, messosi sulla barca del generoso Prevezano, e con questo condottosi alla nave, affermava, avere veduto con gli occhi suoi proprj l'uccisione di tutti i Francesi, nè restar loro altra salute, se non quella di allontanarsi tostamente da quei disumani e sanguinosi lidi. La crudele bugia allignava; la nave bombardiera con le barche Mauritane, voltate le vele, se ne tornava là dond'era venuta. Che cuore fosse di Tissot e dei compagni nel vedere le andantisi vele, non so in quale lingua, nè con quali parole dire adeguatamente si potrebbe. Fatto in quel mortale caso il capitano Francese maggiore di se medesimo, gridava:

"Saran dunque, o compagni i nostri giuramenti indarno? Insulteremo noi, quai pusillanimi soldati, alle ombre dei nostri compagni eroicamente morti nelle presenti battaglie? No, noi morrem piuttosto, se vincere non possiamo, e la tomba accorrà coloro, che nel momento estremo hanno onorato la patria loro: lasciamo segni terribili del nostro valore, ed i nemici nostri all'udire le battaglie di Nicopoli e di Preveza, ed al rammentare il nome di Francia stupiscano di maraviglia, e tremino di terrore".

Ciò detto, si avventava con furiosissima pinta in mezzo ai barbari; seguitavanlo i compagni; Preveza vedeva una battaglia senza pari. Pochi uomini assaltavano una moltitudine innumerabile, nè solo l'assaltavano, ma la ributtavano, e la cacciavano piena di maraviglia e di spavento. Le contrade, le piazze, i portici di Preveza abbondavano di cadaveri, fumavano di sangue. Datosi dagli animi, che sono instancabili, quanto da loro si poteva dare, incominciavano a mancare i corpi, le cui forze lungamente non possono durare in isforzo estremo. La fame, la sete, la fatica, l'impeto stesso delle volontà avevano dato luogo alla estenuazione, e se non erano rotti gli animi, erano consumate le forze, nè più si combatteva pei repubblicani con tanto ardore. Accortisi i barbari dell'insperato cessamento, tornavano alla battaglia con grida spaventevoli: l'avidità della preda, la rabbia della vendetta gli stimolavano. Vinse la moltitudine fresca contro pochi e lassi. Chi non fu morto, fu preso, e chi non volle andar preso, a tale salse un coraggio indomabile, si uccise da se stesso con le armi tinte del sangue dei barbari; alcuni cercarono la morte, nell'avaro mare gittandosi. Degli ottanta, solo otto col capitano Tissot restarono superstiti, e questi furono tutti dal truculento vincitore dannati a vita tale, che di lei migliore è la morte. Veduti minacciosamente da Alì, erano mandati a strettissima prigione con quattrocento Prevezani, uomini e donne, presi nell'infelice patria loro. Per addolorargli, e per ispaventargli, conducevangli a riva il golfo, perchè quivi vedessero sul sanguinoso campo, dove avevano combattuto, le miserande reliquie dei loro compagni uccisi: cadaveri laceri, membra tronche, teste difformi, e bruttate di sangue, e di fango. Riconosceva, ciascuno con pianti e con querele chi aveva avuto o per parentela, o per amicizia più caro. Godevano i barbari, insultavano, minacciavano, il dolore stesso prendevano a scherno: peggiore governo di loro, affermavano, doversi fare di quello, che dei morti si era fatto; avere ad essere fra pochi momenti le teste loro vive pari a quelle degli ammazzati. Faceva Alì tormentare ed uccidere non pochi Prevezani in cospetto dei Francesi cattivi, ed ei se ne stava mirando, godendo, e compiacendosi delle miserabili grida dei tormentati e dei morienti. Condotti i vinti sulla piazza di Preveza, così ordinando il tiranno, un Albanese scotennava con rasojo le morte teste, poi le salava; poi comandava ai Francesi, che anch'essi così facessero. Ricusarono dapprima per onore e per orrore; ma battiture dolorosissime gli domavano; davansi a scotennare le teste degli uccisi compagni, spettacolo doloroso ed orribile. Gli atti nefandi a questo non si ristavano. I quattrocento Prevezani, legati, e sanguinosi dalle battiture furono condotti nell'isola Salagora, e quivi tutti senza pietade alcuna, nè con più riguardo verso l'un sesso che verso l'altro, nè verso la canuta che verso la verde età, crudelmente uccisi. Le compassionevoli preghiere per perdono, e per grazia di coloro, di cui si laceravano le membra, vieppiù inviperivano la ferocia di quell'aspra, e selvaggia gente, e chi si taceva, era l'ultimo chiamato a morte. Grondò Salagora di sangue umano a rivi, poi biancheggiò, e forse biancheggia ancora di ossa rotte, e di teschi ammaccati. Menavansi a Lorù, grossa terra poco lontana, i prigioni di Preveza e di Nicopoli; poi si avviavano verso l'Arta per alla via di Ianina. Viaggiando, quella torma di disumanati carnefici gli sforzava a portare a volta a volta le teste ancora stillanti sangue degli uccisi amici, e chi ricusava l'orrendo carico, era barbaramente tormentato. Gli Albanesi, quasi a modo di passatempo, straziavano a coda di cavallo Caravella Prevezano: straziato il lasciavano respirare, perchè raccogliesse nuova lena ad essere ritormentato, poi di nuovo sforzavano a corsa, flagellando, il cavallo, e così fra i tormenti ed i respiri il condussero, alzando essi al cielo festevoli grida, ad acerbissima morte. Arrivarono all'Arta, poi a Ianina; si offersero agli occhi loro le teste dei compagni conficcate sui merli dell'atroce reggia di Alì. Da Ianina per la Grecia, e per la Romanìa s'incamminavano a Constantinopoli. Dov'eran le strade più sassose e più aspre, toglievano loro i barbari per diletto le scarpe: dov'erano più assetati, e dove più scorrevano le acque fresche e chiare gli proibivano dal dissetarsi: chi non poteva o per stracchezza, o per fame, o per sete, o per ferite seguitare, tirato a forza sulla sponda dei fossi, vi era inesorabilmente dai crudeli accompagnatori decapitato; i compagni sforzati a portar le teste sanguinose. Sopportarono i miseri Francesi, dico i superstiti, perchè i più perirono, con inenarrabile costanza tormenti tanto insopportabili, Lasalcette, e Hotte i primi. Quando io penso dall'un de' lati alla natura tanto sensitiva dell'uomo, e con quanto amore, e con quanta difficoltà si allevino i figliuoli per fargli adulti, d'altro allo strazio, che gli uomini fanno degli uomini, spesso per nonnulla, spessissimo per cagioni lievi, qualche volta con allegrezza, sempre senza dolore, sto in dubbio, se animali feroci, o uomini io me gli deggia chiamare; che anzi al tutto mi risolvo, ed in questo pensiero mi fermo, che piuttosto uomini, che animali feroci si debbano chiamare, perchè non vedo, che le tigri facciano delle tigri quello strazio, che gli uomini fanno degli uomini; e peggio, che quando essi non possono con le coltella, si lacerano con le lingue. Bene sto sempre in dubbio, a che cosa servono la ragione e la compassione, che solo sono date agli uomini. I lacerati giunti a Costantinopoli, furono, Lasalcette e Hotte, serrati nelle Sette Torri, gli ufficiali ed i gregarj posti al remo sull'Ottomane galere.

Intanto l'oppugnazione dell'isola di Corfù si continuava gagliardamente dai Russi e dagli Ottomani. Ogni dì più cresceva il numero degli assalitori: mandava Alì i suoi Albanesi, e genti Turche continuamente arrivavano. Per avere gli alleati occupato le eminenze del monte Oliveto e di San Pantaleone, erano gli assediati ristretti nei forti, e niuna via restava loro per allargarsi nell'isola. Il Mandruccio venuto in poter dei Russi, le Castrate spesso infestate dai Turchi e dagli Albanesi, che calavano dal vicino Pantaleone, San Salvatore venuto spesso in contesa, quantunque sempre valorosamente difeso dai repubblicani. L'assalto di Corfù tirava in lungo, l'oppugnazione diveniva assedio, perchè i Francesi difendevano la piazza virilmente, ed ella è molto forte, ed i Turchi, quantunque assai coraggiosi, non sanno condurre con arte le oppugnazioni delle fortezze. In questo l'ammiraglio di Russia Ocsacow, che governava con suprema autorità la guerra, pensava ad una fazione di non difficile esecuzione, e che di certo gli avrebbe dato la piazza in mano, se avesse avuto, come non dubitava, felice fine. Siede sul fianco della città, e della principale fortezza di Corfù verso tramontana una isoletta, o piuttosto scoglio, che gli uomini del paese chiamano di Vido, e che i Francesi chiamavano col nome d'isola della Pace. Era questo scoglio, siccome pieno di alberi verdissimi, quieto recesso a chi volesse ricoverarvisi a respirare dalle cure cittadine, e dolce prospetto a chi dalla città il rimirasse. Quest'amena sede di riposo e d'ombre aveva tosto ad essere turbata, e straziata dalla rabbia degli uomini. Avevano conosciuto i Francesi, che chi fosse padrone di questo scoglio, avrebbe potuto battere da vicino coll'artiglierìe la cortina della fortezza, e farvi presta breccia. Per la qual cosa, tagliati ed atterrati gli alberi, vi avevano fatto spianate a guisa di ridotti, munite d'artiglierìe sui cinque siti più importanti dello scoglio; perchè sporgendosi oltre il circuito dell'isola, facevano le veci di bastioni. Meglio di quattrocento buoni soldati sotto il governo del generale Piveron erano posti a guardia di questo principale propugnacolo di Corfù. Nondimeno, malgrado dei fatti apparecchi non era luogo, che si potesse tenere lungamente; perchè nè vi era ridotto trincerato, dove la guernigione potesse ritirarsi a contendere il possesso dell'isola, ove il nemico vi fosse sbarcato, nè le batterie erano chiuse di terrati, o di steccati; il perchè, quasi del tutto senza parapetti essendo, lasciavano i difensori esposti al bersaglio del nemico, che da diverse parti si avvicinasse per andar all'assalto. Avevano anche i cannoni carretti da marina, e però più bassi, e più difficili a governarsi. Lo scoglio di Vido era luogo buono a tenersi da chi, come i Veneziani, essendo forte sull'armi di mare, poteva proibire, che il nemico sicuramente vi si avvicinasse: per questa ragione non l'avevano i Veneziani munito di fortificazioni: ma per colui, che come allora erano i Francesi, fosse privo di naviglio sufficiente, era Vido sito di molta debolezza.

Il giorno primo di marzo, datosi il segno dalla nave dell'almirante Russo con due cannonate, tutta l'armata dei confederati si muoveva all'assalto dello scoglio di Vido. Al tempo stesso, per impedire che Chabot mandasse nuove genti a rinforzarne la guernigione, fulminavano contro la piazza con grandissimo fracasso le artiglierìe di San Pantaleone, e del monte Oliveto. Ciò nondimeno venne fatto al generale di Francia di mandare allo scoglio un soccorso di duecento soldati. S'attelavano, sprolungandosi col fianco d'orza da ponente a greco, venticinque navi tra vascelli di fila, caravelle Turche, e fregate contro l'isola, e tutte traevano furiosamente. Era un novero di ottocento bocche da fuoco, il rimbombo delle quali consentendo con quelle dell'isola, della piazza, di San Pantaleone, e del monte Oliveto, partorivano uno strepito tale, che e Corfù tutta ne era intronata, e le vicine coste dell'Epiro orribilmente echeggiavano. Erano i difensori di Vido lacerati dalle palle nemiche, e dalle schegge degli alberi rotti e fracassati. I cannonieri di Francia per essere nudamente esposti al fitto bersaglio del nemico, perchè i parapetti non erano sufficienti, pativano grandemente: i cannoni stessi, rotti i carretti, si trovavano scavalcati. Durò questa fierissima battaglia ben tre ore con danno gravissimo dei repubblicani, con grave degl'imperiali; perchè i primi traevano contro di loro a mira ferma. Finalmente, quando fu giudicato dai confederati, che il guasto fatto dalle artiglierìe nei soldati e nelle armi Francesi, avesse facilmente ad aprir loro l'adito ad un assalto di mano, posti prestamente tutti i palischermi in acqua, e riempitigli di gente, gli mandavano allo sbarco. Approdarono i Russi in numero di quindici centinaja sul destro fianco dello scoglio, che si volge verso la città; i Turchi con Albanesi misti, assai più numerosi dei Russi, sbarcarono sul sinistro, che risguardava verso la bocca settentrionale del porto. Nè così tosto furono sbarcati, che uccisi barbaramente i difensori di due vicine batterìe, se ne impadronirono. I Francesi, visto il nemico dentro, si ripararono ad alcune eminenze, non più per contrastar la vittoria, che già era in mano degli alleati, ma bensì per dar tempo, che quel primo furore degli Albanesi alquanto si calmasse. Gli Albanesi e medesimamente i Turchi, quanti Francesi venivano loro alle mani, a tanti tagliavano la testa, o che si fossero difesi, o che si fossero arresi. Le teste gettavano nei sacchi per portarle a Cadir Bey, vicealmirante delle navi Turche. I Russi per lo contrario si portarono molto umanamente; imperciocchè non solamente non uccisero nissuno fra quelli, che cedendo si erano arresi, ma ancora preservarono molti, che già venuti in mano dei Turchi pochi momenti avevano a restare in vita. Eransi i Russi raccolti, dopo la vittoria, in un grosso battaglione quadrato nel mezzo dell'isola, e quivi quanti Francesi accorsero, tanti salvarono. Furono visti ufficiali Russi, a riscatto di Francesi venuti in mano degli Ottomani, e vicini ad aver il capo tronco, dar denari del proprio ai barbari feroci ed avari. Un vicecolonnello di Russia, di cui la storia con sommo nostro rammarico tace il nome, dato tutto il suo denaro per salvar due Francesi, che i barbari già stavano pronti per decapitare, nè contentandosene essi, cavatosi di tasca l'orologio, il diede loro, e per tal modo scampò da morte inevitabile i due derelitti nemici. Nè in questa pietosa intercessione soli gli ufficiali di Russia si adoperarono, perchè e semplici soldati, e marinari con la generosità medesima ajutarono i Francesi. Videsi in questo fatto una estrema barbarie congiunta con una estrema civiltà, e giacchè guerra era, pensiero consolativo è, che la umanità vi avesse in qualche parte luogo. Piveron preso dai Russi, fu condotto in cospetto di Ocsacow, che molto cortesemente il trattò. Quasi tutto il presidio restò o morto, o preso.

La vittoria di Vido portava con se quella di Corfù. Era impossibile, che la piazza fulminata da due parti potesse resistere più lungamente. Perciò Chabot, il quale, piccolo di corpo, ma grande di animo, aveva in tutto il corso della guerra Corcirese fatto pruova di non ordinario valore, sforzato alla dedizione, stipulava con Ocsacow e con Cadir, che Corfù si desse ai confederati con tutte le armi e munizioni; uscissene il presidio con gli onori di guerra; fosse a spese, e per opera dei confederati trasportato a Tolone; desse fede di non far guerra per diciotto mesi contro i confederati; la nave il Leandro, e la fregata la Bruna ai medesimi si consegnassero; Chabot, ed i suoi ufficiali ad elezione sua potessero essere trasportati o a Tolone, o ad Ancona, purchè fra un mese facessero la elezione. Entrarono i Russi per la porta di San Niccolò, ed in bell'ordine procedendo per la contrada principale, andarono a schierarsi sulla spianata, che sta in mezzo tra la città e la fortezza. Gridavano in questo mentre i Corfiotti “viva Paolo primo”, e sventolavano all'aura drappelli Moscoviti. Presidiarono i Russi le fortezze, i Turchi la città. Fuvvi qualche sacco di case di giacobini, ma subitamente represso dai confederati. Era a quei tempi un uomo nuovo, e di umore strano a Corfù, che ve ne sono molti di tal fatta in quei paesi, il quale in odore di santità, e quale eremita sucidamente vivendo in una celletta vicina alla chiesa di San Spiridione, protettore veneratissimo dell'isola, aveva più volte, quando le cose di Francia erano più in fiore, pronosticato, che i Francesi non farebbero lunga vita in quelle terre. Riuscito l'evento parve miracolo: il veneravano come profeta.

Il consiglio generale di Corfù convocato dai confederati secondo gli ordini antichi, decretava, che si ringraziasse San Spiridione, e con annua processione si onorasse; si ringraziassero i comandanti Russo e Turco, e l'ammiraglio d'Inghilterra Orazio Nelson; si ringraziassero Paolo primo, Giorgio terzo, Selim terzo. Fu data la somma del governo non solo di Corfù, ma ancora di tutte le isole, e territorj Ionici, ad una delegazione di sei nobili. In tale forma si visse a Corfù, finchè dai confederati vi fu ordinato un governo stabile di repubblica sotto tutela della Porta Ottomana. A questo modo per opera, prima dei Francesi, poi dei confederati, fu alienato per sempre dall'imperio d'Italia all'imperio degli oltramontani, o degli oltramarini, il dominio del mare Ionio, che Venezia aveva saputo conservare per tanti secoli contro tutte le forze dell'impero dei Turchi; il che dimostra quanto siano stati sconsiderati quegli Italiani, che tanto si rallegrarono della ruina dell'antica Venezia. Venuto Corfù in poter dei confederati, divenne ricovero sicuro a coloro, cui cacciava dall'Italia la presenza dei repubblicani. Vennervi le principesse esuli di Francia; vennervi i cardinali Braschi e Pignatelli, il principe Borghese, i marchesi Gabrielli e Massimi, il cavaliere Ricci, e molti altri personaggi, a cui più piacevano l'ozio e la sicurezza di Grecia, che il partecipare delle fatiche e dei pericoli del cardinal Ruffo in Italia. Le flotte Russa e Turca andarono ad altre fazioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, le quali siamo per raccontar nel progresso di queste storie.

Il suono dell'armi, e le grida dei tormentati richiamano l'animo nostro agli accidenti d'Italia. Come prima ebbe Moreau il governo supremo dell'esercito Italico, aveva applicato i suoi pensieri al far venire sul campo delle nuove battaglie le genti, che sotto l'imperio di Macdonald custodivano il regno di Napoli. Per la qual cosa aveva speditamente mandato a Macdonald, che partisse da Napoli con tutto l'esercito, solo lasciasse presidio nei castelli, nelle piazze più forti, e con esso lui venisse prestamente a congiungersi. Nè del luogo, in cui avessero i due eserciti a raccozzarsi, stette lungo tempo in dubbio; perciocchè, sebbene per le rotte avute non fosse in grado di sostener la guerra in Piemonte, sperava, che conservandosi in potestà della repubblica le fortezze principali, avrebbe di nuovo acquistato facoltà, quando gli fossero giunti gli ajuti che aspettava di Francia, di mostrarsi nelle pianure Piemontesi; gli pareva, che i luoghi vicini alle fortezze di Alessandria e di Tortona, che tuttavia si tenevano per la Francia, fossero i più opportuni per tornare al cimento delle armi; poichè, oltre l'appoggio di quelle due piazze forti, erano molto propizj a ricevere chi venisse calando dalla Bocchetta, nè lontani a chi scendesse dalle valli della Trebbia e del Taro. Per tutte queste ragioni, già fin quando era passato per Torino per condursi alle stanze, prima di Alessandria, poi di Cuneo, si era totalmente fermato in questo pensiero, che la congiunzione dei due eserciti dovesse effettuarsi nei contorni di Voghera. A questo fine, volendo dar mano più presto che fosse possibile alle genti vincitrici di Napoli, e considerato che Macdonald, per essere le strade del littorale della riviera di Levante troppo difficili, e da non dar passo alle artiglierìe, era necessitato a camminare fra l'Apennino, e la sponda destra del Po, e temendo che fosse troppo debole a sostener l'impeto dei corpi sparsi dei confederati, che prevalevano di cavallerìa, nelle pianure di Bologna e di Modena, aveva mandato Victor con la sua schiera ad incontrarlo sui confini della Toscana, e del Genovesato. Partiva Macdonald, Abrial lo accompagnava, da Napoli, lasciati presidj Francesi, sebbene deboli, nei castelli di Napoli, e nelle fortezze di Gaeta, di Capua, e di Pescara. Grave e difficile carico gli era addossato, ma del pari glorioso, se il portasse a felice fine. Viaggiava con molto disfavore dei paesi per cui gli era necessità di passare, perchè le popolazioni sollevate a cose nuove, stavano in armi, e pronte a contrastargli il passo. Tumultuava il regno sulle sponde del Garigliano, tumultuava lo stato Romano, e da Roma in fuori non vi era luogo che fosse sicuro ai Francesi. Tumultuava la Toscana molto furiosamente, già sì pacifica e dolce. Le strade, che davano il passo da una parte all'altra degli Apennini, specialmente Pontremoli, sito di non poca importanza, erano in possessione dei collegati. Nè egli aveva cavallerìa bastante a spazzare i paesi, a procacciarsi le notizie, a far vettovaglie, a difendersi dagli assalti improvvisi. Nè è dubbio, che l'impresa di Macdonald non fosse delle più malagevoli ed ardue, che capitano di guerra sia stato mai obbligato di fornire. Da un altro lato gli si parava avanti la gloria dell'essere chiamato liberatore d'Italia, e vincitore delle genti Russe fin a quel tempo stimate invincibili. Nè animo gli mancava, nè mente per questo, nè desiderio vivacissimo di far il nome suo immortale. Le vittorie di Roma e di Napoli continuamente gli suonavano nella memoria, e sperava, che la fortuna nol guarderebbe con viso meno favorevole sulle rive del Po, che su quelle del Tevere e del Volturno.

Si metteva in via, diviso il suo esercito in due parti. Marciava la destra guidata da Olivier accosto agli Apennini, coll'intento di riuscire per la strada di San Germano, Isola, Ferentino, Valmontone, e Frascati, verso Roma. La sinistra condotta da Macdonald seguitava verso la capitale medesima dello stato Romano la strada più facile della marina. Erano con questa le più grosse artiglierìe, e le principali bagaglie. Fu la prima necessitata a combattere, non senza molto sangue, parecchie volte per condursi al suo destino. San Germano si oppose con le armi, fu preso per forza e saccheggiato. Isola si persuase di poter arrestare con genti tumultuarie soldati regolari, agguerriti e bene armati: assaltarono i Francesi, dopo di aver ricerco gl'Isolani del passo, la terra: si difesero i terrazzani con tale ostinazione, che un accanito combattimento durava già più di sei ore, e non se ne prevedeva il fine. All'ultimo cacciati di casa in casa a viva forza, si ritirarono, lasciando la città in mano degli assalitori, i quali sdegnati all'antica nimistà degl'Isolani, allo aver tratto al messo mandato avanti per trattare l'accordo del passo, ed alla tanto ostinata resistenza, per cui non pochi dei loro erano stati morti, mandarono la terra a ruba ed a sangue. Quanti poterono aver nelle mani, tanti ammazzarono. Entrati nelle case, uccisi prima gli abitatori, facevano sacco. Poi si diedero in sul bere di quei vini generosi, per forma che il furore della presente ebbrezza congiunto col furore della precedente battaglia gli fece trascorrere in opere abominevoli. Nè più davano retta ai loro ufficiali, o generali, che gli volevano frenare, che alla ragione od alla umanità. Sorse la notte: era una grande oscurità, pioveva a dirotta. Gl'infuriati repubblicani, dato mano alle facelle, incesero la città, che in poco d'ora fu da se stessa tanto disforme, che non era più che un ammasso spaventevole di sangue, di fango e di ruine. Così Isola perì per furore, prima proprio, poi d'altrui. Passarono i Francesi a Veroli senza difficoltà, passarono a Ferentino ed a Valmontone; finalmente congiuntisi entrarono il dì sedici maggio nelle sicure stanze di Roma. Quivi Macdonald, dato animo con promesse, e con discorsi di rammemorazione delle cose fatte dai repubblicani di Francia, lasciate, per marciare più spedito, le artiglierìe, e gl'impedimenti più gravi e guernite di presidj le piazze di Civitavecchia, di Ancona e di Perugia, s'incamminava alla volta di Toscana. Era in questa provincia succeduta una mutazione grandissima; eccettuati i luoghi, in cui i Francesi insistevano coi presidj, tutti gli altri si erano voltati in favor degli alleati, con gridare il nome di Ferdinando. Ma questa mutazione si era fatta con tanto tumulto, con tanto furore, e con tanta ferocia, che tutt'altre cose si sarebbero aspettate dai Toscani che queste.

La sede principale della sollevazione erano Arezzo, e Cortona, le quali, siccome vicine allo stato Romano, avevano preso animo a far tentativi dai moti, che in lui poco innanzi erano sorti. Il sito le rendeva sicure, essendo poste sopra monti alti, ed erti. Arezzo si era con ogni miglior modo, che alle guerre tumultuarie si appartenga, fortificata; anzi ogni edifizio era fortezza: vedevansi feritoje aperte in ogni muro, i tetti la maggior parte levati, le sommità delle case appianate, acciocchè i difensori potessero insistervi a ferire il nemico; i capi delle contrade muniti di cannoni, ed assicurati con isbarre e con isteccati. Numerose squadre di gente venuta dal contado, e variamente armata custodivano le porte, e curiosamente, e diligentemente esaminavano chi entrava, e chi usciva. Uffizj divini si celebravano ogni giorno nella cattedrale dal vescovo, e dal clero in ringraziamento delle vittorie acquistate dagli alleati, e dai Toscani contro i Francesi. Stava appeso a guisa di trofeo alla volta della chiesa un cappello con gallone in oro, che era stato di un ajutante generale Polacco ucciso nelle vicinanze di Cortona con una coltellata per inganno da un prete, mentre era venuto a parlamento con lui. Muovevansi sospetti ad ogni tratto in mezzo a quei contadini infuriati per voci date, a ragione o a torto, di giacobino, e mal per chi non aveva i capelli in coda, e chi non gli aveva, gli metteva. Ad ogni tratto, e quando più l'ardor gli trasportava, si avventavano alle persone che conoscevano, gridando: "“Giur'a Dio, se sapessi, che lei è giacobino, gli passerei il cuore con questo coltello”". E sì brandivano il coltello, e facevano l'atto di ferire. Era lo stare cattivo, il viaggiare peggiore. Tuttavia quest'uomini tanto sfrenati contro i Francesi, e contro coloro che avevano o che parevano aver odore di essi, si mostravano obbedientissimi al nome di Ferdinando. Erasi in mezzo a questi tumulti creato in Arezzo un magistrato supremo sotto titolo di suprema regia deputazione, in cui entravano preti, nobili, e notabili. Un cavaliere Angelo Guilichini presidente; uomini nè sfrenati, nè feroci, ma non potevano impedire il furore del popolo: solo s'ingegnavano di dargli regola e legge. Dì e notte sedevano per esser sempre pronti ai casi improvvisi. Facevano disegni di nuove sommosse in favor del gran duca continuamente; traevano a suo nome tutti i magistrati, mandavano ordini alle città tornate a divozione, mescolavano ai contadini sollevati le guardie urbane, ed alle guardie urbane i soldati regolari, che già avevano vestito l'abito, e le insegne del governo ducale; e poichè pensavano a far vera guerra, avevano calato certo numero di campane con intendimento di fonderle ad uso di cannoni. Delle nappe, e dei colori non parlo, perchè fra quelle turbe tumultuarie chi portava l'insegna di un santo, chi di un altro, chi della Madonna, chi del papa, chi dei Russi, chi degli Austriaci, chi del Gran Duca, chi tutte queste insieme; e chi era stato tinto nelle faccende precedenti, più ne portava, col fine di allontanar da se quel nembo tanto pericoloso. Questa fu la mossa di Arezzo, alla quale come quasi un antiguardo, consuonava quella di Cortona. In grave pericolo si mettevano, perchè le cose dei Francesi erano ancora in essere, e potevano risorgere, e Macdonald pensava a passare per la Toscana. Pure Arezzo si salvò, Cortona pagò qualche fio; l'una e l'altra furono cagione, che il nome di Ferdinando risorgesse in Toscana innanzi che i confederati vi arrivassero; proponimento lodevole, ma bruttato da fatti scelerati. Fu Cortona messa a dura pruova. Polacchi venuti da Perugia accorrevano per tornarla a divozione di Francia. Seguì una fiera zuffa a Terontola, dove i Cortonesi erano andati ad incontrargli, poi a Campaccio a piè del monte, perchè i Polacchi prevalendo per arte di guerra, si erano fatti avanti. Infine venne il conflitto sulle mura stesse della città. Tentavano i soldati forestieri di sforzare le porte di San Domenico, e di Sant'Agostino, e di dare la scalata; ma quei di dentro si difesero sì valorosamente, che gli assalitori se ne rimasero, avviandosi a Firenze. Venne poscia una colonna Francese molto forte, che era l'antiguardo di Macdonald. Cortona si arrese con patto, che fossero salve le sostanze e le persone; il che fu loro osservato.

Avrebbe desiderato Macdonald, che arrivava verso il finir di maggio a Siena, sottomettere Arezzo, e gli faceva la intimazione. Mandò contro gli Aretini un bando terribile, che passerebbe a fil di spada, che darebbe la città al sacco ed alle fiamme, che rizzerebbe sulla piazza d'Arezzo una piramide con queste parole: “Arezzo punita della sua ribellione”. Ma tutto fu indarno: gli Aretini non si sbigottirono; il Francese non si accinse a domargli, lasciando pendenti le cose loro, perchè non era parata l'occasione di vendicarsi. Era Arezzo città forte, e fuor di strada, ed ei voleva camminar veloce alla impresa. Un Andrea Doria mosse Albiano, terra vicina al Genovesato, a sollevazione contro i Francesi, non senza commettere i soliti atti di crudeltà. Andaronvi i Francesi, saccheggiarono, ed arsero la terra. Simili spaventi succedevano in altre parti della Toscana: ogni cosa sconvolta, e sanguinosa. Marciava spedito al suo destino Macdonald, e perchè non avesse intoppi di ammottinamenti di truppe per mancanza dei soldi, perciocchè da lungo tempo non erano espedite dei loro pagamenti, Bertolio, che come ambasciadore di Francia reggeva a posta sua Roma, e Reinhard, come commissario la Toscana, trovarono molti estremi di raccor denaro. Ordinava Bertolio, con intervento del governo servo di Roma, una tassa sui domestici, sui cavalli, sulle botteghe, sulle porte, un'altra del due per centinajo sui capitali fidecommissarj dichiarati liberi, ed ambe dovessero pagarsi nel termine di dieci giorni; il che come fosse possibile, potranno facilmente giudicar coloro, che hanno conosciuto le ruine dei Romani. Reinhard comandava, che da tutte le chiese, monasteri, e conventi, e dalle sinagoghe, e da altri tempj, di qualsivoglia rito fossero, si togliessero le argenterie superflue, ed il ritratto s'investisse in benefizio dell'esercito. Già si erano espilati i monti di pietà, e solo quando vennero i pericoli estremi, e quando il restituire era paura, non generosità, si erano restituiti i pegni di valuta minore di dieci franchi.

Erano a questo tempo le genti dei confederati molto sparse. Una grossa parte attendeva all'oppugnazione di Mantova: Klenau correva il Ferrarese ed il Bolognese, il principe Hohenzollern il Modenese, Otto stava sugli Apennini, massime a Pontremoli, Bellegarde venuto dai Grigioni, circondava d'assedio Alessandria e Tortona, Suwarow e Keim alloggiavano in Piemonte per dar sesto al governo, per ridurre a divozione alcune valli dell'Alpi, e per osservare a che fine volesse Moreau incamminare le sue operazioni o verso Cuneo, o verso la riviera di Ponente. Guerra troppo spicciolata era questa, mentre Macdonald se ne veniva intero da Napoli, e Moreau poteva tornare più grosso da Francia, E' pare anzi certo, che se i due generali Francesi si fossero meglio accordati fra di loro nell'esecuzione del disegno concetto da Moreau, qualche grande infortunio sarebbe venuto addosso ai confederati, e si vede meglio in Suwarow l'arte di ben condurre una battaglia, che di modellare pensieri larghi e lontani di guerra, della quale perizia massimamente debbonsi lodare gli eccellenti capitani. Infatti non fece egli motivo d'importanza per proibire il passo degli Apennini a Macdonald, nel che consisteva tutta la fortuna della guerra. Bastò, che la legione Polacca romoreggiasse intorno a Pontremoli, perchè il debole presidio, che vi stava a guardia, si ritirasse. Nè il generale Russo, avendo le popolazioni amiche, e molta cavallerìa, poteva temere, che i presidi delle fortezze, che ancora si tenevano pei Francesi, gli facessero qualche moto d'importanza alle spalle. Laonde ci poteva sicuramente stare grosso e rannodato per opprimere Moreau e Macdonald là dove si fossero mostrati, e chi vincesse la battaglia, avrebbe anche vinto le fortezze. Gli accidenti posteriori mostrarono, quanto abbia errato Suwarow nello alloggiare tanto spartito.

Moreau, dato voce che avesse avuto grossi rinforzi di Francia, e che maggiori ne dovesse ricevere, essendo anche a quel tempo arrivata nel Mediterraneo una flotta Francese proveniente da Brest con qualche battaglione da sbarco, era andato a piantare i suoi alloggiamenti presso a Savona per accennare contro Suwarow in Piemonte; poi speditamente marciando, si era condotto a Genova, verso la quale faceva concorrere le sue genti. Queste mosse apertamente indicavano in Moreau il pensiero di congiungersi con Macdonald, che già era arrivato in Toscana; nè Suwarow le poteva ignorare. Ciò nondimeno ei se ne stava a consumarsi intorno alle fortezze, ed alle montagne Piemontesi. Ma non istette lungo tempo ad accorgersi, che se per valore ei non era inferiore agli avversarj, gli avversarj lo avanzavano per arte, e che aveva a far con capitani, che per perizia nelle cose di guerra erano fra i primi del mondo. Già Victor camminando per la riviera di Levante, appariva vicino a congiugersi con Macdonald, e già gli avvisamenti dei generali di Francia si approssimavano al loro compimento. Macdonald, chiamate a se tutte le genti che stanziavano in Toscana, salvo le guernigioni di Firenze, di Livorno, e di alcuni altri luoghi forti sul littorale, s'incamminava alle accordate fazioni, per le quali si prometteva la liberazione d'Italia. L'ala sua dritta condotta da Montrichard pel passo di Lojano, che sempre era stato tenuto dai Francesi, marciava contro Bologna; la sinistra, conquistato prima dalla legione Polacca di Dambrowski il passo di Pontremoli, si conduceva nella valle del Taro. Victor faceva il suo alloggiamento in Fornuovo, luogo celebre per la vittoria di Carlo ottavo re di Francia sulle genti Italiane governate dal marchese di Mantova. Dambrowski s'incamminava a Reggio. Macdonald, varcato il sommo degli Apennini a Pieve di Pelago, per la strada che da Pistoia dà l'adito a Modena, si era calato col grosso dell'esercito per la valle del Panaro, ed impadronitosi di Venanzio, di Sassuolo, e di altri luoghi posti sul fiume, si era innoltrato per Casinalbo e Salicelta insino al Casino Brunetti a piccola distanza da Modena. Moreau dal suo lato si era ingrossato sulla Bocchetta col pensiero di correre contro Tortona ed Alessandria. Già aveva mandato per dar la mano più verso il piano, e più da vicino a Macdonald, il generale Lapoype con una schiera di Liguri a Bobbio.

Queste mosse dei capitani della repubblica diedero che pensare ai generali dei due imperj, e gli fecero accorti, che era loro mestiero, se non volevano che l'Italia fuggisse loro dalle mani, di rannodarsi con molta prestezza; a tale strettezza erano condotte le cose, che un giorno solo d'indugio poteva aprir la occasione di una totale vittoria ai Francesi. Per la qual cosa Kray, che stringeva Mantova, convertita la oppugnazione in assedio, andava a porsi con diecimila soldati a Borgoforte sulla riva del Po, rompendo tutti i ponti. Temeva, che Macdonald, passato improvvisamente, e con forze preponderanti il fiume, non gli guastasse le opere fatte contro la piazza, e la liberasse dall'assedio. Un grosso di queste genti passarono anche il Po per fare spalla a Klenau, ed a Hohenzollern, che erano in pericolo di essere pressati da Macdonald. Il principale sforzo del generale Francese accennava contro Hohenzollern; però Klenau se gli accostava sulla destra. Per tal modo Montrichard colla destra dei Francesi andava a ferire Klenau, il grosso Hohenzollern, Victor, con la sinistra, Otto; e tutto il pondo della guerra si riduceva nei ducati di Modena e di Parma, che calpestati da tante genti, da paesi fioritissimi erano divenuti orridi per la fame e per la miseria. Il ducato di Parma principalmente si trovava molto consumato per le gravi esazioni commessevi da Otto. Ma i raccontati rimedj usati dagli alleati non erano bastanti per distornare la tempesta, perchè Macdonald solo era più forte di Klenau, Hohenzollern, e Otto uniti insieme; Moreau assai più di Bellegarde.

Adunque l'importanza dell'impresa era posta nell'esercito proprio di Suwarow, che insisteva in Piemonte. Se lo vide il generalissimo di Paolo, e volendo ricompensare con la celerità l'errore dell'aver troppo spartito le sue genti, si mise senza indugio a correre con prestissimi passi a Piacenza, sperando di poter combattere Macdonald prima che si fosse congiunto con Moreau, e di arrivare a tempo, perchè il Francese non rompesse del tutto le schiere unite dei tre generali Austriaci. Pertanto marciando sulla destra del Po già si avvicinava ai campi famosi per antiche battaglie, e che del pari erano per diventar famosi per pruove di non minor valore date da nazioni venute anch'esse di lontano per ammazzarsi. Intanto fortemente già si combatteva sulle rive del Panaro. Il giorno dieci di maggio succedeva un grosso affronto tra i soldati armati alla leggiera delle due parti. Sulle prime i repubblicani caricarono con tanta forza gl'imperiali, che gli rincacciarono fin oltre Casino Brunetti. Ma trasportati dall'impeto, essendosi troppo inoltrati, furono sì aspramente assaliti ai due fianchi dalla cavallerìa Austriaca, che furono costretti a ritirarsi con grave perdita verso le montagne. Si combattè il giorno seguente con uguale ardore da ambe le parti, sforzandosi Olivier e Rusca di rompere la fronte del nemico per separare Hohenzollern da Otto. La cavallerìa repubblicana condotta dal generale Forest urtò con grande impeto il nemico, e già il faceva piegare, quando il generale Tedesco spinse avanti il reggimento dei fanti di Preiss, guidato da un colonnello molto valoroso, che aveva nome Wedenfels. Questo reggimento diè sì forte carica ai repubblicani, usando la bajonetta, che nol poterono sostenere, e si ritirarono verso le montagne, lasciando la terra di Sassuolo in poter dei Tedeschi. Non erano questi moti di molta importanza, e dimostravano piuttosto un ardore inestimabile di combattere in ambe le parti, che un evento terminativo di battaglie. Ma il dodici giugno fece Macdonald un motivo assai più grosso per isbrigarsi da quei corpi nemici, che sebbene meno grossi de' suoi il molestavano, e gl'impedivano il passo a' suoi disegni ulteriori. Ordiva per tal modo la forma della fazione, che Hohenzollern ne venisse non solamente rotto, ma ancora impossibilitato al ritirarsi. A questo fine, fatto calare la sua sinistra verso Reggio, le ordinava, urtasse il nemico, e si mettesse in mezzo tra Hohenzollern, e Otto; il che poteva agevolmente venir fatto, perchè le genti di Otto si trovavano sparse e lontane. Egli medesimo con la mezza contro Modena dirittamente difilandosi, voleva far opera di romperla, e d'impadronirsi della città. Al tempo stesso, passando con la destra il Panaro, si proponeva di spuntare da questa parte la sinistra degli Austriaci; e di separare per questa mossa Hohenzollern da Klenau. Ma perchè quest'ultimo non potesse accorrere in soccorso del compagno, il faceva assaltare da Montrichard, che già colle sue genti aveva liberato d'assedio il forte Urbano. Per questo Montrichard, muovendo due colonne, una da Bologna, l'altra dal forte Urbano, se ne giva per attaccare Klenau, che aveva le sue stanze a Castel San Giovanni.

Fecero egregiamente i Francesi l'opera del loro perito ed audace capitano. Fu la zuffa sostenuta con grandissimo valore dai Francesi e dai Tedeschi, e durò molte ore: i cavalli massimamente andarono alle prese parecchie volte, e sempre se ne spiccarono laceri e sanguinosi. Le fanterie vennero replicatamente alla pruova delle bajonette. Pure i repubblicani superavano pel numero, e se tutto il disegno di Macdonald avesse avuto il suo compimento, era già fin d'allora perduta la fortuna dei confederati in Italia: il che dimostra chiaramente l'errore di Suwarow dell'avere in sì fatta guisa spartito le sue genti. La sinistra ala dei repubblicani riusciva nell'intento; perchè cacciati i Tedeschi, ed occupata la strada, che dà a Reggio, s'intrometteva tra Hohenzollern e Otto. La mezza schiera medesimamente del generale Tedesco, dove egli medesimo combatteva, animando i suoi, fu obbligata a piegare, e lasciare, fuggendo, Modena in potestà del vincitore. Sarebbe stato tutto questo corpo Austriaco, secondo il disegno ordito dal generale Francese, circondato e preso, se Montrichard avesse vinto sulla destra, come Macdonald aveva sulla mezza, e sulla sinistra. Ma Klenau, non aspettando che il nemico venisse a lui, era uscito a combattere, ed aveva rotto i repubblicani, che si difilavano contro di lui da Bologna, sforzandogli a tornarsene sulla sponda destra della Samoggia. Poi si affrontò con l'altra schiera, che gli veniva incontro dal forte Urbano, e trovatala e combattutala a Sant'Agata, la costringeva alla ritirata. L'avrebbe anche condotta a peggior partito, se Macdonald vittorioso dalla sua parte non le avesse mandato genti in soccorso. La resistenza di Klenau fu la salute di Hohenzollern; perchè questi, trovate le strade aperte, si ritirava alla Mirandola; poi non credendosi sicuro sulla destra del Po, venuto a San Benedetto, e quivi lasciato un piccolo presidio, varcava sopra un ponte di barche a San Niccolò per andarsene ad aspettare sulla sinistra quello che i fati portassero. Klenau, vittorioso, poi vinto, si condusse celeremente alle sue prime stanze di Cento; poscia vieppiù dilungandosi andò a posarsi a Vigarano della Mainerba, sito poco distante da Ferrara. Già Ferrara era piena di spavento, e Klenau vi faceva provvisioni d'armi e di munizioni, come se il nemico fosse fra breve per arrivare.

Perdettero gli Austriaci in tutte le raccontate fazioni quindici centinaja di prigionieri, e forse pari numero tra morti e feriti. Dei Francesi mancarono tra morti e feriti circa un migliajo; pochi vennero in poter dei vinti. Fu morto il loro generale Forest, mentre virilmente combattendo con la cavallerìa, dava la carica al nemico. Macdonald fu ferito, non da Tedeschi, nè nella mischia, ma da Francesi dopo la vittoria. Militava sotto le insegne Austriache un reggimento di Francesi fuorusciti sotto il nome di cacciatori Bussy. Di questi, cinquanta, dopo di avere egregiamente combattuto, trovandosi separati dai compagni, con animosa risoluzione si deliberarono di aprirsi il varco con le armi in mano a traverso i nemici, che gli circondavano da ogni parte. Laonde impetuosamente urtando quanto loro si parava davanti, rotte le guardie, riuscirono all'alloggiamento di Macdonald, che co' suoi ufficiali, e con pochi soldati se ne stava securamente attendendo alle bisogne della vittoria. Fu forza, che la debole guardia di Macdonald, ed egli medesimo cacciassero mano alle spade per difendersi da un assalto tanto inopinato. Ne seguitava una furiosa baruffa, nella quale restò ferito il generalissimo di Francia. I fuorusciti, che avevano la mira al salvarsi, non al vincere, dando dappertutto segni di un valore incredibile, attraversato il campo dei repubblicani, attraversata Modena, che in mano dei repubblicani già era venuta, ridotti da cinquanta a sette, riuscirono all'alloggiamento Austriaco della Mirandola. Meritarono fra gli Austriaci principal lode di valore il reggimento di Preiss già sopra nominato, e quello di Klebeck, sopra i quali cadde il più grave pondo della battaglia: patirono gravemente i loro soldati.

Fu biasimato Macdonald, anche da uomini periti della guerra, del non avere dopo la vittoria, varcato il Po, corso contro Mantova, prese le artiglierìe, rovinato le opere degli assediatori, e fatto di modo che si levassero dalla piazza. È vero, che tutte queste cose gli potevano agevolmente venir fatte; anzi Kray, presentendo la tempesta, già aveva avviato verso Verona le artiglierìe più grosse del campo di Mantova. Ma la vittoria di Francia non consisteva nell'allargar l'assedio, e nell'impedire agl'imperiali la ricuperazione di questa piazza, bensì era posta nel vincere Suwarow; il qual fine non si poteva conseguire, se non coll'insistere sulla destra del Po, e con la congiunzione con Moreau. L'operare spartitamente sarebbe stata la ruina dei Francesi, come per poco stette, che il medesimo operare non fosse la ruina degli alleati. Per la qual cosa a noi pare, che Macdonald meriti di essere lodato, non che biasimato della risoluzione presa di correre, dopo la vittoria conseguita, piuttosto verso Parma che verso Mantova.

Era la sorte d'Italia in pendente, e doveva fra breve giudicarsi, se più potessero Moreau e Macdonald con le armi della repubblica, o Suwarow con quelle dei due imperi d'Austria e di Russia. Marciava celeremente Macdonald per unirsi a Moreau; Moreau mandava, come già fu per noi narrato, una squadra di Liguri sotto il governo di Lopoype a Bobbio, perchè servisse di scala alla congiunzione. Egl'intanto si apparecchiava a sboccare con tutto il suo esercito dalla Bocchetta per andar all'incontro di Macdonald. Suwarow marciava a gran passi da Torino per trovare o Moreau, o Macdonald, innanzi che fra di loro si fossero congiunti.

Erasi Macdonald, dopo i fatti d'armi combattuti contro Hohenzollern, passando per Reggio e Parma, d'onde il duca, temendo dei repubblicani, si era ritirato sulla sinistra del Po, condotto in Piacenza, nella quale era entrato il dì quindici di giugno. Quindi gli si era accostato Victor, che mandato da Moreau ad ingrossare l'esercito del compagno, varcati i monti Liguri per Sarzana e Pontremoli, e poscia calatosi per Borgo di Taro e per Fornuovo, era arrivato al suo destino. Macdonald, volendo prevenire il nemico, e romperlo prima che fosse fatto più grosso, nè forse sapendo, che Suwarow già fosse arrivato con l'esercito sul campo, incominciava la guerra. Trovavasi il generale tedesco Otto, come antiguardo, alloggiato fra la Trebbia ed il Tidone. In questo antiguardo urtando Macdonald, lo sforzava a ritirarsi, a passar il Tidone, ed a correre sino a Castel San Giovanni, inseguendolo passo passo i cavalleggieri della repubblica condotti dal generale Salm. Ma Otto, indietreggiando, aveva fatto abilità alle prime genti di Suwarow di arrivare correndo in suo soccorso; imperciocchè primamente Melas, udito il pericolo di Otto, aveva celeremente spinto avanti la schiera di Froelich, che sostenne la impressione dei Francesi: poscia sopraggiunse opportunamente la vanguardia Russa, e tutte queste genti insieme unite fecero un tale sforzo, il principe Bagrazione coi suoi Cosacchi sulla dritta, il principe Korsakow con altri Cosacchi, e con soldati leggieri d'Austria sulla sinistra, e finalmente Otto spalleggiato da Froelich sul centro, che i repubblicani, quantunque con molta costanza contrastassero, furono rincacciati sulla destra del Tidone. Sopraggiunse la notte: cessavasi per poche ore dagli sdegni, e dalle ferite. Erano i due eserciti separati dal torrente Tidone. In questo momento s'incominciavano a vedere gli errori di Macdonald, dei quali resterà facilmente capace chi vorrà considerare quello, che si conveniva a Suwarow di fare. Molto importava al generale di Russia di venire subitamente alle mani col Francese, e di romperlo innanzi che Moreau scendesse per le valli della Trebbia e della Scrivia ad assalirlo sul fianco suo destro ed alle spalle; perchè, se non rompeva Macdonald prima che Moreau arrivasse, gli era necessità di retrocedere; il che apriva la strada ai due generali Francesi di congiungersi; o se avesse perseverato nel proposito di guerreggiare a Piacenza, con Macdonald tuttavia intero a fronte, e con Moreau alle spalle, al quale davano anche appoggio le due fortezze d'Alessandria e di Tortona, sarebbe stato condotto a qualche pessimo partito. Adunque se importava molto a Suwarow il venire incontanente alle mani con Macdonald, importava del pari a Macdonald il temporeggiare con Suwarow, perchè è impossibile che quello, che è utile ad una delle parti contrarie, non sia dannoso all'altra. Bene e lodevolmente fece Macdonald assaltando sul suo primo giunger Otto, ed oltre il Tidone cacciandolo, perchè allora, non sapendo che Suwarow fosse tanto vicino con tutte le sue genti, gli conveniva passare per accostarsi a Moreau: ma quando dalle novelle avute, ed ancor più dal duro rincalzo si era accorto, che non più con una piccola parte, ma con tutto l'esercito nemico aveva a fare, non solo più prudente, ma ancora necessario partito era l'astenersi, il temporeggiare, il ritirarsi lento e cauto, finchè avesse novelle certe di quanto portasse la guerra fra Novi e Tortona; e che Moreau venuto al piano, avesse assaltato il nemico. Ciò non di meno si deliberava a combattere, risoluzione più animosa che prudente, o che a ciò il muovesse una troppo viva speranza di vittoria, o il pensiero ambizioso di essere chiamato lui solo liberatore d'Italia, o la ripugnanza di congiungersi con Moreau, al quale per l'anzianità del grado avrebbe dovuto obbedire.

Avevano i due forti capitani della repubblica e dell'impero preparato, durante la notte, i soldati loro alla battaglia: erano le due parti ostinate alla vittoria, o alla morte. Comandava Suwarow a' suoi, che venissero in sul primo scontrarsi all'arma bianca, non dessero quartiere a nissuno, comandamento barbaro, e degno di eterno biasimo, e scannassero gridando “urra, urra”. Ma nel fatto i soldati mostrarono maggiore umanità del loro generale. Era l'esercito repubblicano schierato sulla sinistra della Trebbia, più vicino a questo fiume che al Tidone: il destro corno governato da Olivier si distendeva verso il Po, ed avea con lui la cavallerìa di Salm: nel sinistro si trovavano i Polacchi con Dambrowski, e con la schiera di Rusca; contenevano il mezzo i soldati di Montrichard, e di Victor. Dalla parte sua Suwarow aveva ordinato l'esercito per guisa che fosse diviso in quattro parti, Otto a sinistra verso il Po, poi più su seguitando, prima Froelich, poi Forster, poi Rosemberg, poi Bagrazione, finalmente un Schweicuschi, Russo generale. Guidava le due prime schiere composte quasi totalmente di Austriaci, quale duce supremo, Melas, le due ultime composte per la maggior parte di Russi, Suwarow. Passato il giorno diciotto di giugno il Tidone a guazzo, venivano avanti gli alleati ad affrontare i repubblicani, che stavano preparati a ricevere l'urto loro. Avevano i primi fatto pensiero di urtare principalmente la sinistra del nemico; Bagrazione guidava la vanguardia; ma essendo la campagna piena di fossi e di siepi, non arrivava se non tardi al cimento. I Francesi, vedutolo venire, impazienti di aspettarlo, si scagliarono furiosamente contro di lui. L'impeto loro fu tale che già i soldati del principe si crollavano, e sarebbero anche andati in rotta, s'ei non fosse stato presto a soccorrergli, ordinando una fortissima carica di cavalleria. Ne seguitò, che non solo la fortuna della battaglia si ristorava dal canto degli alleati, ma ancora i Francesi erano rincacciati fino agli alloggiamenti loro. Il quale accidente vedutosi da Macdonald, mandava alcuni reggimenti di Victor, che frenarono Bagrazione, e facevano di nuovo piegare la fortuna in loro favore. In questo punto Rosemberg muoveva Schweicuschi in soccorso di Bagrazione, e per l'impeto di tante genti si attaccava in questa parte un'asprissima battaglia, che durò molte ore. Al tempo stesso Forster con la sua vanguardia composta massimamente di Cosacchi, e di uno squadrone Austriaco si attaccava con la vanguardia repubblicana, e dopo un ostinato conflitto la sforzava a piegare. Sopravvenne il colonnello Lawarow con alcune compagnìe, ed urtando a forza la vanguardia Francese, che già si ritirava, la ruppe. L'impeto delle genti rotte, che disordinate urtarono nel centro dei repubblicani, lo scompigliarono, sforzandolo a ritirarsi, acremente perseguitato, oltre la Trebbia.

Macdonald, che vedeva, che in questo fatto andava la fama propria, e la fortuna della battaglia, rannodò di nuovo i suoi, facendo in questo tutte le veci di capitano esperto, valoroso e forte. Congiunse con loro alcune compagnìe della schiera di Olivier, e gli mandava nuovamente a combattere sulla sinistra del fiume, gli animava quantunque fosse molto impedito dalla ferita avuta nel combattimento di Modena, con la voce, con la mano, e con l'esempio. Riempiva con arte eccellente i luoghi vacui fra gli squadroni dei soldati a piedi con drappelli di cavallerìa, affinchè potessero maggiormente allargarsi, e non fosse fatta facoltà al nemico di ficcarsi in mezzo. Così ordinato, e di nuovo confidente marciava al riscatto della battaglia. Ne sorse una mischia molto feroce: Forster era molto pressato, e sarebbe eziandio stato vinto, se Froelich, veduto il caso, non gli avesse mandato nuove genti in soccorso. Questo avviso di Froelich ristorò la pugna dalla parte degli alleati; la fortuna si pareggiava. Sulla destra dei Francesi, cioè verso il Po, si combatteva anche egregiamente per la repubblica, e per l'impero; perchè e Francesi ed Austriaci, memori gli uni e gli altri degli odj antichi, e delle recenti battaglie, mostravano una grandissima costanza, i primi incoraggiati da Olivier, e da Macdonald medesimo, che era accorso, i secondi da Otto, da Froelich, e da Melas; forti tutti, e periti capitani. Così durò lunga pezza la battaglia, succedendo molto strazio, e molte morti da ambe le parti. Vinse finalmente la fortuna dei confederati, che prevalevano di cavallerìe, e di artiglierìe. Fu rotto Dambrowski sulla sinistra, Macdonald sul centro, Olivier sulla destra: tutti furono obbligati a cercar ricovero straziati dalle ferite, e bruttati di sangue sulla destra della Trebbia. Era il campo di battaglia orrido e doloroso a vedersi: in ogni parte uomini e cavalli morti, o moribondi; in ogni parte gemiti e spaventi; in ogni parte armi e munizioni rotte e sparse; gli arbusti gocciavano, la Trebbia menava sangue. Sopraggiunse la notte, che rinvolse nelle sue ombre la miseranda strage, gli sdegni ancor vivi delle tre forti schiatte, e la cupidigia non ancora satolla d'umano sangue.

Era intento di Suwarow d'ingaggiare il seguente giorno una nuova battaglia, perchè voleva rompere del tutto quella testa di repubblicani innanzi che Moreau gli romoreggiasse alle spalle. Pensava medesimamente Macdonald per la sua pertinacia insolita ad esser vinta, od a piegarsi, di assaltare alla nuova luce quel nemico, che già per due volte aveva tentato con tanto danno de' suoi, e con sì poco frutto. Nel che come si possa scusare, noi non possiamo restar capaci; e se si può lodare di coraggio, certamente non si può di prudenza: perchè se dubbio era, che vincesse il diciotto, ancor più dubbio era per l'efficacia dei precedenti fatti, che potesse vincere il diecinove, e la rotta del suo esercito importava la ruina di quello di Moreau, e di tutte le cose Francesi in Italia. Solo stabile speranza poteva essere per lui l'essere ajutato da Moreau; ma che questi fosse per arrivare a combattere l'inimico nel momento stesso della battaglia, era cosa molto incerta, nè Macdonald la poteva sapere: che se dopo la medesima fosse arrivato, sarebbe stato il suo arrivare inutile, nè avrebbe potuto riguadagnare la battaglia perduta. Adunque pare a noi, che la ostinazione di Macdonald dell'aver voluto tornar al cimento non sia da lodarsi, e qualunque sia il biasimo, che Moreau abbia meritato per non essere venuto a tempo, Macdonald non può schivar quello di non lo aver aspettato.

Intanto le sorti di Francia in Italia andarono in precipizio. Risolutosi Macdonald a non aspettare di essere assaltato, ma ad assaltare, muoveva alle undici della mattina del diecinove di giugno le sue genti contro l'esercito imperiale. Era l'ordinanza dei due nemici la medesima, che nei giorni precedenti. Ordinava nel suo pensiero il generalissimo di Francia di circuire, stando fermo sul mezzo, e dopo di aver passato il fiume, con le due ali estreme il nemico, cioè di spuntarlo e verso i monti, e verso il Po. Con singolare intrepidezza passarono i repubblicani la Trebbia, ancorchè aspramente fossero bersagliati dalle artiglierìe nemiche sì grosse che minute, principalmente da quelle che ferivano a scaglia. Rusca, e Dambrowski s'attaccarono sulla sinistra verso i monti con Bagrazione. Nissuno creda che maggior valore nelle più aspre battaglie si sia mostrato mai di quello, che in questa mostrarono e Francesi, e Polacchi, Russi, ed Austriaci. Pinsero Rusca, e Dambrowski con grandissimo impeto Bagrazione, e col medesimo impeto gli rispingeva Bagrazione, quanto era urtato riurtando. Cominciarono a balenare i soldati di Dambrowski; Rusca accorreva con un grosso di genti scelte in suo ajuto. Menò egli sì terribilmente le mani, che non solo il Russo piegava, ma ancora i Francesi, preso nuovo ardire, assaltavano Schweicuschi con tanta energìa, che lo conciarono per la peggio, tagliarono a pezzi un intiero reggimento, lo rispinsero lungo spazio, e lo cacciarono dalla terra di Casaliggio, della quale s'impadronirono. Lampeggiava in questo punto la speranza della vittoria pei Francesi, e l'avrebbero anche ottenuta, se non fosse venuto in soccorso delle schiere pericolanti di Russia il generale Austriaco Dalheim con un grosso rinforzo di genti Tedesche: efficacemente il secondava la cavallerìa Russa, che già si era riordinata. Si rinnovava la mischia più fiera di prima, nè questi cedevano, nè quelli; diè Dambrowski segni di disperato valore: due volte respinto, due volte tornò più animoso al combattere, nè si partì dalla battaglia, se non quando arrivò Rosemberg con un forte apparecchio d'artiglierìe leggeri, che fulminando i contrastanti, gli costrinsero, sebbene tuttavia combattenti, alla ritirata sulla destra riva del fiume. Fu questo affronto sanguinosissimo, e mortale per ambe le parti, la legione Polacca vi fu conquassata, e lacerata all'estremo. Ma se i repubblicani vi perdettero molta gente, gl'imperiali ve ne perdettero altrettanta.

Non era stata nè meno ostinata, nè meno sanguinosa la battaglia sui campi, che avvicinano il Po. Quivi contuttochè Melas si fosse molto affaticato con le artiglierìe per impedire ai repubblicani il passo della Trebbia, dalle quali avevano molto patito, erano ciò non ostante riusciti sulla sinistra del fiume, ed avevano principiato a dare esecuzione al disegno ordinato da Macdonald. Una colonna urtava di fronte Otto, mentre un grosso di cavallerìa difilandosi lungo il Po, s'ingegnava di riuscire oltre l'ala estrema degl'imperiali. Le fanterìe Tedesche già cedevano all'impeto delle Francesi, quando venne in soccorso loro con una gagliarda squadra di cavallerìa il principe di Lichtenstein. Diè la carica alle fanterìe Francesi, e le respinse: diè la carica alle cavallerìe accorse in ajuto delle fanterìe, e le respinse. Arrivava in questo dubbioso punto con la seconda squadra dei suoi fanti Olivier, e facendo uno spaventoso trarre di artiglierìe leggieri, disordinava i cavalli di Lichtenstein, e gli costringeva alla fuga. Fra la furia del rinculare percossero nel reggimento dei granatieri di Wowerman, e il disordinarono, e se le fanterìe di Francia si fossero fatte avanti per usare la occasione aperta dalle artiglierìe leggieri, sarebbe nato in questa parte qualche gran sinistro per gl'imperiali; ma esse, non so perchè, si sostarono. Intanto Lichtenstein, che era uomo prode, ed i granatieri di Wowermann, che erano uomini forti, ed esercitati nelle battaglie, si riordinarono, e tornarono al cimento: trassero con loro un grosso rinforzo del reggimento di Lobkowitz. Il rincalzo fatto da tutte queste genti unite, ed animate da Melas, da Froelich, e da Otto diventò sì forte, che Olivier disperando la vittoria, la lasciò in mano del nemico, sulla destra riva dell'insanguinata Trebbia ritirandosi. Salm, che co' suoi cavalli correva lungo il Po per circuire Otto, veduto che per la ritirata di Olivier restava solo esposto all'impeto di tutta la schiera vincitrice, velocemente correndo, si ritirava ancor esso agli alloggiamenti oltre il fiume.

Bene, come si è veduto dalla narrazion nostra, fu combattuta questa battaglia dalle due ali dell'esercito Francese sul principio, male sulla fine; il che fu cagione, che, se esse si ritirarono intiere sulla destra della Trebbia, la mezza vi si ricoverò fuggendo disordinata e rotta. Avevano i Francesi passato il fiume, ed essendosi ordinati sulla sponda sinistra assaltavano con l'antiguardo loro il nemico: ma questi, bravamente resistendo, gli rincacciava. Venuta la seconda fila repubblicana in soccorso della prima, rinfrescava la battaglia, che fra breve divenne orribile. Impazienti l'una parte e l'altra di combattere di lontano, vennero tosto alle prese con le bajonette: fu quest'urto tanto micidiale sostenuto quinci e quindi con un valore inestimabile. Quando pei cadenti, feriti o morti qualche spazio vuoto appariva nelle file, i viventi vi si gettavano, e facevano battaglia con le sciabole, e quando non potevano con le sciabole, la facevano coi graffi, coi morsi, e coi cozzi. Non fu questa battaglia generale, ma miscuglio di duelli fatti corpo a corpo, nè si vedeva chi avesse ad essere il primo a ritirare il passo. Ma mentre la fortuna stava per tale modo in pendente, ecco arrivare a corsa un reggimento di Tedeschi condotto dal colonnello Lowneher, che diede animo ai Russi, lo scemò ai Francesi; caricando, e smagliando la cavallerìa, che fiancheggiava la schiera di Montrichard. Un reggimento di fanti leggieri, preso spavento da questo accidente, cesse fuggendo disordinatamente; la fuga e lo scompiglio invasero tutta la schiera, nè Montrichard ebbe potestà di rannodarla, malgrado che se ne desse molto pensiero, e molto vi si sforzasse. La rotta di Montrichard fu cagione del doversi ritirare Victor; perchè Suwarow accortosi della favorevole occasione, che la fortuna ed il valore de' suoi gli avevano aperta, si cacciava dentro ai luoghi abbandonati col suo corpo di riserbo, ed assaliva il generale Francese per fianco. Pensò allora Victor al ritirarsi sulla destra riva, e il fece ordinatamente, per quanto quell'accidente improvviso il comportava. Così tutta la mezza dei repubblicani, parte rotta intieramente, parte poco intera, e fieramente seguitata dalla cavallerìa nemica, si era ritirata a salvamento oltre quel fiume, che con tanta speranza di vittoria aveva poche ore prima passato. La Trebbia, funesto fiume per tante battaglie, non vide mai tanto sangue, quanto a questi giorni: il suo letto orrido pei mucchj dei cadaveri, massimamente più verso la sua foce nel Po, perchè quivi nel passare furono i Francesi terribilmente bersagliati dalle artiglierìe di Melas. Dei repubblicani in quelle tre giornate fu uno scempio di circa sei mila soldati morti, o feriti; tre mila prigionieri ornarono il trionfo dei vincitori. Non fu minore il numero degli uccisi dalla parte degli imperiali, e quasi niuno quello dei prigionieri. Alcune bandiere dei repubblicani furono conquistate dai confederati; pochi cannoni vennero in poter loro, perchè Macdonald per non essere ritardato dall'impedimento dell'artiglierìe più grosse, le aveva lasciate nello stato Romano, solo conducendo seco le leggieri.

Sopraggiunse la notte: era estrema la stanchezza dei combattenti; fuvvi riposo, se non d'animi, almeno di corpi. Pensava Suwarow, tosto che aggiornasse, di perseguitar il nemico, Macdonald di ritirarsi, quantunque a ciò di mala voglia, e costretto dal parere dei compagni, si risolvesse, perchè avrebbe desiderato di fare una quarta volta esperienza della fortuna; tanto si era ostinato in questa faccenda del combattere. Per la qual cosa, lasciato sulla sponda del fiume alcune genti delle più spedite per occultare al nemico la sua partita, s'incamminava celeremente col restante esercito, prima che la luce illustrasse l'Italiche contrade, alla volta di Parma. Dal canto suo Suwarow, come prima vide sorgere l'aurora, passava il fiume per dar l'assalto al nemico nei suoi proprj alloggiamenti. Nè avendolo trovato, ed accortosi della sua levata, si mise tosto a perseguitarlo, egli per la strada vicina ai monti, Melas per la prossimana al Po. Giunsero i Russi a Zema il retroguardo Francese governato da Victor, e l'assalirono con molto valore, e con ugual valore fu loro risposto dai Francesi, cosa maravigliosa dopo gl'infortuni recenti. La diciasettesima, postasi in un luogo forte, fece spalla al ritirarsi dei compagni, ma circondata finalmente da un nemico a molti doppj più grosso, fu costretta a deporre le armi, dandosi prigioniera in poter del vincitore. Dall'altro lato i Tedeschi arrivarono addosso ai Francesi presso a Piacenza, e ne fecero molti prigionieri, massime feriti, fra i quali notaronsi principalmente Rusca, Salm, e Cambray; quest'ultimo morì fra breve per le ferite avute nella battaglia. Rusca ebbe una gamba sconcia, Olivier una meno, entrambi guerrieri buoni, e di forme egregie di corpo. Avrebbe voluto Suwarow seguitare più oltre i repubblicani; ma udiva ad un tratto, che Moreau, uscito dal suo sicuro nido di Genova, era sboccato dalla Bocchetta, e calando dai monti minacciava di trarre a mal partito Seckendorf, e Bellegarde, dei quali il primo stringeva Tortona, il secondo Alessandria; che anzi il capitano di Francia avrebbe potuto fare addosso al suo retroguardo qualche fazione di sinistro augurio. Deliberossi pertanto a tornarsene indietro, dando carico a Otto, a Hohenzollern, ed a Klenau, che perseguitando facessero a Macdonald tutto quel maggior male, che potessero. Ma prima ebbe mandato una presa di Cosacchi a disfare quella testa di Liguri, che sotto il governo di Lapoype stanziava a Bobbio; la qual cosa venne loro agevolmente fatta. Domandano molti, perchè Lapoype, invece di scendere ad ajutare Macdonald, se ne sia stato inoperoso in un momento, in cui la più efficace attività era richiesta: alcuni il tacciano di poco animo, altri di animo rotto per non aver saputo svilupparsi a tempo dai piaceri di Genova. Ma egli stava agli ordini di Moreau, non di Macdonald, e se il generalissimo non gli aveva comandato di calarsi, non si vede come il potesse fare da se. Pare poi cosa molto inverisimile, per non dir del tutto falsa, che Moreau gli desse il comandamento di scendere, perchè ei non poteva supporre, che Macdonald fosse, non so se mi debba dire o tanto imprudente, o tanto temerario, che volesse mettere da se solo a cimento sorti sì gravi quando temporeggiando solamente due giorni, le avrebbe potute mettere coi due eserciti uniti insieme. Da tutto questo si scorge, che se Suwarow avesse tardato ad arrivare solo due giorni, o Macdonald solo due giorni a combattere, vinceva, per quanto delle probabilità di guerra si può giudicare, la fortuna di Francia. Sonvi alcuni, che accusano Macdonald di essere arrivato troppo tardi, perchè tornando da Napoli giunse a Firenze il dì ventisei di maggio, e solo partinne il dì otto di giugno: pare cosa strana quell'avere accennato sì presto, e colpito sì tardi. Se avesse corso, affermano, difilato, con dare solamente alle sue genti i riposi necessari, sarebbe certamente giunto a Voghera, prima che Suwarow vi arrivasse, e la unione dei due eserciti stata certa, e sicura. Di questo noi non vogliamo giudicare, perchè non abbiamo scienza del marciare degli eserciti, nè dell'immenso viluppo, che a' nostri tempi e' si tirano dietro. Certo, se l'accusazione è vera, la posterità Francese avrà molto a dolersi di Macdonald.

Restava a Macdonald un'impresa difficile a compirsi; quest'era di ritirarsi a salvamento in Toscana, per poter quindi per la riviera di Levante condurre le sue genti all'unione in Genova con quelle di Moreau. Ei ne venne ciò non ostante a capo con uguale e perizia e felicità. Ordinava a Victor, che salisse per la valle del Taro, e che, varcati i sommi gioghi dell'Apennino, calasse per quella della Magra nel Genovesato. Egli poi con la sinistra, ora combattendo alle terga, ora sul fianco sinistro, ed ora di fronte, e sempre animosamente e felicemente, più che da vinto si potesse sperare, se ne viaggiava alla volta di Bologna per condursi di nuovo a Pistoja. Disperse le genti leggieri di Hohenzollern e di Klenau, che gli volevano contrastare il viaggio, passò per Reggio e per Rubiera, passò per Modena, che pose a grossa taglia, mandò presidj a Bologna ed al forte Urbano: poscia salendo s'internava nella valle del Panaro, ed arrivava al suo alloggiamento di Pistoja. Poco stettero Bologna, ed il forte ad arrendersi ai confederati. Nè il generale Francese voleva pei disegni avvenire, e per le molte sollevazioni dei popoli fermarsi in Toscana. Perlochè, chiamate a se le guernigioni di Livorno, e dell'isola d'Elba, che avevano capitolato, la prima con un Inghirami, condottiere di Toscani sollevati, la seconda con Napolitani e Toscani misti d'Inglesi, e poste sulle navi per a Genova le artiglierìe e le bagaglie, si avviava per la strada di Lucca alla volta dei territorj Liguri, e quivi conduceva a salvamento i suoi stanchi soldati. Poi stanco egli stesso dalle fatiche e dalle ferite, se n'andava a Parigi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto, per lo smisurato valore dimostrato. Del resto mostrossi Macdonald in Italia uomo di generosa natura: fu anche umano, malgrado delle cose eccessive che pubblicò a Napoli, e che rinfrescò in Toscana: si astenne da quel d'altrui, abborriva i rubatori. Amava più la gloria che la repubblica e la libertà, come d'ordinario l'amano i soldati. Gli piacevano meglio i governi temperati, che gli sfrenati. Insomma ei fu in Italia personaggio commendevole, e sarebbe stato anche più se un amore smisurato di fama non l'avesse fatto errare. Ebbe i difetti degli animi generosi, e non fu poco in mezzo a tanti vizj di animi vili. Con l'esercito di Macdonald si ritirarono ancora le genti Francesi, che tenevano Firenze; tutta la Toscana tornava all'obbedienza di Ferdinando.

Il giorno medesimo, in cui Macdonald combatteva sulle rive del Tidone, Moreau scendeva con circa venticinque mila soldati dalla Bocchetta, e passando per Gavi e Novi, fatto anche sicuro dalla fortezza di Serravalle, che si trovava in potere de' suoi, se ne giva all'impresa di divertire i confederati dalle offese di Tortona, che già pericolava, essendo stata aspramente bersagliata da bombe ai giorni precedenti. Il giorno diciotto al momento stesso, in cui Macdonald era alle mani con gli alleati fra il Tidone e la Trebbia, Moreau assaltava gli Austriaci nel campo loro sotto Tortona, e quantunque, condotti da Seckendorf e da Bellegarde, si difendessero da uomini forti, tuttavia, prevalendo i Francesi di numero, furono costretti a cedere e perdettero San Giuliano; perseguitati acerbamente dai repubblicani nel piano di Marengo, disordinati, e rotti si ritirarono oltre la Bormida.

Questa vittoria liberava Tortona dall'assedio, e fu fatto abilità a Moreau di rinfrescarla di viveri e di munizioni. Da tutto questo chiaramente si vede, che se Macdonald fosse, come pare che potesse, arrivato più presto, o avesse combattuto più tardi, avrebbe la fortuna inclinato di nuovo a favor dei repubblicani: per un intervallo di ventiquattr'ore stette, che i vinti non fossero vincitori, e che l'Italia, in vece di essere Russa e Tedesca, fosse Francese. Scaramucciossi il giorno diecinove, ed il venti sulle rive della Bormida. Il ventuno, messosi Bellegarde all'ordine, raccolte quante genti potè dal campo sotto Alessandria, e da altre terre vicine, facendo stima non piccola di questo moto, nè volendo che Moreau si alloggiasse in quei luoghi, mandava Seckendorf con un grosso antiguardo ad assaltar i repubblicani sulla destra del fiume. Attaccossi Seckendorf con Grouchy a San Giuliano, e dopo una dura zuffa lo sforzava a ritirarsi. Accorrendo con nuove genti Grenier in soccorso di Grouchy ristorava la battaglia: il generale Tedesco, che sulle prime aveva respinto, fu respinto. In questo mentre Bellegarde arrivava a fare spalla a Seckendorf con una forte squadra di genti fresche, ed entrato nella battaglia faceva piegare i Francesi: venivano in poter suo San Giuliano, e Spinetta; continuamente i Tedeschi guadagnavano del campo. Fu forza, che Moreau venisse in ajuto de' suoi, che si trovavano in gran pericolo. Divenne allora molto aspro il conflitto: da ambe le parti si facevano gli ultimi sforzi per uscirne con la vittoria. Alfine Grouchy, che in questo fatto si portò da soldato molto valoroso, radunati e riordinati i suoi, che erano stati disordinati e dispersi, dava dentro, serrandosi addosso con molto impeto agli Austriaci, gli rompeva, e gli sforzava ad andarsene frettolosamente a cercar ricovero sulla sponda sinistra della Bormida. Un loro retroguardo lasciato al Bosco, e circondato dai Francesi si liberò a furia di bajonette. L'estrema coda delle genti Austriache, deposte per la forza sopravvanzante degli avversarj le armi, si diede in poter dei vincitori. Perdettero gl'imperiali in questo fatto molta gente, ma non tanta, quanta pubblicarono i Francesi, nè tanto poca quanto pubblicarono i Tedeschi, certamente nel novero di due in tre mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; nè è dubbio, che la vittoria non sia stata dalla parte dei repubblicani. Quivi ebbe Moreau le novelle dei sinistri accidenti della Trebbia. Perlochè conoscendo, che per allora non restava speranza di far risorgere la fortuna, e che la sola strada che gli rimanesse aperta per riparo del suo esercito, era quella di ritirarlo prestamente là, dond'era venuto, condottosi con frettolosi passi per la strada di Novi e di Gavi a Genova, spartiva i soldati nelle stanze di Voltri, Savona, Vado e Loano. Munì Genova con un sufficiente presidio; la strada di sboccar di nuovo nelle pianure Tortonesi gli rimaneva libera pei forti di Gavi e di Serravalle. Oltre a ciò aveva per maggiore sicurezza ordinato un forte campo con trincee tra la Bocchetta e Serravalle, che aveva raccomandato alla fede del marchese Colli, assunto al grado di generale, ed a lui congiunto d'amicizia. Le altre valli dei monti Apennini, per le quali si aprono le strade delle pianure bagnate dalle acque del Po, furono anche dal generale di Francia fortificate, e munite con buoni presidj.

In questo forte sito, ed avendo frapposto fra di lui ed il nemico, come baluardo naturale e forte, tutto il concatenato giogo degli Apennini, se ne stava aspettando, che cosa portassero le sorti dalla parte di Francia, che ancora non voleva, malgrado di tante rotte, pazientemente sopportare, che l'imperio d'Italia le uscisse dalle mani. Tornato Suwarow dai campi tanto gloriosi per lui del Tidone e della Trebbia, andava a porsi ad alloggiamento sulle sponde dell'Orba per impedire ogni motivo, che i Francesi potessero fare a soccorso delle fortezze di Tortona e di Alessandria cinte, dopo il suo arrivo, di più stretto assedio, e che sperava avessero fra breve a cedere alle sue armi.

Tale fu la ruina ed il precipizio delle cose dei Francesi in Italia, che, non ancora trascorsi quattro mesi da quando la guerra aveva avuto principio in quest'anno, perdute sette battaglie campali, e le fortezze di Peschiera, e di Pizzighettone, il castello di Milano, la cittadella di Torino, perduta tutta l'Italia da Napoli fino al Piemonte, la cadente loro fortuna altro sostegno più non aveva, che i gioghi dei monti Liguri, ed alcune fortezze. Noveravansi fra queste principalmente i castelli di Napoli, il castel Sant'Angelo, Ancona, Mantova, e le fortezze Piemontesi di Alessandria, Tortona e Cuneo. Conoscevano gli alleati, che l'imperio d'Italia non si renderebbe in mano loro sicuro, se non quando tutte le anzidette fortezze conquistate avessero. Ma principale pensier loro era quello dell'acquisto di Mantova stimata il più forte antemurale d'Italia, se non di effetto, almeno di nome, e delle fortezze del Piemonte; conciossiachè il presidio di Mantova essendo grosso di circa diecimila soldati, poteva ajutare efficacemente una nuova calata di Francesi, se la fortuna divenisse loro più favorevole; le fortezze Piemontesi, per essere vicine a Francia, potevano facilmente servire di appoggio e di scala a nuove imprese dei repubblicani. Agevolavano agli alleati la conquista di tutti questi propugnacoli le vittorie conseguite, i popoli favorevoli, le armi Russe, Inglesi e Ottomane, che o già tenevano, o minacciavano l'inferiore Italia. Per la qual cosa non così tosto Moreau si era riparato nel suo sicuro seggio di Genova, che i confederati andarono col campo alla cittadella d'Alessandria con potentissimi apparecchj, sperando per l'efficacia del batterla, ch'ella avesse presto, quantunque molto fosse forte per arte, ad essere sforzata alla dedizione.

Siede la cittadella d'Alessandria sulla riva sinistra del Tanaro, separata solamente per le acque del fiume dalla città, con la quale si congiunge per un ponte coperto a guisa di quello di Pavìa. Eravi dentro un presidio di circa tremila soldati sottomessi al generale Gardanne, soldato, che pel suo valore in quelle guerre Italiane, era tostamente salito dai minori gradi della milizia ai maggiori. Sebbene non gli fosse nascosto, che per le rotte toccate da' suoi poca speranza gli rimaneva di essere soccorso, tuttavia da quell'uomo forte, ch'egli era, si era risoluto a difendersi fino agli estremi, perchè dove non vi poteva più essere utilità per la sua patria, voleva almeno, che risplendesse incontaminato l'onor suo, e quello de' suoi soldati. Animava continuamente il presidio con la voce e con la mano, sopravvedeva ogni cosa, ordinava con somma diligenza quanto fosse necessario alla difesa. Dal canto suo Bellegarde niuna diligenza o fatica risparmiava, per venir a capo dell'espugnazione. Aveva con se ventimila soldati fra Austriaci e Russi, più di centotrenta pezzi di artiglierìe assai grosse, parte dell'esercito, parte condotte recentemente dalle armerìe di Torino, con obici e mortai in giusta proporzione. Venne per sopravvedere, ed incoraggire gli oppugnatori con la sua presenza il generalissimo dei due imperj. Essendo la fortezza nuova, edificata secondo l'arte, ed abbondante di caserme, e di casematte construtte a pruova di bomba, si bramava conoscere, quanto potesse nel contrastare alla forza di chi l'assaltava. Si convenne da ambe le parti, che gli alleati non molesterebbero la fortezza dal lato della città, e che ella la città in nissun modo offenderebbe. Scavata, ed alzata la prima trincea di circonvallazione, fece Bellegarde la chiamata a Gardanne. Rispose, essergli stato comandato, che difendesse la fortezza, e volerla difendere. La folgoravano con tiri spessissimi centotrentanove cannoni, quarantacinque obici, cinquantaquattro mortaj. Nè se ne stava Gardanne ozioso, fulminando ancor esso con tutto il pondo delle sue artiglierìe. Ma la tempesta scagliata dagli alleati fu sì grande, che in poco d'ora, o per proprio colpo, o per riverberazione ruppe la maggior parte dei letti delle artiglierìe, sboccò le restanti, uccise non pochi cannonieri, arse una caserma, ed una conserva di polvere con orribile fracasso: tacque per un tempo, o debolmente trasse la piazza. Usarono gli assedianti l'accidente, e spintisi avanti con le zappe, e compite le traverse, arrivarono sino al circuito dello spalto, dove incominciarono a distendersi con il cavare, e con alzare la terra a destra ed a sinistra coll'intento di compire la seconda circondazione. Tentava Gardanne d'impedirgli, poco potendo con le artiglierìe, con l'archibuserìa, traendo furiosamente contro i lavoratori dalla strada coperta. Ciò non ostante condussero a perfezione la seconda; nè mettendo tempo in mezzo, e dell'oscurità della notte giovandosi, vi alzarono di molte batterìe. In questi bersagli si portarono egregiamente, e fecero maravigliosi progressi contro la piazza i cannonieri Piemontesi tornati ai servigi del re. Nè furono senza effetto le armi Francesi, perchè molti buoni soldati dei confederati restarono uccisi, o feriti. Morì un nipote del marchese di Castler, fu ferito gravissimamente il marchese medesimo con grande rammarico di Suwarow, che conosceva, quanto quel guerriero valesse. Era intendimento degl'imperiali, compita questa seconda circonvallazione, di far pruova di cacciar i repubblicani dalla strada coperta. In fatti tanto fecero coi cannoni, che spazzavano i bastioni, e con le bombe e con le granate, che rendevano pericoloso e mortale lo starvi, che i soldati di Francia l'abbandonarono, ritirandosi del tutto nel corpo della piazza. Sottentrarono gl'imperiali, vi fecero un alloggiamento stabile: poi con le zappe continuamente travagliandosi, assieparono gli angoli sporgenti della medesima strada coperta, e si condussero fin sotto ai bastioni. Sorgevano i segni della vicina dedizione. Già erano alzate le batterìe per battere in breccia, già le scale pronte, già le artiglierìe della piazza più non rispondevano. Di tanti, quattro cannoni soli si mantenevano in grado di trarre; le armi missili, oggimai consumate tutte, mancavano; un assalto al nascente giorno si preparava, una presa di soldati fortissimi trascelti a questo mortale ufficio già stavano pronti ad eseguirlo: le ruine stesse delle mura facilitavano la salita. Il resistere più lungo tempo sarebbe stato per Gardanne, non che temerità verso la fortuna, crudeltà verso i soldati; però, inclinando l'animo alla concordia, chiese, ed ottenne patti molto onorevoli il dì ventuno luglio. Uscisse il presidio con tutti i segni d'onore, che danno i vincitori ai vinti; si conducesse negli stati ereditarj, vi stesse fino agli scambi, avesse Gardanne facoltà di tornarsene in Francia sotto fede di non militare contro i confederati sino allo scambio. Fu assai bravo il contrasto fatto da questo generale di Francia; ciò nondimeno fu accusato dell'essersi arreso, prima che la breccia fosse aperta. Ma l'accusa non ebbe effetto, perchè vennero poco dopo tante dedizioni, che fu manifesto, che la forza insuperabile, non la codardia, od il tradimento avevano operato. Restarono uccisi di Francesi seicento, di Cisalpini ducento. Fuvvi anche molto sangue fra i confederati, perchè mancarono fra di loro in ugual numero i soldati. Trovarono i vincitori nella fortezza conquistata settemila fucili, più di cento cannoni, la maggior parte da risarcirsi, dieci mortai, polvere in abbondanza, e munizioni da bocca proporzionatamente. Fu celebrata la conquista di Alessandria con ogni maniera di pubblica dimostrazione. Poi, per metter terrore, e per isfogar l'odio, carcerarono i giacobini, come gli chiamavano; il che contaminò l'allegrezza, perchè molti fra di loro appartenevano alle famiglie principali del paese. Ma Suwarow voleva quel che voleva, ed anche il consiglio supremo il secondava volentieri.

Non si era ancora acquetata l'allegrezza concetta per la conquista d'Alessandria dai collegati, e dai loro partigiani in Italia, che ebbero occasione d'un'altra maggiore prosperità per l'espugnazione di Mantova. Aveva Buonaparte due anni innanzi conquistato questa fortezza piuttosto col consumarla per carestìa di viveri che con lo sforzarla per oppugnazione. La domò Kray piuttosto per forza, che per assedio: perciocchè s'arresero i repubblicani alle armi imperiali, quando ancora avevano nelle conserve loro di che cibarsi ancora per lungo tempo; ma le mura sfasciate, ed il cinto della piazza rotto gli costrinsero in breve tempo a quella risoluzione, cui il fare ed il non fare, tanto importava a loro, ed agli alleati. Si era Kray, già fin quando Suwarow era arrivato al supremo governo dell'esercito, messo intorno a Mantova, ma non si era fatto molto avanti con le trincee, e perchè non aveva forze sufficienti a circuire, ed a sforzare una piazza di tanta vastità, e difesa da una guernigione di diecimila soldati. Per la qual cosa aveva solamente applicato il pensiero al tenere impediti i luoghi, acciocchè nissuno ajuto di genti, o di vettovaglia vi si potesse introdurre; aveva anche fatto opera, posciachè Peschiera e Ferrara erano state soggiogate dalle armi dei confederati, che le barche imperiali, che avevano acquistato il dominio del lago di Garda, per le acque del Mincio calandosi, e così pure un'armata di navi sottili ascendendo pel Po, venissero fare spalla all'esercito terrestre, che stringeva la piazza. Infatti l'essere padrone di Peschiera e di Ferrara, che sono a destra ed a sinistra a guisa di opere esteriori di Mantova, dà maggior facilità a chi è al tempo stesso signore della campagna, di acquistare per fame o per forza quel baluardo principale d'Italia. Ma quando dopo le rotte di Macdonald, Suwarow fatto più sicuro ebbe mandato novelle genti all'assedio, per forma che l'esercito di Kray ascendeva, se non passava, il novero di quarantamila soldati, il generale Tedesco, nel quale non si poteva desiderare nè maggior animo, nè miglior arte, si accinse a voler fare quello, che fino allora aveva solamente accennato. Per facilitargli vieppiù l'impresa, gli mandava Suwarow alcuni pezzi d'artiglierìe ben grosse, trovate nelle armerìe di Torino. Con questo accostamento si trovò Kray in grado di fulminare la piazza con più di seicento bocche da fuoco. Alloggiava il più grosso nervo dell'esercito assediatore, la più parte Austriaco, per modo che incominciando sulla sinistra alla Certosa, e girando col mezzo alla Madonna, andava con la sinistra a terminarsi a Capilupo. Un altro corpo di genti Austriache si era posto a rincontro di San Giorgio. Eransi i Russi accampati oltre il canale di Sant'Antonio a destra, ed a sinistra della strada che va a Verona: carico loro era di battere la cittadella. Ma i corpi che avevano preso il campo e contro San Giorgio, e contro la cittadella, non avevano l'ufficio di farsi via per forza, o per rotture di mura nelle due fortezze: solo disegnavano d'impedire la campagna al nemico, e battendo con le artiglierìe dargli diversi riguardi, perchè meno fosse forte a difendersi in quella parte, che principalmente Kray aveva fatto pensiero di assaltare, e dove intendeva di far la breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il nemico ostinato oltre il dovere resistesse. Nè stette lungo tempo in dubbio circa la elezione, perchè la parte di porta Pradella gli si appresentò tostamente come la più debole, sì per esser dominata dall'eminenza di Belfiore, sì per non avere altra difesa esteriore, che un'opera a corno, nè altra difesa di fianco, che il bastione di Sant'Alessio molto lontano, una mezza luna a sinistra, ed il bastione di Luterana a destra, sì per essere tutte queste difese molto anguste, e perciò incapaci di molte artiglierìe, e di spandere i tiri alla larga, anzi capaci all'incontro di essere molestate con fitto bersaglio dal nemico, e sì finalmente per essere in questa parte il terreno manco paludoso, e però più atto a ricevere gli approcci. Ma a volere che gli approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per gli oppugnatori l'impadronirsi del torrione, e del molino di Ceresa. A questo fine tirando furiosamente contro i detti luoghi, sforzarono i difensori a ritirarsene; poi fattovi impeto con una mano di soldati animosi, vi entrarono, e vi si alloggiarono. Quindi senza starsene ad indugiare, alzarono le serrature del Paiolo; il che fu cagione, che le acque del canale di questo nome, trovando uno scolo più facile, si abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto abilità a Kray di spingersi avanti con le trincee contro la piazza. Spesseggiavano i Russi coi tiri contro la cittadella, gli Austriaci contro San Giorgio. Ma la principale tempesta veniva da Osteria alta, dai siti vicini alla strada per a Montanara, da Belfiore, da casa Rossa, da Paiolo, da Valle, e da Spanavera; quivi il generalissimo d'Austria aveva piantato le sue più grosse e più numerose artiglierìe, per battere o per diritto o per fianco l'opera a corno di porta Pradella, i bastioni della porta medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le fortificazioni dell'isola del T, e del Migliaretto.

Mentre con tanto fracasso, e con sì viva tempesta fulminava Kray la parte più debole della piazza, tempesta, alla quale gagliardamente anche rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con le trincee dell'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di guastatori, di zappatori, e di palauoli ordinati a venire dalle campagne insistevano a scavare, e ad ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli assediati facessero ogni sforzo per isturbargli con le artiglierìe, giacchè con le sortite a cagione della forza prepotente degli assediatori non potevano, la prima circondazione o come ora dicono, parallella, che si distendeva dalla strada per a Bozzolo insino a fronte del bastione di Sant'Alessio; poi con gli approcci o con le traverse avvicinandosi, piantarono sei batterìe, delle quali la prima batteva il bastione di Luterana a canto la porta Pradella, le tre seguenti bersagliavano l'opera a corno, e la mezza luna della medesima porta, la quinta la cortina tra la porta medesima ed il bastione di Sant'Alessio, la sesta finalmente questo bastione. Già i confederati erano arrivati a compire la seconda parallella, e da questa con maggior furore scagliavano nella piazza il giorno palle, la notte bombe: era infinito il terrore della città. Per tale furioso nembo furono scavalcate quasi tutte le artiglierìe dei difensori: l'opera a corno, e le fortificazioni di porta Pradella lacere e quasi intieramente distrutte offerivano agli oppugnatori mezzo poco pericoloso di attaccare la piazza, e di entrarvi. Al tempo stesso un altro corpo di Austriaci assaltava il vico di Paiolo sito a rincontro di porta Ceresa, e dopo un ostinato combattimento se ne insignoriva. Il generale Austriaco Esnitz, che reggeva la schiera oppugnatrice di San Giorgio tempestò con sì gran romore in sembianza di volerne venire ad un assalto che i repubblicani pressati da tante altre parti, si deliberarono di abbandonare, lasciandola in potere degli Austriaci, questa parte delle fortificazioni di Mantova, che è divisa dal corpo della piazza per le acque del lago di mezzo, e dell'inferiore. Tutti questi assalti e questi vantaggi diedero abilità al corpo principale dell'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo stesso dello spalto degli Austriaci scavarono, ed alzarono la loro terza circondazione. Col nemico tanto vicino, con tutte le difese demolite o fracassate, non potevano più sperare i Francesi di conservare in possessione loro l'opera a corno, solo antemurale della porta Pradella, ancorchè il presidio dell'abbandonato San Giorgio fosse venuto a rinforzare i battaglioni che la difendevano. Pensarono adunque al ritirarsi, il che effettuarono non senza aver prima chiodato i cannoni, che non poterono trasportare. Accortisi gl'imperiali dell'accidente, entrarono, vi si alloggiarono, e voltando dal bastione acquistato come da luogo più vicino, l'artiglierìe contro la porta Pradella, se alcuna cosa ancora vi era rimasta intiera, questa disfecero e rovinarono: già battevano in breccia. La tempesta continuava da ogni lato: più di diecimila o palle, o bombe si lanciavano ogni giorno contro la straziata Mantova; non si era mai per lo innanzi veduta una oppugnazione tanto vigorosa, e tanto violenta.

Già porta Pradella era distrutta, le case vicine, o diroccavano, o ardevano: sorgevano incendi pericolosi in varie parti; le fiamme consumavano i magazzini a San Giovanni; straziato era il bastione di Sant'Alessio, le sue batterie smontate; medesimamente le batterie del T coi carretti rotti giacevano inutili al suolo, il Migliaretto sconcio e fracassato non faceva più difesa; ogni governo di artiglierìe era divenuto impossibile nella fronte della piazza opposta agli Austriaci, o perchè erano scavalcate, o perchè ne erano morti o fugati i cannonieri: niun parapetto intiero, niun muro non rovinato; i lavoratori di dentro ricusavano in quell'estremo pericolo, ed in mezzo a sì spaventevole fracasso l'opera loro; la piazza sfasciata, ed aperta da questo lato non aveva più nè difesa d'armi d'artiglierìa, nè difesa di ripari, nè modo di risarcirgli. Era la guernigione inabile al resistere con le armi, con cui si combatte da vicino, perchè assottigliata dalle stragi, indebolita dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro mila abili alla battaglia, non era più a gran pezza pari a tanta bisogna. Tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti, e perseverava nella difesa, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro il colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta delle genti Francesi sulla Trebbia, e l'essersi Moreau del tutto ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo, discrepando solamente un uffiziale Bouthon, comandante dell'artiglierìe, che fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo addì ventotto di luglio, i capitoli di maggior momento furono i seguenti: onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione, avessero i gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli scambi, il comandante e gli uffiziali, soggiornato tre mesi negli stati ereditarj, avessero facoltà di tornare nei paesi loro, i Cisalpini, Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Francesi a stimarsi, e come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e dei feriti, dessersi tre carri coperti al generale, due agli uffiziali, perdonerebbesi la vita ai disertori Austriaci. Entrarono i confederati il dì ventinove nella lacerata Mantova, e per questa espugnazione fu dimostrato al mondo, che per viva forza ella si può espugnare in pochi giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi in abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Fecero i Mantovani molte feste per l'arrivo dei Tedeschi, come ne avevano fatte per l'arrivo dei Francesi. Di questi, chi si poteva reggere, sebbene si trovasse in estrema debolezza o per ferite, o per malattìa, accorreva, o da se o fattosi portare, ai compagni che se ne andavano, amando meglio perire in mezzo al nome di Francia, che andar salvo in mezzo ai Russi ed ai Tedeschi. Pure rimasero nella fortezza dodici centinaja di soldati malati, e due migliaja circa perirono o al tempo dell'assedio largo per malattìe, o al tempo dell'assedio stretto per ferite. I morti ed i feriti dalla parte dei confederati non arrivarono ai cinquecento. Fu accusato Latour-Foissac di poco animo, e di debole difesa da alcuni, da altri di esser aristocrata, di non amare la repubblica, di aver tenuta continuamente informata con lettere la contessa di Artesia di ogni cosa. Altri finalmente dissero anche parole peggiori, affermando che si fosse lasciato corrompere per un milione, e ottocentomila franchi dati, o promessi da Kray. Chi conosce lo stato, a cui era ridotta porta Pradella, crederà facilmente che il generale dell'Austria non aveva bisogno di dar denaro per entrare nella piazza, e che il generale di Francia non aveva bisogno di accettarlo per lasciarlo entrare. Accusollo il direttorio, accusollo Buonaparte messosi al luogo del direttorio; ma il mondo sincero e giusto, nè mosso dalla superbia, che si compiace dell'avvilimento altrui, ha giudicato, che Latour-Foissac abbia compito nella difesa di Mantova, senza sospetto di macula alcuna, tutti gli uffizj che si appartenevano a buono e leale capitano, e che l'arrendersi in quel punto fu per lui necessità, non viltà, nè cupidigia di denaro.

Successe tosto alla dedizione di Mantova quella di Serravalle. È Serravalle piccola fortezza di dizione Piemontese, posta sulla Scrivia, dove le falde degli Apennini incominciano a sollevarsi in quegli alti gioghi, che a grado a grado viemaggiormente innalzandosi, arrivano al sommo vertice della Bocchetta. Era questa fortezza venuta, prima, come abbiam narrato, in potere dei repubblicani Piemontesi, che facevano guerra al re, poi introdotto un presidio Francese, cesse intieramente in podestà della repubblica. Importava a Suwarow pe' suoi disegni contro Genova che s'impadronisse di lei, poi di Gavi, che posto in più alto sito, e sopra scoscesa rupe, è propugnacolo alla capitale della Liguria. Adunque contro la fortezza di Serravalle mandava Suwarow le sue genti, dando carico a Schwaicuschi di tenere il nemico a bada, a Dalheim di passare la Scrivia presso Cassano Spinola, a Mitruschi di accamparsi tra Novi e Gavi per mozzar le strade agli assediati. Aprironsi le trincee, piantaronsi le batterie, furono fracassate, e ridotte inutili le artiglierìe della piazza: il comandante richiesto di resa, negava: ricominciossi la batteria; fracassato il muro, restava la breccia aperta. Si arrendeva a discrezione il dì sette agosto. Trovarono i vincitori nella fortezza dieci cannoni, un mortajo, con qualche provvisione sì da bocca, che da guerra.

Le rotte d'Italia, e la presa di tante fortezze, massimamente quella di Mantova, intorno alla quale si era affaticato Buonaparte quattro mesi, avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè potevano restar capaci, siccome quelli, che ancora avevano la memoria fresca di tante vittorie, del come soldati, sì sovente ed in tanti segnalati fatti superati dai repubblicani, fossero adesso, e tutto ad un tratto divenuti sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque fazione, che tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore, chi i tradimenti per opinione. Fuvvi ancora chi disse solennemente orando in tribuna, che palle di legno ricoperte artifiziosamente di laminette di piombo fossero state date ai soldati repubblicani nelle battaglie. Si accusava Scherer, si accusava Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si accusava Becaud, comandante che era stato del castello di Milano: nè trovava animi meglio inclinati verso di lui il valoroso Gardanne. Se non si dava carico di tradimento a Moreau per corruzione di denaro, che in questo fu stimato sempre, ed era veramente di natura integerrima, gli si dava quello di repubblicano tiepido, e dell'amministrare la guerra non con quella vigorìa, che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi, pretessendo alle parole loro l'amore di libertà, accagionavano il direttorio delle calamità presenti, e facevano ogni opera per espugnarlo, conciossiachè i più fra coloro che gridavano libertà, non altro modo in Europa sapevano tenere per fondarla, che questo di disfare i governi per mettersi nei luoghi loro, ambizione pessima, che corrompe il buono, e fa venir ai governi certe voglie, che forse non avrebbero, ed a cui pure sono di per se stessi pur troppo inclinati. Insomma tanto si travagliarono con le parole e con gli scritti, e col subornare e col subillare, che tre quinqueviri furono cambiati, surrogati nei seggi loro tre altri, che erano stimati repubblicani di più forte e più sincero conio. Stettero contenti i zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi rincominciarono a gridare contro i surrogati più fortemente di prima, dicendo, che non valevano meglio degli scambiati. Tanto era impossibile il fondare un governo libero con quei cervelli pazzamente ambiziosi! In questi schiamazzi e vociferazioni tanto s'infuocarono, che produssero poco dopo, come si dirà, una nuova mutazione; ma a questa volta posero in seggio chi gli fece poi tacer tutti. Intanto su quei primi calori dei tre nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze, parendo, che un pensare più vivo in materia di repubblica avesse anche a dare armi più forti. Siccome poi niuna nazione è tanto capace di fornire imprese straordinarie, quanto la Francese, quando è usata in su questi rigogli, così i nuovi reggimenti si deliberarono di non mettere tempo in mezzo per dimostrare al mondo, quanto potesse quella Francia, quando ella si scuoteva, e quale urto fosse il suo, quando l'animo vivo fosse secondato da un governo vivo. Applicarono adunque l'animo a riscaldare l'affezione della repubblica, l'amore del nome Francese, la ricordanza dei gloriosi fatti. Per tal modo diveniva ogni giorno più la materia ben disposta; delle quali favorevoli inclinazioni valendosi, mandavano alle frontiere in Svizzera, in Savoja, nel Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella Liguria quante genti regolari potevano risparmiare dei presidj interni. Poi per procurar nuove radici alle genti veterane, ordinavano nuove leve in ogni parte. I soldati nuovi marciavano volentieri, perchè le sconfitte recenti e le vittorie passate con la necessità di mantener illibato il nome Francese con accesi colori si rappresentavano dalle gazzette, dagli oratori, dai magistrati: poi la barbarie dei Russi, la nimistà degli Austriaci, le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si dipingevano.

Questi tentativi su quegli uomini pronti ed animosi efficacemente operavano, e già Francia si muoveva con animo confidente contro la lega Europea; moto certamente onorevole dopo tante disgrazie. Pensiero era, non certo di menti avvilite, di assaltare al tempo stesso e Svizzera e Piemonte, e Italia. A tanta mole erano richiesti capitani valorosi e di gran fama. Già nella Svizzera Massena animosissimamente combatteva, spesso con evento pari, talvolta con prospero, contro l'arciduca Carlo. Restava, che agli eserciti, che dovevano far impeto contro il Piemonte e contro l'Italia, venissero preposti generali di nome, accetti ai soldati, accetti agl'Italiani. Nè in questo stette lungo tempo in dubbio il direttorio; perchè, trattone Buonaparte tanto lontano, in nissuno tutte queste condizioni maggiormente si lodavano, che in Championnet e Joubert. Entrambi conoscevano l'Italia, entrambi nell'Italiane guerre si erano mescolati, entrambi di vita continente, e nemici dei depredatori, cosa di grande importanza per voltare a se gli animi degl'Italiani; entrambi finalmente repubblicani sinceri, ed amici per indole e per massima dell'independenza altrui. Avevano anche voce l'uno e l'altro di amare il nome Italiano, perchè nè Joubert aveva voluto dar le mani ai disegni di Trouvè e di Rivaud contro il governo Cisalpino, nè Championnet tollerare l'imperio insolente e rapace dei commissarj a Napoli. La loro principale speranza avevano i repubblicani Italiani collocata in Joubert, perchè sapevano che suo intento era o volesse il governo Francese, o no, di ridurre l'Italia in una sola repubblica unita e independente, purchè fosse strettamente congiunta d'amicizia con la Francia. Conoscevano l'animo di lui ardito e forte, nè mai tanta inclinazione d'animi benevoli, ed attenti alle cose avvenire vi fu verso alcuno reggitore di popoli o d'eserciti, quanta fu questa degl'Italiani verso Joubert. Nè ignoravano, ch'egli era d'animo civile e temperato, nè temevano che quando avesse corso vittorioso l'Italia, fosse per sottometterla al giogo soldatescamente; perciocchè non era loro ignoto, che esortato da partigiani di diversa sorte in Francia, perchè, disfatto il governo, s'impadronisse della somma delle cose, aveva sdegnosamente rifiutato la proposta.

Quelli fra i repubblicani d'Italia, che cacciati dalla patria avevano cercato riparo in Francia, molto insistevano e con le parole, e con gli scritti, e con le opere in questo proposito dell'independenza, e dell'unità Italiana, persuadendosi, che con questo nome in fronte avessero i Francesi, e chi sentiva con loro, e far correre i popoli in loro favore.

Joubert secondava questi sforzi con volontà sincera. Gli secondava altresì, ma solo con qualche dimostrazione esteriore, e non coll'animo il direttorio desideroso di riacquistare il dominio d'Italia, e confidando che questo generoso ed alto proposito fosse per essere mezzo potente all'esecuzione. Due, come abbiamo scritto, erano gli eserciti, che il direttorio aveva intenzione di mandare contro gli alleati in Italia; il primo governato da Championnet, aveva carico di minacciar il Piemonte superiore, e preservare le fortezze di Cuneo e di Fenestrelle: il secondo più grosso doveva accennare, per le strade massimamente del Cairo e della Bocchetta, verso il Piemonte inferiore, con intento di liberar Tortona dall'assedio, e di combattere su quel fianco gli alleati, donde poteva, se la fortuna si mostrasse favorevole, facilmente aprirsi il cammino sino a Milano; il quale fatto per la sua grandezza avrebbe partorito ammirazione degli uomini, e terrore nuovo delle armi di Francia. Era desiderabile, che questi due eserciti in uno e medesimo tempo calassero verso i luoghi, a cui erano per volgersi; ma Championnet non aveva ancor messo insieme tante genti, che fossero abbastanza a così grave bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati nuovi essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva l'esercito pronto e capace di combattere: erano in lui i forti veterani di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della Vendea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo. Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini, ed infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidj necessari, perchè abbondavano di artiglierìe e di munizioni; solo si sarebbe desiderato un maggior nervo di cavallerìa. Si temeva che Tortona, che dopo la perdita di Alessandria era il solo forte, che potesse facilitar la strada ai repubblicani per Milano, non venisse in poter dei confederati, che con forti assalti la straziavano. Per la qual cosa, sebbene Championnet non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert si era deliberato a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona per combattere in battaglia campale il nemico, e se ciò non gli venisse fatto, sperava almeno, che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione per soccorrere Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau, che se ne doveva partire per andar al governo della guerra del Reno: "“Generale”, gli disse, “io vengo generalissimo di questo esercito, ed ecco, che il primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di comandarvi, che restiate con noi, e che governiate le genti, come supremo duce, voi medesimo: ciò mi fia caro oltre modo. Sarommi il primo ad obbedirvi, e ad adoprarmi qual vostro primo ajutante”". Tant'era la venerazione, che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la temperanza del suo animo! Ciò fu cagione che Moreau restasse, ed ajutasse col suo consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che si preparavano. Le genti venute da Napoli con Macdonald, e l'antico esercito di Moreau si calavano la maggior parte per la Bocchetta: le venute frescamente da Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso Acqui. Bellegarde fece qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si ritirò, prima dai più alti luoghi per forza, poi dai più bassi per ordine di Suwarow, che prevalendo di cavallerìa, voleva aspettare i repubblicani al piano. Entrarono questi in Acqui; il mandarono a sacco per vendetta di compagni uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava ai monti Liguri. Non si era allora curato il capitano di Francia di vendicare i suoi, essendo obbligato a camminare velocemente: il che vedutosi dai villani sollevati fatti signori di Acqui, l'avevano attribuito a miracolo di San Guido protettore della città, comparso, come dicevano, sulle mura per dar terrore ai Francesi. Ne fece il vescovo della Torre, volendo ricoprire le sue parzialità precedenti pei repubblicani, o vere o finte che si fossero, raccorre le testimonianze; funne anche rogato l'atto solenne. Così restò, che San Guido fosse comparso; e chi sel credeva, ne parlava; e chi non sel credeva, ne parlava anche di più.

Quando l'ala sinistra dei Francesi, di cui abbiam favellato, e che era governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy, Lemoine, e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e della destra, ordinava Joubert il suo esercito, ed il disponeva agli ulteriori disegni. La mezza obbediva a Joubert; la destra era commessa al valore del generale San Cyr, che aveva con se Vatrin, Laboissière, e Dambrowski. Quest'ultima scesa dalla Bocchetta arrivava per Voltaggio e Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva intanto una fazione contro Serravalle per mezzo del generale Polacco, il quale occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezza alloggiava sulla strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada nella valle d'Orba, spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra aveva le sue stanze verso Basaluzzo. Così l'oste di Francia, nella quale si noveravano circa quarantamila soldati, si distendeva dalla Bormida fin'oltre alla Scrivia, signoreggiando le tre valli della Bormida, dell'Erro e dell'Orba, del Lemmo e della Scrivia. Desiderava Joubert, premendogli di soccorrere Tortona, di fare un motivo sopra questa piazza; mandava a questo fine soldati corridori per Cassano Spinola sulla destra della Scrivia. Intanto non contento alla fortezza naturale di quei luoghi erti, e montuosi, con trincee, con fossi, e con batterìe di cannoni piantate nei siti più acconci alle difese, gli affortificava. Per tal modo i Francesi sovrastavano minacciosi dai monti alla sottoposta pianura.

Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua dritta, composta massimamente di quei Tedeschi, che Kray aveva condotto dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara; la mezza, a cui soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi tutta consisteva in soldati Russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro di Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri Austriaci, e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine di fare che i repubblicani non gli potessero impedire la recuperazione di Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne fosse: erano nel novero di circa sessantamila soldati. Apparivano l'uno all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia poteva differirsi. Ardeva Joubert di desiderio di venir tosto alle mani, sì per ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che voleva, che non si stesse ad indugiare per far inclinar del tutto le sorti dall'un de' lati in quell'aspra guerra. Ma essendo cosa di grandissimo momento per Francia, si deliberò a consultare sopra la materia in una dieta militare convocata a posta: quivi pullulò una grande varietà di opinioni. Opinava Joubert, e con lui i più audaci de' suoi capitani, che si desse dentro subitamente. Allegavano gli ordini risoluti del direttorio per rinstaurar l'onore delle armi Francesi in Italia con un campale conflitto; essere quello il momento propizio di affrontar il nemico stanco dai freschi e lunghi viaggi, attonito al veder comparire di nuovo sul campo più forti di prima quei repubblicani, ch'ei credeva sbigottiti ed oppressi; doversi usare l'ardor Francese, quando più bolle; doversi temere la tiepidezza successiva; valere i Francesi nelle difese, ma ancor più valere negli assalti; mirassero quei volti, toccassero quelle destre, vedrebbero, toccherebbero segni di certa vittoria; per questo, e non per aspettare qual momento piacesse al nemico di combattere, essere venuti dalle lontane Calabrie, essere venuti dalla lontana Brettagna; l'aspetto che a fronte loro si scopriva delle Italiane campagne, rammentare tante vittorie col ferro, non coll'ozio acquistate; convenirsi il temporeggiare a quei freddi Russi, a quei pesanti Tedeschi, non ai vivi ed ardimentosi Francesi; sapere, prevaler di numero i confederati, ma quante volte avere i soldati della repubblica vinto eserciti più numerosi? Sapere, prevaler ancora di cavallerìa, e per questo avere qualche vantaggio nei luoghi agili e piani; ma le legioni della repubblica non avere mai temuto l'incontro delle cavallerìe; avere tante volte sostenuto, fiaccato, rotto l'impeto loro; non con le cavallerìe, ma con le fanterìe vincersi le moderne guerre; più poter le bajonette, che un nitrito vano, e colpi incerti: menassersi adunque incontanente i repubblicani alla battaglia, e tosto si vedrebbe, che se la fortuna ajuta gli audaci, in questo fatto massimamente gli ajuterebbe: subita pugna, concludevano, e l'Italia in premio.

Dall'opposta parte i più prudenti, che dannavano l'esporsi nella campagna aperta, argomentavano, farsi le guerre col valore, ma farsi ancora con l'arte; stolto consiglio essere il lasciare i consigli certi per abbracciare gl'incerti; essere il vincer certo, se in quei luoghi tanto forti, e quasi inaccessibili per natura, tanto fortificati per arte, il nemico si aspettasse; divenire il vincer dubbio, se nel piano si scendesse, dove un solo errore, dove uno spavento improvviso sarebbe, in tanta superiorità di forze nemiche, fatale all'esercito; conoscere il valor Francese, ma non doversi lui porre a sperimenti temerarj; essere stanche alcune squadre degli alleati, ma le altre fresche, e veterane tutte; combattere gli alleati con tutte le forze loro, perchè era arrivato Bellegarde colle genti vincitrici d'Alessandria, era arrivato Kray colle genti vincitrici di Mantova; non combattere i Francesi con tutte, perchè Championnet non era ancora giunto al luogo suo, ed ancora si aspettava. E quale temerità, quale stoltizia essere il combattere dimezzato, quando temporeggiando si può combattere intiero? Chi s'ardirà addossarsi un tanto carico? A chi non rifuggirà l'animo al pensare, che se l'esercito oggi è vinto, avrebbe potuto vincere domani? Volere il direttorio, che non s'indugiasse la battaglia, ma non avere comandato, che in questo preciso giorno si combattesse; nè essere da credere che meglio amasse, che l'esercito fosse vinto che vincitore: sempre vincere a tempo chi vince; qualche cosa ancora lasciare lui pure alla prudenza dei capitani, qualche cosa alle occasioni, qualche cosa alla necessità: se forti erano le fanterìe Francesi, non esser deboli le cavallerìe dei confederati, e quanto possano le cavallerìe nei luoghi sfogati e piani, nissuno essere che l'ignori: dovere chi vuol arrivare al fine de' suoi intenti con probabilità di evento, misurar le cose umane secondo l'ordinario, non essendo le geste eroiche, perchè queste geste qualche volta sorgono, e qualche volta no; e se qualche volta i fanti della repubblica avevano superato i cavalli dei re, qualche volta ancora esserne stati rotti: considerazione di capitani prudenti essere anche quella di pensare, prima d'ingaggiar battaglia, alle ritirate; or quale via di ritirata poter rimanere aperta ai soldati della repubblica, se al piano scendendo, quivi fossero sbaragliati e rotti? Non gli conquiderebbero, non gli pesterebbero, non fuori gli taglierebbero le imperiali cavallerìe? Con Serravalle in poter del nemico, con la riviera di Levante piena di soldati Austriaci, con la riviera di Ponente stretta da sentieri difficili, coi popoli nemici e tumultuanti, quale sicurezza, quale speranza di riuscire a salvamento? La disfazione totale dell'esercito seguiterebbe una temerità fatale: non rifiutarsi l'occasione di combattere, non abborrirsi dal romor dei cannoni, non temersi di guardar in viso il nemico, ma doversi rispondere alla patria con la ragione, non con l'imprudenza. Questi monti scoscesi, dicevano, a cui ci siamo riparati, questi fossi, con cui ci siam cinti, queste trincee, con cui ci siamo coperti, non poter essere indarno: a questo modo non doversi tentare la volubile e capricciosa fortuna. Con questi ragionamenti concludevano coloro, che questa sentenza mantenevano, che miglior partito era l'aspettar il nemico nei proprj alloggiamenti, che l'andarlo ad assaltare ne' suoi; ma che se tanto fosse temerario, che si attentasse di chiamare a cimento Francia, quando al valore dei soldati aveva congiunto la fortezza dei luoghi, allora con tutte le forze, e con tutto l'animo si combatterebbe, allora si mostrerebbe, che il non essere scesi i Francesi alla campagna dinotava non timore, ma arte; allora si vedrebbe quanto imprudentemente discorresse chi preponesse i soldati d'Austria e di Russia ai soldati di Francia. Prevalse nel consiglio questa sentenza: raffrenava Joubert i suoi spiriti, e si riduceva, quantunque mal volentieri, a questa deliberazione di aspettare, che il nemico venisse a tentarlo negli apprestati alloggiamenti.

Variavano anche molto gli animi fra gli alleati intorno a quello, che loro convenisse di fare. I generali Austriaci, non soliti a commettersi all'arbitrio della fortuna, dissuadevano la battaglia. Consideravano, quanto fossero forti gli alloggiamenti dei Francesi; consiglio da non lodarsi essere, opinavano, il privarsi col combattere in quei gioghi montuosi, del vantaggio delle cavallerìe; doppia necessità sovrastare ai Francesi di venire prestamente ad una battaglia nel piano, la prima perchè loro importava di soccorrere Tortona già prossima a cadere, la seconda, perchè essendo i mari chiusi, la Liguria sterile, le pianure Piemontesi a divozione degli alleati, sarebbero loro fra breve mancate le vettovaglie: doversi usare il benefizio della fortuna dello aver un esercito più numeroso, e meglio provveduto di cavallerìe, non si dovere pareggiare le partite con fare, che la fortezza del luogo compensasse in favore dei Francesi il maggior nervo dell'esercito imperiale: non essere quel della guerra mestier tanto sicuro, anche con maggiori forze, che si dovesse rinunziar ai vantaggi offerti dalla condizion delle cose; stanche, e consumate essere le genti imperiali dal tanto e fresco marciare: non si dover temere di Championnet così presto, perchè l'esercito Francese dell'Alpi si trovava tuttavia debole e disordinato, i soldati nuovi condursi timidamente a lui, e solo legati a guisa di malfattori con corde: andarvi in quella pugna tutto l'imperio dell'imperatore Francesco in Italia pure testè e con tanta difficoltà ricuperato; un tale esperimento non doversi tentare con vantaggi dimezzati e tronchi, ma sì con tutti quelli che il tempo offeriva: non giuocarsi alla ventura gl'imperj: non rinunziare i capitani savi ad imprese certe per correr dietro ad imprese incerte; volentieri cimentare gli Austriaci la fortuna, e ristringersi nei pericoli, quando la necessità incalza, e rende ogni altro partito impossibile; di ciò averne dato grandi e manifeste pruove nelle precedenti battaglie; ma quando la necessità non corre, abborrir loro dai consigli pericolosi e dubbi. Infatti temevano di quell'audacia venturiera di Suwarow, e consideravano, che poca somma giuocavano i Russi lontani a comparazion di quella, che giuocavano gli Austriaci, non solo vicini, ma attigui all'incendio della guerra.

Queste ragioni non furono capaci a Suwarow, che si consigliava piuttosto con l'ardire, che con la prudenza, e che per le vittorie dell'Adda e della Trebbia era venuto in grandissima confidenza di se medesimo: opinava perciò diversamente, nè poteva pazientemente udire, che si fuggisse il combattere, e che il vincere fosse posto in dubbio e differito. Andava egli considerando, che l'indugiare la battaglia portava con se il lasciar ingrossar l'inimico, ed il lasciargli meglio ordinare i suoi disegni per assaltare, quando che fosse, gli eserciti imperiali da tutte le bande; che certamente non si doveva aver in dispregio il forte sito, a cui i Francesi si erano riparati; ma che questo vantaggio del nemico compensava soprabbondevolmente il più grosso numero dei soldati imperiali. Forse, aggiungeva, possonsi mettere i soldati Francesi a paragone dei nostri? Aver loro forse nervo da sostenere il pondo dell'esercito confederato? Non negare lui, essere i Francesi gente valorosa e di gran cuore; ma essere i loro migliori soldati morti a Legnago, a Verona, a Magnano, all'Adda, alla Trebbia, o starsene cattivi nella vincitrice Germania: fra i quarantamila, che stavano a fronte su quei colli, una terza parte comporsi d'uomini inesperti, e che, come nuovamente venuti alla milizia, tremerebbero al primo rimbombo delle artiglierìe. Per lo contrario essere gl'imperiali usi alle battaglie ed al sangue, nè fra di loro alcuno trovarsi, che non fosse stato presente o ad una qualche espugnazione di fortezze, o ad una qualche fortunata battaglia: tante vittorie spirar loro maggior coraggio, tante sconfitte all'incontro avere scemato l'animo dell'oste avversaria. Non avere forse quei soldati tante volte vincitori superato ostacoli maggiori di questi? Arresterebbero forse monti aperti da tante larghe strade coloro, cui nè l'Adige profondo, nè l'Adda impetuoso, nè le paludi pestilenti di Mantova, nè le mura maestrevoli di Torino e d'Alessandria non avevano potuto arrestare? non avere lui tale timore concetto da tanti segnalati fatti; quest'essere le speranze della vittoria; questi i segni della propizia fortuna: concludeva, doversi per onore, per debito, per sicurezza dar dentro, ed affrontare senza indugio l'inimico; perchè il tempo dava forza ai repubblicani, e qualche improvvisa fazione avrebbe soccorso Tortona.

A tali parole di quel vecchio risoluto, vittorioso e nutrito nelle armi e negli esercizj della guerra, s'acquetarono i generali Austriaci, e fu deliberata quella battaglia, in cui si contenevano tutte le sorti future dell'Italia. Appena era sorto il giorno dei quindici agosto che i confederati givano all'assalto. Kray fu il primo ad ingaggiar la battaglia con l'ala sinistra dei Francesi, in cui il generalissimo della repubblica si trovava, e che aveva per modo con la voce, e con la presenza animato i suoi soldati, che le grida di “viva la repubblica” fila per fila risuonando si mescolavano terribilmente col rimbombo dei cannoni, e con l'eco delle vicine montagne. Fu l'urto gagliardo, nè meno gagliardo il riurto. Molto sangue già si era fatto di lontano in questo primo congresso fra le truppe leggieri, molto sangue si faceva per conflitto delle genti più grosse; piegavano i soldati corridori di Francia. Joubert, sotto speranza di rimettergli, si spingeva innanzi con le fanterìe, gridando con la voce, ed accennando col braccio, “avanti, avanti”. Quivi una palla mandata, dicesi, da un esperto cacciatore Tirolese, venne a por fine con una onorevol morte ad una delle vite più onorevoli, che siano state mai, ed a troncare le speranze degli amatori dell'independenza Italiana. Fu percosso Joubert in mezzo del cuore, e senza poter mettere altra voce, se ne morì. Recavasi Moreau, destinato dai cieli a salvare nelle più estreme fortune i soldati di Francia, in mano il governo dell'esercito, felice in questo dello aver trovato, in vece di un capitano forte e ardito, un capitano forte e prudente. Non isbigottiva il funesto caso i Francesi, che già si trovavano sul fervor della battaglia; che anzi aggiungendo a valore furore, e desiderio di vendetta, fecero pruove stupende, e per sempre memorabili. Sforzavasi Kray, con cui militava anche Bellegarde, parecchie volte affrontando valorosissimamente il nemico, di sloggiarlo; ma sempre fu con perdita gravissima di morti e di feriti rincacciato: pareva disperata da questa parte la fortuna degli alleati. Nè con migliore augurio combattevano sul mezzo. Aveva Suwarow mandato Bagrazione ad attaccar di fronte i Francesi nel loro alloggiamento di Novi ma si sforzò in vano il principe, costretto anzi a tornarsene indietro sanguinoso, e vinto. Mandava Suwarow, che pure la voleva spuntare, in vece del generale respinto, ad assaltar una seconda volta Novi con una più grossa schiera Derfelden accompagnato da Miloradowich; ma quantunque l'uno e l'altro virilmente si adoperassero, non poterono venir a capo dell'impresa loro, e furono, come il primo, ferocissimamente ributtati; tanta era la fortezza degli alloggiamenti Francesi, e tanto il valore che i difensori mostrarono in questa ostinata battaglia. Al primo sparare dell'artiglierìe e dell'archibuserìa di Francia, andarono a terra o morti, o rotti, più di mille soldati di Russia.

Ma Suwarow non era uomo da sgomentarsi per quell'atroce accidente, ed anche pensava, ch'egli solo era stato pertinace a volere la battaglia. Si faceva adunque egli medesimo innanzi da Rivalta con tutta la squadra di riscossa, avventandosi contro il conteso Novi. S'attaccò di nuovo la battaglia tra Russi e Francesi più furiosa di prima: il coraggio era uguale da ambe le parti, la strage maggiore da quella dei Russi, perchè i Francesi combattevano da luoghi più sicuri, i Russi all'aperto. Tuttavia si spinsero avanti con tanto singolare intrepidezza, che puntando con le bajonette costrinsero a piegare una legione repubblicana. Ma accorsi i compagni, e rifatto, siccome quelli che erano esperti ed usi a simili casi, tostamente il pieno, rincacciarono i Russi, che da questa loro animosa fazione non ritrassero altro che ferite, e morti. Animava Suwarow, anche con pericolo della vita, in sì fitto bersaglio, i soldati, e nuovamente mandava alla carica gli squadroni ordinati, e stabiliti. Ma non per questo cedevano i Francesi; che anzi tanto più fieramente si difendevano, quanto più fieramente erano assaltati. Melas intanto con la sua sinistra schiera spintosi avanti era venuto alle mani col nemico. Ma i repubblicani pur sempre prevalevano, nè muro tanto fu saldo mai in niuna battaglia, quanto i petti dei Francesi in questa. Il generalissimo di Russia dal canto suo, quanto più duro incontro trovava, tanto più si ostinava a volerlo superare. Ordinava a Kray, a Bellegarde a Derfelden, a Rosemberg, a Bagrazione, a Miloradowich, a Melas, rannodassero le schiere, e sì di nuovo a fronti basse percuotessero l'inimico. Il percuossero: furonne con orribile macello ributtati, e voltati in fuga manifesta. Già da più di otto ore si combatteva; la fronte dell'esercito di Francia tuttavia si conservava intera; gl'imperiali, se non rotti del tutto, certo disordinati, ed in volta. Non è senza forma di vero, e così credono uomini intendenti dell'arte, che se in questo momento di fortuna prospera fossero i Francesi usciti ad urtare a campo aperto i nemici, avrebbero conseguito una nobilissima vittoria. Perchè non l'abbiano fatto, io non lo so, nè pretendo giudicare, molto manco biasimare le operazioni di un capitano tanto grande, quanto fu veramente Moreau. Già si vedeva, che la forza, la quale sola aveva voluto usare Suwarow, non aveva bastato a smuovere i repubblicani dai loro alloggiamenti. I confederati cominciavano a starne con molta dubitazione; già i Russi fuggendo da quella terribile tempesta, traevano con se, quantunque quel vecchio robusto ed ostinato fieramente contrastasse, il generalissimo loro.

I generali Austriaci intanto, dei quali quest'accidente perturbava molto gli animi, e per cui quel conflitto era di estrema importanza pei dominj del loro signore, si studiavano a trovare qualche modo, poichè dove la forza non vale, vi abbisogna l'arte onde rinfrancare la fortuna afflitta. Ebbe in questo pericoloso punto Melas un fortunato pensiero, che compruovò, ch'egli era, non solo d'animo invitto a non lasciarsi sgomentare in mezzo a tanto fracasso ed a tante morti, ma ancora di mente serena, e di perfetto giudizio. Secondollo volentieri Suwarow, sperando, che per arte altrui si salverebbe quello, che o per eccessiva imprudenza, o per eccessivo coraggio aveva egli perduto. Fece Melas avviso, che non fosse impossibile di circuire l'ala destra dei repubblicani, e di riuscir loro alle spalle, al che dava facilità la possessione di Serravalle. Per la qual cosa, volendo mandar ad effetto questo suo intento, lasciata solamente la prima fronte de' suoi a combattere contro i repubblicani, tirò indietro le altre squadre, alle quali ne aggiunse alcune altre testè arrivate da Rivalta. Fatto un grosso di tutte queste genti, erano otto battaglioni di granatieri, sei battaglioni di fanti, gli uni e gli altri Austriaci, sollecitamente marciava, sulla sinistra sponda della Scrivia ascendendo. Liberò d'assedio Serravalle; occupò Arquata. Perchè poi in mezzo a quella confusione di battaglia non si aprisse l'occasione al nemico, che già il tentava, di far correre una piccola squadra sulla destra del fiume sino a Tortona, comandava al conte Nobili, che se ne andasse a Stazzano con una sufficiente squadra, e frenasse i Francesi. Già era Melas giunto tra Serravalle e Novi, quando divideva i suoi in tre colonne: diè carico alla prima, a cui presiedeva Froelich, e nella quale militava co' suoi granatieri Lusignano già tante volte combattente in queste Italiane guerre con molto valore, e con poca fortuna, che assaltasse la punta dell'ala destra dei Francesi. Ordinava alla seconda, condotta da Laudon, e che si trovava schierata alla sinistra della prima, che si sforzasse di spuntare, e di circuire quella estremità medesima dell'esercito repubblicano. Infine comandava alla terza, che era governata dal principe di Lichtenstein, e che aveva con se qualche drappello di cavallerìa, e più vicina alla Scrivia era ordinata, che girasse più alla larga, arrivasse alle spalle dei Francesi, e troncasse loro la strada da Novi a Gavi. Mentre gli Austriaci marciavano così ordinati, Suwarow, rannodate alla meglio che potè le sue genti disordinate, rinfrescava la battaglia. Attaccossi Lusignano con l'estremità dell'ala destra del nemico, e dopo un duro incontro la sforzava a piegare; ma sopraggiunto in questo mentre Moreau, mandata avanti una legione fresca, rincalzava i Tedeschi. In questa mischia, poichè si venne alle bajonette, Lusignano ferito di palla, e di taglio, fu fatto prigione; tutta la colonna di Froelich pericolava. Ma accorreva prontamente in suo soccorso Laudon, e rimettendo prima i Francesi ai luoghi loro, poscia cacciandonegli, recava in sua mano la vittoria. Nè potè Moreau, quantunque molto vi si affaticasse, riordinare i suoi a sostenere l'impressione dell'inimico. Questo fu il momento, ed il combattimento decisivo della giornata. Piegarono sempre più i Francesi: gli Austriaci, perseguitandogli, gli cacciarono, sebbene non senza grave strage dal canto loro, dal forte alloggiamento, che avevano sulle alture dietro ed a fianco di Novi. I fuggiaschi vi si ripararono: ma assaltata al tempo stesso questa città dai Russi, fu da loro presa di viva forza a colpi di cannone, che atterrarono le porte. I vincitori vi commisero molta e crudele uccisione, facendo man bassa ugualmente su chi si arrendeva, e su chi non si arrendeva. Mentre così Melas vinceva con la sua prima e seconda colonna, e vincendo apriva anche il varco della vittoria a Suwarow, la sua terza giunta sui gioghi di Monterosso, donde sorgono le acque dei torrenti Fornavo e Riasco, era riuscita sulla strada, che da Novi porta a Gavi, e per tal modo aveva tagliato ai repubblicani la strada del potersi ritirare per la Bocchetta. Già era, quando queste cose succedevano, il giorno trascorso fino alle sei della sera, e per conseguente durava lo stupendo combattere già più da dieci ore. Vinta l'ala destra, ed il centro dei repubblicani, non restava più per essi alcun modo di ristorare la fortuna della giornata: però fece Moreau andar attorno i suoni della ritirata. In questa guisa per una ordinazione maestrevole del generale Austriaco, fu tolta ai Francesi la vittoria, che già tenevano in mano, di una lunga, grave, ostinata, e terminativa battaglia.

Essendo tagliato il ritorno per a Gavi da Lichtenstein, furono costretti i Francesi a ritirarsi, sprolungandosi sulla sinistra loro, per la strada meno facile di Ovada. Marciavano prima ordinatamente. Comandò Suwarow a Karacsay, gli perseguitasse alla coda, e quel maggior male loro facesse, che potesse. Un accidente inopinato cambiò subitamente l'ordine in disordine, la ritirata in fuga. Una presa di corridori Austriaci condotta da un maggiore Kees, arrivava a Pasturana, per donde era la strada ai repubblicani, e veduto che il castello di questa terra, pieno ed ingombro di feriti, non aveva difesa, facilmente se ne impadroniva, quando appunto il retroguardo Francese, e le artiglierìe della repubblica arrivavano per passare nella terra. Questi audaci Austriaci scendendo dal castello, ed assaltando quella immensa salmerìa, produssero un disordine, ed un'avviluppata inestrigabile. Al tempo stesso sopraggiungeva alla coda Karacsay, e fatto impeto, se qualche cosa era rimasta intera ed ordinata, questa rompeva e disordinava. Fecero i generali Perignon, Grouchy, Colli, Partonneaux quanto per valorosi soldati si poteva, per rannodare le genti loro sconvolte e spaventate, ma furono le loro fatiche sparse indarno. Pieni di spavento, ed incapaci di udire qual comandamento che si fosse, fuggivano a tutta corsa i repubblicani a destra, a stanca, e dove più il terrore che il consiglio gli portava. Furonne i generali suddetti feriti gravemente di arma bianca, massime Perignon e Grouchy, e tutti fatti prigionieri. I gregarj, che per la fuga non si poterono salvare, furono per la rabbia concetta nella battaglia, e per comandamento di Suwarow tutti uccisi inesorabilmente dai Russi, macello orribile, il quale se si aggiunge a quel di Novi, si vedrà quale umanità, e quale religione fosse in coloro, che erano venuti dall'Orsa a predicare la umanità e la religione in Italia. Più di venti pezzi d'artiglierìe con le loro casse e munizioni, in questo solo fatto di Pasturana vennero in potestà del vincitore. Morirono, o furono feriti in questo piuttosto disperato conflitto che animosa battaglia, dei repubblicani circa sei mila, quattro mila cattivi ornarono il trionfo dei vincitori: perdettero trenta cannoni, casse, e munizioni in proporzione.

Dall'opposta parte mancarono a' Tedeschi circa sei mila soldati fra morti, e feriti: un maggior numero di Russi o uccisi o feriti dimostrarono con quanta ostinazione combattessero, e fossero combattuti. Pochi confederati restarono presi dai repubblicani; ma i repubblicani servendosi di loro, perchè le bestie mancavano, a trasporto delle bagaglie e dei feriti, giunsero a salvamento ai sicuri ricetti delle montagne Genovesi. Non tutti o repubblicani o imperiali morirono di ferite: molti mancarono per istanchezza, o per ambascia, alcuni per sete, altri pel calore, essendo la sferza del sole molto grande. Avevano tutti le piaghe nel petto; nissuno nelle spalle. Apparivano i volti dei cadaveri Russi e Tedeschi sedati, quei dei Francesi torvi, e minacciosi. Niun campo di battaglia fu mai tanto spaventoso, quanto questo pel sangue sparso, per le membra lacerate, pei cadaveri accumulati. Ne fu l'aria infetta; l'orribile tanfo durò molta pezza: spaventevoli terre fra Alessandria, Tortona e Novi, prima infami per gli assassinj, poscia contaminate dalle battaglie. Passavanvi, e continuamente passanvi, forse cantando per passatempo, o per allegrezza i viandanti non rammentando quanto furore, e quanto dolore abbiano quivi a nostra memoria signoreggiato. Il tempo coprirà queste cose; vivranno elleno più nella memoria che negli affetti degli uomini: infelice razza, che prima fa i mali per furore, poi gli passa per indifferenza.

Pare ad alcuni, che questa vittoria non abbia avuto seguito uguale al fatto, perchè Genova non fu tratta a pericolo; rimase anzi ai Francesi l'imperio quasi intiero della Liguria. Ciò non ostante egli è manifesto, che per lei fu conservata ai confederati l'Italia, la quale sarebbe tornata in potere di Francia, se i repubblicani avessero vinto. Del rimanente vinsero gli alleati per aver conquistato il campo di battaglia, non per minor numero di morti e di feriti. Per la qual cosa poca abilità restava a Suwarow di tentare imprese d'importanza sul Genovesato. Oltre a ciò Championnet incominciava a comparire sulle sboccature delle valli che danno nella pianura del Piemonte, e conveniva arrestarlo, affinchè non conducesse a qualche mal termine i confederati in questo paese. Nè non operava efficacemente nella mente del generalissimo di Russia il considerare, che per lui si era fatto, che da Tortona in fuori prossima a cadere, tutti gli stati Italiani del re di Sardegna, al quale egli e per inclinazione propria, e per comandamento di Paolo portava grandissimo affetto, fossero ritornati in potestà dell'antico signore, se non di fatto, almeno di nome; nè a lui importava ugualmente il conquistare il Genovesato, che il Piemonte. Non ignorava altresì, che sarebbe fra breve chiamato ad altre fazioni in Svizzera, dove per l'ardire e valore di Massena declinavano le faccende degli alleati, e Lecourbe, scendendo dal San Gottardo, aveva rotto il colonnello Strauch, che guardava quei luoghi donde minacciava Bellinzona, Lugano, e Domodossola. Nè voleva Suwarow consumare i soldati sui monti Liguri, alla conquista dei quali gli pareva, che bastassero le forze degli Austriaci per terra, e quelle degli Inglesi per mare. Da un'altra parte Moreau, quantunque necessitato al ritirarsi, e ad abbandonare le pianure d'Italia a chi aveva potuto più di lui, era tuttavia potente, massime ajutato, come egli era, dall'asprezza dei luoghi, ed aveva, con singolare arte movendo le sue genti assicurato il passo tanto importante della Bocchetta; imperciocchè San Cyr comparso di nuovo grosso ed ordinato nei contorni di Gavi, si era recato in mano le alture ed i passi di Monterosso. Suwarow per essere in grado di combattere Championnet, e per render sicuro l'alto Novarese da Lecourbe, andava a posarsi nell'alloggiamento di Asti, stendendo l'ala dritta verso il Piemonte sino a Torino, e con l'ala sinistra insistendo su quelle medesime rive della Bormida, e della Scrivia, dond'era partito per avventarsi contro i Francesi a Novi. Un grosso corpo investiva Tortona, e gagliardamente con ogni maniera di arte e di stromenti d'espugnazione la pressava. Mandava al tempo stesso Kray verso Novara a sicurezza di Domodossola. Ma non essendo stati i motivi di Lecourbe nella Leventina di quella importanza che si temeva, richiamava a se il generale Tedesco, lasciando solamente a Novara la minor parte de' suoi soldati.

L'assedio di Tortona, ora stretto, ora allargato più volte, secondo che i confederati ebbero comodità di adoperarvi le forze loro, o necessità di usarle altrove, s'incamminava dopo la vittoria di Novi al suo fine. Il forte di Tortona edificato per volontà di Vittorio Amedeo terzo, re di Sardegna, e con le fortificazioni indirizzate dal conte Pinto, siede sopra un monte, che sta a sopraccapo della città di questo nome. Forte piuttosto pel sito, e per la natura sassosa del monte, che per le opere d'arte, se si eccettuano le casematte sodissime, ella può resistere lungo tempo, quando sia bene munita di difensori, e bene provveduta di viveri. Vi stava dentro il colonnello Gast, il quale con forse due mila Francesi si difendeva molto virilmente. Fino dai primi giorni di luglio si erano cominciate dal conte Alcaini, uomo Veneziano ai servigi d'Austria, a cui Suwarow aveva dato il carico dell'espugnazione, le trincee. Ma la bisogna lentamente procedeva per la resistenza degli assediati, per la natura del suolo, e per essere state le opere interrotte dalle vicine battaglie. Nondimeno soprantendendo ai lavori della oppugnazione un ingegnere Lopez, fu tirata a perfezione nei primi giorni d'agosto la prima trincea di circonvallazione. Ma si faceva poco frutto contro la piazza, perchè stante il suo sito eminente, piuttosto con le bombe che con le palle si poteva espugnare. Laonde continuando a lavorare indefessamente gli oppugnatori tanto fecero, che vennero a capo di ordinare la loro seconda trincea, e questa armarono di numero grande di cannoni e di mortai. Non si sbigottiva per questo Gast, perchè ed era uomo di gran cuore, e le casematte construtte di grosse e triplicate vôlte, non cedevano a quella orribile tempesta. Ciò non ostante un guasto considerabile fu fatto dalle bombe negli artiglieri, e nelle artiglierìe della fortezza. I Francesi con arte e costanza somma le riattavano, e continuavano a tuonare contro gli assalitori. Si vedeva, che molta fatica, e molto sangue bisognava ancora spendere per espugnare Tortona. Ma per la giornata di Novi non vedendo Gast speranza di poter più allungare la difesa, convenne d'arrendersi, se infra un certo tempo non fosse soccorso. Stipulossi adunque il dì ventidue agosto fra le due parti un accordo, pel quale si sospesero le offese per venti giorni, obbligandosi il Francese a dare la piazza, se nel detto termine l'esercito non arrivasse a liberarlo; uscirebbe al tempo pattuito la guernigione con armi e bagagli, con le bandiere all'aria, col suono dei tamburi; deporrebbe le armi sulla piazza di San Bernardino, e per la più breve se n'andrebbe in Francia sotto fede di non militare contro gli alleati per quattro mesi. Il dì undici settembre, non essendo comparso ajuto da parte nissuna, uscivano i repubblicani dalla fortezza, entravanvi gl'imperiali. Vi trovarono più di ottanta bocche da fuoco, munizioni da guerra molte, da bocca poche. Furono i malati ed i feriti trattati con ogni cura dai vincitori. Dodici centinaja di Francesi superstiti tornarono in Francia. Narrano i ricordi dei tempi, che fra questi fossero molti soldati del presidio di Peschiera, i quali, fatti prigionieri dai Tedeschi, avevano promesso di non servire contro i soldati della lega; brutta violazione della fede, nè commessa dai soli repubblicani.

Venne Suwarow in molta allegrezza per l'acquisto di Tortona, perchè il faceva sicuro della guerra Genovese, e si vedeva aver ricuperato al nome del re quasi tutti i dominj del Piemonte, oggimai liberi dalla presenza dei repubblicani. Ora i principali suoi pensieri si volgevano ad assicurare il Piemonte superiore dalle armi Francesi con rompere la forza di Championnet, e con espugnar Cuneo. Ma il compimento di queste fazioni lasciava a Melas ed a Kray, perchè egli se ne partiva con tutte le genti Russe per alla guerra Elvetica. Da quanto siamo andati fino a questo luogo raccontando, facilmente si può raccogliere, che Suwarow fu piuttosto capitano di guerra ardito, che artifizioso, e che vinse piuttosto con prevenire, che con usar l'arte. Gli fu aperto il corso alla vittoria da Kray, e chiuso da Melas. Del resto, tolta la sua natura crudele ed inesorabile nel far la guerra, nel che merita biasimo eterno, fu di natura integra, e nemico per poca civiltà degl'inganni, e delle fraudi degli uomini più civili. Qual sia il meglio o il peggio, coloro il diranno, che definiranno, se più si dolga la umanità dei dolori del corpo che dei dolori dell'animo, o più di questi che di quelli. Suwarow, primo capitano di Russia in Italia, vi fece cose molto degne di memoria.

Partito Suwarow dalle terre Italiche, ne fu molto diminuita la forza dei confederati in Piemonte. E però non poterono i capitani dell'imperator Francesco, innanzichè arrivassero nuovi rinforzi dagli stati ereditarj, tentar cosa d'importanza. Solo attendevano a conservare gli acquisti fatti, e si apparecchiavano, quando gli ajuti fossero giunti, alla oppugnazione di Cuneo, piazza molto forte, e che per essere vicina alle frontiere di Francia, è molto facile a venir difesa e soccorsa dai Francesi. Dall'altra parte primo pensiero dei repubblicani era di conservare la possessione di Cuneo, e tribolare talmente il nemico intorno a lui, che ne nascesse una grave diversione in favor di Massena, che aveva a fronte nella Svizzera l'arciduca Carlo, e presto avrebbe non solamente Suwarow con le genti vincitrici d'Italia, ma ancora Korsakow, che era vicino ad arrivare con nuovi squadroni di Russi. Bene certamente considerate erano queste cose pei generali della repubblica: ma si trattava di troppo vasto disegno per le poche forze che avevano, ed il volere tener tutto fu cagione, che non potessero conservare una parte. Non si vede come, volendo urtare fortemente l'inimico in Piemonte, si siano ostinati a perseverare nella possessione di Genova: il che gli obbligava a tener presidj nella riviera di Levante, soldati, che per la lontananza dei luoghi, e del restante esercito, a nissun altro fine potevano essere adoprati, che a difender Genova con tener il nemico lontano da lei. Genova, città assai grande e popolosa, e piena eziandio di mal umore contro i Francesi, sì per l'impazienza naturale del dominio forestiero, sì per la insolenza degli agenti del direttorio, e sì per la penuria delle vettovaglie, che dalla chiusura dei mari ne risultava, era cagione, che fosse loro forza di mantenervi un presidio assai grosso. Abbisognava ancora, che custodissero tutta la riviera di Ponente con gran numero di soldati, obbligazioni, da cui sarebbero stati esenti, se contenti al difendere le rive della Bormida e del Tanaro avessero abbandonato Genova, e raccolto la maggior parte delle forze loro in quella parte degli Apennini e dell'Alpi, che più approssimano e circondano Cuneo. Ma l'aver voluto distendersi in una fronte tanto lunga con sì poche forze, fu cagione che la guerra, che doveva esser grossa, si cangiò in guerra minuta e fastidiosa, con moltiplicate scaramucce ed affronti, che niuno effetto non solamente terminativo, ma nemmeno d'importanza potevano partorire. Sarebbe troppo molesta narrazione il raccontar tutto: perciò solo andremo sommariamente toccando i capi supremi. Klenau ajutato dalle masse Toscane infestava a danni dei repubblicani la riviera di Levante. Principal suo scopo era di cinger Genova da quel lato per darvi favore ai malcontenti, e per farvi difficoltà di vettovaglie. Venne Chiavari spesse volte in contesa, ora Klenau si faceva padrone di Rapallo, e s'innoltrava anche insino a Recco in poca distanza dalla capitale; ed ora prevalendo i repubblicani mandati da San Cyr, e governati da Miollis, cacciavano Klenau, non che da Recco e da Rapallo, da Chiavari e dalla Spezia, e lo risospingevano fin oltre Sarzana sull'estremo confine del Genovesato. La contesa principale si riduceva sul forte di Santa Maria, che sta a difesa del golfo della Spezia: finalmente dopo eventi diversi, ora prosperi, ora sinistri per le due parti, cadde il forte in potestà degl'imperiali; il quale accidente aperse libero l'adito alle navi d'Inghilterra in quel magnifico seno di mare, e fece facoltà agli Austriaci d'innoltrarsi di nuovo fino assai prossimamente, sentendosi sicuri alle spalle, a Genova, donde la poterono cingere d'assedio, quando, alcun tempo dopo, le armi imperiali vennero a romoreggiarle intorno, anche dalla parte d'occidente.

Le medesime minute fazioni tribolavano e repubblicani e imperiali sulla Scrivia e sulla Bormida, ed ancor più gli abitatori del paese, che si ritrovavano fra quelle due genti per loro strane, e l'una contro l'altra infuriate. Novi venuto in contesa parecchie volte cedeva ora alla fortuna di Francia, ora a quella d'Austria; ma niuna cosa si scopriva certa, se non gli oltraggi e le rapine dei forestieri, o amici o nemici che si qualificassero. Successe nondimeno un giorno un fatto di qualche importanza, per cui condotti i Francesi con molt'arte e valore da San Cyr, ruppero i soldati di Kray, e gli rincacciarono fin oltre a Tortona. Alloggiaronsi i Francesi al Bosco: ma poco tempo dopo i Tedeschi venuti più grossi, gli facevano tornare indietro, obbligandoli a cercar ricovero sotto la rocca di Gavi. Nel Piemonte superiore calarono i repubblicani per le valli dell'Argentiera, di Pratogelato, di Susa e d'Aosta: occuparono nella prima Demonte, nella seconda Villar e Perusa, e poi anche Pinerolo, nella terza Oulx, Icilia e Susa; fecero anche un motivo insino a Rivoli, donde vedevano le torri della perduta Torino. Nella quarta s'impadronirono del passo difficile della Tuile, e della città d'Aosta, per modo che gl'imperiali impotenti al resistere, calarono a serrarsi nel forte di Bard. Melas, ponderate tutte queste cose, lasciando Kray alla guardia dei paesi, in cui la Scrivia e la Bormida infondono le loro acque, andava a posarsi nei contorni di Bra con circa trenta mila soldati abili a campeggiare in quelle facili pianure. Era questo suo alloggiamento non senza fortezza, siccome quello che posto tra il Tanaro e la Stura, si mostrava opportuno a sopravvedere i moti, che potessero fare i Francesi da Mondovì, di cui erano in possessione, dal colle di Tenda, e dalle valli della Stura, e di Pratogelato, che massimamente accennavano a quel luogo, come a centro comune. Suo intendimento principalissimo era di guarentire il Piemonte, e di trovar modo di combattere felicemente nelle battaglie che aspettava, per andar a porre il campo sotto Cuneo. Nè i Francesi per le considerazioni, che sopra abbiamo narrato, ricusavano il cimento. Aveva Championnet, in cui, dopo la partenza di Moreau andato alle guerre del Reno, era investita l'autorità suprema sopra tutte le genti, che si distendevano dalla Magra per tutto il circuito dei Liguri Apennini e delle Alpi sino alla Dora Baltea, chiamato a se la schiera di Victor, annestandola alla sua destra ala verso Mondovì. Al tempo stesso ordinava, che si accostasse al suo fianco sinistro per Pinerolo e per Saluzzo una squadra di genti venute dall'Alpi Cozie, e condotta dal generale Duhesme.

Tutte queste genti unite insieme componevano un esercito quasi pari in numero a quello di Melas: la guerra sin allora sparsa e vaga si riscontrava in un sol punto, e tutto lo sforzo si riduceva nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano: sulle rive della Stura era per definirsi quell'ultimo atto dell'Italiana contesa, ed il destino di Cuneo. Dopo vari alloggiamenti presi dai capi dei due eserciti, di cui il fine per Championnet era di accostarsi a Duhesme, che veniva da Saluzzo per quinci pruovarsi di rompere l'ala destra dei Tedeschi, e tagliar loro la strada verso Torino, per Melas di rompere il centro dei Francesi prima della congiunzione di Duhesme: erano la mattina dei nove novembre ordinati nella seguente forma. La schiera di Duhesme, che componeva la sinistra dei Francesi, marciava da Saluzzo verso Savigliano, e quindi contro Marene, in cui stanziava l'ala destra dei Tedeschi. La mezzana, in cui comandavano Grenier e Victor, alloggiava a Savigliano ed a Genola, avendo un forte retroguardo a Lavaldigi. L'ala destra dei Francesi, che obbediva a Lemoine, fermava le sue stanze a Morozzo. Tal era dunque il sito delle genti repubblicane, che Duhesme si muoveva sulla sinistra della Grana, Grenier e Victor tra la Grana e la Stura, il primo a Savigliano, il secondo a Genola, Lemoine sulla destra di quest'ultimo fiume. Dalla sua parte Melas con la destra alloggiava a Marene, con la mezza a Fossano, con la sinistra parte pure a Fossano, parte verso la Trinità. Obbediva la prima a Otto, e con lui doveva cooperare Mitruschi alloggiato a San Lorenzo, la seconda ad Esnitz, la terza a Gottesheim. Ardevano l'una parte e l'altra di venir alle mani; il che era da lodarsi dal lato di Melas, perchè assai gl'importava di combattere prima dell'arrivo di Duhesme, ma non parimente dal lato di Championnet, che doveva indugiarsi insino a tanto che la congiunzione di Duhesme avesse avuto intieramente il suo effetto. L'uno esercito nel momento stesso si avventava contro l'altro il dì suddetto. I primi ad attaccarsi furono Grenier, ed Otto. Combatterono ambidue tra Savigliano e Marene con estremo valore, essendo il coraggio e la perizia militare uguali da ambe le parti. Studiavansi i Francesi di circuire la punta destra dei Tedeschi, i Tedeschi la sinistra dei Francesi, perchè i primi non volevano restar separati da Duhesme che si avvicinava, i secondi gli volevano separare. Fu lunga, e forte, e variata la mischia; gli uni con gli altri parecchie volte si mescolarono. Ma prevalendo gli Austriaci per le cavallerìe (a questo fine appunto Melas aveva tirato il suo avversario sui campi aperti) furono finalmente i Francesi costretti a ritirarsi in Savigliano. Gli seguitarono acremente i Tedeschi, dando l'assalto alla piazza prima che avessero avuto tempo di riordinarsi. Ciò nondimeno fecero una forte resistenza, e forse non sarebbe venuto Otto a capo di scacciarnegli, se in quel punto non fosse arrivato con tutti i suoi Mitruschi da San Lorenzo, e che diede da un'altra banda la battaglia alla terra. Non potendo Grenier resistere a questo doppio assalto, fu costretto a retrocedere, incamminandosi a Genola, e lasciando in poter del vincitore Savigliano. Le cose succedettero diversamente tra Esnitz e Victor. Uscito il primo da Fossano aveva assaltato il secondo a Genola; ma il Francese gli rispose con tanta gagliardìa, che quantunque il Tedesco per tre volte desse furiosamente la carica, ne fu sempre risospinto con grave danno. Si fece Esnitz ajutare da Gottesheim, tutti e due insieme non ebbero miglior fortuna, che un solo. In questo mentre il generale repubblicano Richepanse con un piccolo corpo di cavallerìa, si faceva avanti, ed urtata con gran valore la cavallerìa Tedesca, sforzava Esnitz a ritirarsi più che di passo dentro le mura di Fossano. Quivi nemmeno non era sicuro, e già pensava al modo di abbandonar la piazza per retrocedere più lontano; tanto era stato il danno, che aveva patito in quella forte rincalzata. Ma gli sopravvennero in questo punto le novelle della vittoria acquistata sulla destra da Otto; il che il confortò a star fermo in Fossano, avvisandosi che Victor avrebbe pensato a tutt'altro piuttosto che a nojarlo. Infatti Championnet, per aver considerato il caso sinistro di Grenier, aveva comandato a Victor, che retrocedesse, e venisse a posarsi a Lavaldigi, divenuto l'alloggiamento principale dei Francesi. Esnitz, usando la occasione, usciva da Fossano, acquistava Genola, e perseguitava continuamente Victor alle spalle. Melas, raccolti i suoi, non volendo dar posa al nemico in su quel fervore della vittoria, assaltava Lavaldigi, e dopo un lungo conflitto se ne impadroniva. Ritiravansi i Francesi parte a Centallo, parte a Morozzo. In questo mentre giungeva Duhesme sul campo, in cui si era combattuto sul principio della battaglia, e trovato Savigliano con debole presidio, se ne rendeva padrone, poi marciava per combattere Marene. Diveniva la sua mossa molto pericolosa pei Tedeschi, e se fosse stata fatta qualche ora prima, sarebbe stata per loro pregiudiziale all'estremo. Ma già erano talmente in possessione della vittoria, che fu loro agevole il portar rimedio contro quell'improvviso accidente. Ordinava Melas al generale Sommariva, che andasse a combattere Duhesme. Potè egli giungerlo, quantunque il giorno già inclinasse, e lo costrinse, fattasi dal generale Francese breve resistenza, perchè aveva ricevuto le novelle della rotta dei compagni, a ritirarsi fino a Saluzzo.

Avevano gli Austriaci in mano loro la vittoria; restava, che l'usassero. Il giorno seguente attorniarono un grosso squadrone lasciato da Championnet a Ronchi, e lo sforzarono a darsi. Un'altra squadra più grossa, che stanziava a Murazzo, tagliatole il ritorno per Cuneo, fu anch'essa obbligata a cedere in potestà del vincitore. Non pochi repubblicani, che fecero pruova per salvarsi di passar la Stura a nuoto, vi restarono affogati. Avrebbe voluto Melas correre sulla destra del fiume per dar addosso a Lemoine, ma inteso che i Francesi avevano fatto due campi, uno alla Madonna dell'Olmo, l'altro a Caraglio con intenzione di preservare Cuneo, rinunziando al pensiero di varcare, condusse le sue genti vincitrici, dividendole in due colonne, contro quei nuovi alloggiamenti del nemico; i Francesi, non aspettandolo, si ritirarono ai monti. Ma premendo a Melas di fargli allargar da Cuneo, perchè la oppugnazione della piazza non gli potesse venire sturbata, gli perseguitava da tutte bande. Esnitz, seguitando Grenier per la strada del Vernante lo sospingeva sino a Limone. Poco dopo, assalito da Melas, non trovò altro scampo alla sua fortuna caduta, se non quello di salirsene sul difficile ed erto giogo di Tenda. Otto cacciava avanti a se i repubblicani per le valli di Stura e di Grana, e si faceva signore di Demonte; poi spintosi più in su, occupava le Barricate e l'Argentiera. Latterman insistendo sulla Maira, e traversando il borgo di Busca, saliva sino a Dronero. Keim, che aveva la custodia particolare del paese all'intorno di Torino, seguitando Duhesme, lo sforzava a tornarsene nella valle d'Icilia alle radici del monte Ginevra, dond'era venuto. Restava, che gli Austriaci togliessero ai Francesi Mondovì, dove si erano riparati Victor, Lemoine e Championnet. Riuscì lor la fazione, perchè sloggiati i Francesi sforzatamente dai due sobborghi per opera di Mitruschi, e dalle eminenze, che dominano la città, per quella di Lichtenstein, l'abbandonarono, ritirandosi ai luoghi più alti della valle del Tanaro. Fuvvi a Bagnasco un duro incontro tra il retroguardo Francese e l'antiguardo Tedesco; nè fu senza grave rischio, e fatica, che il primo potè farsi strada al suo cammino. Occuparono i Tedeschi, sempre ritirandosi i Francesi, Garessio, Ormea, e si spinsero avanti sino al ponte di Nava, che è il passo più difficile e quasi la chiave della strada, che porta su quelle alture da un lato all'altro, non so se mi debba dire dell'Alpi, o degli Apennini, perchè là è appunto il confine fra le due corone di monti, che si chiamano con questi due nomi. Per tale guisa i varj corpi di Championnet, che partendosi da diversi punti di una larga periferia, erano venuti a concorrere, quasi come in centro comune, nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano, dopo la battaglia ivi combattuta, che alcuni chiamano di Fossano, altri di Genola, dispersi, e di nuovo l'uno dall'altro discostandosi, si allargarono, ed ai punti medesimi della periferìa ritornarono. Acquistaronne gli Austriaci facoltà di attendere alla espugnazione di Cuneo sicuramente: il che era lo scopo principale di tante mosse, e di sì ostinata guerra. Perdè Championnet in tutti questi fatti tra morti, feriti e prigionieri circa la terza parte delle sue genti, che è quanto a dire otto mila soldati. Mancarono dal lato dei Tedeschi più di due mila. Ritirossi il capitano del direttorio a Nizza, dove tra il cordoglio dell'esser vinto, e del vedere la depressione della repubblica, l'infezione di una malattia gravissima, che quasi a guisa di peste infuriava, e lo sdegno concetto, perchè Buonaparte tornato dall'Egitto si era fatto padrone di Francia sotto nome di primo consolo, passò di questa all'altra vita. Ei fu capitano debole, ma uomo dabbene; amò la repubblica per lei, quando tanti altri l'amavano per loro.

Travagliavansi gli Austriaci intorno a Cuneo, piazza forte, e di molta importanza pel suo sito. Conoscevano quest'importanza i generali dell'imperatore, e però sebbene la stagione già divenisse sinistra alle opere di oppugnazione, si accinsero all'impresa, sperando di compensar con le forze soprabbondanti la contrarietà del tempo. Si alloggiava Melas col grosso delle genti a Borgo San Dalmazzo per impedir ai Francesi il calare dal colle di Tenda verso la piazza assediata. Intanto il principe di Lichtenstein, al quale era stata commessa l'espugnazione, cinta tutto all'intorno la fortezza, si era principalmente alloggiato tra il Gesso e la Stura, che le scorrono, uno a destra, l'altra a sinistra. Intento suo era di far trincee, e di dar la batterìa di quella parte, che sta a fronte della Madonna dell'Olmo. Infatti la notte dei ventisei novembre principiò a scavare, e ad innalzar terra contro la strada coperta, che cingeva il bastione di Sant'Angelo.

Obbediva il presidio al generale Clement. Sommava il numero di duemila cinquecento soldati, ma disanimati per le sconfitte, e pel desiderio di tornarsene in Francia, parendo loro disperate le cose d'Italia, oltre a questo non era bene provvista la piazza di munizioni nè da bocca, nè da guerra, perchè e per l'ingordigie solite, e per l'angustia dei tempi non ne era stata mal sufficientemente empiuta. L'esercito stesso, quando guerreggiava nelle vicinanze, era stato obbligato, non avendo da pascersi altronde, a consumare una parte dei viveri d'assedio. Ciò non ostante Clement, non perdutosi d'animo, fece quello che per capitano valoroso si poteva, a fine di sturbare le opere del nemico, ora sortendo a combattere, ed ora fulminando con tutte le artiglierìe contro coloro, che si affaticavano alle trincee. Ma tanti erano i soldati dell'Austria, e tanti i paesani accorsi parte per amore, parte per forza, parte per speranza del guadagno, perchè Lichtenstein, spendendo anche del suo, usava molte larghezze: che in brevissimo tempo fu condotta a perfezione la prima parallella, e vi si piantarono diecinove batterìe pronte a bersagliare gli assediati. Tirarono con tanto impeto il due decembre, che i difensori furono obbligati ad abbandonare le opere esteriori, ritirandosi di tutto all'interno della piazza. Al tempo stesso arse una conserva di polvere con orribile fracasso, e schiantò fin dalle fondamenta un ridotto. Usarono gli assalitori la occasione, facendo la notte che seguì, un alloggiamento nelle ruine, ed attendendo a tirar avanti la seconda trincea di circonvallazione. Ma già un'altro magazzino scoppiava, le case vicine ardevano, il fuoco rapidamente distendendosi minacciava generale incendio. Nè vi era modo o volontà di spegnerlo, perchè i soldati stavano sulle mura a combattere, i cittadini spaventati non avevano più consiglio la tempesta mandata continuamente dal nemico accendeva l'intero: tanta era la quantità, che soprabbondevolmente gittava Lichtenstein di palle, di bombe, e di granate reali. Mandarono i Cuneesi pregando, che avesse compassione di loro, od almeno risparmiasse le case, posciachò eglino non combattevano. Rispose il Tedesco, non farsi alcun divario, quando si oppugnano piazze fra chi combatte, e fra chi non combatte: capitolasse il Francese: cesserebbe la tempesta.

Vedeva Clement la necessità della dedizione, perchè già la fortezza era straziata, la breccia si preparava, nissun soccorso gli appariva da nissuna parte, ed erano mancati tutti i fondamenti del difendersi. Chiese perciò i patti e gli ottenne. Fu stipulato ai cinque decembre, che la guernigione uscisse onorevolmente al modo di guerra, che deponesse le armi sullo spalto, che fosse condotta sotto scorta, come prigioniera, negli stati ereditarj, che si avesse cura degli ammalati e dei feriti: erano ottocento. Volle Clement provvedere ai Piemontesi, ed assicurar le loro condizioni con domandare, che non potessero esser ricerchi per opinioni, o fatti politici precedenti. Gli fu risposto, che si apparteneva allo stato, non ai soldati a giudicare. A questo modo fu domato per forza, in men che non fa dieci giorni, Cuneo, che aveva vinto la gara contro le forze di Francia nel 1691, e nel 1744. Dal quale accidente due conclusioni si possono dedurre, la prima che non vi è piazza, a cui con gli approcci si possano accostare gli oppugnatori, che possa resistere lungo tempo, se non è spalleggiata da un esercito alla campagna; la seconda, che l'arte degli approcci, e delle artiglierie è divenuta tanto potente, che vi è adesso troppo enorme disproporzione tra i mezzi di oppugnazione, e quei di difesa.

La presa di Cuneo, e la stagione avversa ebbero posto fine alla guerra nella superiore Italia, e sgravarono gli eserciti confederati di molte fatiche. Tuttavia, sebbene il Piemonte fosse governato a nome del re, in fatto egli era a divozione dell'Austria, la quale non volle mai consentire ch'ei vi tornasse, nè che il duca d'Aosta, che aveva voce d'intendersi di guerra, ed a cui i soldati Piemontesi portavano affezione, vi comparisse.

Intanto fu anno molto doloroso alla famiglia reale di Sardegna pei mali veri, e per le speranze vane: perchè morì a Cagliari l'unico figliuolo del duca d'Aosta, al quale, dopo la morte del padre, spettava la corona; passò anche da questa vita in Algheri di Sardegna il duca di Monferrato, fratello del re, giovane, siccome già abbiamo notato altrove, di ottima natura, e di costumi dolcissimi.

Fine del Volume IV.

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