LIBRO DECIMONONO

SOMMARIO

Stato della Francia dopo le rotte d'Italia. Mala contentezza, e querele dei popoli contro il governo; loro desiderio universale di Buonaparte. Egli arriva dall'Egitto, e, distrutto il direttorio, reca in sua mano la somma delle cose col titolo di primo consolo. Indirizza i suoi pensieri alla conquista d'Italia, si accorda coll'imperator Paolo di Russia, ma non può coll'imperator Francesco, nè col re Giorgio. Suoi vasti concetti. Assedio di Genova, e generosa difesa fattavi dentro da Massena; resa della piazza.

S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia. Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello, che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro.

In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri. Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico? Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di ogni fortuna, ma il pensiero comandatore, e piegatore di ogni volontà in un solo e generoso ed alto fine, in Buonaparte solo albergarsi: lui solo essere mezzo a moderare, e quasi un freno a tanti dispareri e sospetti: pruovassesi adunque quanto potesse una mente tanto potente, una felicità tanto costante: con Buonaparte Italico aver prosperato la repubblica, senza Buonaparte Italico essere caduta, con Buonaparte Italico ed Egiziaco avere a risorgere. A questo modo nasceva in Francia un desiderio accesissimo del capitano invitto. A lui si volgevano gli amatori della gloria militare, perchè il credevano capace d'instaurarla; i corrotti dall'appetito del comandare e del far sacco, perchè confidavano, che ai soliti imperj e depredazioni gli potesse ricondurre; i nemici della licenza, perchè sapevano ch'ei non l'amava, e che era uomo da poterla spegnere; gli odiatori della guerra civile, perchè speravano che l'avesse a terminare; i repubblicani ardenti, perchè non dubitavano che disfacesse il direttorio; i repubblicani quieti, perchè pensavano che avesse ad indurre un vivere libero senza eccesso; i dotti ed i letterati, perchè si promettevano di esser bene trattati da lui; i filosofi, perchè non ignoravano ch'ei sentiva molto liberamente nelle cose religiose, ed il riputavano amico della libertà civile; i fautori segreti dell'autorità regia, perchè avevano a loro medesimi persuaso, siccome le voci ne erano corse, e ne era stato qualche pratica, ch'egli fosse per consentire alla ritornata dei Borboni, e per restituire l'antica signoria loro in Francia. Ognuno come redentore il guardava, ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva, ch'ei fosse per fare ciò che ciascuno desiderava. Tanta è l'efficacia dei discorsi versipelli nelle discordie civili, perchè le sette o non comunicano, o non si prestano credenza fra di loro, e può chi sta sopra a tutte, lusingarle, aggirarle, ingannarle a suo grado, e sicuramente tutte. Se il savio fra i matti può tanto, è facile comprendere quanto possa l'astuto, che è un savio raddoppiato, e Buonaparte fu astutissimo. Insomma la materia era ben disposta a ricevere le Buonapartiane impronte. Adunque già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad effetto quando portò la fama, essere morto Joubert, combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro, perchè vedeva, siccome uomo oculatissimo, che lo stato non poteva più durare con quella maniera di reggimento, Barras quinqueviro per la congiunzione antica, e forse per le speranze Borboniche, i generali superstiti dell'esercito Italico, eccettuato Massena, il quale non era punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano Buonaparte che aspiravano al dominio. Molto accomodato a' suoi fini era il procedere di Luciano: affermava con gli amici, non potersi vivere con quella constituzione, doversene creare un'altra: col pubblico rammentava, e con vivi colori pingeva, prima le glorie, poi le sconfitte d'Italia; lamentava la Cisalpina oppressa dalla tirannide di Trouvé e di Rivaud; lodava e patrocinava l'Italia; predicava la libertà di Francia, conculcata, come diceva, da un direttorio prepotente ed arbitrario. Così, allettando, chiamava a se, ed al nome del suo fratello i gelosi della libertà e della gloria Francese, i desiderosi della libertà Italica, i cupidi delle spoglie Italiche. Viaggiavano le vele, erano quelle di un bastimento Greco, portatrici dei desiderj comuni verso l'Egitto, correndo la state del presente anno. L'avviso fu ed accetto, ed opportuno.

Buonaparte, che conosceva ottimamente per la sua mente pronta e vasta, per la perizia somma nelle faccende di stato, e per la cognizione profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna che si parava davanti, e quanto fosse propizia la occasione di condurre ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio, che un mezzo opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove e straordinarie sorti. Salpava dagli Egiziani lidi, conducendo con se i suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle mani e delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si voleva servire, come di ajuto molto potente, dell'autorità, delle lingue, e degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso ancora, disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama del suo arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo Parigi, che bramosamente l'aspettava. Io non mi starò a raccontare le allegrezze che si fecero in tutta Francia, quando si sparse la voce del suo ritorno: basta, che le genti corsero a lui da ogni parte, come a trionfatore, a salvatore, a redentore: già Francia era sua, quantunque uomo privato, e generale senza esercito fosse. Lione sopratutto tripudiava per un'insolita allegrezza, città ancor sanguinosa per l'imperio poco anzi spento dei truculenti giacobini, sdegnata per le leggi soldatesche, che contro di lei tuttavia vigevano. Toccò, passando, i tasti più teneri; favellò di pace, di prospero commercio, di ferite civili da racconciarsi da un giusto e mansueto governo. I Lionesi contenti speravano ed amavano. A Parigi, ogni opinione, ogni affezione si voltava a lui: dava buone parole a tutti, ma insomma pendeva al moderato, sapendo che tal era il desiderio universale. I letterati massimamente, o poeti, o non poeti, con ogni maniera più adulatoria si studiavano di compiacergli, e con infinite lodi innalzavano insino al cielo il suo nome. Il lusinghevole uso si propagava largamente: tutta Francia risuonava d'encomj; la libertà era perduta già prima che nata.

Cacciò Buonaparte a punta di bajonette i consigli legislativi, cacciò il direttorio, i soldati pagati dal governo si voltarono contro il governo: ebbe paura sulle prime, poi fece paura agli altri; chiamò pazzo chi credesse, che la realtà potesse prevalere alle repubbliche in Europa, poi spense tutte le repubbliche, e creò in ogni luogo la realtà. Conosce Europa il dì nove novembre, da cui poteva nascere un vivere moderato e libero, e che non pertanto partorì un reggimento duro, tirato, dispotico, e soldatesco. S'accorse tostamente Sieyes, che aveva trovato un padrone, non un compagno, Barras un uomo che il volle allontanare da se, non un amico che il riconoscesse dei benefizj, uno finalmente, che anteponeva la potestà assoluta, alla quale aspirava, all'antiche congiunzioni, ed alla gratitudine.

Incominciano le trilustri insidie. Buonaparte, dubitando che i Francesi non fossero per tollerare pazientemente la grandissima mutazione che preparava, e parendogli che a sostentare la sua immensa cupidità bisognassero fondamenti straordinari, apprestava con infinita accortezza allettamenti potentissimi. Fu maravigliosa l'arte sua nel vincere le battaglie, ma assai più maravigliosa fu nell'adescar le genti. A duro giogo le traeva; ma esso solo sapeva il fine. Spinte da gradite apparenze di lieto avvenire, da lusinghevoli speranze di contentati desiderj concorrevano cupidamente là, dov'ei voleva farle concorrere; nè mai frutti tanto amari si annidarono sotto sì dolci scorze. Pace dentro, pace fuori gli parvero i più forti fondamenti della sua potenza: i Francesi stanchi ed afflitti da sì lunghe guerre, pace sopratutto desideravano, purchè disonorata non fosse, del che non temevano con Buonaparte capo. A questi fini indirizzava egli principalmente i suoi pensieri. Speciale intoppo alla cittadina concordia gli parevano, ed erano veramente gli spiriti esagerati, i quali non potendo per ambizione riposare sotto alcuna potestà, nemmeno possono quando sono giunti essi alla potestà suprema, posciachè tirannicamente procedendo, decimano prima i popoli, poi se medesimi, e tutti i fondamenti dello stato fan rovinare; non gli era ignoto, che il nome di costoro era odioso in Francia; perciò fece avviso, che molto fosse, per operare a fine di concordia, il cacciare questi commettitori di scandali, di risse e di sangue: per la qual cosa, senza rimanersene ai formali giudizj, nè differendo contro di loro i rimedj severissimi, gli allontanava confinandogli in terre estreme o forestiere. Purgata la Francia da questi uomini turbolenti, pensava al ribandire dal lungo esiglio coloro, che avevano seguitato la parte del re, od almeno detestato le esorbitanze, che ai tempi più acerbi della rivoluzione si erano commesse in Francia. Pochi furono eccettuati dal clemente editto, piuttosto per lasciare un appicco a nuove grazie, che per altro fine. Rientravano gli esuli, non sotto i tetti proprj, non nei beni loro posti al fisco, ma a rivedere i monti, i fiumi, le valli, e l'aere natio; il che era pur parte di felicità. Gradivano infinitamente queste cose agli amatori del nome reale, e ne auguravano delle maggiori. Della contentezza loro godeva il consolo, volendo arrivare alla dominazione assoluta coll'appoggio dei regj, e dei repubblicani. In questi pensieri tanto più volontieri si confermava, quanto non dubitava, che sarebbero andati a grado delle potenze Europee, siccome quelle che vi vedevano l'intenzione data da lui nei campi di Leoben e di Campoformio, di voler rimettere i Borboni, desiderio primo e principale dei principi, massimamente dell'imperatore Paolo. Sperava, nella cupezza sua, che con questi mezzi acquisterebbe pace con Europa, e tanta potenza in Francia, che senza pericolo potesse finalmente scoprirsi dello aver preso il dominio per se, non per altri. Il reggimento statuito da lui in Francia, in cui parti principalissime erano il senato ed il corpo legislativo, non gli dava apprensione, perchè del senato lo assicuravano le ricchezze, del corpo legislativo le ambizioni. L'avere poi ridotto le amministrazioni delle province ad uno invece di molti fece gli ordini meglio eseguiti, l'erario pingue: ogni cosa si volgeva alla monarchìa. Correndo i soldi, i magistrati obbedivano, i soldati marciavano: tutti benedicevano il consolo. Credere, che i principj astratti prevalgano alle borse piene, è cosa da pazzo.

A tutti questi maneggi gran momento arrecavano gli scienziati ed i letterati, siccome quelli che avevano molta autorità sui popoli, massimamente in Francia, dove erano uniti in certa spezie di congregazione, non per legge, ma per uso. Per la qual cosa il consolo gli accarezzava, gli arricchiva, gl'ingrandiva. Adulava l'instituto, e l'instituto lui. In questo non tutti andavano allo stesso modo. Alcuni s'accostavano a lui per gli allettamenti, altri per fin di bene, credendo, o che egli andasse per se, o che il potessero tirare colle persuasioni a volere la libertà. Piacemi fra questi nominare Cabanis, nel quale se fosse maggiore o il ben pensare, o il ben dire, o il bene scrivere, o il ben fare, io distinguere non saprei: certo tutte queste qualità erano in lui molto eminenti. Questo edifizio degli scienziati e dei letterati molto il puntellava, parendo a tutti, che a chi piacevano gli uomini civili, dovesse anche piacere la civiltà, e con lei la libertà, la quale sarebbe il compimento, e quasi il fiore della civiltà, se gli avari e gli ambiziosi non la guastassero.

Grande flagello, da che aveva principiato la rivoluzione, era sempre stata la guerra della Vendea, nella quale con infinito furore combattendo e repubblicani e regj, avevano sterminato popolazioni intiere, desolato paesi altre volte fioritissimi, commesso quello che solo commettono nelle civili discordie, e forse neanco in queste gli uomini arrabbiati gli uni contro gli altri. La forza non l'aveva potuta spegnere, perchè irritava, le tregue nemmeno, perchè mal fide: ormai si nominava guerra interminabile. S'accorgeva il consolo, quanta grazia acquisterebbe fra i popoli, se pacificasse quelle terre rosse di tanto sangue Francese: applicovvi l'animo, venne a capo dell'impresa. Fra il terrore del suo nome, l'apparato de' suoi soldati, le promesse di osservar la fede, le speranze segretamente date di voler procedere più oltre, vennero i capi della Vendea ad una onesta composizione: la concordia tornava sulle rive dell'insanguinato Ligeri; Parigi maravigliato vedeva i capi della Vendeese guerra. Ammiravano i popoli il consolo pacificatore, uguale nel far le guerre, uguale nel far le paci.

Forti amminicoli a quanto macchinava, pensava che fossero gli uomini di chiesa tanto maltrattati dal direttorio. Volle tirargli, e il fece agevolmente. Diè patria ai preti fuorusciti, libertà ai carcerati, sicuro vivere ai nascosti. Queste cose faceva apertamente, molte altre prometteva segretamente: i preti tutti, anche quelli che col crocifisso in mano avevano concitato le Vendeesi popolazioni contro i repubblicani, amavano e fomentavano la sua grandezza. S'aggiunse, che onorò con pietosi uffizj Pio sesto, papa morto, che aveva perseguitato vivo. Ordinava per lui solenni esequie in Valenza di Delfinato; il chiamava giusto, virtuoso, santo; affermava, avere per forza, e per mali consigli fatto guerra a Francia. Questo favellare maravigliosamente piaceva a coloro, che sentivano ancora di religione, massimamente ai ministri di lei. Già non solo vincitore e riformator generoso del governo, ma ancora instaurator pio dell'antica religione di Francia il chiamavano. Vacando il trono pontificale per la morte di Pio sesto, eransi a questo tempo adunati i cardinali in conclave a Venezia per intendere alla elezione del nuovo pontefice. Temeva il consolo, che si creasse, dovendo la elezione farsi in luogo suddito all'Austria, un pontefice troppo aderente a questa casa con pregiudizio degl'interessi di Francia e proprj. Perciò andava moltiplicando ne' suoi segni di affezione verso la religione, e nutriva con grandi speranze i ministri di lei. Si poteva facilmente pronosticare da questi primi favori, ch'ei voleva venirne, quanto alle faccende ecclesiastiche, ad ordini legittimi e definitivi. Ciò era cagione che i cardinali raccolti in Venezia non disperassero di Francia, e non consentissero ad innalzare al pontificato un cardinale, che si fosse dimostrato troppo contrario a lei. Si aggiungeva a favore di Francia e del consolo, che non senza grave sospetto stavano i cardinali intorno alle intenzioni dell'Austria rispetto al patrimonio della chiesa. Le dimostrazioni da lei fatte di aver voluto far correre a Roma Froelich, lo avere lui penato a ratificare la convenzione conclusa tra Garnier, gl'Inglesi ed i Napolitani, e molto più il desiderio, anzi la volontà evidentemente scoperta dall'Austria di serbarsi le legazioni, gli avevano messi in sentore. Perlocchè desideravano di assicurarsi dell'Austria per mezzo dell'amicizia di Francia. Questi umori erano astutamente fomentati dal consolo e gli dettero facilità di fermare le cose di Roma. Oramai si era accorto, che invece di combattere contro l'Europa e la santa sede, era arrivata la stagione, in cui egli poteva combattere, della santa sede servendosi, contro l'Europa; e siccome si era pruovato, che il gridare libertà senza religione aveva avuto cattivo fine, si risolveva a gridare libertà con religione insino a tanto che le radici della sua potenza essendo ferme, potesse spegnere la prima, e muovere a suo talento la seconda: tutto si volgeva a sua grandezza.

Ma primo ed universale desiderio della Francia tanto rotta e sanguinosa, era la pace. Questa inclinazione assecondava il consolo, non che sperasse di ottenerla con tutti, ma l'offerirla a tutti gli pareva confacente a' suoi pensieri. Questo ad ogni momento inculcava, per questo essere venuto dall'Egitto, abborrire la guerra, abborrire i conquistatori, pregare Iddio, che gli concedesse tanto di vita, che potesse dar pace alla Francia, pace all'Europa afflitte; solo per questo desiderar di vivere, la guerriera gloria essergli venuta a tedio, solo piacergli la pacifica. Questi discorsi faceva con sì efficaci parole, e con fronte tanto pietosa, che tutto il mondo credeva che fossero sinceri.

Pensava, che a' suoi fini molto valesse, e fosse molto ricercata dalle cose presenti, se non la pace, la offerta almeno della pace all'Inghilterra. Scriveva una molto bene elaborata lettera al re Giorgio: la guerra avere forse ad essere eterna? Non esservi forse alcun modo di finirla con qualche onesta composizione? Due nazioni grandi e potenti dovere forse porre in non cale la ricchezza dello stato, la felicità delle famiglie? Non sentir loro, non toccar con mano, la pace siccome è la cosa più desiderata di tutte, così ancora essere la più gloriosa? Sapere, che la Francia, e l'Inghilterra potevano per la potenza loro ancora molto tempo straziarsi, ma sapere ancora, che il destino di tutte le nazioni pendeva dal fine di una guerra, per cui tutto il mondo ardeva. Rispose acerbamente per bocca del ministro Grenville il re Giorgio, avere la Francia desolato la terra, avere i medesimi principj e le medesime cagioni a partorire i medesimi effetti; essersi servita dei trattati di pace, dei trattati d'alleanza a distruzione degli amici, e degli alleati suoi; non sapersi, se il governo nuovo prodotto da una rivoluzione nuova fosse per cangiar d'opere, ed offerisse maggiore sicurtà a chi trattasse con lui; non potersi fidare in proteste generali di desiderj pacifici; non vane parole, ma l'esperienza sola poter convincere altrui, che altro si voleva adesso, da quello che si era voluto prima; desiderare il re la pace, ma sicura per se, sicura pe' suoi alleati; solo, e fidato mezzo di sicura pace essere il rimettere in Francia quella stirpe di principi, che per tanti secoli l'avevano governata con prosperità dentro, con dignità fuori; nondimeno ciò accennare solamente il re alla Francia, non richiedernela; non volere, nè pretendere prescrivere forma di reggimento, o capi ad una nazione grande e potente; solo volere la sicurezza sua, solo volere la sicurezza de' suoi alleati; essere per venir volentieri ad un accordo, quando giudicasse di poter convenire con sicurezza, ma per ancora non conoscersi sufficientemente i principj del nuovo governo, non congettura probabile potersi fare dalla stabilità sua. A questo modo furono abbandonati i ragionamenti della concordia tra Francia ed Inghilterra. Pure ciò conseguì il consolo, che la continuazione della guerra s'imputasse non a lui, ma al re Giorgio.

Erano tra Francia ed Inghilterra odio vivo, interessi diversi, vicinanza gelosa, pace difficilissima: molto diverse condizioni passavano tra Francia e Russia. Era l'Austria alleata naturale dell'Inghilterra, la Russia per caso. Ciò si sapeva il consolo; neanco ignorava quali freddezze corressero allora tra Francesco e Paolo. L'avere l'Austria voluto por piede in Roma, il non aver voluto rimettere il re di Sardegna, l'essere stati i suoi soldati aspramente trattati da Froelich, l'avere l'arciduca Carlo abbandonato, correndo verso il Reno, Suwarow in grave pericolo nella Svizzera, il manifestare in ogni cosa il desiderio di un dominio universale in Italia, avevano raffreddato l'ardore di Paolo, e fattolo indispettire contro il suo alleato, ancorachè egli medesimo non avesse avuto l'animo alieno dallo avere un seggio sicuro, per servirsene come di emporio e di scala, nel regno di Napoli, effetto, che aveva tentato di conseguire per recenti negoziati col re Ferdinando. Questa mala disposizione dell'imperatore Paolo verso l'imperatore Francesco astutamente fomentava Buonaparte, vivamente rappresentando al primo l'ambizione del secondo: volere, diceva, oltre gli stati di Venezia, datigli in compenso dei Paesi Bassi, tenersi ancora lo stato di Milano, e Mantova, ambidue conquistati in gran parte col valore, e col sangue dei soldati Russi, nè contento a questo, appetire le tre legazioni del pontefice; avere altresì capriccio sul Piemonte, e per questo avere ostato a Suwarow, quando voleva restituire al suo antico seggio il re Carlo Emanuele; quanto a lui non fare altro disegno sopra l'Italia, se non quello di ridurla alle condizioni di Campoformio, di render sicura la independenza del pontefice e del re di Napoli, di dare sesto conforme, ed ordini più monarcali alla Cisalpina, di rimettere in Piemonte il re di Sardegna, quando non si trovasse altro mezzo di un onesto compenso. Quanto all'Inghilterra, rammentava il suo insolente dominio sui mari, la generosità di Caterina dell'averlo voluto frenare, la libertà del Baltico, e la franchigia dei neutri ai tempi di guerra con magnifiche parole commendando. Aggiungeva a tutte queste insinuazioni certe espressioni, che indicavano a Paolo la sua intenzione di dar compimento alle pratiche incominciate per mezzo del conte d'Entraigues della rinstaurazione dei Borboni. A sì fatte promesse e protestazioni si lasciava muovere Paolo: il consolo, per fargli dar la volta intieramente, pagava, provvedeva di tutto punto, e rimandava liberi al loro signore i soldati Russi fatti prigionieri nelle guerre di Svizzera e d'Olanda. Parve atto generoso, ed arra conveniente dei disegni avvenire. Da tutte queste cose mosso il sovrano di Russia, voltando lo sdegno, siccome quegli che era subito nelle sue risoluzioni, da Francia contro Inghilterra, nè vedendo, perchè era di animo sincero, quello che covasse sotto alle lusinghevoli parole del consolo, il riceveva nella sua amicizia, e si riduceva alla sua volontà, dichiarando, non voler più partecipare nella lega, e richiamava in Russia le sue genti, che ancora stanziavano in Germania. Poscia, accendendolo vieppiù le speranze dategli, rinnovava contro la potenza marittima dell'Inghilterra i patti della lega del Nord, cacciava da Pietroburgo gli agenti del re Giorgio, imputando agl'Inglesi l'esito infelice della spedizione d'Olanda. Così Paolo, scostandosi dall'amicizia d'Austria e d'Inghilterra, si precipitava in quella di Francia. Parve a tutti, ed era veramente questa mutazione di grandissima importanza, e fu forte sostegno all'esaltazione del consolo.

Rappacificatosi Buonaparte coll'imperatore Paolo, pensava a confermarsi l'amicizia della Prussia. Non gli accadde di sforzarsi molto in queste faccende, perchè, pieno sempre in tutte le sue azioni d'incredibile simulazione e dissimulazione, ora con dare intenzione del non essere alieno dal riporre i Borboni, ed ora col rappresentare l'ambizione dell'Austria, ottenne facilmente che Federigo Guglielmo, perseverando nell'amicizia fermata in Basilea, consentisse alle ultime mutazioni fatte in Francia, e lui come capo del governo francese riconoscesse.

L'Austria restava sola sul suo continente contro la Francia. Tentava il consolo l'animo dell'imperatore Francesco, offerendogli di tornare alle stipulazioni di Campoformio, con quel di più, che si negozierebbe per sicurezza delle monarchìe, e delle possessioni Austriache in Italia. Ripugnava l'Austria al rinunziar del tutto ai frutti delle ultime vittorie, e le pareva cosa enorme, conservando gli stati Veneti, che gli erano stati dati in ricompensa del Brabante, il non conservare lo stato di Milano, antica sua possessione, riconquistata principalmente per gli sforzi e pel sangue de' suoi soldati. Nè si fidava punto delle promesse di Buonaparte, siccome quella, che avendo avuto con lui molti e spessi negoziati, conosceva di che sapesse. Non gli sfuggiva oltre a ciò, che il rimettere Buonaparte nello stato di Milano, importava il rendere incerta e vacillante la possessione degli stati Veneti, e che con un uomo tanto attivo, glorioso e superbo, qual era veramente il consolo, non poteva senza pericolo consentire allo spartimento con esso lui della signorìa d'Italia. In mezzo a tutti questi pensieri si accostarono le instigazioni dell'Inghilterra molto intenta a difficoltare queste pratiche, perchè vedeva nel mondo quieto la sua ruina. Offeriva denaro, e cooperazione sulle coste di Francia. Per le quali cose, e considerato altresì, che i veterani di Buonaparte erano periti o di peste in Egitto, o di ferro in Italia, si risolveva Francesco a ricusare la concordia, ed a voler pruovare, che cosa seco portasse la fortuna della guerra. Godeva Buonaparte parimente dell'offerta, e della rifiutata pace, perchè non aveva sincero desiderio di convenire coll'Austria. Così fermando la maggior parte del mondo in suo favore, confermava in Francia i contenti, cattivava gli scontenti, e parte con fatti, parte con isperanze conseguiva, che l'universale dei Francesi amasse il suo governo, desiderasse la sua grandezza, e volentieri si disponesse a fare quanto ei desiderasse: precipitavano i popoli a tutte le sue volontà. Tutta Francia correva alle nuove sorti, e se Buonaparte generale l'aveva fatta gloriosa in guerra, tutti confidavano, che Buonaparte consolo la farebbe e gloriosa in guerra e felice in pace.

Quanto alla guerra ottimamente considerati furono i suoi consigli: mandava nuove genti, quasi tutte veterane, a Moreau confermato da lui al governo dei Renani, il quale doveva sostenere il pondo degli Austriaci in Germania. Dall'altro lato, avendo sempre più i pensieri accesi alla ricuperazione d'Italia, inviava in Liguria Massena, acciò facesse pruova di tener lontano il nemico dalle frontiere di Francia, e conservasse il possesso di Genova, fino a tanto che egli medesimo con un forte esercito arrivasse nelle pianure d'Italia. Congregava molti soldati veterani, e molti nuovi in Digione, donde pensava, secondochè gli mostrasse il tempo e le occasioni, o di condursi in Germania, se Moreau abbisognasse del suo ajuto, od in Italia se il generale dei Renani combattesse felicemente. Di questo aveva grande speranza per la perizia di Moreau, e la fortezza delle genti accolte sotto a lui. Per la qual cosa il suo principale intento era di condurre le genti adunate in Digione, che col nome di esercito di riserva chiamava, nei campi d'Italia, pieni ancora della fama di tante sue vittorie. A questo modo adunque ordinava la guerra contro l'Austria, che nel corno destro estremo guidasse i repubblicani Massena, nel sinistro Moreau, nel mezzo prima Berthier, poi egli stesso. Certamente nè pruovati, ne più eccellenti, nè più famosi capitani di questi non erano mai stati al mondo, e da loro aspettavano gli uomini maravigliati fatti maravigliosi.

Essendo la guerra imminente gridava con la vincitrice voce Buonaparte a' suoi soldati:

«Quando promisi la pace, in nome vostro la promisi: voi siete quegli uomini medesimi, che conquistaste la Olanda, il Reno, l'Italia, voi quelli stessi, che già vicini, sforzaste alla pace la spaventata Vienna. Soldati, avete voi ora ben altro carico, che quello di difendere le frontiere vostre: ite, invadete, conquistate i nemici territorj. Voi foste già tutti a molte guerre, voi sapete che per vincere, e' bisogna soffrire: in poco d'ora non si possono ristorare i danni di un cattivo governo. Dolce sarammi, a me, primo magistrato della repubblica, il poter dire alla Francia attenta, questi sono i più disciplinati, i più bravi sostegni, che si abbia la patria. Sarò, soldati, quando fia venuto il tempo, sarò con voi. Accorgerassi l'Europa, che voi siete quella valorosa stirpe, che già tante volte a maraviglia la costrinse».

Così aggiungendo impeto a valore, faceva uomini fortissimi alle battaglie.

L'esercito Italico afflitto dalle disgrazie titubava; i soldati rompevano i freni dell'obbedienza: già la stagione si rendeva propizia. Buonaparte vincitore mandava loro dicendo:

«Non odono le legioni le voci dei loro ufficiali; lasciano la diecisettesima sopra tutte, le insegne. Adunque son morti tutti i bravi di Castiglione, di Rivoli, di Newmarket? Avrebbero essi eletto il perire, piuttostochè abbandonar le insegne. Voi parlate di provvisioni manche: che avreste fatto, se come la quarta, e la vigesima seconda leggiere, la diciottesima, e la trigesima seconda grosse, fra deserti, senza pane, senz'acqua, a mangiar ridotte carni di sozzi animali, trovati vi foste? La vittoria, dicevano, ci darà pane, e voi disertate le insegne! Soldati dell'esercito Italico, un nuovo generale vi governa: quando più splendeva la gloria vostra, ei fu sempre il primo fra i primi. In lui fidatevi, con lui andrete a nuove vittorie. Sarammi, così comando, dato conto di quanto ogni legione farà, massime la diecisettesima leggiere, e la sessagesima terza grossa: ricorderannosi della fede, che già ebbi in loro».

Queste parole maravigliosamente accendevano quegli animi valorosi. Era l'esercito Italico, in cui si noveravano poco più di venticinque mila soldati, distribuito nelle stanze al modo che segue. La destra governata dal generale Soult, da Recco in Riviera di Levante per monte Cornua e Torriglio, e dalla Bocchetta per Campofreddo, Stella, Montelegino in riviera di Ponente sino a Cadibona e Savona si distendeva; presidiava Gavi e Genova, in cui alloggiava il generalissimo Massena. La sinistra, che obbediva al generale Suchet, custodiva la riviera di Ponente da Vado fino al Varo con presidj posti nei principali luoghi di monte San Giacomo, Settepani, Santo Stefano, Madonna della Neve, Montecalco, Montegrosso, e nei sommi gioghi dell'Alpi Marittime; fronte certamente troppo lunga per potersi guardare convenientemente con sì poche genti. Ma Genova necessitava i consigli dei Francesi, perchè importava ai disegni ulteriori del consolo, ch'ella si tenesse lungamente, e voleva Massena conservarsi un campo largo per le tratte delle vettovaglie, di cui penuriava, il che l'aveva fatto risolvere a non cedere le riviere, se non quando a ciò fosse sforzato.

Da un'altra parte Melas, il quale, abbenchè fosse guerriero avveduto e sperimentato, e forse appunto perchè era, non poteva persuadere a se medesimo, che le genti raccolte in Digione fossero una tempesta, che avesse a scagliarsi contro l'Italia, parendogli impossibile, che dopo tante rotte avessero potuto i repubblicani in così poco tempo raccorre genti, ed armi sufficienti per fare un moto di tanto momento su quei campi stessi dove e donde erano stati, pochi mesi innanzi, da lui vinti e cacciati. Non misurava egli bene la prontezza di Buonaparte, nè la docilità dei Francesi a correre là dove il nome suo e la sua voce gli chiamavano. Laonde ei se ne viveva troppo alla sicura su quanto potesse succedere alle spalle, e sul suo destro fianco. Ciò fu cagione, che tutto intento al cacciare il nemico dalle riviere e da Genova, egli indirizzò tutto lo sforzo contro un'ala estrema delle forze Francesi, contro passi difficili, contro rocche sterili, lasciando per tal modo aperto il campo all'avversario allo scendere nelle grasse e facili pianure della Lombardìa con tutto il pondo della mezzana parte delle sue forze. Dagli accidenti, che si racconteranno, sarà manifesto, che Melas commise un gravissimo errore, perchè fosse appunto quello che Buonaparte desiderava che facesse; il che tanto è vero, ch'io sto per credere, che l'aver lasciato le riviere di Genova con presidio sì debole, tanto disteso la sua fronte, e continuato nella possessione della capitale della Liguria, siano stati piuttosto astuzie di Buonaparte per allettar Melas con la facilità dell'impresa a portar la guerra in questi luoghi, che errore od impotenza. Ad ogni modo non si vede, quale grande momento potesse recare all'Austria l'impadronirsi di Genova, che non poteva, e forse non voleva, e delle riviere, che certamente nè poteva, nè voleva conservare. La speranza poi, che il comparire delle Austriache insegne sulle frontiere di Francia fosse per farvi muovere i popoli contro Buonaparte, era del tutto vana, e certamente tale parrà a chi abbia conosciuto la natura di quei tempi. Non in Francia, nè sulle rocche Liguri, ma nelle grasse pianure del Piemonte e della Lombardìa si aveva a giudicare la lite, se a discrezione di Francia o d'Austria dovesse restare esposta l'Italia. Perciò gli Austriaci, che erano padroni dei passi, gli doveano guardare gelosamente, ed anche star grossi nella pianura, non andarsi a sprolungare in un estremo punto del campo di guerra. Andando Melas dall'uno lato contro Genova, dall'altro contro Nizza, voltava le spalle a Buonaparte, che veniva da Digione, caso di guerra molto singolare, che dinotava nel generale Austriaco, o troppa confidenza in se medesimo, o troppa ignoranza dei disegni già pubblicamente accennati dell'avversario, o troppo falsa misura di quanto questi potesse fare in breve tempo con que' suoi Francesi tanto confidenti in lui, tanto pronti alle armi, tanto impazienti delle rotte, tanto gelosi dell'onor militare.

Gli Austriaci, che molto prevalevano pel numero a Massena, erano per modo alloggiati, che tutto il territorio Ligure fasciando, da Sestri di Levante per la sommità degli Apennini opposte a quelle, che occupavano i Francesi, si distendevano fino al colle di Tenda. Governavano a sinistra Otto, poi seguitando a destra Hohenzollern, a Novi, rimpetto a Gavi, ed alla Bocchetta; il generalissimo Melas al Cairo; Esnitz a Ceva all'incontro di Suchet, e finalmente sulla estrema punta destra Morzin fra Cuneo e le falde del colle di Tenda. Accingendosi Melas ad invadere il Genovesato, preambolava con parole dolci ad aspri fatti.

«Genovesi, diceva, io vengo nella vostra patria, non per conquistare, nè per soggiogarvi, ma per combattere un nemico, che uguaglianza e libertà promettendovi, vi ridusse, come tanti altri disgraziati popoli, alla miseria ed alla disperazione. L'imperator mio signore non desidera conquiste, solo vuole levarvi dal collo il giogo al quale vi ha posti un intemperante conquistatore; ei vuole che siano salve le proprietà, salva la religione, salvi e felici i popoli. Ei lo vuole, ed ei lo fa: guardate le provincie dalle nostr'armi restituite a libertà. Nè meno tenero egli è della vostra patria. Chiamerò in nome suo al governo i più virtuosi, i più savj cittadini che siano fra di voi. Liberi saranno i porti, libero il commercio, vera ed unica fonte della prosperità vostra: la miseria cambierassi in ricchezza, l'oppressione in libertà; io vincitore, di ciò v'affido e v'assicuro».

Un Azzeretto Genovese, prima ai soldi di Francia, poi a quei d'Austria, faceva similmente in questi giorni preparazione per turbare le cose di Genova. Impetuosamente procedendo, pur troppo acerbe ed immoderate parole gettava contro i Francesi in un suo manifesto, ed esortava i suoi compatriotti a combattergli, ed a vendicarsi in libertà. Le armi dovevano definire, ed alle armi si veniva, perchè non si fece pei Genovesi alcun movimento in favor della lega, secondo le speranze date dal fuoruscito Azzeretto.

Aveva Melas condotto il grosso de' suoi alle stanze delle Carcare, intendimento suo essendo di spignersi avanti, cacciando gli avversarj dai sommi gioghi a Savona, per separare e disgiugnere in tale modo l'ala sinistra dei Francesi dalla mezza, e dalla destra che combatteva nella riviera di Levante. Ottenuto il quale intento, gli si spianava la strada, essendo questo l'ultimo fine de' suoi pensieri, a serrare Massena dentro Genova, ed a costringerlo alla dedizione. Ma perchè il generale di Francia non potesse far correr gente dalla riviera di Levante in ajuto di quelle che dovevano sostenere l'assalto su quella di Ponente, ordinava a Otto, che assaltasse i Francesi alloggiati sotto la condotta di Miollis, a Recco, Torriglio, Scafera, Sant'Alberto, monte Cornua, monte Becco, e monte delle Fascie. Melas voleva al tempo stesso che Hohenzollern desse dentro ai posti della Bocchetta, e ad ogni modo gli conquistasse. Spuntava appena il giorno dei sei aprile, che i Tedeschi, partendo dalle Carcare divisi in tre schiere, s'incamminavano alle ordinate fazioni. La mezzana condotta da Mitruschi, marciando per Altare e per Torre, si avvicinava a Cadibuona, posto molto fortificato dai Francesi, e chiave e momento principale di tutta quella guerra. Il generale San Giuliano colla sinistra faceva opera d'impadronirsi di Montenotte per quinci accennare contro Sassello, dove alloggiava un grosso corpo di repubblicani. Finalmente la destra, che obbediva ad Esnitz ed a Morzin, passando per le Mallare, ed avvicinandosi alle fonti della destra Bormida, aveva carico di sforzare i passi del monte San Giacomo. Questi assalti con molt'arte ordinati a questo fine tendevano, che per gli Austriaci si occupasse Savona; perchè per tal modo restava smembrato Suchet da Massena. Si combattè dapprima da ambe le parti molto valorosamente a Torre, avendo gli Austriaci il vantaggio del numero, i Francesi del luogo. Finalmente superarono i primi quell'antiguardo, e tutto lo sforzo si ridusse sotto le trincee di Cadibuona. Quivi fu molto duro l'incontro, e la battaglia si pareggiò lungo tempo: ma finalmente fe' dare il crollo in favore delle armi imperiali la mossa di un valoroso battaglione di Reischi, il quale, assaltate di fianco le trincee, costrinse i repubblicani alla ritirata, non senza tale disordine delle ordinanze, che se non fosse stato presto Soult a sopraggiungere con ajuti freschi, sarebbero stati condotti a molta ruina. Ma non potè nemmeno la presenza e l'opera di Soult ristorare la fortuna; perchè gli Austriaci, seguitando l'impeto della vittoria, obbligarono il nemico a ricoverarsi, girando a stento per quelle sommità di monti, al monte Ajuto, munito ancor esso di qualche fortificazione. Volle Melas torre quel nuovo ricetto al nemico, mandò all'assalto Lattermann e Palfi con cinque battaglioni di granatieri, e col reggimento di Spleny. Gli uni e l'altro fortemente urtando, i primi da lato, il secondo da fronte, sloggiarono i Francesi da quel forte sito, e se ne impadronirono. Fecero i repubblicani una nuova testa a Montemoro: Melas, combattendogli da fronte, e girando loro alle spalle ed ai fianchi, dall'una parte verso Vado, dall'altra vesso Arbizzola, e dando perciò loro timore di essere tagliati fuori, gli costrinse a dar indietro col ritirarsi disordinatamente a Savona. Seguitarongli, pressandogli molto alle terga, i vincitori, e con essi alla mescolata entrarono nella città. Soult, non standosene ad indugiare, introdotta nella fortezza quanta vettovaglia potè in quell'improvviso e pericoloso accidente, si ritirava a Varaggio, dopo di aver combattuto piuttosto da vincitore che da vinto gl'imperiali, che già erano scesi ad Arbizzola. Riuscirono molto micidiali quest'incontri alle due parti: i Francesi patirono di vantaggio, trovandosi in minor numero.

Frattanto Esnitz aveva assaltato monte San Giacomo custodito da Suchet, che virilmente vi si difendette qualche tempo. Ma le rotte di Cadibuona e di monte Ajuto, colla occupazione di Savona, rendendo le sue condizioni molto pericolose, fe' sgombrare i suoi da quel forte sito, abbandonando anche gl'importanti posti di Settepani, Santo Stefano, e la Madonna della Neve. Fece una valida resistenza a Melogno Seras: poi fu costretto a ritirarsi, ma minaccioso e contrastante, le mosse retrograde degli altri seguitando. Entrarono gli Austriaci vittoriosi in Vado. Suchet per le terre di Finale, Gora, Bardino, la Pietra, e Loano indietreggiava fino a Borghetto.

Nè meno felicemente si era combattuto per gli Austriaci in riviera di Levante, ed alla Bocchetta; perchè Otto assaltando con molto impeto monte Cornua, dopo grave contrasto, il superava. Superarono medesimamente gli Austriaci monte delle Fascie, costringendo i Francesi a ritirarsi insino a Quinto. I posti di Torriglio e di Scafera vennero anche in potestà degl'imperiali, essendosi ritirati i repubblicani, che gli difendeveno, a Prato. Così la Sturla sotto, il Bisagno sopra separavano i due nemici, e gli Austriaci dall'eminenza del monte delle Fascie vedevano, ed erano veduti da Genova; il che era cagione di terrore agli addetti alla parte Francese, di conforto a coloro che parteggiavano per gli Austriaci e per l'antico governo.

Fortissimo era l'alloggiamento dei Francesi alla Bocchetta, e molto ardua la sua espugnazione, avendo voluto assicurarsi di quella strada facile ed aperta contro il nemico, che venisse dai piani della Lombardia. Gli assaltava Hohenzollern coi due reggimenti di Kray e d'Alvinzi condotti dal generale Rousseau, e l'una dopo l'altra, non senza però molto contrasto e sangue, si recava in mano, conquistando tutte le trincee e le artiglierìe che le guernivano. Per questa fazione acquistarono gli Austriaci il passo nella valle della Polcevera, con la facoltà di stringere più da vicino Genova. Rannodaronsi i Francesi a Pontedecimo.

Massena, che prevedeva che non avrebbe potuto tenersi lungamente in Genova, se gl'imperiali fossero troppo vicini alla mura, perchè più presto gli sarebbero mancate le vettovaglie, fece pensiero di allargarsi. Siccome poi era uomo generoso e d'animo invitto, non contentandosi al volersi acquistare un campo più largo, benchè fosse molto inferiore pel numero dei soldati al nemico, si deliberava a far opera di rompere gli Austriaci sulle alture sopra Savona per ricongiungersi con l'ala governata da Suchet. A questo fine gli mandava dicendo, che attendesse ad assaltar il nemico, ed a ricuperare i luoghi perduti di Settepani, Melogno e San Giacomo. Perchè poi Otto non potesse mandar soccorsi a Melas, ordinava a Miollis, che si sforzasse di cacciar gli Alemanni dal monte delle Fascie, dal monte Cornua, e da altri luoghi circonvicini. Riusciva a Miollis felicemente l'impresa. Fecero gli Alemanni grave perdita in questo fatto di morti, feriti e prigionieri. Ma l'evento della guerra, ed il destino di Genova erano per giudicarsi nella riviera di Ponente. Pensava Massena a riuscire, rotti i Tedeschi sui monti, nelle vicinanze del Cairo, dove Suchet doveva venire a congiungersi con lui, se avesse potuto superar le alture, sopra le quali i nemici si erano fortificati. Marciava Massena inferiormente più accosto al mare per assaltar Montenotte, Soult superiormente, e a destra per impadronirsi di Sassello, quindi del monte dell'Armetta, poi di Mioglio, e del ponte Invrea. Quivi avrebbe potuto unirsi a Massena venuto da Montenotte. Così uniti speravano di poter marciare verso il Cairo, confidando anche di trovarvi Suchet. Soult, percosso in sul primo giungere un corpo Austriaco, che posto a Nostra Donna dell'Acqua il poteva battere sul suo fianco destro, ed avendo vinto, e cacciato sino alle sponde del torrente Piotta oltre i monti, superava ogni ostacolo, s'impadroniva di Sassello, e più oltre procedendo recava in poter suo la cresta importante del monte Armetta. Ripreserla i Tedeschi, racquistaronla i Francesi dopo un gagliardo scontro: in questi impetuosi e spessi affrontamenti si spargeva molto sangue. Restava superiore Soult, che in tutti questi fatti sostenne le voci di capitano forte, ed esperimentato alla guerra. Nè più altro impedimento gli restava a superare per arrivar al compimento del suo disegno per al Cairo, se non se i posti di Mioglio, e di ponte Invrea. Vi sarebbe anche riuscito, come pare non potersi dubitare, se la fortuna si fosse scoperta tanto favorevole a Massena, quanto si era scoperta a lui. Ma le cose succedettero sinistramente nella parte condotta dal generalissimo. Si era Melas mosso, non presumendo che tanta audacia s'allignasse nei Francesi, che potessero far pensiero di attaccarlo, per andare ad assaltar Voltri col fine di congiungere le sue genti con quelle di Hohenzollern, e di serrare Genova. Trovò che i Francesi lo avevano prevenuto, che Soult già tanto si era inoltrato, che il suo fianco sinistro non era più sicuro, e che correva pericolo, che le due ali di Massena e di Suchet si unissero sulle rive della Bormida; il che gli sarebbe stato di gravissimo pregiudizio. Gli sopravvennero in questo punto le ingratissime novelle, che la squadra di San Giuliano, ferita con molta gagliardìa da Soult alla Veirera, aveva patito molto danno, e retrocedendo frettolosamente era stata costretta a ritirarsi a ponte Invrea. In questo pericoloso punto Melas, non turbata la mente, nè diminuito l'animo, si appigliava prestamente ad un partito, che solo il poteva riscuotere dal mal passo in cui era ridotto. Avvisò che l'evento della battaglia pendeva dalla schiera di Massena, e che se gli fosse venuto fatto di obbligarla a ritirarsi rotta e sconquassata, sarebbe stato Soult obbligato a tornare indietro. Riuscì la fazione, come l'aveva preveduta. Riscontratosi con un corpo assai grosso di Francesi a Stella, lo rompeva, non senza molta uccisione. Poi seguitandolo fino a Croce, e combattendo di bel nuovo in questo secondo sito lo sbaragliava. Al tempo medesimo Lattermann, viaggiando sulla spiaggia, s'impadroniva di Varaggio, che era stato l'alloggiamento principale, donde poco innanzi Massena era partito per andare alla fazione di Montenotte. Penò molto Massena, dopo questa rotta, a condursi a sicuro luogo in Cogoletto; perchè gli fu forza, essendo la strada a riva il mare in potestà di Lattermann, camminare per luoghi erti e montuosi. Melas, conoscendo, che il non dar respiro a Massena, era un vincere Soult, mandava prestamente Lattermann ad assalir Cogoletto. I granatieri di San Giuliano ferirono con molta forza i Francesi già stanchi e diradati, e già gli facevano piegare. Gli bersagliavano al punto stesso gl'Inglesi accostatisi al lido colle loro barche armate di artiglierìe. Finalmente venne a precipitarsi contro di loro la cavalleria Austriaca. Pressati da tutte bande, non poterono resistere, e disordinati si ritirarono precipitosamente ad Arenzano, ma piuttosto per modo di posata, che d'alloggiamento stabile.

Massena, non credendosi sicuro in questa terra, si tirava più indietro sino a Voltri. Quivi poneva il campo, non per dimorarvi, perchè Lattermann, che si avanzava vittorioso da fronte, e Hohenzollern, che romoreggiava dalla superiore Polcevera, ciò gli toglievano, ma solamente per aspettarvi Soult, che percossi invano con assalto ponte Invrea e Mioglio, e udito il caso sinistro di Massena, si ritirava a presti passi. Infatti si raccozzarono i due generali della repubblica a Voltri. Melas, riunite tutte le sue forze, gli ne cacciava, e perseguitandogli aspramente con facelle accese, perchè era sopraggiunta la notte, gli costringeva a varcare la Polcevera pel ponte di Cornigliano, a ripararsi del tutto dentro le mura di Genova, ed a desistere da qualunque assalto alla campagna.

Suchet, combattuto prosperamente a Settepani, a Melogno, ed in altri luoghi circonvicini di quei monti, ma ributtato con grave uccisione da San Giacomo, fu costretto a tornarsene indietro, senza aver potuto compir l'impresa.

Mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma a Voltri, Otto aveva rincacciato Miollis dai monti Cornua e delle Fascie, per modo che il Francese impotente al resistere aveva preso partito di ritirarsi nella valle del Bisagno, e sulla destra sponda della Sturla. Così Massena privato della campagna, si era ridotto a difender Genova, ed i luoghi più vicini. Presidiava Miollis il forte Richelieu, ed il monte del Vento, distendendosi oltre il Bisagno sino al forte dello Sprone. Verso Ponente il generale Gazan teneva la riva sinistra della Polcevera fino a Rivarolo, ed inoltrando l'ala sua destra fino al monte dei Due Fratelli, ed al forte Diamante, si congiungeva con Miollis. Massena con la grossa schiera alloggiava in città. Intanto le frontiere della republica sull'Alpi Marittime restavano esposte all'impeto Tedesco. Piantava il generalissimo d'Austria il suo alloggiamento in Sestri di Ponente; ma non volendo lasciar indebolire la fama dei recenti fatti, nè dare tempo a Suchet di ricevere rinforzi, si accingeva a cacciare per forza il generale di Francia da tutta la riviera di Ponente. Vinselo in una fazione improvvisa a Torìa: recatosi in mano il colle di Tenda, il minacciava alle spalle, e sul fianco sinistro. Suchet, che era capitano esperto, avendo fatto quanto per lui si poteva colle poche forze che gli restavano, per ritardar il corso al nemico, si ritirava sulle terre dell'antica Francia oltre il Varo. Solo lasciava guernigioni sufficienti nei forti di Ventimiglia e di Montalbano, affinchè il paese di Nizza non rimanesse tutto in preda all'avversario. Il seguitava l'Allemanno, ed impossessatosi di tutta la contea di Nizza, compariva sulla sinistra del fiume. Alloggiavano gli Austriaci ascendendo dal mare sino ad Aspramonte. I Francesi, per impedire il passo al nemico, avevano fortificato assai gagliardamente con trincee e terrapieni un capo di ponte, ed alloggiato all'incontro nei siti più guadosi; la principale stanza loro era a San Lorenzo. Vennero quivi ad annodarsi alcuni reggimenti, sebbene deboli, di regolari; chiamavano le guardie nazionali della Provenza. Sapendo poi, che il miglior mezzo per vincere è l'essere informato dei disegni del nemico, aveva Suchet provveduto, che un telegrafo piantato sul forte di Montalbano, lo accontasse ad ora ad ora delle mosse di Melas. Ciò fu cagione, che non così tosto il Tedesco faceva un apparecchio, il Francese si apprestasse a combatterlo. In questo tempo ebbersi le novelle che il forte di Ventimiglia si era arreso alle armi imperiali, arrendevasi altresì al generale San Giuliano il castello di Savona. Intanto si combatteva aspramente sulle rive del Varo. Due volte i Tedeschi assaltarono con singolare audacia il ponte, la prima volta Melas medesimo, la seconda Esnitz; due volte furono con uguale valore risospinti. Risplendettero in questi fatti la perizia di Suchet, e la prodezza del generale Rochambeau. Risplendè anche molto chiaramente l'ingegno, e la virtù del generale Campredon, che aveva fortificato il ponte. In tale modo con somma sua lode, ed utilità grande della repubblica, difendeva Suchet il territorio di Francia, e secondava l'opera immensa concetta dal consolo.

Già il canuto e vittorioso Melas si accorgeva, che era caduto nell'insidia tesagli dal giovane guerriero, e che, non che fosse tempo di conquistar la Provenza, gli era forza pensare di conservare, se ancor potesse, l'Italia. Erangli giunti i primi avvisi del calarsi Buonaparte dalle Pennine Alpi: ebbe sulle prime il fatto in poco concetto: errò nel credere, che il consolo fosse uomo da comparir debole sulle sommità delle Alpi; avrebbe anzi dovuto persuadersi, che dov'era Buonaparte, là fosse tutta la fortuna della guerra, là covasse la ruina dell'Austria. Mandava sui primi romori una schiera in Piemonte pel colle di Tenda; ma quando s'accorse, che se la fama era stata grande, il fatto era più grande ancora, si risolveva a torsi velocemente da quell'estremo ed infruttuoso campo, dove combatteva, per condursi in quei luoghi, nei quali vincitore avrebbe a far con vincitore. Ordinava Melas ad Esnitz, che aveva lasciato alla guerra contro Suchet, prestamente si tirasse indietro, e venisse od a raggiungere Otto, che instava contro Genova, se Genova ancora si tenesse, o lui stesso nei piani d'Alessandria, se la capitale della Liguria già avesse ceduto alle armi d'Austria. Ritiravasi Esnitz, seguitavalo velocemente Suchet. Serratogli ogni passo pel Genovesato, si riparava l'Alemanno per la valle d'Ormea nelle Piemontesi contrade; il Francese spintosi avanti stringeva il castello di Savona.

A questo tempo consisteva la guerra in due accidenti principalissimi: l'assedio di Genova, e la scesa di Buonaparte in Italia: l'uno era strettamente congiunto coll'altro. Otto faceva ogni sforzo per impadronirsi della piazza, bramando di poter correre alla guerra definitiva nei campi d'Alessandria. Massena, che per coraggio e per l'arte de' suoi uffiziali, e dei patriotti fuorusciti del Piemonte, che andavano e venivano a portar novelle, traversando con estremo pericolo loro gli alloggiamenti dei Tedeschi, era bene informato di quanto accadesse sulle Alpi Pennine, desiderava più lungamente che possibil fosse tenerla, per la ragione contraria. Nacquero da questa sua ostinazione fatti molto memorandi, e tali che raramente si leggono nei ricordi delle storie. La città capitale della Liguria, posta a guisa di anfiteatro, dond'ella fa magnifica mostra, sul dorso dell'Apennino tra la Polcevera e il Bisagno, è chiusa da due procinti di mura, uno più largo, l'altro più stretto. Sono questi due procinti muniti di bastioni e di cortine consenzienti alla natura del luogo aspra, scoscesa e disuguale.

Il primo incominciando dalla riva destra del Bisagno in riviera di Levante sotto alle porte Romana, e Pila, s'innalza sul dorso del monte sino al forte dello Sprone, donde volgendosi a ponente, e fasciando la città, dopo di essersi rizzato in un forte, che chiamano la Tanaglia, presso alla Crocetta, se ne va a terminare presso alla Lanterna, ed al molo nuovo. Il secondo partendo da levante gira accosto, e ferma le mura; ma s'interrompe a mezza strada, e non arriva sino al molo nuovo. La parte più difendevole è il forte dello Sprone, ma siccome è sottoposto a più alti gioghi, e da loro dominato, così fu d'uopo piantarvi due forti, uno sul monte dei Due Fratelli, l'altro più in su, a cui per la sua forma fu dato il nome di forte del Diamante. Chi ha in mano questi due forti, si può stimar padrone di Genova, perchè stanno sopra a tutte le altre fortificazioni. La parte più debole del procinto trovandosi al luogo più basso verso la foce del Bisagno, si pensò a munire con forti le eminenze vicine, cioè con quello di Quezzi il monte del Vento, con quello di Richelieu il monte Manego, e finalmente con quello di Santa Tecla la eminenza di questo nome. Nè ciò bastando alla difesa di questa parte, si fecero trincee sui monti vicini dei Ratti, delle Fascie, e di Becco. Tali erano le difese di Genova, quando stava in propria balìa: elle bastavano, perchè con breve assedio non si poteva prendere, i lunghi erano impossibili per le emolazioni delle potenze. Consistevano le difese vive di Massena in diecimila soldati Francesi; aveva con se Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi a queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati da Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli Piemontese, uomo di natura molto generosa, di gran cuore, ed amantissimo della libertà. Le corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte per amore di Francia, parte per odio d'Austria, parte per paura del sacco, se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente per un sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione per le vettovaglie, massime di grani.

Gl'Inglesi governati da Keit, impedivano le provvisioni di Corsica e di Marsiglia. Del governo, che era allora in Genova, poche cose dirò. Non era nè più libero, nè più servo dei precedenti, e vi era stata fatta una gran mutazione di forma, poichè, spento il direttorio in Francia, la moda empirica e servile volle che si spegnesse anche in Liguria: creossi, in luogo del direttorio, una commissione di governo. Lodossi il cambiamento, pure secondo la corrente servile. Questo con buona volontà, ma sommessa ed umile, perchè il pericolo e le lunghe disgrazie avevano rotto gli animi, secondava Massena.

La forza che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo consisteva in Tedeschi; ma con loro andavano congiunte torme numerose di villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali non mossi da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta, e dall'amor del sacco, erano accorsi alle voci di Azzeretto, uomo che era stato incomposto e rotto, quando militava coi Francesi, ed ora si mostrava incomposto e rotto, militando coi Tedeschi. Nè piccolo momento recavano alla oppugnazione le navi Inglesi e Napolitane, non solamente con intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'ajutare, fulminando le spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente verso il Bisagno, dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa, che verso la Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio, il dì ventitre aprile una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera. Il reggimento di Nadasti, cacciati prima i Francesi da Rivarolo, s'impadroniva anche di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla vigesima quinta gli rincacciava. Sapevano gli assalitori, che la parte più debole della piazza era verso levante. Però si deliberarono a darvi un assalto, tentando di occupar le eminenze. Il dì trenta aprile, prima che aggiornasse, givano all'assalto per modo che Hohenzollern e Palfi si lanciavano contro il monte dei Due Fratelli, il colonnello Frimont, scendendo dal monte delle Fascie, si avventava contro il monte dei Ratti, il forte di Quezzi, ed il forte Richelieu, Rosseau si scagliava contro Santa Tecla, Azzeretto tempestava co' suoi villani intorno al Diamante; Gottesheim, passata la Sturla, s'avvicinava a San Martino d'Albaro, ed alle mura della città. Per consuonar con tutti questi moti a levante, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon fine quasi tutti gli assalti dei Tedeschi: guadagnarono il monte dei Ratti, quello dei Due Fratelli, il forte Santa Tecla; già circondavano i forti di Richelieu e del Diamante; Gottesheim, acquistata la metà di San Martino, instava per acquistar l'altra. Era un gran pericolo pei Francesi, perchè se i Tedeschi avessero conservato i luoghi conquistati, Genova non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere la fortuna. Mandava Soult al conquisto dei Due Fratelli, Darnaud al rincalzo di Gottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi. Vinsero tutti: gl'Italiani del Rossignoli, i primi, riconquistarono i Due Fratelli. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal prospero successo usciva nuovamente alla campagna il dì undici maggio. Il suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie, perchè da quella eminenza potevano calarsi a rovina delle difese più prossime alla piazza. Ordinava l'assalto per modo che Soult girasse a dorso del monte, Miollis lo attaccasse da fronte. Combattè infelicemente il secondo, favorì la fortuna l'impresa del primo recando in sua mano, dopo una battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol conservarono lungamente i repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont mandati da Otto il ricuperarono. Massena intanto raccoglieva viveri alla campagna, breve ed insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare il monte Creto, come sito dominatore, e passo comune da levante a ponente. Mandava alla fazione due grosse squadre, la destra condotta da Soult, la sinistra da Gazan. I Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia. Fu furioso l'assalto, valorosa la resistenza; pure andava superando la fortuna dei Francesi, quando sopravvenne un temporale grossissimo; abbujossi l'aria, straordinariamente piovve; i combattenti sforzati a ristarsi. Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani; l'accidente diè tempo a Hohenzollern ad arrivare con genti fresche: ruppe i repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi in questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult, mentre animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente nella gamba destra, e fatto prigione.

Questa infelice spedizione pose fino al sortire di Massena; perchè perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire alla campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza, che gli alleati nol potessero sforzare; ma quello che l'armi degli avversarj non potevano operava la fama. Stando io per descrivere qual fosse l'aspetto di Genova in questi ultimi giorni dell'assedio, non posso non deplorare il destino di un popolo Italiano ridotto agli estremi casi, non perchè per lui si trattasse di esser libero, o servo, ma perchè si definisse a chi dei due, o d'Austria o di Francia, avesse a servire: città desolata per le rapine, pel sangue, per la fame, per la peste. Keit per mare non lasciava entrar viveri, Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le scarse dissipate.

Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono i cibi, poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e sozzi, non solo i cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci, i pipistrelli, i vermi, e beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci impadroniti dei molini di Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva più macinare. Rimediossi per un tempo coi molini a mano, con quei da caffè massimamente, perchè erano presti; l'accademia consultò dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote e molini nuovi. Con certi più grossi un uomo solo poteva macinare uno stajo di grano al giorno. In ogni strada, su per ogni bottega si vedevano girar molini. Nelle case private fra le adunanze famigliari, si macinava; le donne il facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il grano: cercaronsi altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di cacao, di mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava. Gli stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele, e cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi avesse potuto sostentare un giorno di più se e la famiglia con lino, o panico, o tre granelli di cacao. La crusca, materia tanto ribelle alla nutrizione, si macinava ancora essa, e cotta con miele serviva di cibo, non per ispegnere, ma per ingannare la fame: le fave stimate preziosissime: felice, non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti più tristi ancora per la fame, e per le spaventate fantasìe. Mancati i semi, pensossi all'erbe. I romici, i lapazj, le malve, le bismalve, le cicorie selvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano, e cupidamente, come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano lunghe file di gente, uomini di ogni condizione, donne nobili e donne plebee, visitare ogni verde sito, massime i fertili orti di Bisagno, e le amene colline d'Albaro, per cavarne quegli alimenti, cui la natura ha solamente alle ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il zucchero: zuccheri rosati, zuccheri violati, zuccheri candi, ogni maniera di confetti andavano attorno, rivenditori e rivenditrici pubblicamente gli vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro cestellini adornando: strano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi, scarni e moribondi. Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo, che si compiace in abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole e di più terribile; rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati. Basta: e' furon viste donne e gentil donne nutritesi con sorci la mattina, mangiarsi tregge delicate la sera. L'aspetto della miseria estrema non ispegne la malvagità in chi è malvagio; del che troppo manifesto e troppo orribile esempio si ebbe in quelle ultime strette di Genova; conciossiachè uomini privi di ogni senso di umanità, per un vile guadagno non abborrirono dal mescolar gessi in luogo di farine nei commestibili che vendevano, per modo che non pochi avventori ne restarono avvelenati, morendosene con dolori mescolati di fame, e di veleno.

Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di riso si pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo soldi trentadue, una di farina lire dieci, o dodici, le uova lire quattordici la serqua, la crusca, soldi trenta ciascuna libbra. Poi venendo maggiore la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane biscotto di once tre dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori agevolezze dei particolari non vollero Massena, nè gli altri generali: apparecchiavano come i plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare star forti gli altri a tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano quanto nutrimento si dava a chi languiva per malattie o per ferite negli ospedali. Uomini e donne tormentate dalle ultime angoscie della fame e della disperazione, empievano l'aria dei loro gemiti e delle loro strida. Talvolta così gridando, e le fameliche viscere con le rabbiose mani di lacerare tentando, morti per le contrade cadevano. Nissuno gli ajutava, perchè ognuno pensava a se: nissuno anche a loro abbadava, perchè la frequenza aveva tolto orrore al fatto. Pure alcuni fra gli spasimi e stridi spaventevoli, e con scosse e contorte membra davano l'ultimo sospiro in mezzo alle popolari folle. Fanciulli abbandonati da parenti morti, o da parenti disperati imploravano con atti, con pianti, e con voci miserabili la pietà di chi passava. Nissuno gli ajutava, ed aveva loro compassione, perchè il dolore proprio aveva spento il compassionare l'altrui. Razzolavano quell'innocenti creature bramosamente nei rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli sfoghi de' lavatoj, per vedere se qualche rimasuglio di bestia morta, o qualche avanzo di pasto di bestia vi si trovasse, e trovatone, se gli mangiavano. Spesso chi si corcava vivo la sera, era trovato morto la mattina, i fanciulli più frequentemente degli attempati. Accusavano i padri la tarda morte, ed alcuni con le proprie mani violentemente se la davano. Ciò facevano i cittadini, ciò facevano i soldati. Dei Francesi alcuni, anteponendo la morte alla fame, da per se stessi si ammazzavano, altri le armi a terra sdegnosamente gettavano protestando non più esser abili, per la perduta forza, a portarle. Altri una disperata dimora abbandonando, nel nemico campo se ne andavano, Inglesi ed Austriaci di quella pietà, e di quei cibi richiedendo, che tra Francesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo poi, ed oltre ogni dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri di guerra Tedeschi ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la necessità ultima delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di sorte alcuna già da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le scarpe loro, mangiarono le pelli dei soldateschi zaini; già con occhi torvi guardavano, se non avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne a tale che si tolsero loro le guardie Francesi, perchè si temette, che sforzati dal famelico furore non si avventassero contro a loro, e sbranatele, non se le divorassero. Tanta era la disperazion loro, che tentarono di forar le barche per andar a fondo, amando meglio perire affogati dalle acque, che straziati dalla fame. S'aggiunse, come accadde, alla orrenda fame la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le genti all'altra vita con morti spessissime si portavano sì negli ospedali del pubblico, sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei superbi palazzi dei ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i generi delle morti: chi moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla febbre, chi pallido per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per petecchiali macchie. Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi viveva, o aspettava la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato della una volta ricca ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore era questo, che il soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile suo nè per la libertà, nè per l'independenza.

Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè aveva la mente fissa nel pensiero di ajutar l'impresa del consolo, e di serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare quei sozzi e velenosi cibi, che per due giorni tanta era l'estremità del vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che da vinto. Si accordarono (volle Massena, che l'accordo s'intitolasse convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi uffiziali e soldati in numero circa di ottomila, liberi della fede e delle persone loro; per la via di terra potessero ritornare in Francia, e chi non potesse per terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo, o nel golfo di Juan; i prigionieri Tedeschi si restituissero; nissuno potesse essere riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova a dì quattro giugno si consegnasse alle forze Austriache ed Inglesi. Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna, le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit, possessione ottenuta per lunga guerra, poi fatta breve per grossa guerra. I democrati più vivi se ne andarono coi Francesi, fra gli altri Morando, l'abate Cuneo, l'avvocato Lombardi, i fratelli Boccardi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi gl'inni, accesersi i fuochi dei partigiani per amore, più ancora dagli avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza freno su quel primo fervor della fame, se ne morì: così chi non era morto per lunga inanizione, se ne moriva per improvvisa satolla. Vollero i trecconi e i rivenduglioli starsene sul tirato pei prezzi, a cagione dell'ingordigia del guadagno; ma il popolo infuriato diè loro una tal mano, che presto s'accorsero, che male si stimola la fame. Pruovaronsi i villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern posto a guardia della città da Otto, con militare imperio gli frenava. Creava il capitano Tedesco una reggenza imperiale e reale, a cui chiamava Pietro Paolo Celesia, Carlo Cambiaso, Agostino Spinola, Gian Bernardo Pallavicini, Gerolamo Durazzo, Francesco Spinola di Gian Battista, e Luigi Lambruschini. Frenava la reggenza le vendette prossime a prorompere, comandamento lodevole; veniva sul toccar le borse, comandamento inevitabile, ma crudele nella misera Genova. Del rimanente nissun cenno, nè da parte di Hohenzollern, nè da quella di Melas per l'independenza, nè per la rinstaurazione dell'antico governo; il che dava qualche sospetto. Ciò non ostante gli aristocrati gridavano “viva l'imperatore” per odio contro i democrati, siccome i democrati avevano gridato “viva Francia” per odio contro gli aristocrati; servi, ciechi e pazzi gli uni e gli altri, che non vedevano, che dai loro odj privati nasceva la ruina della patria, e la signorìa forestiera.

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