LIBRO VIGESIMO

SOMMARIO

Il consolo passa con ordine mirabile il gran San Bernardo, vince a Marengo, l'Italia superiore in suo potere. Governi provvisorj del Piemonte, di Genova e di Milano. Conclave in Venezia: assunzione del cardinal Chiaramonti al pontificato, e sua rinstaurazione in Roma. Arti di Buonaparte con lui. Malta presa dagl'Inglesi. Moti di Toscana. Nuova guerra tra Austria e Francia. Battaglia del Mincio tra Bellegarde e Brune, ritirata del primo. Passaggio del monte della Spluga eseguito con mirabile coraggio ed arte da Macdonald. Nuovi successi prosperi dei Francesi. Pace con Napoli, Austria e Spagna. Tutto il mondo, salvo l'Inghilterra, in concordia con Francia.

Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava, l'imperio d'Austria in Italia inclinava al suo fine. Aveva il consolo con maravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di riserva in Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia. Ma avendo Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli fu fatto abilità di condursi su quei campi, in cui tuttavia vivevano i segni e le memorie delle sue fresche vittorie; cosa, che gli era cagione di somma incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era sicuro di trovarvi forti aderenze. Adunque mentre lo sconsigliato Melas se ne stava martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia. Varj, molti, e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua impresa: soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse, generali esperti e valorosi, artiglierìe formidabili, cavallerìa sufficiente. Aveva apprestato per pascere i soldati sull'erme solitudini delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e giù secondo i casi le artiglierìe per quei sentieri rotti, stretti, ed ingombri di nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini sdrucciolevoli, che si usano in quei paesi per scendere dai nevosi gioghi. Nè questo fu il solo trovato di Buonaparte e di Marmont, che soprantendeva alle artiglierìe, per facilitar loro il passo per luoghi fino allora alle medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa di truogoli, tronchi di alberi grossissimi a fine di potervele posar dentro, come in un letto proprio, e per tal modo trasportarle a dorso di muli a traverso le montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per le necessità de' suoi fin oltre l'Alpi; poi si confidava nell'Italia. Per muovere le opinioni degl'Italiani aveva chiamato a se la legione Italiana capitanata da un Lecchi, la quale fuggendo il furore Tedesco per le rotte di Scherer, si era riparata in Francia, bella e buona gente. Per conoscere poi i luoghi, conduceva con se gl'Italiani, che più ne erano pratichi, e siccome l'intento suo era di varcare il gran San Bernardo, così si consigliava specialmente con un Pavetti di Romano in Canavese, giovane di natura molto generosa, e che camminava con molto affetto in queste bisogne della libertà.

Rammentava quindi il consolo, essendo gran maestro dell'allettare, che tornava in Italia per fondare in Cisalpina una regolata libertà, dar la pace a Napoli ed a Toscana, ristorar la religione, proteggere i preti, rimettere sul debito seggio il pontefice di Roma. A tutti poi parlava di pace, di umanità, di fin di mali, di un secolo che doveva incominciare a salute ed a felicità d'uomini. Passò per Ginevra: mostrovvisi tanto mansueto, e disposto a voler ridur le cose a forme buone e consentanee alle antiche, che gli aristocrati Ginevrini presi alle dolci parole, pigliarono animo a favellar dell'independenza, e della restituzione dell'antico stato, essendo a quel tempo Ginevra unita a Francia, e parte di lei; ma la cosa non allignò; che anzi rispose loro per forma che s'accorsero che se amava prendere, amava anche serbare. Poi tornò sulle mansuetudini, e che sarebbe contento morire, purchè la pace vedesse. Appariva sì mogio, sì pallido e sì macilento, che pareva a tutti, che stracco il corpo e l'animo per tante sue fatiche a pro di Francia e d'Europa, dovesse far tosto pace, se pure la voleva vedere. Poi lusinghevolmente procedendo, domandava di Saussure, di Bonnet, di Senebier; tacque di Rousseau. Disse, voler rimettere in onore le scienze e le lettere calpestate dalla guerra. Maravigliavansi i Ginevrini, vedendo tanto amore di dottrine pacifiche in un soldato, perchè non penetravano l'umore, nè si accorgevano, ch'egli, siccome quegli che voleva far andar il secolo a ritroso, il voleva secondare, finchè ne fosse padrone.

Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito il gran San Bernardo col fine di calarsi per la valle di Aosta nelle pianure Piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte consuonassero, e giunte al piano potessero e muovere i popoli a romore contro l'Austria, e congiungersi con lui a qualche importante fatto, aveva ordinato che il generale Thureau dalla Morienna e dall'alto Delfinato, pei passi dei monti Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre in quattromila soldati si calasse a Susa, e più oltre anche, secondo le opportunità, procedesse per dar timore al nemico intorno alla sicurezza di Torino, e per ajutare lo sforzo, ch'egli intendeva di fare sulle sponde della Dora Baltea. Al tempo medesimo comandava al generale Moncey, che pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con un'eletta schiera di circa dodicimila soldati, col pensiero di mettere a romore i paesi, che nelle parti superiori al piano di Lombardia si comprendono fra il Ticino e l'Adda. Parendogli altresì, che fosse necessario di turbar le contrade fra il Ticino e la Sesia, imponeva al generale Bethancourt, che facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi per Domodossola sulle sponde del lago Maggiore là dove, restringendosi, apre di nuovo l'adito alle acque correnti del Ticino. Siccome poi non ignorava quante e quali difficoltà ostassero al passo di un grosso esercito pel gran San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa cinquemila soldati, che passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a raccostarsi col grosso nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti insieme unite sommavano circa a sessantamila combattenti. Così il consolo tutta la regione dell'Alpi abbracciando, che si distende dal San Gottardo al monte Ginevra, minacciava invasione al sottoposto plano del Piemonte e della Lombardia. Dall'altra parte sperava che Massena, tenendo fortemente Genova, e Suchet la riviera, avrebbero trattenuto Melas, finchè egli potesse arrivare a combatterlo sui fianchi ed alle spalle. Magnifica, come abbiamo detto, e maravigliosa opera fu questa del consolo, ma che gli poteva venire rotta con grande precipizio, se Moreau avesse combattuto infelicemente sul Reno, o se Melas più accorto, o più attivo, o meglio informato fosse stato.

Lusingati con discorsi di umanità, di pace, e di civiltà quei Ginevrini tanto ingentiliti, se ne giva il consolo alla stupenda guerra. Erano le genti già adunate tutte a Martigny di Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del San Bernardo. Guardavano con maraviglia, e con desiderio quelle alte cime. Diceva loro Berthier, quartiermastro:

«Vincono i soldati Renani gloriose battaglie: contrastano gl'Italici con valore estremo ad un nemico sopravanzante di numero. Accendetevi, e riconquistate, emolandogli, oltre l'Alpi, quelle terre già testimonie del Francese valore. Soldati nuovi, ecco che suona il segno delle battaglie: ite, e pareggiate i veterani tante volte vincitori: da essi imparate a sofferire, da essi a superare le fatiche inseparabili della guerra. Vi segga sempre in mente questo pensiero, che solo col valore, solo colla disciplina si vincono le guerre. Soldati, Buonaparte è con voi; vien'egli a vedere i nuovi trionfi vostri: a Buonaparte pruovate, che siete sempre quegli uomini valorosi, che condotti da lui sì famoso nome e sì luminosa gloria acquistaste. La Francia, e la umanità di pace vi richieggono: voi pace alla Francia ed alla umanità con le forti destre date».

Questo parlare infinitamente infiammava quegli animi già da per se stessi tanto incitati e valorosi. Partivano il dì diciasette maggio da Martigny per andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere. Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carretti sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni, basti da bagaglie, basti da artiglierìe, impedimenti di ogni sorte, e fra tutto questo soldati affaticantisi, ed ufficiali affaticantisi al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i motti, gli scherzi, le piacevolezze alla Francese erano quelle poche, e gli Austriaci ne toccavano delle buone. Non a guerra terribile, ma a festa, non a casi dubbi, ma a vittoria certa, pareva che andassero. Il romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitari e da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto, al malagevole viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime, forre sassose, capi di valli sdrucciolenti si appresentavano; i carri, i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a braccia, sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano, e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto dai tuguri e dalle tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì allegra non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo. Inviolati, e pagati per ajuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna faceva un Francese, che tre Vallesani. Le parole e i motti, che i soldati dicevano a quella buona gente per la tardità delle opere e per le fogge del vestire, io non gli voglio dire. Così arrivavano i repubblicani a San Pietro, Lannes colla sua schiera il primo, siccome quello che per l'incredibile ardimento il consolo sempre mandava, lui non solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo, in cui pareva che la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio; perciocchè da San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dove è fondato l'eremo dei religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno, non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti e pieghevoli, su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi le artiglierìe grosse nei truogoli, i truogoli sugli sdruccioli, e dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui robusti e pratichi muli si caricarono. Così, se Jan Jacopo Triulzi montò, e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella stagione più rigida dell'anno le artiglierìe di Francesco primo, tirò Buonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli, e sulle bestie raunate a quest'intento. Seguitavano le salmerie al medesimo modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in quelle volte di ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le genti: chi era pervenuto all'alto, vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano. Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva il consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri, e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva un'arte eccellente, gl'induceva a star forti, ed a trovar facile quello, che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed incominciavano a scorgere l'adito, che in mezzo a due monti altissimi aprendosi, dà il varco verso la più sublime cima. Salutaronlo, qual fine delle fatiche loro, con giojose voci i soldati, e con isforzi maggiori intendevano al salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: “Di cotesto non vi caglia,”, rispondevano, “badate a salir voi, e lasciate fare a noi”. Stanchi, facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si rinfrancavano, e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino, pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci e nevi agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla religione: parlò di se e dei re modestamente, della pace bramosamente. I romiti buoni, che non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se tratto da quell'aria, da quella quiete, da quella solitudine, da quella scena insolita, si lasciasse, mutandosi, piegare a voler fare per affezione quello che faceva per disegno, io non lo so, nè m'ardirei giudicare; perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella pietà, e di quei monti, dall'altro tenacissima incredibilmente, e sprezzatrice dell'umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel benigno ospizio un'ora.

Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove l'Italico cielo incominciava a comparire. Fu difficile e pericolosa la salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè le nevi tocche da aria più benigna incominciavano ad intenerirsi, e davano mal fermo sostegno. Oltre a ciò la china vi era più ripida che dalla parte settentrionale. Quindi accadeva, che era lento lo scendere, e che spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le nevi, nelle profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti. Incredibili furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano. Impazienti del tardo procedere, ufficiali, soldati, il consolo stesso, scegliendo i gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si calavano sdrucciolando fino a Etrubles. Era un pericolo, e pure era una festa: tanto diletto prendevano, e tante risa facevano di quel volare, di quell'essere involti chi in neve grossa, e chi in polverìo di neve. Quelli che erano rimasti al governo delle salmerìe, arrivarono più tardi per gl'incontrati ostacoli. Riuniti a Etrubles, gli uni con gli altri si rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando verso le gelate e scoscese cime, che testè passato avevano, non potevano restar capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti avesse potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori d'inverno. Ammiravano la costanza e la mente del consolo, delle future imprese felicemente auguravano. Pareva loro, che a chi aveva superato il San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana. Intanto le aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si squagliavano, i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano e si rinverdivano. I veterani conquistatori riconoscevano quel dolce spirare: gridavano Italia: con discorsi espressivi ai nuovi la descrivevano: nei veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un mirabile desiderio di rivederla, e di vederla; la esperienza ricordava il vero, la immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva; le volontà diventavano efficacissime: già pareva a quegli animi forti ed invaghiti, che l'Italia fosse conquistata; solo pensavano alle vittorie, non alle battaglie.

La vittoria consisteva nella celerità; perciocchè quelli alpestri luoghi erano sterili, il passo del San Bernardo difficile, nè si doveva dar tempo a Melas di arrivare al piano prima che l'esercito vi arrivasse. Importava altresì che il romore già sparso della ritornata dei Francesi non si rallentasse. Perciò il consolo si calava tostamente per le sponde della Dora, e con assalti di poca importanza dati all'antiguardo condotto da Lannes, mandato avanti a speculare il sito del paese, s'impadroniva facilmente della città d'Aosta e della terra di Chatillon. Ma un duro intoppo era per trovare nel forte di Bard posto sopra un sasso eminente, che, come chiave, serra la strada in quella stretta gola, che quivi forma, restringendosi, la valle. Aveva Pavetti proposto facile al consolo l'oppugnazione di questa rocca, essendo in lui sommo desiderio, che i Francesi passassero per la valle d'Aosta, acciocchè il suo paese fosse il primo ad essere restituito, come credeva, a libertà. Ma il fatto pruovò, che un umile sasso poteva divenire ostacolo ad una gran fortuna. Fatta la chiamata, rispose coraggiosamente il Tedesco, non voler dare la fortezza. S'avvicinarono i Francesi: entrarono facilmente nella terra di Bard, posta sotto al forte; poi andarono all'assalto; ricevuti con ferocia, abbandonarono l'impresa. Rinnovarono parecchie volte la batteria, ma sempre con poco frutto. Si sdegnavano i capi, e di un'infinita impazienza si travagliavano nel vedere, che una piccola presa di gente, poichè il presidio non sommava che a quattrocento soldati, ed un'angusta roccia interrompessero il corso a tante vittorie.

Pareva loro troppo grave ed insopportabil cosa, che un piccolo Bard arrestasse coloro, cui non avevano potuto arrestare nè la poderosa Mantova, nè i ghiacci eterni dell'enorme San Bernardo. Sapevano che il loro movimento era presentito al piano, e che Melas, lasciata l'inutile impresa del Varo, con presti passi accorreva per puntellare la fortuna pericolante. Nè la valle d'Aosta, sterile e povero paese, era abile a pascere tante genti, massime in quel caso non preveduto: già sorgevano i primi segni della penuria. Pensavano al rimedio, e nol trovavano. Batterono la rocca dalle case della terra, batterono con un cannone tirato sul campanile. Ma essendo il luogo ben difeso, e di macigno, non facevano frutto. Avvisarono, se potessero passare, continuando il forte in possessione dell'inimico. S'innalzava con irregolari gioghi a sinistra della terra di Bard il monte Albaredo, che dai superiori luoghi domina la fortezza, negl'inferiori ne è dominata. Fecero i Francesi, essendo primo autore di questo consiglio Berthier, pensiero di trovar passo per questo monte. In men che non fa due giorni, cavarono gradi nei siti più duri ed erti, alzarono parapetti sugli orli dei precipitosi, gittarono ponti sui precipizi per modo che fu loro aperta la strada al passare, oltre il tiro dei cannoni della fortezza. Fu quest'opera molto maravigliosa, e degna di essere raccontata nelle storie. Gli uomini sicuramente varcavano. Restavano le artiglierìe e gl'impedimenti, che non potevano avviarsi per una strada tanto ripida e stretta. Lannes, che già era arrivato sino ad Ivrea, correva pericolo di essere assalito dagli Alemanni, mentre ancora era privo delle artiglierìe, armi tanto necessarie nelle battaglie dei nostri tempi. Un nuovo assalto dato al forte dal pertinace consolo, aveva avuto sinistro fine. Grave pericolo sovrastava, perchè i tempi non pativano indugio, quando Marmont si avvisava di un nuovo stratagemma. A fine d'impedir il rumore dei carretti, distendeva letame per la contrada principale di Bard, avviluppava con istrame i cerchi delle ruote, e tirando alla dilunga, velocemente e di notte tempo operava, che le artiglierìe riuscissero felicemente oltre alla terra. S'accorgeva il castellano dell'arte usata dagli avversari, e folgorava con grandissimo furore fra il buio della notte; ma la oscurità da una parte, la celerità dall'altra furono cagione, che i repubblicani patirono poco danno in questa straordinaria passata: con tutte le armi allestite e pronte si apprestavano ad inondare il Piemontese dominio. Poco stante Chabran divallatosi dal piccolo San Bernardo costringeva alla dedizione il comandante di Bard, salvo l'avere e le persone, e con fede di non militare sino agli scambi.

Mentre a questo modo il grosso dei soldati di Francia sboccava per Ivrea, non erano state oziose le genti più lontane, anzi concorrendo dal canto loro all'adempimento del principale disegno, erano pervenute ai luoghi ordinati dal consolo. Era Bethancourt sceso dal Sempione, e fattosi padrone di Domodossola. Moncey venuto a Bellinzona accennava a Lugano, ed alle sponde del Ticino e dell'Adda. Thureau poi più prossimamente romoreggiando alla capitale del Piemonte, era comparso a Susa, e camminando più avanti, si era mostrato ad Avigliana, avendo fatto una buona presa di Austriaci, che si erano pruovati a serrargli il passo dall'erto ed eminente sito, sul quale stava, prima della guerra, fondata la fortezza inespugnabile della Brunetta. Tale tempesta da tutte parti sovrastava, per l'invitto pensiero del consolo, a quel tratto di paese, che si comprende fra la Dora riparia e l'Adda. Ma il principale sforzo sorgeva da Ivrea. Si proponeva il consolo di marciare a stanca celeremente per arrivar più presto, che per lui si potesse, a Milano. Confidavasi, nè senza ragione, di trovar quivi seguito, viveri e ricchezze; e siccome sopraggiungeva improvviso, così sperava di poter sorprendere e sopraffare i corpi sparsi degli Austriaci, che a tutt'altra cosa pensavano fuori che a questa. Aveva anche fondamento di credere, che gli sarebbe venuto fatto, accostandosi all'Adige, di tagliar fuori Melas dal suo sicuro ricetto del Tirolo. Molto bene considerate erano queste cose, e meglio ancora fu quella di mandar Lannes verso Chivasso, per indurre in Melas la persuasione, ch'ei fosse per far impeto contro Torino. Ordito in tal modo il disegno, lo mandava ad esecuzione. Temendo gli Autriaci di Torino, avevano accostato un antiguardo al ponte della Chiusella, a dirittura del quale avevano piantato quattro bocche da fuoco per non lasciar guadagnare questo passo al nemico. Essendo questo ponte molto stretto e lungo, dura impresa era il superarlo. Avvicinatosi Lannes, ordinava ai più valorosi, il passassero velocemente. Fecerne pruova; ma i cannoni Tedeschi fulminarono sì furiosamente a scaglia, e dai fianchi i feritori leggieri tempestarono con sì fatta grandine, che i Francesi tornarono indietro laceri e sanguinosi. Nuovamente cimentatisi, nuovamente perdevano. Rinnovò due altre volte la pruova Lannes, e due altre volte ne uscì colla peggio. Ostinavasi, ma non aveva rimedio. Pavetti allora, che ottimamente conosceva i luoghi, perchè la battaglia si commetteva quasi sotto alle mura di Romano, sua patria, fece accorto il generale di Francia, che a sinistra del ponte era un passo facilmente guadoso, offerendosi di condurre egli medesimo la fazione. Guadò con felice ardimento il fiume: si mostrava improvviso sulla destra del nemico; diè mano a bersagliarlo aspramente; restava mortalmente ferito dalle sue armi l'Austriaco Palfi, che vicino al ponte se ne stava animando i suoi. Questo accidente diè cagione di vincere ai Francesi, perchè gli Austriaci sforzati a dar indietro, lasciarono libero il passo del ponte. Rannodaronsi col retroguardo sull'altura di Romano, e vollero far testa; ma assaliti dai Francesi cresciuti d'animo e di forza, abbandonarono il campo. Nè miglior esito ebbe uno sforzo fatto da Keim con la cavalleria, nel piano che si frappone tra Romano e i colli di Montalenghe; onde fu aperta la strada a Lannes fino a Chivasso, dove trovò conserve considerabili di vettovaglie, opportuno ristoro alle sue stanche genti. Avendo conseguito Lannes l'intento di far correre Melas a Torino, volgeva improvvisamente le insegne a mano manca, e camminava con passo accelerato a seconda della sinistra del Po alla volta di Pavia. Tutto lo sforzo dei Francesi accennava a Milano. Marciavano Murat, Boudet e Victor contro Vercelli; marciava sull'istessa fronte più basso Lannes, e superiormente spazzava il paese la legione Italiana di Lecchi, che da Chatillon di Aosta per la via di Grassoney camminando, era venuta a Varallo, poi ad Orta, donde aveva cacciato il principe di Loano, che vi stava a presidio con una mano di Tedeschi. Tutta questa fronte di un esercito bellicoso, spingendosi avanti, guadagnava Vercelli, dove passava la Sesia: poi contrastava invano Laudon, che era accorso, entrava in Novara, e s'apprestava a varcar il Ticino. L'ala sinistra intanto s'ingrossava per essersi Lecchi congiunto a Sesto Calende con Bethancourt disceso da Domodossola. Laudon postosi a Turbigo intendeva ad impedire il passo del fiume; ma Murat, che guidava l'antiguardo, dato di mano a certe barche lasciate a Galiate, guadagnava la sinistra sponda, e cacciava da Turbigo, non senza però qualche difficoltà, il generale Tedesco. Al tempo medesimo la sinistra ala si rinforzava vieppiù per la giunta delle genti di Moncey, che venute sui laghi di Lugano e di Como, avevano incontrato Lecchi a Varese. Per queste mosse ottimamente eseguite, come erano state ottimamente ordinate, già era la capitale della Lombardia posta in potestà dei Francesi. Entrava in Milano il dì due di giugno con le più elette schiere Buonaparte vincitore. Io non sono per raccontare le allegrezze che vi si fecero, perchè nelle rivoluzioni il governo ultimo è sempre stimato il peggiore, il nuovo il migliore. Nè la signoria dei Tedeschi vi era stata mansueta, non perchè troppo grave fosse di sua natura, salvo i confinati alle bocche di Cattaro, ma perchè avendo voluto rimettere del tutto le cose nello stato pristino, aveva turbato infiniti interessi ed opinioni. Eransi i reggitori persuaso, che fosse impossibile che i Francesi tornassero; e però a seconda di questa credenza governandosi, prepararono le occasioni ad altre rivoluzioni.

Riordinava Buonaparte la Cisalpina repubblica. Volle, che i riti della religione Cattolica pubblicamente si celebrassero, e la religione si rispettasse, e chi il contrario facesse, severamente, anche colla pena di morte, se il caso il richiedesse, fosse punito; che fossero salve le proprietà di tutti, che i fuorusciti rientrassero, che i sequestri si levassero, che le cedole del banco di Vienna si abolissero, e valor di moneta più non avessero. Lasciati in Milano questi fondamenti della sua potenza, applicava di nuovo i pensieri alla guerra, che quantunque bene principiata fosse, non era ancor terminata. Melas sulla destra del Po si conservava tuttavia intiero, nè sapeva il consolo ancora, che Massena fosse stato costretto a cedere in Genova alla fortuna dei confederati. Per questo motivo, credendosi più sicuro di quanto egli era veramente, aveva fatto correre da' suoi il Lodigiano, il Cremonese, il Bergamasco, il Cremasco, nei quali paesi erano stati veduti con molta contentezza: poi suo intento era di passare subitamente il Po; ed in questo modo mozzare a Melas ogni strada al ritirarsi. Lannes frattanto, per una subita correria, aveva preso Pavia: trovovvi munizioni abbondanti da bocca, e quantità considerabile di armi.

Melas, che per la perdita di Milano aveva conosciuto, quanto la sua condizione fosse pericolosa, ed il nemico forte, avvisandosi che il suo scampo non poteva più venire se non da una battaglia risoluta, e da una vittoria piena, voleva tirar la guerra nei contorni di Alessandria, per cagione dell'appoggio che quivi aveva della cittadella, e del forte di Tortona. Venuto adunque in Alessandria, chiamava a se Esnitz arrivato dalla riviera, mandava Otto divenuto libero per la dedizione di Genova, a Piacenza, affinchè s'ingegnasse d'impedire il passo del fiume ai Francesi. Ma Murat fu più presto di Otto; perchè, sebbene fortemente fosse combattuto, passava, e s'impadroniva di Piacenza. Al medesimo punto Lannes varcava a Stradella; e si poneva a campo a San Cipriano. Otto ritirava i suoi a Casteggio ed a Montebello. Combattessi in questi due luoghi il dì nove giugno una battaglia asprissima, segno ed augurio di un'altra assai più aspra, più famosa, e più piena di futuri accidenti. Occupava Otto col grosso delle sue genti Casteggio, avendo piantato su certi colli a destra forti batterie, e collocato a sinistra più al piano i suoi cavalli. Una piccola squadra di ultimo soccorso stanziava a Montebello. Urtarono i Francesi condotti da Watrin con grandissimo impeto i Tedeschi, fu loro risposto con uguale costanza; vario fu per molte ore l'evento, perchè parecchie volte i repubblicani s'impadronirono dei colli eminenti a Casteggio, e parecchie volte ne furono risospinti. Finalmente gl'imperiali restarono superiori per opera massimamente della cavalleria, la quale sbucando da certe siepi, di cui si era fatta quasi una fortezza, aveva dato la carica al nemico. Watrin si ritirava rotto e sanguinoso, e sarebbe stata perduta la battaglia pei Francesi, se non fossero sopraggiunti battendo, e mandati da Lannes i generali Chambarlhac e Rivaud. Venendo quest'ultimo a parte della mischia, frenava l'impeto dei vincitori, ed incuorando i soldati di Watrin gli menava di nuovo contro il nemico insultante: pure si difendevano i Tedeschi ostinatamente. In questo fortunoso punto arrivava con una grossa squadra di buoni soldati Lannes, ed entrando impetuosamente, come sempre soleva, nella battaglia, sforzava il nemico a piegare, e cacciandolo del tutto da Casteggio, l'obbligava a ritirarsi a Montebello. Quivi Otto più fiero di prima rinnovava la battaglia, e faceva di nuovo le sorti dubbie; che anzi le sue già principiavano a prevalere, quando Buonaparte, che era sopraggiunto, ordinava a Victor, caricasse con sei battaglioni la mezzana schiera del nemico. In questo punto divenne furiosissimo l'incontro, perchè gli Austriaci difendevano il ponte con numerose artiglierìe che buttavano a scaglia, ed i Francesi con le bajonette andavano alla carica per ispuntargli. Durò un pezzo questo combattimento di fuoco e di ferro: si vedeva che i soldati di Otto stavano alla dura molto fortemente. All'ultimo arrivarono sugli estremi del campo i generali Geney e Rivaud, e fecero inclinare la fortuna in favore di Francia, perchè per le mosse loro si trovava Otto quasi circondato da ogni banda. Si ritirava in Voghera, lasciato un presidio di circa mila soldati nella fortezza di Tortona. Morì in questo fatto, e fu presa gran gente agli Austriaci, ma la metà meno di quanto portarono gli scritti di Berthier. Morì anche gran gente ai Francesi; e poco meno che agli Austriaci; pochi restarono prigionieri. Questa fu la battaglia di Casteggio, che durò dalle sei della mattina sino alle otto della sera.

Superata l'asprezza dell'Alpi con arte e costanza, corsa la Lombardia con prestezza, fatto risorgere il nome di Cisalpina in Milano, sollevati a gran cose gli animi dei popoli con una impresa inusitata, restava che per una determinativa battaglia i presi augurj si adempissero, e si confermasse in Buonaparte il supremo seggio di Francia, e l'imperio assoluto d'Italia. Assai presto fu l'acquisto di questo paese fatto da Kray, Suwarow, e Melas: restava che si vedesse, se il capitano di Francia non fosse abile a riconquistarlo più presto ancora. Aveva Melas, come abbiam narrato, raccolti i suoi nel forte alloggiamento tra la Bormida ed il Tanaro sotto le mura d'Alessandria. Grosso di circa quarantamila soldati, fornitissimo di artiglierìe, fiorito di cavallerie sceltissime, provvisto di veterani, era molto abile a combattere di tante sorti. Nè mancava in lui l'ardire, o l'arte, nè la memoria delle recenti vittorie. Sapeva altresì, di quanto momento fosse la battaglia che soprastava.

Dall'altra parte il consolo combatteva su quelle Italiche terre, già piene di tanta sua gloria; i suoi ufficiali giovani, confidenti e valorosi con incredibile ardimento anelavano al confermare i gloriosi destini di Francia; i soldati, alcuni veterani, molti nuovi non avevano tanto uso di battaglie quanto i Tedeschi, ma l'ardore e la confidenza supplivano a quanto mancasse all'esperienza. Di numero erano inferiori agli avversari, e di cavallerìe, e di artiglierìe. Giravano adunque assai dubbie le sorti. Melas, ancorchè fosse sorpreso da tanta e sì improvvisa piena, e vinto alla Chiusella ed a Casteggio, pareva non ostante possedere maggiore probabilita della vittoria. Nè si potrebbe bastantemente lodare l'arte e la prestezza, colle quali, quando ebbe piena contezza dell'intento del consolo, aveva adunato il suo esercito nei campi d'Alessandria. Doveva il consolo presumere, perchè non ignorava che l'avversario aveva fortificato con trincee ed artiglierìe le rive della Bormida, e scelto luogo propizio al combattere, che appunto in quel campo volesse dare la battaglia. Pure avvisando, certamente contro ogni probabilità, che Melas volesse ritirarsi verso Genova, aveva mandato il generale Desaix, testè arrivato dall'Egitto, a Rivalta sulla strada per Acqui; che anzi questi, obbediente ai comandamenti, già aveva spinto la schiera di Bondet più vicino ad Acqui. Grave errore fu questo, perciocchè ei doveva rannodarsi, non ispartirsi, trovandosi col nemico sì vicino e sì grosso; per lui stette ad un punto, che tutta la fortuna di Francia perisse nei campi di Marengo. Oltre a ciò, e per una risoluzione nè ragionevole nè sana, aveva mandato la schiera di Monnier, che con quella di Boudet componeva l'ala sinistra governata da Desaix, a Castelnuovo di Scrivia, per modo che tutta quest'ala si trovava spartita e scomposta in un momento di tanta importanza. Occupava Melas con un antiguardo il villaggio di Marengo posto oltre Bormida nella vicinanza d'Alessandria. Il consolo, fattolo assaltare da Gardanne, lo recava in suo potere, avendo i Tedeschi fatto astutamente debole resistenza. Il quale accidente avrebbe dovuto far accorto Buonaparte, che pensiero di Melas non era di girsene lontanamente a Genova, ma bensì di cimentar la fortuna vicino ad Alessandria. Tuttavia, essendo tenacissimo ne' suoi concetti, persisteva nel credere che i Tedeschi volessero incamminarsi verso la Liguria. Finalmente gli esploratori, che gli recavano le novelle da Rivalta e dalle rive del Po, il tolsero d'inganno, certificandolo che la gran lite era per deffinirsi nell'Alessandrino, non nella Liguria. Ordinava a Boudet ed a Monnier, che prestamente si ricongiungessero coll'esercito principale: pure trovandosi già lontani, potevano arrivare a sorte terminata.

Il dì quattordici giugno alle cinque della mattina Melas varcava, fulminando, l'augurosa Bormida. Esnitz coi fanti leggieri, e col maggior nervo delle cavallerìe, muovendosi a sinistra degli imperiali, marciava contro Castel-Ceriolo per la strada che porta a Sale, perchè intento del generalissimo Austriaco era di riuscire alle spalle dei Francesi da quella parte per tagliargli fuori da Pavia e da Tortona, donde avevano corrispondenza con l'altre loro genti alloggiate sulla sponda sinistra del Po. Keim, coi soldati di più grave armatura muoveva l'armi contro il villaggio di Marengo, per cui passa la strada per Tortona; quest'era la schiera di mezzo. Una terza, che era la destra sotto la condotta di Haddick con un grosso di granatieri ungari guidati da Otto, doveva fare sforzo, seguitando la destra sponda della Bormida all'insù, per riuscire a Fregarolo, e consentire verso Tortona con la mezzana. Si prevedeva, e quest'era il pensiero delle due parti, che si sarebbe conteso massimamente della possessione di Marengo, perchè quello era il sito, alla conservazion del quale indirizzavano i Francesi tutti i loro movimenti. Precedeva le camminanti squadre d'Austria un apparato formidabile di artiglierìe, che furiosamente tuonando significavano, quanto duro e quanto micidiale fosse per essere l'incontro. A tanto impeto non erano i Francesi pari in quel primo tempo della battaglia, perchè Monnier si trovava lontano a destra, Desaix a sinistra, per improvvidenza del consolo.

Adunque tutte le difese loro consistevano nella schiera di Victor, che occupava assai grossa Marengo, ed in quella di Lannes, che aveva la sua sede a destra della strada di Tortona. A queste genti si aggiungevano circa novecento soldati della guardia del consolo, i cavalli condotti dal giovane Kellerman, quei di Champeaux, e finalmente quelli di cui aveva il governo Murat: i primi facevano spalla ai fanti di Victor, i secondi a quei di Lannes, ed in ultimo i terzi posti sulla punta estrema a destra di tutta la fronte, custodivano la strada che accenna a Sale. Così l'ordinanza dei Francesi partendo dalla Bormida, e da lei scostandosi obliquamente, e passando per Marengo, si distendeva sin verso a Castel-Ceriolo. Keim incontrava Gardanne mandato da Victor a Pietrabuona, piccolo luogo posto tra Marengo e la Bormida, e con una forza prepotente lo prostrava. Si ritiravano disordinatamente le reliquie verso Marengo. Sarebbero anche state intieramente circondate e prese se Victor non avesse tosto mandato Chambarlhac a riscattarle. Vennero avanti i Tedeschi, ed ingaggiarono con Victor una battaglia orribile: commiservi ambe le parti fatti di stupendo valore. Piegò finalmente la fortuna in favor di coloro, che avevano più numerose genti, e più fiorite artiglierìe: entrava vittoriosamente Keim in Marengo. Non per questo si era Victor disordinato; che anzi grosso, intiero e minaccioso novellamente si schierava dietro a Marengo. Venne a congiungersi con lui sulla destra sua punta Lannes, il che fece rinfrescare la battaglia più feroce di prima. S'attaccò Keim con Lannes, Haddick con Victor, e chi considererà la natura sì di quei generali, come di quei soldati, si persuaderà facilmente, che mai in nissuna battaglia sia stato speso più valore e maggior arte, che in questa. Secondava potentemente l'urto di Lannes contro Keim Champeaux co' suoi cavalli, nella quale mischia gravemente ferito passò di questa vita alcuni giorni dopo. Kellermann con la sua squadra ajutava anche efficacemente Victor, cariche a cariche continuamente aggiungendo e moltiplicando. Ciò non ostante Victor, per essere entrato nella battaglia il primo, e per avere Gardanne molto patito nell'affronto di Pietrabuona, stanco e diradato cedè finalmente il luogo, e si ritirò, quanto più potè prestamente, e non senza qualche moto disordinato, a San Giuliano. Lannes allora nudato sul suo sinistro fianco dell'appoggio di Victor fu costretto rinculare ancor esso; il che diè cagione a Keim di guadagnare vieppiù del campo, e di credersi sicuramente in possessione della vittoria. Frattanto Esnitz coi fanti leggieri aveva occupato Castel-Ceriolo, e coi cavalli si andava allargando col pensiero di mostrarsi alle spalle delle due schiere repubblicane, che indietreggiavano; il quale disegno, se avesse avuto effetto, dava senza dubbio alcuno la vittoria agl'imperiali.

Solo rimedio a tanto pericolo aveva il consolo nei novecento soldati della sua guardia, e nei cavalli di Murat, certamente non capaci a far fronte alla numerosa cavallerìa di Esnitz. Mandava adunque avanti i novecento. Qui io non so, se più mi debba lodare l'opera loro, o biasimare quella di Esnitz. Fatto sta che l'Alemanno, quantunque gli avesse circondati da ogni banda, non gli potè mai rompere, o che egli non abbia fatto tutto quello che poteva, o che i novecento abbiano fatto più di quello che potevano. Avrebbe potuto Esnitz, se l'avesse voluto, tanto era forte pel numero delle sue truppe leggieri, sicuramente lasciarne una piccola parte contro questa consolare guardia, e gittarsi con l'altra a furia dietro le cedenti squadre di Francia. Ma neanco questo fece, ostinandosi a combattere con tutte le sue genti contro piccola parte di quelle del nemico. Questa mollezza, o errore di Esnitz, e questo valore dei consolari diedero comodità a Monnier di arrivare da Castel Nuovo, donde chiamato dal consolo veniva a prestissimi passi. S'incontrava arrivando nelle genti di Esnitz; sebbene elleno da tutte le parti il circondassero, si aperse la strada, ajutato gagliardamente dai consolari. Il generale Cara-San-Cyr, cacciati i Tirolesi da Castel-Ceriolo, se ne faceva padrone, e tostamente con tagliate e barricate vi si affortificava. Dievvi dentro Esnitz per ricuperarlo, e non gli venne fatto: pure la fortuna il favoriva, perchè aveva in questo punto obbligato alla ritirata i consolari, e l'altra parte dei soldati di Monnier. Ma invece di seguitare alla dilunga i cedenti, si ostinava all'acquisto di Castel-Ceriolo. Cara-San-Cyr sempre il respinse, e tanto il tenne lontano, che ora Cara-San-Cyr fu salvamento de' suoi, come prima erano stati i novecento; questi diedero tempo nella pertinace resistenza loro a Monnier di arrivare, egli il diede a Desaix. Melas in questo mezzo tempo, volendo usare l'occasione favorevole, che la fortuna gli parava davanti, aveva spinto innanzi la sua ala destra, massimamente i cinque mila Ungari, affinchè andassero a disfare quella nuova testa che i Francesi mostravano di voler fare a San Giuliano. Pareva che a quest'effetto bastassero Keim vincitore, ed Esnitz mezzo vinto e mezzo vincitore. Ma per assicurarsi meglio del fatto, e per provvedere ai casi dubbj che Desaix, arrivando, avrebbe potuto arrecare, mandava di lungo spazio avanti i cinquemila, dei quali come di corpo autore di vittoria, aveva preso il governo Zach, quartiermastro di tutto il campo Austriaco.

Erano le cinque della sera: già da più di dieci ore si combatteva: gli Austriaci vincitori si rallegravano; tenue speranza, e solo in Desaix rimaneva ai Francesi di risorgere. Gli Alessandrini credevano avere Austria già del tutto vinto, siccome quelli che spaventati in sul mattino dal rimbombo di tante armi, l'avevano poscia udito allontanarsi appoco appoco, per modo che alla fine niuno, o debole suono di battaglia perveniva agli orecchi loro. Il consolo stesso disperava, nè mostrò in questo punto della battaglia mente serena, od animo costante, o modo alcuno degno di colui che aveva concetto il mirabile disegno di questa seconda invasione d'Italia. Solamente, e già quasi privo di consiglio stava agognando l'arrivo di Desaix. Mentre fra molto timore e poca speranza si esitava, ecco arrivare al consolo le novelle, che la prima fronte della Deseziana schiera compariva a San Giuliano. Riprese subitamente gli spiriti: altr'uomo che egli in fortuna quasi disperata, come era quella, in cui si trovava, si sarebbe servito della forza che arrivava, solamente per appoggio alla ritirata; ma l'audace ed onnipotente consolo la volle usare per rinnovar la battaglia e per vincere. Metteva l'esercito in nuova ordinanza per modo che da Castel-Ceriolo obliquamente distendendosi sino a San Giuliano, alloggiava Cara-San-Cyr sul luogo estremo a destra, poi a sinistra verso San Giuliano procedendo Monnier, quindi Lannes, poi finalmente in quest'ultima terra a cavallo della strada per a Tortona Desaix. I cavalli di Kellerman a fronte, e fra Desaix e Lannes avevano il campo. Non avendo fatto Esnitz co' suoi fanti e cavalleggieri contro l'ala destra dei Francesi quell'opera gagliarda, e quel frutto che Melas aspettava da lui, aveva il generalissimo d'Austria mandato i cinquemila Ungari condotti da Zach contro l'ala sinistra, sperando che questo nodo di genti fortissime l'avrebbe potuta rompere, e tagliarle la strada verso Tortona.

La colonna di cinquemila, in cui si conteneva tutto il destino della giornata, in se medesima ristretta, baldanzosamente marciava contro i Deseziani. Desaix, lasciatala approssimare senza trarre, quando arrivò a tiro, la fulminò con le artiglierìe, che Marmont aveva collocato sulla fronte, poi scagliava contro di lei tutti i suoi. A quel duro rincalzo attoniti sulle prime si fermarono gli Ungari: poi ripreso nuovo animo, qual mole grossa, ed insuperabile, marciavano. Nè le genti Francesi, siccome più leggieri, quantunque tutto all'intorno vi si affaticassero, gli potevano arrestare. Era questo un caso simile a quello di Fontenoy. Desaix, che punto non si era sbigottito a quel pericolo, postosi a fronte de' suoi, stava sopravvedendo il paese per iscoprire, se gli accidenti del terreno gli potessero offrire qualche vantaggio, quando ferito in mezzo al petto da una palla d'archibuso, si trovò in fin di morte. Disse queste ultime parole al giovane Lebrun, figliuolo generoso di generoso padre: «Andate, e dite al consolo, che me ne muojo dolente di non aver fatto abbastanza per vivere nella memoria dei posteri». Sottentrava al governo, in vece di Desaix, Boudet. Non si perdè questi d'animo per sì amaro caso, non si perdettero d'animo i suoi soldati; che anzi stimolando quegli uomini già di per se stessi valorosi il desiderio di vendetta, con incredibile furia si gettarono addosso ai cinquemila. Nè gli Ungari cedevano: era un combattere asprissimo e mortalissimo. Già piegavano i repubblicani, disperate parevano le sorti; volle fortuna, che la salute di Francia nascesse prossimamente dall'estrema rovina. Era Kellermann destinato dai cieli al gran riscatto. Effettivamente, mentre Boudet instava ancora da fronte, quantunque rinculasse, Kellermann assaltava con tutto il pondo de' suoi cavalli il sinistro fianco dell'Ungara mole, e siccome quella che era spartita in manipoli, tra l'uno e l'altro ficcandosi, totalmente la disordinava. Snodata, perduti gli ordini, tra se medesima e coi francesi intricata e ravviluppata, non le restava più nè disegno nè modo di difendersi. Laonde, insistendo sempre più valorosamente contro di essa Kellermann, e tornando alla carica Boudet rianimato dal favorevole caso, fu costretta a darsi intiera, deposte le armi, al vincitore. Così quello che non avevano potuto fare nè le fanterìe, nè le artiglierìe, fecero le cavallerìe, al contrario di quanto successe in Fontenoy, dove le artiglierìe fecero quello che le fanterìe, e le cavallerìe non avevano potuto operare. Commise, siccome pare, grave errore Zach nello essersi troppo innoltrato fra le schiere Francesi; il che fu cagione, che quando fu sì aspramente assalito, gli altri squadroni non furono a tempo di soccorrerlo; ma troppo era confidente della vittoria. Il sinistro caso degli Ungari fe' superar del tutto la fortuna dei Francesi; perchè spingendosi avanti, si serrarono addosso ai nemici privi di quel principale sostegno, e gli costrinsero alla ritirata, con grave sbaraglio ed uccisione. Pensò tostamente Melas a far dare il segno della raccolta per andarsi a ritirare vinto là, dond'era la mattina partito con tanta speranza di vincere: solo fece una testa grossa a Marengo per dar tempo alle ritirantisi squadre di arrivare. Ricoverossi oltre la Bormida: riassunsero i Francesi gli alloggiamenti, che avevano occupati prima della battaglia. Morirono degl'Imperiali meglio di quattromila soldati, tutti forti e veterani, che avevano veduto le guerre d'Italia; furono feriti settemila, vennero prigionieri in poter del vincitore circa ottomila. Mancarono dei Francesi tremila uccisi, quattromila feriti: pochi restarono cattivi, perchè i più quando fu vinta improvvisamente la giornata, furono liberati dai compagni.

Questa battaglia, che cambiò le sorti d'Europa, e la fece andare pel medesimo verso per quattordici anni, fu piuttosto guadagnata dai Francesi che da Buonaparte, avendo essi col valore loro emendato gli errori del capitano. Principali operatori della vittoria furono Cara-San-Cyr per aver preso e conservato Castel Ceriolo, Victor per aver fortemente combattuto a Marengo contro Keim, Boudet per avere opposto un duro intoppo alla mole Ungara, finalmente, e sopratutto quell'accorto e prode Kellermann, che usando il momento opportuno, non dubitò di dar dentro co' suoi cavalli a quella massa intera e grave, che solo col peso pareva, che fosse per prostrare quanto le si parasse davanti. Si rallegravano i compagni del glorioso fatto con lui, ma venuto in cospetto del consolo, questi con la solita aria di sussiego e superiorità parlando nè informandosi punto di quanto era successo, gli disse: “Avete dato anzi una bella carica che no”. Sdegnato il giovane guerriero, rispose: “Bene godo che la prezziate, giacchè vi mette la corona in capo”. Il consolo, che non amava l'essere scoperto prima che si scoprisse egli, l'ebbe per male, e sempre dimostrò l'animo alieno dal figliuolo del maresciallo, non avendolo mai nè onorato nè promosso quanto meritava.

Dall'altra parte aveva Melas ottimamente ordinato i suoi alla battaglia, e l'ordine suo pare a noi, che in nissun modo riprendere si possa. Debbesi principal lode di valore a Keim, che ruppe, e costrinse prima Victor, poi Lannes alla ritirata: ebbe merito di valore Zach, ma biasimo d'imprudenza, e di troppa confidenza nello essersi spinto troppo avanti. Quanto ad Esnitz, e' non pare che abbia fatto tutto quello che Melas gli aveva commesso, e che si era promesso di lui. Ostinossi in dare assalti a piccoli corpi, ed a piccole terre forti e munite, il che non è debito delle truppe armate alla leggiera, e non corse la campagna ai fianchi ed alle spalle del nemico; il che era debito delle truppe di tal sorta, e ne aveva carico da Melas.

Rimaneva ancora, dopo la battaglia, al generalissimo d'Austria forza bastante per resistere lungo tempo nel forte sito, in cui si era riparato. Il quale consiglio avrebbe potuto tanto più facilmente mandar ad esecuzione, quanto più abbondando di cavallerìa aveva facoltà di correre il paese per raunar vettovaglie. Ma o che il terrore concetto per la recente rotta, o l'arti di Buonaparte, che continuamente protestava voler aderire ai patti di Campoformio, e ridurre i paesi dipendenti da lui a forma di governo più tollerabile e meno minacciosa pei principi, sel facessero, non si mostrò renitente, e chiese i patti. Furono gloriosi per la Francia, ingloriosi per l'Austria, stupendi per l'Europa. Sospendessersi, fino a risposta da Vienna, le offese; l'imperiale esercito se ne gisse a stanziare tra il Mincio, la Fossa Maestra ed il Po; occupasse Peschiera, Mantova, Borgoforte, e sulla destra del fiume Ferrara; medesimamente ritenesse la possessione della Toscana: il repubblicano possedesse il paese fra la Chiesa, l'Oglio e il Po: il tratto tra la Chiesa ed il Mincio fosse esente dai soldati d'ambe le parti: le fortezze di Tortona, di Alessandria, di Milano, di Torino, di Pizzighettone, d'Arona e di Piacenza si consegnassero ai repubblicani; Cuneo ancora, i castelli di Ceva e di Savona, Genova, ed il forte Urbano cedessero in loro possessione: niuno per opinioni dimostrate, o per servigi fatti agli Austriaci potesse essere riconosciuto o molestato; i Cisalpini carcerati per opinioni politiche si rimettessero in libertà: qual fosse la risposta di Vienna, le ostilità, se non dopo avviso di dieci giorni, non si potessero ricominciare; durante la tregua, niuna delle parti potesse mandar gente in Germania. Tali furono i patti conclusi in Alessandria: una vittoria Francese distrusse i frutti di venti vittorie Tedesche, o Russe. La tregua prolungata più volte di comune consenso di dieci in dieci giorni, fu finalmente per nuova ed espressa convenzione accordata fino ai venticinque novembre.

Buonaparte vincitore di Marengo aveva in sua mano le sorti d'Europa liete o tristi, la pace o la guerra, la civiltà o la barbarie, la libertà o la servitù dei popoli: gloria civile l'aspettava uguale alla guerriera; ma l'ultima, ed un desio fiero, ed indomabile di comandare, non lasciarono luogo alla prima, caso deplorabile per sempre. Fu ricevuto a Milano qual trionfatore. Il chiamavano uomo unico, eroe straordinario, modello impareggiabile con tutte quelle altre lodi, che l'adulazione Italiana meglio sapeva inventare; con pari adulazione rispondeva Francia. I buoni Milanesi esultavano dicendo, essere venuto a dar di nuovo la libertà al suo diletto popolo Cisalpino. Parlò a Milano molto di pace, molto di religione, molto di lettere, molto di scienze. Creovvi una consulta con potestà legislativa, una commissione di governo con potestà esclusiva. Vi arrose un ministro straordinario di Francia, chiamando a questa carica un Petiet, che era stato ministro di guerra ai tempi del direttorio. Riapriva con allegrezza di tutti i buoni l'università di Pavia, che il Tedesco sospettoso aveva chiusa: ordinava stipendj onorevoli ai professori; vi chiamava i più riputati, i più dotti, i più virtuosi uomini. Fiorì vieppiù per questi ordini la università; pareva rinascessero i tempi di Giuseppe; ma il dominio militare in cui si viveva, avvertiva i popoli che l'età era diversa. Intanto il suo procedere non sapeva dell'antico. Non accarezzava più gli amatori ardenti di rivoluzioni, anzi da se gli allontanava; chiamava a se coloro che erano in voce di aristocrati, purchè fossero di natura moderata, e ricchi, e di buona fama. Melzi, Aldini, Birago, il dottor Moscati, Scarpa, il vescovo di Pavia, Gregorio Fontana, Marescalchi, Mascheroni molto volontieri vedeva. Ai democrati più fervidi non piacevano questi andari, e fra di loro il chiamavano aristocrata, ed anche tiranno; ma in palese, quale Dio, sempre il predicavano. In tutti i fatti di lui, ed in tutte le parole avevano i nuovi capi di Cisalpina fede grandissima, e si promettevano l'independenza della patria. Del resto, quantunque il procedere paresse più civile, e le sembianze più oneste, il prendere, e il dilapidare era lo stesso, ricominciò la Cisalpina a travagliare del male antico.

Presero i nuovi eletti il magistrato. Lodò Petiet con elaborato discorso Francia, lodò il consolo, parlò di Beccaria, favellò di libertà, d'independenza, di destini alti e magnifici: con adorno artifizio onorò l'Italia, chiamandola maestra di lettere, di filosofia, di politica, ed affermando non essere fatta per esser tributaria di un principe straniero: rispose colle medesime lodi il presidente della consulta.

Riordinata la Cisalpina, se ne tornava il consolo in Francia. Passò per Torino: alloggiò in cittadella; non si lasciò vedere, non volendo lasciarsi tirare alle promesse per rispetto di Paolo, che sempre favoriva il re. Anzi fu certo, che, sebbene avesse l'animo molto alieno, aveva nondimeno, dopo la vittoria di Marengo, offerto l'antico seggio a Carlo Emanuele, purchè nuovamente rinunziasse alla Savoia ed alla contea di Nizza. Tornò altresì sull'antico pensiero, per potersi serbar il Piemonte, che appetiva con grandissimo desiderio, di dare al re la Cisalpina, sì veramente che rinunziasse al Piemonte. Le quali proposte non furono accettate dal principe, parte per motivi di religione, parte per non voler concludere senza il consentimento de' suoi alleati, di Paolo massimamente, e dell'Inghilterra. Nè voleva dar appicco all'Austria, nel caso che le cose di Francia nuovamente sinistrassero, acciocchè ella s'impadronisse del Piemonte, e se lo serbasse; ed ancorchè non avesse cagione di lodarsi di lei, nondimeno abborriva dal vestirsi delle spoglie altrui. Non ostante le profferte ed i negoziati, creava in Piemonte, come in Cisalpina, non per terminare, ma per minacciare, una consulta, ed una commissione di governo, a cui chiamò molti uomini riputati per dottrina, e per pacatezza d'opinione. Nominò Galli, Bottone di Castellamonte, Braida, Avogadro, Cavalli, e Rocci alla commissione di governo, poi alla consulta il vescovo di Novara, Capriata, i due professori Regis e Pavesio, preti ambidue dotti e pacifici, Tosi, Botta, Lombriasco, un altro Avogadro, Bay, Paciaudi, Nizzati, Chiabrera. Creava ministro straordinario presso a questo governo, prima il generale Dupont, poi per riconoscere i meriti del vincitore di Fleurus, Jourdan.

Era a questo tempo l'aspetto del Piemonte oltre ogni dire miserabile: una estrema carestìa, un rapir di soldati al tempo dei confederati l'avevano messo in estrema penuria. Nè erano mancate le angherìe, e le soperchierìe, e le ingordigie dei commissarj imperiali: la insolenza era stata minore, ma la rapacità uguale. I Piemontesi non sapevano più nè che cosa sperare, nè che cosa temere, nè che cosa desiderare, stantechè i cambiamenti di dominio non producevano un cambiamento di fortuna. Maledicevano il destino, che gli aveva fatti piccoli fra due grandi. Nè questa era per loro la somma delle tristi fortune; perchè i biglietti di credito, che sempre più scapitavano, lunga e luttuosa peste del paese, avevano posto in confusione tutti gli averi: ogni civile faccenda si fermava; il prezzo dei viveri eccessivo, i poveri, che non avevano biglietti, perchè i minori erano di venti lire, smoderatamente pativano. Infine, tanto sopravvanzò questo male, che fu forza venirne all'ordinare che non si spendessero più che a valor di commercio, e si pubblicarono le scale del cambio. Ma le piaghe erano fatte, rimaneva la coda dei contratti anteriori. Penò molto la consulta, quantunque in lei abbondassero gli avvocati dotti e sottili, ad assestar questa faccenda, e quando si assestò, nissuno contento, ancorchè la legge fosse giusta. Questa fu gran radice di mali umori. Nè gran momento di sventura non recava il peso gravissimo del dover mantenere i soldati di Francia, sì quelli che passavano, come quelli che stanziavano, peso da non poter esser portato dalle finanze Piemontesi. Voleva Massena, chiamato dal consolo generalissimo in Italia, che il Piemonte gli desse per sostentazione dei soldati, un milione al mese, e mantenesse i presidj. Poi successe Brune a Massena: accordossi, che col milione mensuale le casse Francesi mantenessero esse; ma ecco pagarsi il milione, ed i soldati non mantenersi: era il Piemonte obbligato a supplire; perchè se non si dava loro il necessario, e' se lo prendevano da se. Volle Jourdan, che buono era e dabbene, rimediare, ma i trappolatori ne sapevano più di lui; non se ne poteva dar pace: non vi era rimedio. S'aggiungevano i comandamenti fantastici; perchè ora si voleva che una fortezza Piemontese si demolisse a spese del Piemonte, ed ora, che la medesima si riattasse: ora s'addomandavano i piombi della cupola di Superga, il che, prima cosa, avrebbe fatto rovinar l'edifizio per le acque, ed ora si voleva che si demolissero i bastioni che sopportano il giardino del re, opera inutile, perchè la città era già tutto all'intorno smantellata. Se non era la costanza di chi governava ad opporvisi, Superga ed il giardino, gradito passeggio dei Torinesi, perivano. Chi domandava denari pel vivere dei soldati, chi pel vestito, chi per gli ospedali, chi per le artiglierìe, chi pei passi, chi per le stanze: erano le richieste capricciose, i consumi eccessivi, le finanze impotenti; ogni cosa in travaglio e confusione.

Altri tormenti, oltre i raccontati, travagliavano i Piemontesi, e rendevano impossibile ogni buon governo; questi erano la incertezza sulle sorti future del paese. Sapevansi le offerte fatte dal consolo al re: ciò faceva camminar a ritroso i partigiani regj, a rilento i repubblicani: quelli speravano, questi temevano: tra l'ordinar peritoso e l'obbedir lento nasceva l'anarchìa. Il consolo non si era voluto scoprire: interrogato, si ravviluppava nelle ambagi. Alcuni dagli stimoli da lui dati ai repubblicani Piemontesi, acciò si mostrassero, argomentavano ch'ei non volesse più dare il Piemonte al re; alcuni altri da questo stesso giudicavano, che il volesse dare. I democrati insultavano gli aristocrati, gli aristocrati si ridevano dei democrati; i primi speravano la repubblica, i secondi si tenevano sicuri del regno. Questi prevalevano, perchè non pochi fra i capi venuti di Francia per ingerirsi, non senza cagione, nelle faccende dell'amministrazione militare, e che se ne vivevano alle mense dei magnati, o per adulazione, o per certo vezzo di voler comparire dell'antico tempo, laceravano continuamente quei che servivano allo stato nuovo. Chi si dava per antico conte, chi per antico marchese, chi, per lo manco, per visconte, o per barone; nè s'accorgevano in quanto disprezzo venissero essi medesimi appresso ai nobili Piemontesi, tanto acuti ed esperti conoscitori della natura altrui. Intanto questi discorsi toglievano forza al governo. Quelli stessi che più da lui domandavano, il riducevano alla condizione di poter men dare. Era in questo procedere leggerezza ed ingratitudine, ma non disamorevolezza od odio, perchè non erano capaci nè di amare nè di odiare. Io non so, se in mezzo a cose tanto gravi mi debba parlare delle pazzie dei democrati, che non vedevano in qual trappola fossero. Pure non tacerò, che era tornato in Piemonte quel Ranza. Le cose che diceva e che stampava, non son da domandare; e peggio, che queste medesime cose aveva dette, standosene carcerato in Vigevano in poter dei Russi, e le avrebbe anche stampate, se avesse potuto. Ora scriveva contro i preti, ora contro i frati, ora contro gli aristocrati, ora contro i democrati, ora contro il governo, ora contro i governati, e fece un giorno, traendo il popolo a folla, non so qual falò in piazza Castello dello scritto di un frate suo avversario. Buttava nel pubblico ogni giorno sue miracolose gazzette, ed ogni giorno ancora appiccava suoi cedoloni alle mura egli stesso, e quando si sentiva voce, che era Ranza, il popolo correva a calca per vedere. Incominciò, a dire, che vivevano troppi aristocrati in Piemonte: ripreso, venne in sul dire che tutti erano aristocrati. Il governo che non aveva penetrato l'umore, il volle frenare; ma e' furon parole, perchè tornò sul dire che tutti erano aristocrati, e quei del governo i primi. Basta, per lo men reo partito, e' fu lasciato dire. Ma le opinioni si pervertivano; la maldicenza trovava forte corrispondenza nell'invidia, e non si poteva più governare. Io ho voluto parlare, e forse il feci troppo più lungamente che si convenisse, di questo Ranza: ma il volli fare, perchè mi pare, che di questi Ranza ne siano molti in Europa, e molti più in quei paesi di lei, che sono, o si credono liberi.

Lasciata incerta la sorte del Piemonte, sorgevano e s'inviperivano le sette. Chi voleva essere Francese, chi Italiano, chi Piemontese. Gli amici si odiavano, i nemici sì accordavano, nissun nervo di opinione. Accrebbe l'incertezza ed i mali umori un atto del consolo, con cui diede il Novarese sì alto che basso alla Cisalpina. Prina, Novarese, che era allora ministro di Piemonte, fu primo suggeritore e confortatore di questo smembramento della sua patria; ciò dico per dimostrare quale sincerità, e quale lealtà fosse in quei tempi. La sinistra novella sollevò gli animi maravigliosamente in Piemonte, perchè si pensò, che Buonaparte volesse restituire il rimanente al re. Il governo protestò: il consolo, che sapeva ciò che si faceva, si maravigliava che si sperasse, che si temesse, che si protestasse. Pure non si scopriva; i timori, le sette, e le angustie del governo crescevano. Era segno il Piemonte ad ogni più fiera tempesta.

Fra sì funesta intemperie ebbe il governo, che allora, sotto nome di commissione esecutiva surrogata alla commissione di governo, era composto di Bossi, Botta, e Giulio, un consolatorio pensiero, e questo fu di stanziar beni di una valuta di cinquecento mila franchi all'anno a benefizio dell'università degli studj, dell'accademia delle scienze, del collegio, e di altre dipendenze, ordine veramente benefico e magnifico, di cui solo si trovano modelli negli stati uniti d'America per munificenza del congresso, ed in Polonia per munificenza dell'imperatore Alessandro.

Fu questo conforto piccolo pei tempi; perchè le disgrazie sormontavano. Continuossi a vivere disordinatamente, discordemente, servilmente, famelicamente in Piemonte, finchè venne il destro a Buonaparte d'incamminarlo a più certo destino.

Le sorti di Genova del pari infelici, parte pei medesimi motivi, parte per diversi. Per la capitolazione d'Alessandria abbandonava Hohenzollern Genova, non senza aver prima, per comandamento di Melas, esatto dai sessanta negozianti più ricchi un milione, come diceva, in presto ad uso dei soldati. I Francesi condotti da Suchet, entrarono nella desolata città il dì ventiquattro giugno. Quante sventure e quanti dolori abbiano in se queste frequenti mutazioni di dominio, ciascuno può giudicare. Trattaronla i Francesi duramente, come se uscendo dalle mani dei Tedeschi fosse sana ed intiera: l'avevano trattata duramente i Tedeschi, come se quando era uscita dalle mani dei Francesi fosse fiorita e ricca.

Il consolo, come in Cisalpina ed in Piemonte, creava una commissione di governo con tutte le potestà, salvo la giudiziale e la legislativa: creava una consulta con la potestà legislativa: creava finalmente appresso al governo Ligure un ministro straordinario, chiamandovi il generale Dejean. Diede il magistrato della commissione a Gian Battista Rossi, Agostino Maglione, Agostino Pareto, Girolamo Serra, Antonio Mongiardini, Luigi Carbonara, Luigi Lupi, uomini risplendenti per virtù, e che nelle faccende presenti camminavano con moderazione. Nè minori pregi d'animo si notavano in coloro che chiamava alla consulta, Luigi Corvetto, Emanuele Balbi, Girolamo Durazzo, Cesare Solari, Giuseppe Fravega, Niccolò Littardi, Giuseppe Deambrosis, con molti altri fino al numero di trenta. Nella presa del magistrato sorsero le solite adulazioni, maggiori però da parte del ministro straordinario, che del governo. Parlò il ministro della lealtà e generosità del consolo, impegnò la fede di Francia, che alla pace generale soliderebbe la libertà e l'independenza della Ligure repubblica. Dolci parole alle orecchie Genovesi; ma quest'altre che toccò, incominciavano a saper d'amaro. Furono, che se la guerra si riaccendesse, e' bisognerebbe pensare a trovare soldi. Molto poi lodevolmente inculcava il ministro, si dimenticassero le offese, si perdonasse ai traviati: così volere l'interesse dello stato. Rispose Rossi, presidente, non senza dignità, ma con lingua Italiana sconcia e servilissima: essere quel giorno fra i felici felicissimo per la repubblica; avrebbero cura della quiete e della libertà della patria; desiderare i Liguri, come navigatori e commercianti, la pace; del resto povera essere la repubblica, poveri i cittadini; recar conforto le promesse fatte, e le qualità del ministro. Più certo, e più chiaro era il destino di Genova, che quel del Piemonte; perciocchè la Francia prometteva independenza. Ciò fu cagione, che fosse maggior forza nel governo Ligure che nel Piemontese, e che le parti avverse meno si ardissero di contrastargli. Favellò gravemente Dejean alla consulta, quando la instituì: badassero alla sperienza, deponessero i principj astratti, le teorie pericolose, infausti semi di rivoluzioni. Dal che si vede, che Dejean aveva bene penetrato la mente del consolo, e che il consolo molto sagacemente, e molto veramente giudicava della natura umana.

Erano, come abbiam detto, quei della commissione di governo uomini pacifici e dabbene. Pure mossi dalle grida dei democrati, stanziarono una legge d'indennità, della quale il minor male che si possa dire, è, ch'era contraria ai capitoli d'Alessandria. Si risarcissero dai briganti e nemici della patria (così chiamavano i fautori dell'antico stato e dell'Austria) i danni ai danneggiati; se non avessero di che risarcire, risarcissero per loro i comuni; radice pericolosa era questa di enormi arbitrj. Ammonì gravemente Dejean i reggitori dell'errore, rammentò i patti d'Alessandria, e la volontà del consolo. Non istettero i Genovesi in capitale al passo; il ministro del re di Francia crebbe di riputazione; rallegrossi il consolo dell'occasione aperta di mostrar generosità e tutela verso i partigiani del reggimento antico.

Con questi accidenti si viveva il governo povero obbligato a sopperire allo stato, ed ai soldati forestieri: Keit dominava i mari, e serrava i porti: Genova sempre in servitù, o periva di fame, o periva per ferro: contristava vieppiù la città venuta a crudeli strette per la forza, la malattia pestilenziale, che, non che cessasse, montava al colmo. Duemila perirono in un mese. Brevemente, la condizione dei tre stati contermini era questa: in Piemonte fame, peste di carta pecuniaria, incertezza d'avvenire; in Cisalpina abbondanza di viveri, erario sufficiente, maggiore speranza, se non di stato libero, almeno di stato nuovo; in Genova fame, peste, e povertà d'erario. Nel resto in tutti tre servitù; i governi fattori di Francia.

Intanto la fortuna preparava a Buonaparte il più efficace fondamento che potesse desiderare a' suoi disegni, fondamento più potente delle armi, più potente della fama. Morto Pio sesto pontefice nella sua cattività di Francia, era stato assunto al pontificato nel conclave di Venezia il cardinal Chiaramonti, sotto nome di Pio settimo. Temeva dell'Austria, sperava in Francia, il consolo confidava di ridurlo a' suoi pensieri con accarezzar la religione. Ciò produsse effetti di grandissima importanza.

Ricevettero i Romani con molte dimostrazioni di allegrezza le novelle della creazione del pontefice. Erano in servitù dei Napolitani: speravano, che il signore proprio avesse a liberargli dal signore alieno. Partiva papa Pio il dì nove di giugno da Venezia, e dopo travagliosa navigazione arrivava ai venticinque a Pesaro. Mandati avanti con suprema autorità per ricevere lo stato dagli agenti del re Ferdinando, e per dar qualche assetto alle cose sconvolte, i cardinali Albani, Roverella, e della Somaglia, entrava in Roma il terzo giorno di luglio in mezzo alle consuete allegrezze dei Romani. Provvide alla Chiesa colla creazione di nuovi pastori, allo stato con quello di nuovi magistrati; ridusse ogni cosa, quanto possibil fosse, alla forma antica. Fu mansueto l'ingresso, mansueto il possesso, i partigiani della repubblica salvi. Stanziò che i beni venduti al tempo del dominio Francese alla Chiesa apostolica ritornassero, salvo il rimborso del quarto ai possessori. Nè molto tempo corse, che volendo provvedere dall'un de' lati alla camera, dall'altro all'interesse dei comuni e dei particolari, tolse alcune tasse, nuove ne pose. Volle che i comuni si liberassero dai debiti, sulla camera pontificia trasferendogli, salvo i debiti contratti per l'annona, e gl'interessi corsi dei debiti anteriori: liberava i comuni dai luoghi di monte sullo stato investendogli, ma al tempo medesimo statuiva, che finchè l'erario non fosse ristorato, solo i due quinti dei frutti dei monti si pagassero. Comandava, che i quattro quinti si corrispondessero ai possessori dei monti vacabili, e che i luoghi di monte sì perpetui che vacabili fossero esenti da ogni qualunque tassa o contribuzione. Aboliva le gabelle privilegiate, dico quelle dei bargelli, del bollo estinto, dei cavalli morti, o le trasferiva a beneficio dei comuni. L'opera poi delle contribuzioni indirizzava a più generale ed uniforme condizione: creava due tasse, abolito ogni privilegio e consuetudine antica che fosse contraria. Chiamò l'una reale, l'altra dativa. Quattro erano le parti della prima, un terratico di paoli sei per ogni centinajo di scudi d'estimo pei fondi rustici, una imposizione di due paoli per ogni centinajo di scudi di valuta sui palazzi e case urbane, un balzello di scudi cinque sui cambj per ogni centinajo di scudi di frutti, una contribuzione di valimento, che doveva sommare alla sesta parte di tutte le rendite dei capitali naturali e civili, rustici ed urbani sopra coloro, che consumassero le loro rendite fuori di stato. La dativa consisteva nella gabella del sale sforzato, in quella della mulenda, o macinato, ed in quella di tre paoli per ogni barile di vino che s'introducesse in Roma, salva la esenzione pei padri di dodici figliuoli, e pei religiosi mendicanti. Buoni ordini furono questi, fatti anche migliori dal beneficio dei repubblicani di aver cassa del tutto la carta pecuniaria.

Non omise il consolo di considerare le Romane cose. Prevedeva, che come la pace coi re era per lui grande mezzo di potenza, così maggiore sarebbe la pace colla Chiesa. Quando poi seppe, che il cardinale Chiaramonti era stato esaltato al supremo seggio, concepì maggiori speranze, perchè il conosceva fornito di pietà sincera, e però più facile ad esser tirato. Era gran cosa quella che veniva offerendo il consolo, perchè il ristorare la religione cattolica in Francia importava non solamente la restituzione di un gran reame alla Santa Sede, ma ancora la conservazione pura ed intatta degli altri: conciossiacosachè non era da dubitare, che se la Francia avesse perseverato nell'andare sviata in materia di religione, anche gli altri paesi sarebbero stati, o tardi o tosto, contaminati dall'esempio. Per la qual cosa papa Pio settimo prestava benigne orecchie a quanto il consolo gli mandava dicendo. Adunque, tentati prima gli animi da una parte e dall'altra, si venne poscia alle strette del negoziare, e finalmente alla conclusione, come sarà per noi nel seguente libro colla solita nostra ingenuità raccontato.

Buonaparte dominava la terra, Nelson il mare. Quando arrivarono nel regno di Napoli le novelle della vittoria d'Aboukir, conceputasi dai Maltesi la speranza, che preponderando l'Inghilterra nel Mediterraneo, non potessero più i Francesi mandar nuovi soccorsi all'isola, si sollevarono in ogni parte contro i conquistatori, e gli costrinsero a ridursi nella Valletta, che essendo fortissima per natura e per arte, non poteva facilmente essere espugnata. Governava il presidio Vaubois; ma i soldati, che sul principiar dell'assedio sommavano circa a quattromila, erano scemati per modo dalle malattie, che non passavano i due mila. S'aggiungevano i marinari delle navi il Guglielmo Tell, la Diana, e la Giustizia avanzate alla ruina di Aboukir, che posti a terra, e capitanati dall'ammiraglio Decrès, cooperavano alle difese. Erano comparse al cospetto dell'isola alcune navi Portoghesi condotte dal marchese di Nizza, le quali tosto diedero opera a bloccare il porto. Nè soprastette lungo tempo Nelson ad arrivare colla vincitrice armata, e tolse, se alcuna ancor restava, ogni speranza di redenzione agli assediati. Concorse il re Ferdinando alla espugnazione sì col mandar due fregate, sì col provveder d'armi e di munizioni i sollevati, e sì finalmente coll'impedire che dalla Sicilia non si portassero vettovaglie. Un grosso corpo di Inglesi posto a terra impediva, cooperando coi Maltesi, ai repubblicani l'uscire dalle mura. Fece più volte, ma invano, Nelson la chiamata a Vaubois. S'incominciava a patire maravigliosamente dentro di vitto, d'abiti, e di denaro, le malattie si moltiplicavano. Non per questo rimetteva Vaubois della solita costanza, nè allentava la diligenza delle difese. Per provvedere ai cambj costrinse i principali isolani a dargli carte d'obbligo da scontarsi dalla Francia alla pace generale, e con queste pagava i soldati. Per vestirgli si fe' dar tele e drappi; per pascergli, farine; spianava pane, obbligava gl'isolani a venir levare le farine da lui; moltiplicava i conigli ed il pollame, per modo che molto tempo bastarono. Infieriva lo scorbuto; il combattevano con coltivare a molta cura nei luoghi più acconci gli ortaggi. Un Niccolò Isoard di Malta, maestro di musica, componeva opere, e recitavano, e cantavano, e ballavano. Pure la fame pressava. Provavasi il governatore a mandar in Francia per soccorso il Guglielmo Tell, ma i vigilanti e lesti Inglesi se lo pigliarono. Stava attento, e provvedeva con mirabile accortezza a tutti gli accidenti. Fecero i Maltesi di fuori congiure con quei di dentro: Vaubois le scopriva; davano assalti, e gli risospingeva; pruove mirabili in chi si moriva di fame e di morbo. In cospetto degli assediati tre navi Tolonesi cariche di tre mila soldati, e di munizioni sì da bocca che da guerra, venivano in poter di Nelson. Ogni giorno, anzi ogni ora la fame cresceva. Mandava fuori le bocche disutili, gl'Inglesi, barbaramente, come se vi fosse pericolo di vicino soccorso, le rincacciavano. Parecchi morirono di fame sotto le mura, gli altri più morti che vivi furono di nuovo ricettati dai Francesi. Prevedeva Vaubois avvicinarsi l'ultima fine. Mandava al mare per preservarle, se fosse possibile, le due fregate la Diana e la Giustizia: la prima fu presa, la seconda arrivò a salvamento nei porti di Francia. La fame sopravvanzò il valore. Vennesi a resa, ma onorevole, il dì cinque settembre: fosse il presidio prigioniero di guerra fino agli scambj, e condotto in Francia a spese d'Inghilterra; nissun Maltese di quanto avesse o detto o fatto in favor dei Francesi potesse essere molestato. Così un forte presidio di veterani dell'esercito Italico fu perduto per Francia, un'isola fortissima, freno e sicurezza del Mediterraneo venne in poter di Inghilterra, le reliquie dell'Egiziana ruina distrutte, o cattive, accrebbero il trionfo di Nelson. Fu glorioso certamente il vincitore di Malta, ma non fu inglorioso il difensore; perciocchè nè maggior valore, nè maggior costanza, nè maggior perspicacia si poteva desiderare in Vaubois. Abbandonato da tutti, contrastò due anni; non le armi il vinsero, ma quel flagello che toglie all'uomo sempre la forza, spesso la volontà del resistere.

Mentre l'Inghilterra, che già per la possessione di Gibilterra aveva la chiave del Mediterraneo, si sforzava di acquistarvi una stanza sicura per la espugnazione di Malta, ordinavano concordemente la Russia e la Porta Ottomana le condizioni delle possessioni Ioniche. Statuirono, che dai notabili del paese sotto forma di repubblica fossero governate, e che la repubblica fosse, come quella di Ragusi, vassalla della Porta; che la sua superiorità conoscesse, e per solenne legazione mandata a posta a Constantinopoli le pagasse ogni anno un tributo di settantacinque mila piastre, e con ciò s'intendesse libera, ed esente da ogni altra imposizione verso la Turchìa; la repubblica delle Sette Isole avesse i medesimi privilegj che Ragusi, e formasse una constituzione, alla quale le due potenze ratificherebbero; se fosse necessario, durante la presente guerra, e non più, potessero la Russia e la Porta mandarvi genti, e navi armate per presidio; i vascelli della repubblica godessero la libera navigazione del mar Nero, la Russia guarentisse l'integrità della repubblica, e procacciasse che fosse riconosciuta dalle potenze sue alleate; Prevesa, Parga, Vonizza, e Butintrò, terre poste sulla terraferma dell'Epiro, cedessero in potestà della Porta, con ciò però che fossero tenute solamente ad obbedienza simile a quella dei cristiani Valacchi e Moldavi, e non maggiore; i Maomettani non vi potessero possedere; i cristiani per due anni non pagassero nissuna tassa, potessero riedificare le chiese loro, mai non rendessero alla Porta tributi maggiori di quelli, di cui erano obbligati a Venezia. Diedero gl'isolani forma al loro governo con creare un senato composto dai notabili, in cui era investita la potestà legislativa, ed un presidente, in cui sedeva la esecutiva. A questo modo le Veneziane isole arrivarono in mezzo a tante guerre ad una condizione, non solo tollerabile ma buona, ed in lei vissero parecchi anni assai felicemente: vennero poi nuove guerre e nuove ambizioni nuovamente a turbarle.

La sospensione delle ostilità non rallentava gli apparecchi di guerra nè dall'una parte nè dall'altra. Buonaparte, che mentre si combatteva in Germania ed in Italia, non aveva mai intermesso di ordinar nuove genti, ne aveva già adunato un numero di non poca importanza, e le mandava ad ingrossare, ora l'esercito Germanico, ed ora l'Italico. Un grosso corpo specialmente ne aveva rannodato, il quale posto sotto la condotta di Murat, e stanziando nei contorni di Digione, accennava ad ambidue. Dal canto suo l'Austria non ommetteva di levar nuovi soldati, massimamente dall'Ungheria, e gl'inviava a rinforzar quelli che alloggiavano ai confini. L'esercito vinto a Marengo si conservava tuttavia intiero, ed era pronto a contendere di nuovo della vittoria. Ma non piccolo fondamento alle future cose faceva la corte di Vienna sulle mosse di Toscana, che posta pei capitoli d'Alessandria fuori del dominio Francese, e conseguentemente in quello dell'Austria, seguitava i desiderj dell'imperatore. Grande odio annidava ancora in Toscana contro i repubblicani, perchè e troppo oltre era trascorso, ed i religiosi non cessavano di fomentarlo. Al medesimo fine indirizzava gli animi la reggenza creata in nome del gran duca. Il marchese Sommariva mandato dall'imperatore, perchè desse forma a quelle masse incomposte, le ingrossasse e le armasse, con indefessa autorità attendeva a compir l'ufficio che gli era stato commesso. Siccome la pace e la guerra erano ancora incerte, non si può affermare che questo procedere del governo Toscano ed Austriaco fosse contrario ai patti. Ma quelle genti, siccome quelle che non avevano nè ubbidienza nè ordine, ed erano mosse da odio contro i repubblicani, ruppero i confini, e romoreggiando sui monti, che dividono la Toscana dal Bolognese e dal Modenese, vi facevano molti insulti. Questi moti diedero qualche apprensione ai repubblicani. Per la qual cosa usando la occasione, non solamente richiedevano la Toscana e Sommariva, che frenassero, e punissero i violatori dei confini, ma ancora dissolvessero le masse dei contadini armati. Non fece Sommariva risposta che piacesse, e continuava a scorrere il paese a suo piacimento. Ciò diede occasione, muovendolo anche l'esca di Livorno, al consolo di far risoluzione di occupare sforzatamente la Toscana. A questo fine mandò comandando a Dupont, varcasse prestamente gli Apennini, e s'impadronisse di Firenze, a Monnier andasse a combattere e a disfare in Arezzo quel nido infesto di sollevati, a Clement, marciasse più sotto, e Livorno in poter suo recasse. Nè fu diverso l'esito dalle intenzioni; perchè il primo occupava facilmente la capitale della Toscana, e l'ultimo, partendosi da Lucca, arrivava a Livorno, dove pose le mani addosso a circa cinquanta bastimenti Inglesi, e ad una quantità grandissima di fromenti. Le cose non successero di queto dalla parte di Arezzo. Gli Aretini, non udita alcuna proposta, si risolvevano ad una ostinata resistenza. I Francesi bersagliarono con cannoni e con granate reali duramente la città ed il castello, ma quei di dentro si difendevano virilmente. Cara-San-Cyr, il forte occupatore e difensore di Castel Ceriolo, si affaticava indarno: gli Aretini con tiri a scaglia, con granate, con pietre tenevano gli assalitori lontani. Il generale repubblicano mandava i suoi ad un primo assalto; già con fuochi artificiali avevano bruciate alcune porte; ma essendo fortificate con forti lastre di rame, e terrapienate, furono costretti ad abbandonar l'impresa, non senza molto strazio e sangue loro. Il seguente giorno, che fu ai diecinove ottobre, avendo meglio ordinato la fazione, si accostarono la mattina molto per tempo con le scale alle mura, vi salirono sopra, ed impadronitisi delle porte, le apersero ai loro compagni. Allora tutta la mole repubblicana, fatto impeto nella città, la occupò, non però senza nuovi contrasti e nuovo sangue; perchè dalle finestre, dai tetti, dalle feritoje aperte a quest'uopo in tutte le case, gli abitatori, secondati anche da qualche nodo di genti regolari Toscane, piovevano addosso ai repubblicani ogni sorta d'armi. Finalmente prevalse il valore ordinato alla rabbia disordinata: Arezzo venne tutta in mano di chi l'assaltava. Seguitò una strage, una insolenza, un sacco tale, quale si doveva aspettare da soldati irritati per ingiurie nuove, che avevano risuscitata la memoria delle antiche. Pochi si salvarono, ritirandosi al castello: poco dopo chiesero i patti e gli ottennero. Il terrore concetto pel caso di Arezzo fe' risolvere in gran parte le masse Toscane. Quiete apparente succedeva; ma covavano pessimi umori, prossimi a prorompere, se una nuova occasione si appresentasse. Il paese più pacifico d'Italia preservava più di ogni altro ostinatamente nel desiderio di guerra. Sommariva coi Tedeschi si ritirava nel Ferrarese.

Le cose si volgevano novellamente a guerra tra Francia ed Austria. Non aveva voluto l'imperatore ratificare ai preliminari di pace stipulati a Parigi il dì otto luglio tra il conte San Giuliano mandato da lui espressamente, ed il ministro Taleyrand, e pei quali il consolo aveva promesso di compensarlo con nuovi acquisti in Italia. Anzi l'imperatore non solamente non aveva voluto consentire al trattato, ma si era anche mostrato sdegnato contro il San Giuliano, come se avesse trapassato la sua volontà. Stimolava a questi giorni instantemente l'Inghilterra l'imperatore alla guerra, perchè avendo rifiutato la pace, abborriva dal restar sola contro la Francia, nè poteva ancora accomodar l'animo al pensiero, che i Paesi Bassi avessero a restar in possessione della potenza emola a lei: offeriva adunque sussidj di denaro, ed ajuti di forze dalla parte di Napoli. Dall'altra parte l'imperatore non sapeva risolversi ad abbandonar la possessione di Mantova, parendogli che fossero mal sicuri i suoi nuovi acquisti in Italia, finchè quella fortezza fosse in potestà di uno stato dipendente intieramente dalla Francia. Quantunque poi si trovasse privato della forte cooperazione dell'imperatore Paolo, confidava di poter fare fortunata guerra da se stesso, ricordandosi delle recenti vittorie di Verona e di Magnano, e considerando che si era perduta la giornata di Marengo un sol momento, dopo che era stata vinta sei ore, nè per difetto di valore ne' suoi soldati. Erano gli eserciti avversi ordinati a questo tempo nel seguente modo. Al Germanico di Francia condotto da Moreau stava a fronte il Germanico d'Austria governato da Kray; all'Italico di Francia che obbediva a Brune, l'Italico d'Austria cui era preposto Bellegarde. Fra i due, e per congiungere l'uno coll'altro, si trovavano posti in mezzo nei Grigioni un Francese governato da Macdonald, nel Tirolo un Austriaco capitanato da Hiller. Così Moreau con Kray, emoli antichi, Macdonald con Hiller, Brune con Bellegarde avevano a combattere.

La sollevazione del paese Toscano, che aveva obbligato Brune a smembrar parte delle sue forze, ed a mandarla oltre il suo fianco destro, aveva debilitato il restante. Laonde pensò il consolo a mandarvi nuove genti con comandare a Macdonald, che lasciati grossi presidj nei Grigioni, si calasse, prima dai Grigioni nella Valtellina, poscia dalla Valtellina sulle sponde dell'Oglio e dell'Adige, quello per rinforzar Brune, dove alloggiava, questo per riuscire alle spalle di Bellegarde, ed obbligarlo a ritirarsi indietro dalla fronte del Mincio, dove allora aveva le sue stanze. Aspro e difficile comandamento era quello del consolo; perchè il traversare nella stagione già molto trascorsa (s'avvicinava la fine d'ottobre), il monte asprissimo della Spluga per arrivare in Valtellina, quel della Priga parimente pericoloso per arrivare in val Camonica bagnata dall'Oglio, e finalmente il Tonale, che dà l'adito all'Adige superiore, era opera piuttosto portentosa che umana. Nè valeva il fresco esempio del San Bernardo, perchè la stagione era più aspra, ed i monti più difficili. Forse la posterità troverà in questa intenzione di Buonaparte più audacia che prudenza, e maggiore confidenza nei soldati, che cognizione dei luoghi. Ciò non ostante non si perdeva d'animo Macdonald, stimolandolo il fatto del San Bernardo, e volendolo emolare. L'antiguardo condotto da Baraguey d'Hilliers, siccome quello che era e partito più presto, e più vicino a quei monti, parte varcando la Spluga, parte il monte dell'Ora, riusciva, non senza aver superato ostacoli gravissimi, sulla destra a Chiavenna, sulla sinistra a Sondrio. Acquistava per tal modo Baraguey l'imperio della Valtellina, e facilitava la strada allo scendere di Macdonald. I Valtellini al veder comparire quelle genti si maravigliavano, come se venissero dal cielo; tanto pareva loro impossibile, ch'elle per quei luoghi, ed in quella stagione fossero passate. Restava l'opera più difficile a compirsi a Macdonald. Arrivato a Tusizio, donde si sale al monte eternamente incappellato di nevi e di ghiacci, pareva, che la natura fosse divenuta insuperabile. Tanto erano alte le nevi, tanto chiusa la strada già di per se stessa sdrucciolevole, stretta, rotta, e precipitosa, pure, come al San Bernardo, si posero le artiglierìe sui traini, le provvigioni sui muli, marciavano, ma con difficoltà grandissima. Arrivava l'antiguardo condotto dal generale Laboissiere al villaggio di Spluga, donde restava a salirsi l'erta precipitosa, che porta al sommo giogo. Mettevansi in viaggio, e con penosi passi, ed infinito anelito procedendo, alla bramata cima già si approssimavano, quando ecco levarsi un levante furiosissimo, che innalzando un immenso nembo di nevosa polvere, e negli occhi dei soldati gittandolo, rendeva impossibile ogni passo. La forza della veemente bufera furiosamente soffiando sul dorso delle nevi ammonticchiate sopra quei sdrucciolenti gioghi, levava un'orribile sommossa di neve, che con incredibile velocità e fracasso nelle sottoposte valli piombando, portò con se a precipizio quanto le si era parato davanti. Trenta soldati precipitati nell'abisso perirono; gli altri atterriti, le strade chiuse. Aggiunse la sopravvegnente notte nuovo orrore al fatto: tornarono a Spluga. Laboissiere, che separato da' suoi, precedeva con le guide, a male stento, e quasi morto aggiungeva alla cima; trovovvi benigno ospizio appresso ai religiosi, che come quei del San Bernardo, attendono con pietà sì eroica alla salute dei viaggiatori.

Pareva disperata l'impresa, e sarebbe stata, se non fosse arrivato Macdonald, il quale spinto da ardente desiderio di emolare il consolo, e prevedendo che lo stare importava la distruzione per la mancanza dei viveri, con accesissime esortazioni tanto fece, che le stanche ed atterrite genti di nuovo s'incamminavano. Precedevano quattro forti buoi a pestar le nevi; seguitavano quaranta palajuoli ad appianarle ed a fare il sentiero; i zappatori venendo dopo l'assodavano; due compagnìe di fanti a destra ed a sinistra perfezionavano pel sicuro passo ciò che ancora si trovava imperfetto. A questi s'attergavano le altre genti, fanti e cavalli: le artiglierìe e le bestie da soma viaggiavano alla coda; quest'era l'antiguardo. Arrivava sulla cima all'ospizio, con infinita allegrezza si ricongiungeva col salvato Laboissiere. Poi seguitando il cammino per la pianura del Cardinello, giungeva a campo Dolcino. Allo stesso modo varcavano il dì secondo e terzo di dicembre due altre squadre di fanti, di cavalli, e d'artiglierìe: il tempo freddo e sereno, le nevi indurite in ghiaccio facilitavano il passo. Solo alcuni soldati per la forza di quell'insolito rigore o morivano gelati, o perdute le estremità con le membra monche restavano. Crudo era il viaggio, ma speranza di terminarlo felicemente, quando il dì quattro (rimaneva a varcarsi il retroguardo in cui si trovava Macdonald), si levava una spaventevole bufera, che e gli uomini col soffio violentissimo arrestava, e sotto monti di lanciata neve gli seppelliva, ed ogni traccia che fatta si fosse di strada, intieramente scassava. La disperazione entrava negli animi: le guide, uomini del paese, atterrite attestavano l'impossibilità del passare, e l'opera loro ricusarono. Era per perire Macdonald sotto monti di neve, come era perito Cambise sotto monti d'arena. Ma vinse la virtù sua e dei compagni: queste sono opere piuttosto da giganti che da uomini. Incoraggiò le guide, incoraggiò i soldati. Accorreva, e gridava: «Francesi, ha l'esercito di riserva vinto il San Bernardo, vincete voi la Spluga: superate per gloria vostra quello, che la natura ha voluto fare insuperabile: i destini vi chiamano in Italia; ite e vincete, prima i monti e le nevi, poscia gli uomini e l'armi». La lunga tratta delle squadre desolate riprendeva il cammino. Imperversava vieppiù la bufera: spesso le guide piene di un alto terrore tornavano indietro, spesso gli uomini sepolti, spesso dispersi spesso la stretta foce della sublime valle si trasformava in monte di neve; là era un muro bianco e sodo, dove prima era l'aperta; chiusa ogni strada. S'aggiungeva un freddo intensissimo, maggiore, quanto più si saliva, e che gli animi attristava, e prostrava, e le membra con renderle inutili aggrezzava. Le nevose ed estemporanee mura spesso si rinnovavano, l'inesorabile inverno spaziava largamente, e dominava; le Rezie Alpi in atto di sorbirsi gli audaci Francesi. Rifulse in tanto estremo caso mirabilmente, quanto possa questa portentosa umana natura; perchè non restandosi Macdonald nè i suoi a quel mortale pericolo, aprivano ciò che era chiuso, spianavano ciò che era montuoso, rompevano ciò che era ghiacciato, assodavano ciò che era cedevole, sgretolavano ciò che era sdrucciolente, coprivano o riempivano ciò che era abisso. Per tale modo, quantunque un rovinoso inverno gli chiamasse a distruzione ed a morte, l'inverno vincevano, e contrastando a quanto hanno di più terribile e di più insuperabile i furibondi elementi, riuscivano nella Valtellina valle a salvamento. Rallegravansi dell'acquistata vita l'uno con l'altro, perchè si erano creduti morti: godevasi Macdonald il raccolto frutto dell'invitta costanza. Imprese son queste che pajono impossibili, e più a coloro che le hanno effettuate. Non le crederebbe la posterità, se il secolo nostro, tanto abbondante raccontatore, non uno, ma cento testimonianze non fosse per tramandarne; nè ricorda alcuna storia o antica o moderna fatto più maraviglioso, o più erculeo di questo. Da lui si vide con qual nemico avessero a fare gli Austriaci; perchè certamente non si sarebbero eglino mai posti a fatti sì rischievoli; il valore era pari da ambe le parti, maggiore l'audacia da quella dei Francesi. Chiamanla alcuni temerità; pure la fortuna è amica degli audaci, ed il mondo è di chi se lo piglia.

Sebbene la prima parte dell'impresa fosse compita, restavano ad effettuarsi le due altre, che avevano anch'esse gran momento di difficoltà; quest'erano il passo dalla Valtellina nella valle Camonica, cioè dall'acque dell'Adda a quelle dell'Oglio, ed il passo dalla Valtellina nel Trentino, cioè dall'acque dell'Adda a quelle dell'Adige. Apriva il primo il monte Priga, il secondo il monte Tonale. Non ebbe prospero fine il tentativo contro quest'ultimo, perchè gli Alemanni vi si erano fortemente trincerati, e sebbene Macdonald due volte con grande vigorìa gli combattesse, ajutati dalla stagione, dalla fortezza del luogo, e dal proprio valore il risospinsero. Da un'altra parte sortiva esito felice il passo della Priga. Traversato, non senza gravi difficoltà e pericoli, quell'aspro monte, vedevano i repubblicani le acque dell'Oglio, e passato Breno, si raccoglievano a Pisogna, terra posta sulla settentrional punta del lago d'Iseo, cui l'Oglio con le sue acque forma e nodrisce. Vi trovavano la legione Italiana di Lecchi, e vettovaglie fresche, provvidenza di Brune, che ve le aveva mandate a ristoro di quelle stanche ed eroiche genti.

Erasi sul fine di novembre disdetta la tregua, e denunziate le ostilità da una parte e dall'altra, ma non si venne tosto alle mani in Italia, perchè Brune non voleva principiar la guerra innanzi che Macdonald, occupato allora nel passo dei monti, fosse venuto a congiungersi con lui. Nè stava senza timore che il suo fianco destro pericolasse, stantechè Dupont, dopo la conquista della Toscana, era ritornato con la maggior parte delle truppe al campo principale, lasciato solamente in quel paese Miollis con tre o quattromila soldati. Oltre a ciò il re di Napoli, stimolato dagl'Inglesi, e volendo cooperare coll'Austria, aveva radunato un'esercito campale sotto la condotta del conte Ruggiero di Damas; il quale traversato lo stato pontificio, già s'avvicinava alla Toscana. Perciò il generale di Francia stava aspettando che Macdonald si accostasse, e che i soldati novelli, che già erano arrivati in Piemonte, gli pervenissero. Nè meno desiderava indugiar la guerra Bellegarde, volendo aspettare che Laudon e Wukassowich fossero scesi dal Tirolo. Inoltre trovandosi alloggiato in sito forte per natura e per arte, amava meglio essere assaltato, che assaltare.

Avvicinandosi oggimai la fine dell'anno, ed essendo giunto Macdonald sui campi, donde poteva cooperare con Brune, e volendo il generalissimo secondare i movimenti di Moreau in Germania, che con armi prospere minacciava il cuore dell'Austria, si deliberava a dar principio alle ostilità: assaltati impetuosamente i corpi che Bellegarde aveva posto alle stanze sulla destra del Mincio, gli sforzava a rivarcare il fiume. Restava ch'egli medesimo il passasse, difficile opera, perchè gli Austriaci forti di numero e di sito, si erano risoluti a difendere gagliardamente il fiume. Erano i Francesi partiti in tre schiere: la superiore, cioè la sinistra governata da Moncey, guardava a Peschiera, la mezzana, a cui presiedeva Suchet, stava rimpetto a Borghetto, la inferiore o la destra guidata da Dupont alloggiava alla Volta, e si distendeva sino a Goito. Fece Brune pensiero di varcare al passo di Mozambano, perchè quivi le rive essendo meno paludose facilitavano lo accostarsi, ed il combattere più fermamente nei luoghi occupati. Perchè poi il passo gli riuscisse più facile, avvisò di ingannar il nemico con fargli credere, ch'ei lo volesse passare più sotto tra la Volta e Pozzuolo. Con questo fine ordinava a Dupont, facesse qualche forte dimostrazione di voler varcare in questo luogo, e tanto vi tempestasse, che Bellegarde si persuadesse, che quest'era il passo veramente, che i Francesi avevano intenzione di effettuare, non dubitando, che per questo timore vi avrebbe il generale Tedesco mandato gran parte delle sue genti, e perciò, nudando il suo destro fianco, dato più facile esecuzione al disegno di Mozambano. Ciò non ostante voleva Brune, e così aveva comandato a Dupont, che si contentasse di una dimostrazione sulla riva sinistra, non vi prendesse alloggiamento stabile, non v'ingaggiasse battaglia giusta. Correva il giorno venticinque decembre, cui il generalissimo di Francia aveva destinato al passaggio del Mincio. Fu il primo Dupont a mandar ad effetto la fazione che gli era stata commessa. Passava primieramente coi soldati leggieri sulle barche trovate a caso, poi, accomodate le piatte, construiva il ponte, e varcava con la maggior parte delle genti, che erano le due squadre di Watrin e di Monnier. S'impadroniva, dopo breve contrasto, della terra di Pozzuolo, e senza aver rispetto alle condizioni delle cose, vi fermava le sue stanze; felice ad un tratto, ed infelice pensiero, perchè se l'impadronirsi di Pozzuolo era fatto importante, la circostanza era tale, che avrebbe potuto partorire la difazione intiera dei Francesi, e per poco stette, che non abbia fatto quest'effetto. Sarebbe stato e miglior partito per non deviare dalla volontà del generalissimo, e più sicuro per Francia, che Dupont, acquistata la facoltà del passare, attendesse, prima di effettuare il passo, che Brune avesse ancor egli varcato a Mozambano. Ne sorse un gravissimo pericolo; perchè Brune avendo trovato le strade molto sinistre, non potè mettersi all'impresa il giorno venticinque; il che fu cagione che Bellegarde, che alloggiava col grosso a Villafranca, terra poco lontana, corse subitamente con tutto il pondo de' suoi contro Dupont. Si difese virilmente il Francese, ancorchè Bellegarde si fosse scoperto con quasi tutto il suo esercito in battaglia; fecero i suoi soldati quanto in accidente sì pericoloso per uomini valorosi si poteva fare. Ma tanto preponderava il nemico, combattendo colla maggior parte delle sue forze contro una piccola di quelle dell'avversario, che già Dupont, non essendo potente a resistere col suo corpo solo, cedeva, e si vedeva vicino ad essere rituffato nel fiume, portando in tal modo la pena dell'aver preso animo, contro gli ordini del capitano generale, di fermarsi, e far grossa battaglia sulla riva opposta del fiume. Sarebbe adunque stata l'ala destra dei Francesi conquisa intieramente e rotta, se non fosse giunto improvvisamente un non pensato soccorso. Suchet, che dall'eminenze della Volta scopriva quanto Dupont fosse pressato dal nemico, consigliandosi piuttosto con la necessità dell'accidente, che con gli ordini di Brune, perciocchè il generalissimo gli aveva ordinato che andasse ad ajutare il passo di Mozambano, frettolosamente marciava al mal auguroso Pozzuolo. L'arrivo di Suchet ristorava la fortuna della giornata oramai perduta. Tuttavia gli Austriaci grossi e sicuri sul loro destro fianco facevano una battaglia forte, e molto ostinata. Tre volte s'impadronirono di Pozzuolo, e tre volte ne furono risospinti. Infine fu costretto Bellegarde a tirarsi indietro a Villafranca, lasciando i repubblicani in possessione di Pozzuolo. Patì molto in questa battaglia; perciocchè gli mancarono circa cinquemila soldati tra morti e feriti; tremila prigionieri attestarono quanto spesso le fini delle battaglie siano diverse dai principj. Tre bandiere, undici cannoni ornarono il trionfo dei vincitori. Non fu però senza strage la vittoria ai Francesi: duemila soldati mancarono o per morte, o per ferite; pochi vennero in potestà di Bellegarde. Il seguente giorno, come aveva destinato, passava Brune il fiume a Mozambano per guisa tale che tutto l'esercito di Francia si trovava condotto sulla sinistra del Mincio.

Bellegarde, considerato il successo della fazione di Pozzuolo, nè volendo avventurarsi a battaglie campali in quella facile largura tra il Mincio e l'Adige, ancorchè molto prevalesse di cavallerìa, accomodava le sue deliberazioni agli esiti delle cose, e ritirava le genti sulla sinistra dell'Adige, solo lasciando sulla destra alcuni corpi, non per signoreggiare il paese, ma soltanto per meglio difendere il passo del fiume. Brune, fatto più ardito dalla vittoria, applicava l'animo a cacciare l'avversario oltre Verona, ed a far sentire l'impressione delle armi Francesi nel Vicentino, nel Padovano, e nel Trivigiano. Ciò meditando, a modo tale ordinava la fazione, che piuttosto sopra Verona che sotto effettuasse il passo, perchè in questa guisa procedendo, Macdonald poteva più facilmente cooperare con lui, ed aveva speranza d'impedir la congiunzione di Laudon, e di Wukassowich, che già scendevano dal Tirolo. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso all'Adige, mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e Rivoli, affinchè serrasse la strada a Laudon ed a Wukassowich, e nel caso in cui eleggessero di rivoltarsi là, dond'erano venuti, gli perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald procedendo pei monti superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in quella del Mela, da questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla superior coda del lago di Garda, si proponeva di riuscire per montagne scoscese e rotte, sopra a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il suo effetto, Laudon e Wukassowich, combattuti sopra da Macdonald, sotto da Moncey, non avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente il pensiero di Brune, rispetto al passo del fiume, perchè facilmente gli veniva fatto di varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei successivi passaggi, ora di Francesi, ora di Tedeschi. Bellegarde, informato del viaggio di Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione per impedire il transito ai repubblicani, e si ritirava, lasciato solamente nel castello di San Felice di Verona un presidio, che poco dopo s'arrese, sulle rive della Brenta. Al tempo stesso accortosi, quanto la guerra fosse pericolosa a Laudon ed a Wukassowich, aveva loro comandato, che risalissero più presto che potessero l'Adige, e per la valle della Brenta con frettolosi passi venissero a congiungersi con lui nei contorni di Bassano. In questo punto pervennero le novelle, che dopo la vittoria di Hohenlinden guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era stata conclusa a Steyer il giorno venticinque decembre, una tregua tra il generale Francese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un trattato simile di sospensione di offese; ma esigendo conforme alle istruzioni, che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e porto Legnago, anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si continuò la guerra.

Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano a serrare da ogni parte Wukassowich e Laudon, per impedir loro la facoltà del ritirarsi. Ma il primo alloggiato superiormente al secondo, e prestamente obbediendo a Bellegarde, entrato per Pergine nella valle della Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la sponda di questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo; il secondo pel contrario si trovava in molto ardua condizione, imperciocchè già si era condotto tanto innanzi, che era disceso fin sotto a Roveredo, e non poteva più tornare indietro per Trento innanzichè Macdonald vi arrivasse. Era oltre a ciò aspramente combattuto da Moncey dalla parte inferiore per modo, che cacciato all'insù da un sito all'altro aveva anche abbandonato al vincitore la possessione di Roveredo. Al tempo stesso Macdonald, superata la resistenza, che Davidowich con un po' di retroguardo di Wukassowich aveva fatto a Trento, s'impadroniva di questa capitale del Tirolo Italiano. Era adunque tolto ogni scampo a Laudon per la strada maestra, nè altra speranza gli restava, che quella di condursi per le strette ripide e malagevoli di Caldonazzo, a Levico. Il passo era impossibile ad eseguirsi per sentieri tanto difficili, massime pei cavalli, per le bagaglie, e per l'artiglierìe, se vivamente i Francesi l'avessero perseguitato. Mandò dicendo a Moncey, essere conclusa una tregua, cosa non vera, tra Brune e Bellegarde; il richiedeva dell'osservazione: prestò fede il Francese, e si astenne dal combattere. Laudon intanto, usando l'occasione e frettolosamente marciando, arrivava a salvamento a Levico, donde calandosi con viaggio prospero, si avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali della repubblica, dolenti ambidue, che per inganno fosse loro stata tolta l'occasione di un segnalato fatto a propria gloria, e ad utilità della patria. Rammaricossene più spezialmente Macdonald, per avere incontrato indarno tanti pericoli e fatiche. Restava che compisse un'altra parte del suo disegno, piacendogli le imprese grandi ed audaci: quest'era di montar l'Adige fino a Bolzano ed a Brissio, poi di entrare nella valle della Drava per riuscire alle spalle di Bellegarde, e tagliargli la strada al suo ricetto d'Austria. Infatti già era arrivato col suo antiguardo a Bolzano, combattendovi gagliardamente il generale Auffenberg, che vi stava a difesa con quattromila soldati: non la guerra, ma la pace impedì a Macdonald l'esecuzione del suo animoso pensiero.

Eransi Wukassowich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora poteva tener in pendente la fortuna; ma non volle più avventurare le sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dalla Brenta, riducendosi sulle sponde della Piave. Il perseguitava Brune: era il fine della guerra. A petizione del generale d'Austria si concluse il dì sedici gennajo a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato, se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera e di Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la cittadella di Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero ai Francesi; Mantova restasse bloccata dai repubblicani a ottocento braccia dallo spalto con facoltà al presidio di procacciarsi viveri di dieci in dieci giorni; i magistrati Austriaci si rispettassero, la tregua durasse trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per fatti od opinioni politiche potesse essere molestato. Non piacque al consolo l'accordo di Treviso, perchè non giudicava a suo proposito, che l'Austria possedesse Mantova. Mandò adunque minacciando, trovandosi in condizione vittoriosa, all'Austria, che se non gli desse Mantova, sarebbe di nuovo interrotta la concordia, e non avrebbe per rate nè la convenzione di Steyer, nè quella di Treviso, e rincomincierebbe la guerra. Fu forza all'imperatore il consentire, e per un nuovo accordo fatto a Luneville, fu quella principalissima fortezza data in mano dei Francesi.

La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli, perchè per lei potevano i Francesi più espeditamente attendere alla ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo stato Romano, era entrato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro lato il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi, e coi fuorusciti Aretini, s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato a romore le parti superiori del gran ducato. Al quale moto sollevati gli Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in confusione e sconquasso i confini, s'incamminavano Sommariva da una parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove il generale Francese aveva la sua principale stanza. Queste cose accadevano sul principiar dell'anno. Disperando Miollis, perchè si sentiva più debole pel poco numero de' suoi soldati, misti di Francesi, Cisalpini, e Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due nemici, s'appigliò prudentemente al partito di combattergli separati, usando celerità. Marciavano primieramente contro i Napolitani condotti dal conte. Guidava il generale Pino l'antiguardo di fanti Cisalpini, e di cavalli Piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa colonna di cinque o sei mila fanti Napolitani, e valorosamente urtando con le bajonette, gli voltava in fuga. Volle il conte far testa in Siena; ma Pino guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal fervore della vittoria, dava dentro incontanente, e fracassate coi cannoni le porte, vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il conte; poi fece opera di rannodarsi sui poggi vicini, ma pressando viemmaggiormente i Cisalpini ed i Piemontesi, fu costretto ad abbandonar tostamente i territorj Toscani, ritirandosi in quei di Roma per l'oscurità della notte. Il marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i passi, e giva a ricoverarsi in Ancona, In al modo Miollis pel valore de' suoi, e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di Bellegarde. Quest'erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la sospensione di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le cose del regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat, siccome gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove reclute in Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la Romagna per invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al medesimo fine una forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni cosa cedeva alla riputazione della vittoria. Il resistere pel re era impossibile, la sua ruina certa. La salute, caso da non essere presentito, gli venne dal settentrione. Carolina regina, che quantunque fosse di natura pur troppo risentita, e si lasciasse tropp'oltre trasportare dallo sdegno, aveva mente forte, e non dava molta fede alle matte credenze, ed alle parole gonfie degli stravolti nemici di Francia, si era risoluta, voltando tutto l'animo alle speranze Russe, e non isperando in altro modo congiunzione con Francia, di andar a Pietroburgo per pregare l'imperatore Paolo ad intromettersi, come mediatore, tra il consolo e Ferdinando. Piacque la fede a Paolo: già rappattumato col consolo, mandava in Italia il generale Lewashew, affinchè s'intromettesse a concordia fra le due potenze. Si soddisfece Buonaparte del procedere di Paolo, perchè in primo luogo vedevano le nazioni, principalmente gl'Italiani, che uno dei più potenti principi del mondo, non solo riconosceva il suo governo, ma ancora aveva amicizia con lui; in secondo luogo vedeva egli medesimo il regno di Napoli sottratto dalla divozione Inglese, e ridotto nuovamente nella propria. Fecersi a Lewashew venuto in Italia onorevoli accoglienze in ogni parte, parendo che rilucesse nella persona sua tutta la grandezza di Paolo: i popoli si maravigliavano, che la Russia tanto nemica a Francia, le fosse ora divenuta amica, e paragonando i tempi di Suwarow con quei di Lewashew, ammiravano la potenza e la felicità del consolo. Venne per parte del re il cavaliere Micheroux a trovare Murat a Foligno: non istettero a negoziar lungo tempo, essendo le due parti sommamente desiderose di convenire, una per piacere a Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu adunque il dì diciotto febbrajo, accordata tra Francia e Napoli, con corroborazione dell'autorità della Russia, una tregua, i principali capitoli della quale furono, che i soldati regj sgombrassero dallo stato Romano, che i repubblicani occupassero Terni, ma che la Nera non oltrepassassero; che tutti i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero contro gl'Inglesi e contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra Porto-ferrajo e Porto-longone nell'isola d'Elba, fintantochè gl'Inglesi non avessero sgombrato da Porto-ferrajo; che Dolomieu si liberasse dalle carceri di Messina, che si restituissero gli ufficiali ed i generali Francesi; che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le raccomandazioni di Francia per coloro, che fossero o banditi, o carcerati per opinioni politiche. Ebbe questo trattato subito effetto: vuotò il conte Ruggiero il territorio della Chiesa: prevenendo le instanze del consolo, aboliva i tribunali straordinarj, e condonava ogni pena pel crimenlese. Murat tra per vanagloria ad entrar qual liberatore in Roma, e per adescare ai futuri disegni venutovi dentro, e concorrendo a lui il popolo, si condusse a far riverenza al pontefice.

Ogni cosa si componeva a concordia: più poteva a Vienna il terrore, che le Inglesi esortazioni. Negoziavasi a Luneville per l'Austria dal conte Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe Buonaparte, l'uno e l'altro avendo mandato e possanza di concludere. Dopo qualche contenzione, pigliarono forma, che il trattato definitivo di pace fosse sottoscritto il giorno nove di febbrajo. I capitoli principali, quanto all'Italia, furono quelli stessi del trattato di Campoformio, solo variossi pei confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo insino alla sua foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli stati d'Austria; la destra parte di Verona, e così quella di Portolegnago spettassero alla Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava l'imperatore a dare la Brisgovia al duca di Modena in ricompensa del perduto ducato; rinunziasse il gran duca alla Toscana ed all'isola d'Elba, e la Toscana e l'isola si dessero all'infante duca di Parma; il gran duca si ricompensasse con stati competenti in Germania; conoscesse, e riconoscesse l'imperatore le repubbliche Cisalpina e Ligure, e rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territorj della Cisalpina; consentisse alla unione dei feudi imperiali colla repubblica Ligure. Del Piemonte nulla si stipulava, perchè Buonaparte voleva serbarsi o una occasione per pigliarlo per se, od un appicco per piacere a Paolo.

Il re di Napoli ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana di Paolo, ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo, convenendo in un trattato di pace a Firenze il dì vent'otto di marzo sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia da Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio, che il re rinunziasse primieramente, e per sempre a Porto-longone, ed a quanto possedesse nell'isola d'Elba, secondamente cedesse alla Francia, come cosa propria, e da farne ogni voler suo, gli stati dei presidj ed il principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico commesso fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse i detenuti, potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse loro restituita ogni proprietà; da ambe le parti si dimenticassero le offese.

Le cose si fermarono anche con nuova composizione colla Spagna, essendosi stipulato un trattato a Madrid il dì ventuno marzo da Luciano Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di Spagna. S'accordarono le due parti, che il duca di Parma rinunzierebbe al ducato in favore della repubblica di Francia, che la Toscana si darebbe al figliuolo del duca con titolo di re; che il duca padre si compenserebbe con rendite e con altri stati; che la parte dell'isola d'Elba che apparteneva alla Toscana, spetterebbe alla Francia, e che la Francia ne ricompenserebbe il re d'Etruria collo stato di Piombino; che la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che se il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re di Spagna.

Così in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedendo ai Buonapartiani fati, vinse il consolo Austria ed Italia. Poscia, essendo in tutti, parte pei medesimi, parte per diversi rispetti la medesima intenzione alla pace, composte tutte le controversie, contrasse amicizia coll'imperatore Paolo, s'accordò coll'imperatore Francesco, e rinnalzò Francia da bassa ad eminente fortuna.

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