LIBRO VIGESIMOSECONDO

SOMMARIO

Buonaparte creatosi imperatore di Francia, pensa a farsi chiamare re d'Italia. Gl'Italiani gli si rappresentano a Parigi, e il fanno pago di questo suo desiderio. Va a Milano per incoronarsi re. Genova cambiata, ed unita a Francia. Festa che danno i Genovesi all'imperatore e re. Dichiarazione di Scipione de' Ricci vescovo di Pistoja, al papa, ed accoglienza che il pontefice gli fa a Firenze. Astute insinuazioni dei gesuiti ai principi, e loro rinstaurazione nel regno di Napoli. Nuova guerra tra la Francia da una parte, l'Austria e la Russia dall'altra, e sue cagioni. Massena generalissimo di Francia, l'arciduca Carlo generalissimo d'Austria in Italia. Battaglia di Caldiero. Strepitose vittorie di Napoleone in Germania. L'arciduca si ritira dall'Italia: pace di Presburgo. Napoleone toglie il regno a Ferdinando di Napoli, e per qual cagione. Giuseppe, fratello di Napoleone, re di Napoli. Si fa sangue nelle Calabrie. Battaglia di Maida tra Francesi ed Inglesi. Accidenti delle bocche di Cattaro, e ferocia della guerra Dalmatica. La Dalmazia e Ragusi riunite al regno Italico.

La natura di Napoleone era irrequieta, disordinata, solo costante nell'ambizione. Però lungo tempo non stava nel medesimo proposito, sempre mutando per salire. Pareva, e fu anche solennemente, e con magnifiche parole detto da lui e da Melzi, che gli ordini statuiti in Lione per l'Italica fossero per essere eterni; ma non ancora erano corsi due anni, che già manchi, insufficienti, non conducenti a cosa che buona e durevole fosse, si qualificarono. Importava a chi s'era fatto imperatore, che re ancora si facesse. Erano, non senza disegno, stati invitati gl'Italici a condursi a Parigi per cagione di assistere, in nome della repubblica, alle imperiali cerimonie ed allegrezze. Vi andarono Melzi vice-presidente, i consultori di stato Marescalchi, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi, Guicciardi; i deputati dei collegi e dei magistrati Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti, Dambruschi, Rangone, Caleppi, Litta, Fe, Alessandri, Salimbeni, Appiani, Busti, Negri, Sopransi, Valdrighi. L'imperatore si lasciò intendere che il chiamassero re, e condannassero gli ordini Lionesi: disponendosi la somma delle cose non solo con un comando, ma ancora con un cenno di Napoleone, il fecero volontieri. Melzi certamente non nato a questi vituperj, appresentandosi il giorno diciasette marzo con gli altri deputati in cospetto di Napoleone salito sul trono nel Castello delle Tuilerie, in tali accenti con lingua e concetti servili favellava.

«Voi ordinaste, o Sire, che la consulta di stato, e i deputati della repubblica Italiana si adunassero, e l'affare il più importante pe' suoi destini presenti e futuri, cioè la forma del suo governo considerassero. Al cospetto vostro io m'appresento, Sire, per compire appresso a voi l'onorevole carico d'informarvi di quanto ella fece e di quanto ella desidera. Primieramente l'assemblea molto bene ogni cosa considerando, venne in questa sentenza, che impossibile è, se troppo non si vuole dagli accidenti dell'età nostra discordare, le attuali forme conservare. Ebbero le Lionesi constituzioni tutti i segni di ordini provvisorj: accidentali furono, perchè agli accidenti dei tempi fossero rispondenti, nè in se alcun nervo avevano, per cui gli uomini prudenti e durata e conservazione promettere si potessero. Non che la ragione, l'evidenza stringono urgentemente a cambiarla. La qual cosa concessa, e confessata vera, come vera è realmente, la via da seguitarsi semplice diventa e piana: i progressi delle cognizioni, i dettami dell'esperienza la monarchia constituzionale, la gratitudine, l'amore, la confidenza il monarca ci additano. Voi conquistaste, o Sire, voi riconquistaste, voi creaste, voi ordinaste, voi fino a questo dì l'Italiana repubblica governaste; quivi ogni cosa le vostre gesta, la vostra mente, i vostri benefizi rammenta: un unico desiderio poteva essere fra di noi: un unico desiderio è sorto. Noi non preterimmo di maturamente considerare quanto nelle future cose profonda sapienza vostra indicava; ma per quanto gli alti e generosi pensieri vostri coi nostri più bramati interessi s'accordino, facilmente abbiamo a noi medesimi persuaso, che le condizioni nostre tanto ancora non sono mature, che possiamo aggiungere a quest'ultimo grado della politica independenza. L'Italiana repubblica, così porta l'ordine naturale delle cose, debbe ancora per qualche tempo restare impressa della condizione degli stati novellamente creati. Un primo nembo, quantunque leggieri, che l'aere oscurasse, sarebbe per lei d'affanni e di timore cagione. Nella qual condizione, quale maggiore sicurezza, quale più fondata speranza di felicità potrebbe ella, Sire, che in voi trovare? Voi siete ancora necessaria parte di lei. Solo nell'alta sapienza vostra sta, solo a lei s'appartiene il vedere il preciso termine della dependenza tra le gelosie esterne, e i pericoli nostri. Interrogati amorevolmente, rispondiamo sinceramente. Questo è il desiderio nostro, che a voi significhiamo, questa la preghiera, che a voi indirizziamo, che vi piaccia quelle costituzioni darne, in cui i principj già da voi pubblicati, dall'eterna ragione richiesti, alla quiete delle nazioni necessari, statuiti siano e confermati. Siate contento, o Sire, di accettare, siate contento di compire le preghiere, e i desiderj dell'Italica consulta. Per questa mia bocca instantemente tutti ve ne ricercano, e ve ne scongiurano. Se voi benignamente ci esaudite, agl'Italiani diremo, che voi con più forte legamento vi siete alla conservazione, alla difesa, alla prosperità dell'Italiana nazione congiunto. Così è, Sire, voi voleste che la Italiana repubblica fosse, ed ella fu: fate ora, che la Italiana monarchìa sia felice, e sarà».

Terminato il favellare, e fattosi avanti Melzi, l'atto dell'Italiana consulta espresse: il governo della repubblica Italiana fosse monarcale, ed ereditario: Napoleone primo re d'Italia si dichiarasse: le due corone di Francia, e d'Italia in lui solo, non ne' suoi discendenti o successori, potessero essere unite: insino a tanto che gli eserciti Francesi occupassero il regno di Napoli, i Russi Corfù, gl'Inglesi Malta, le due corone non si potessero separare: pregassesi Napoleone imperatore, passasse a Milano per ricevere la corona, e statuire leggi definitive pel regno.

Rispose Napoleone con voce forte, ma chioccia, come l'aveva, aver sempre avuto il pensiero di creare libera e independente la nazione Italiana; dalle sponde del Nilo avere sentito le Italiane disgrazie; essere, mercè del coraggio invitto dei suoi soldati, comparso in Milano, quando i suoi popoli d'Italia ancora il credevano sulle spiagge del mare Rosso; ancora tinto di sangue, ancora cosperso di polvere, sua prima cura essere stata l'ordinare l'Italiana patria: chiamarlo gl'Italiani a loro re; volere loro re essere, volere questa corona conservare, ma solo fintantochè gl'interessi loro il richiedessero: deporrebbela, quando fosse venuto il tempo, sopra un giovane rampollo volentieri, al quale del pari che a lui sarebbero a cuore la sicurezza e la prosperità dei popoli Italiani. Nè questa fu la sola dimostrazione, ch'ei fece in questo proposito.

Entrò il giorno seguente l'imperatore in senato. Taleyrand, ch'era uomo molto ambidestro, e capace di pruovar questa con molte altre cose ancora, pruovò, che per allora l'unione della corona d'Italia a quella di Francia era necessaria. Lessesi l'accettazione: poi Napoleone prese a favellare, pretendendo parole di moderazione e di temperanza.

«Noi vi chiamammo, o senatori, disse, per darvi a conoscere tutto l'animo nostro intorno agli affari più importanti dello stato. Potente e forte è l'impero di Francia, ma più grande ancora la moderazione nostra. La Olanda, la Svizzera, l'Italia tutta, la Germania quasi tutta conquistammo: ma in fortuna tanto prospera misura e modo serbammo. Di tante conquistate province quello solo ritenemmo, che necessario era a mantenerci in quel grado d'autorità e di potenza, nel quale fu sempre la Francia posta. Lo spartimento della Polonia, le province tolte alla Turchìa, la conquista dell'Indie, e di quasi tutte le colonie hanno a pregiudizio nostro dall'un dei lati fatto ir giù la bilancia: l'inutile rendemmo, il necessario serbammo, nè mai le armi per vani progetti di grandezza, nè per amore di conquista impugnammo. Grande incremento alla fertilità delle nostre terre avrebbe recato l'unione dei territorj dell'Italiana repubblica: pure dopo la seconda conquista, l'independenza sua a Lione confermammo; ed oggidì più oltre ancora procedendo, il principio della separazione delle due corone statuiamo, solo il tempo di lei, quando senza pericolo pei nostri popoli d'Italia effettuare si possa, assegnando. Accettammo, e sulla nostra fronte l'antica corona dei Lombardi posammo: questa rattempreremo, questa rinstaureremo, questa contro ogni assalto, finchè il Mediterraneo non sia restituito alla condizione consueta, difenderemo, e questo primo Italico statuto a poter nostro sano e salvo conserveremo».

Creava l'imperatore Eugenio Beauharnais, figliuolo dell'imperatrice sua moglie, principe: poi, suo figliuolo adottivo chiamandolo, vicerè d'Italia il nominava. Creava Melzi guardasigilli del regno. Decretava, anderebbe a Milano, e la corona reale, la domenica ventisei di maggio, prenderebbe. Messosi in viaggio con grandissimo seguito di cortigiani, perchè voleva far illustre questa sua gita con apparato molto superbo, e più che regio, e festeggiato con grandissimi onori per tutta Francia, arrivava Napoleone il dì venti aprile a Stupinigi, piccola ed amena villa dei Reali di Sardegna, posta a poca distanza da Torino. Quivi concorsero a fargli onoranza i magistrati; Menou verso di lui umilissimo si mostrava. Ad alcuni parlò benignamente, ad altri superbamente, secondochè era da Menou Egiziaco susurrato. Riprese con parole aspre l'arcivescovo Buronzo, accusandolo di serbar tuttavia fede al re di Sardegna: tolse dalla carica Pico, presidente del tribunale, e lo voleva anche far ammazzare, perchè, come diceva, l'aveva tradito nelle faccende Veneziane. Infine trascorse in parole sdegnosissime contro i giacobini, chiamandogli scelerati, e più quelli che l'avevano servito: in ciò era stimolato particolarmente da Menou, che parlava come se non fosse mai stato giacobino egli. Aggiunse il sire, che gli avrebbe fatti arar dritto, e chi non avesse arato dritto, avrebbe a far con lui. Tutte queste cose disse, e fece con modi tanto plebei, che tutti restarono persuasi, che se aveva la forza non aveva la dignità, e che novizio ancora, male sapeva portare il nuovo imperio. Vennero a trovarlo a Stupinigi i deputati di Milano per fargli omaggio, re loro, rigeneratore loro, padre loro chiamandolo. Rispose onorevolmente, gli avrebbe in luogo di figliuoli: raccomandò loro, fossero virtuosi, l'attiva vita, la patria, e l'ordine amassero. Dell'ordine parlava per dar contro ai giacobini, credendo che questa fosse buona arte per adescare i re. Terminò minacciosamente dicendo, che se alcuno avesse concetto gelosia pel regno d'Italia, aveva una buona spada per disperdere i suoi nemici; il che era vero. I buoni Milanesi stupivano a quelle sì vive dimostrazioni, ed argomentavano, che il placido e grasso vivere fosse giunto al fine. Visitato Moncalieri, corse la collina di Torino: esaminata Superga, entrò trionfalmente nella reale città. Abitò il palazzo del re, con molto studio e diligenza a questo fine restituito ed addobbato dal conte Salmatoris. Correvano i popoli Piemontesi a vedere l'inusitato spettacolo: si maravigliavano, non del caso, che già ne avevano veduti tanti, ma della superbia. Arrivava in questo mentre papa Pio a Torino, tornando da Francia. Fu fatto alloggiare nella reggia con Napoleone: stettero molte ore ristretti insieme: Pio sperava. Napoleone lusingava, pubblicamente stretto accordo mostravano, l'imperatore ne godeva, perchè sapeva qual effetto sulla opinione dei popoli partorisse l'amicizia di un papa. Visitò le pubbliche singolarità, con incredibile imperturbabilità parlando di quel che sapeva, e di quel che non sapeva: ma che dicesse bene, o che dicesse male, tutti sempre applaudivano. Parlò con facilissima loquela di musica, di medicina, di leggi, di pittura: volle vedere la tavola d'Olimpia, pinta da Ravelli, pittore di nome. Lodò l'opera, ma notò qualche difetto: tutti fecero le maraviglie del quanto se ne intendesse. Il papa festeggiato, anche da Menou Abdallah, se ne partiva alla volta di Parma.

Dai discorsi civili si venne alla rappresentazione delle armi. Volle Napoleone vedere i gloriosi campi di Marengo, e quivi simulare una sembianza di battaglia. Rizzossi un arco trionfale sulla porta d'Alessandria per a Marengo con gli emblemi delle Italiche, Germaniche, Egiziache vittorie. Sul campo stesso del combattuto Marengo l'imperial trono s'innalzava. Compariva Napoleone in una carrozza molto splendida, e tirata da otto cavalli: non conobbe, quanto più grande sarebbe stato, se in quei medesimi luoghi si fosse rappresentato con modestia e da soldato; ma la vanità guastava la gloria. Stavano i soldati schierati, molti memori delle portate fatiche in questi stessi Marenghiani campi: Francesi, Italiani, Mamalucchi, sì fanti che cavalli: s'accostavano le guardie nazionali, tutte in abito, ed in bellissimo ordine disposte: magnifica comparsa poi facevano le guardie d'onore Milanesi venute a Marengo per onoranza del nuovo signore. Stavano appresso gli ufficiali di corte, i ciamberlani, le dame, i paggi, e molti generali in abiti ricchissimi. Splendeva il sole a ciel sereno: i raggi ripercossi, e rimandati in mille differenti guise da tanti ori, argenti, e ferri forbiti, facevano una vista mirabile. Una moltitudine innumerevole di popolo era concorsa: l'Alessandrina pianura risuonava di grida festive, di nitriti guerrieri, di musica incitatrice. Napoleone glorioso venuto al trono, e postovi l'imperatrice a sedere, scendeva dall'imperiale cocchio; e montato a cavallo s'aggirava per le file degli ordinati soldati. Le grida, gli applausi, i suoni di ogni sorta più vivi e più spessi sorgevano, ed assordavano l'aria. Terminate la rassegna e la mostra, ivi a sedersi sull'imperiale seggio ancor egli, essendo in lui conversi gli occhi della moltitudine, tutti imperatore e vincitore di Marengo con altissime voci salutandolo. Seguitava la battaglia simulata fra due opposte schiere, moderando le mosse e gli armeggiamenti Lannes, che dopo i nuovi ordini imperiali era stato creato maresciallo. Durò dalle dieci della mattina sino alle sei della sera con diletto grandissimo di Napoleone; la quale terminata, dispensò a parecchi soldati o magistrati le insegne della legion d'onore, nuovo allettamento pe' suoi disegni creato da lui novellamente, siccome quegli che ottimamente conosceva i repubblicani de' suoi tempi. Sceso poscia dal trono gettava le fondamenta di una colonna per testimonianza alle future genti della Marenghiana vittoria: ivi si fermarono le gloriose ricordanze. Arrivava Napoleone con tutti i grandi della corona il dì sei maggio a Mezzana-Corte sulla sponda del Po, dove passato il fiume sopra non so quale estemporaneo Bucintoro, fra le innumerevoli acclamazioni dei popoli, che sulle due opposte rive tripudiavano, sulle terre del suo Italico regno entrava. L'aspettavano in solenne pompa, il ricevettero, il lodarono il prefetto dell'Olona, il guarda-sigilli Melzi, il maresciallo Jourdan, che stava al governo dei soldati francesi alloggiati nel regno Italico. Rispose secco in un momento, in cui massimamente il suo cuore sarebbe dovuto aprirsi, e spander fuori da tutte le vene fonti d'affezione.

Giunto a Pavia, fece sua stanza nel palazzo del marchese Botta, ad uso di palazzo imperiale destinandolo, buon grado o malgrado che ne avesse il marchese, che per verità poco si curava di questo Napoleonico onore. Guardie d'onore, studenti addobbati, folle di popolo, arazzi spiegati, fiori sparsi, lumi accesi, applausi infiniti testificavano l'allegrezza dei Pavesi verso chi gli aveva avaramente, e crudelmente posti a sacco. Vide volentieri l'università, che l'ebbe con queste parole, per voce del rettore, e dei professori decani, lodato:

«Voi assicuraste due volte colla vittoria, o sire, la sorte d'Italia, e due volte fra i travagli delle armi stendeste la mano generosa alle scienze profughe e mal sicure. Allora fu, che questo tempio sacro alla sapienza venne da voi rialzato all'antico splendore. Chiamati noi sotto l'ombra del vostro scudo all'onorato ministero del suo culto, fummo ognora penetrati da profonda riconoscenza. Il popolo Francese vi pose in capo la corona imperiale; ma gli Italiani vi prepararono quella degli antichi loro re: essi ve la offersero, voi l'accettaste, e la fronte piena d'alti pensieri si fregierà di un duplice diadema. Questo è l'istante, che apre libero il campo alla nostra gratitudine, e che ci guida a depositare a' vostri piedi l'omaggio solenne della nostra comune esultazione. Voi, cui circondano le pacifiche non meno, che le guerriere virtù, accogliete il rispettoso nostro discorso, e vogliate esserci padre, e nume tutelare. Apprenda da voi la posterità, che il genio delle armi unito a quello delle scienze e delle arti forma la felicità delle nazioni. Venite adunque fra noi, benefico e magnanimo eroe: per voi si diffonderanno vieppiù tutte le fonti del sapere. Già l'Italia, l'illustre patria de' Virgili, de' Galilei, de' Raffaelli ingrandisce le sue speranze sotto i potenti vostri auspicj. Il cielo vi formò per le grandi cose, e poichè tutto vi diede, vi conceda ancor lunghi e sereni giorni, onde compiere l'opera della vostra beneficenza, e gli alti destini, che ci avete preparati».

Io ho voluto riferire questo discorso elogistico dell'università di Pavia, perchè, sebbene del tutto non sia purgato, è nondimeno a comparazione delle laide e deformi Italiane scritture di quei tempi, limpido e puro di parole, e di stile non isconveniente al soggetto.

Fu magnifico l'ingresso di Napoleone in Milano. Entrava per la porta Ticinese, a cui fu dato nome di Marengo. Gli appresentarono i municipali le chiavi posate sopra un bacile d'oro. Dissero, essere chiavi della fedel Milano; i cuori aversegli già da lungo tempo acquistati. Rispose, serbassero le chiavi; credere, amarlo i Milanesi, credessero, lui amargli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente una foltissima calca di popolo, al Duomo, il cardinal Caprara, arcivescovo, fattosegli incontro sulla soglia, giurava rispetto, fedeltà, obbedienza e sommessione, augurava conservazione di sì gran sovrano, invocava gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio e Carlo, acciocchè a lui, ed a tutta la sua famiglia salute piena, e contentezza perenne dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il palazzo dei duchi ornato a festa, e tutto esultante per l'acquistata grandezza accoglieva il novello re.

Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano a trovare i deputati dell'Italiche e dell'estere città. Vennevi Lucchesini portatore dei Prussiani onori, e delle Prussiane arti: recava da parte del re Federigo l'aquila nera, e l'aquila rossa a Napoleone: fregiatosene il sire, compariva con loro al cospetto de' suoi schierati soldati. Queste cose si facevano per pungere l'Austria, perchè a questo tempo il re Federigo, a ciò confortato da Lucchesini e da Hagwitz, si era risoluto, con quale prudenza e felicità il mondo stupidito se l'ha veduto, a secondare in tutto e per tutto i disegni di Napoleone imperatore. Vennevi Cetto, inviato di Baviera, Beust, inviato dell'arcicancelliere dell'impero Germanico, Alberg mandato da Baden, Benvenuti balì mandato dall'ordine di Malta: mandovvi la montagnosa Vallesia il landamanno Augustini: mandovvi l'adusta Spagna il principe di Masserano, Lucca un Cotenna ed un Belluomini, Toscana un principe Corsini ed un Vittorio Fossombroni: tutti venivano ad onoranza, ed a raccomandazione appresso al potente e temuto signore.

Maggior materia era sotto i deputati della Ligure repubblica. Aveva mandato il senato Genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo, Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue, Scassi, senatori. A loro maggiori carezze, più squisiti onori si facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi, ed il cardinale Caprara a soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinari ai senatori. Il signore stesso sempre gli guardava con viso benigno, e si allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto festeggiare non erano i Liguri legati la minor parte della comune allegrezza. Le quali cose considerando coloro, che la natura di Napoleone non conoscevano, chiamavano i Liguri fra tutti gli uomini felicissimi, e felicissime sorti argomentavano per la piccola repubblica. Ma quelli a cui era noto l'umore, stimavano che vi fosse sotto qualche disegno, e dubitavano di qualche mal tratto. I Liguri legati stessi, quelli almeno che non erano nella trama, perciocchè alcuni vi erano, di tanti onori ed accattamenti si maravigliavano, e gli animi non avevano del tutto sgombri da timore. Ammessi all'udienza del signore, il videro sereno e lieto. Con esso lui dell'acquistato imperio si rallegrarono, il commercio della prediletta Liguria instaurasse, supplicarono. Rispose umanamente, conoscere l'amore dei Liguri, sapere aver soccorso gli eserciti di Francia in tempi difficili; non isfuggirli le angustie loro; prenderebbe la spada e gli difenderebbe: conoscere l'affezione del doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i Liguri senatori: anderebbe a Genova; senza guardie come fra amici v'anderebbe. Dopo l'udienza furono veduti ed accarezzati dall'imperatrice, e da Elisa principessa, sorella che era di Napoleone, sposata ad un Baciocchi, creato principe anch'egli. Tutti mostravano dolce viso ai Liguri legati nella Napoleonica corte.

Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica ventisei di maggio, essendo il tempo bello, ed il sole lucidissimo, s'incoronava il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti ricchissimi; ambe risplendevano di diamanti, dei quali in Italia meno che in qualunque altro paese avrebbero dovuto far mostra. Seguitava Napoleone portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo scettro, e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due grandi scudieri sostenevano lo strascico, in dosso. L'accompagnavano uscieri, araldi, paggi, ajutanti, mastri di cerimonie ordinari, mastro grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con gli onori di Carlomagno, d'Italia, e dell'imperio procedevano i grandi ufficiali di Francia e d'Italia, e i presidenti dei tre collegi elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo, e rispettoso in viso, col baldacchino, e col clero accostarsi al signore, e sino al santuario accompagnarlo. Non so se alcuno in questo punto pensasse, avere da questo medesimo tempio Ambrogio santo rigettato Teodosio tinto del sangue dei Tessalonici; ma i prelati moderni non la guardavano così al minuto con Napoleone. Sedè Napoleone sul trono, il cardinale benediceva gli ornamenti regj. Saliva il re all'altare, e presasi la corona, ed in capo postolasi, disse queste parole, che fecero far le maraviglie agli adulatori, cioè a tutta una generazione: “Dio me la diede, guai a chi la tocca”. Le divote volte in quel mentre risuonavano di grida unanimi d'allegrezza. Incoronato, givasi a sedere sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata. I ministri, i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano. Le dame specialmente, in acconce gallerìe sedute, facevano bellissima mostra. Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio vicerè, figliuolo adottivo. A lui siccome a quello a cui doveva restare la suprema autorità, già guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e speciale luogo ebbero nell'imperial tribuna il doge, ed i senatori Liguri; stavano con loro quaranta dame bellissime e pomposissime. Giuseppina ed Elisa in una particolar tribuna risplendevano. Le volte, le pareti, le colonne sotto ricchissimi drappi si celavano, e con cortine di velo, con frange d'oro, con festoni di seta s'adornavano. Grande, magnifica, e maravigliosa scena fu questa, degna veramente della superba Milano. Cantossi la solenne messa, giurò Napoleone; ad alta voce dagli araldi gridossi: «Napoleone primo imperatore dei Francesi, e re d'Italia è incoronato, consecrato, e intronizzato; viva l'imperatore e re». Le ultime parole ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni tre volte. Con questo splendore, e con quel di Parigi oscurò e contaminò Buonaparte tutte le sue Italiane glorie; conciossiachè a colui, che od in pace, od in guerra, non per la patria, ma per lui s'affatica, anzi questo nell'abbominevole suo animo si propone, di servirsi dei servigj fatti a lei per soggettarla, e porla al giogo, il mondo e Dio faran giustizia; sono queste azioni scelerate, non gloriose. Se piacquero all'età, dico, che l'età fu vile. Terminata la incoronazione andò il solenne corteggio a cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta festeggiava: fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si trassero, un pallone aereostatico andava al cielo; in ogni parte canti, suoni, balli, tripudj, allegrezze. A veder tante pompe si facevano concetti d'eternità; già gli statuali si adagiavano giocondamente sui seggi loro.

Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge, ed i Liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un empio fatto si tramava. Sollevava Napoleone a cose nuove la travagliata Liguria. Vi si spargevano prima parole, poi aperti discorsi intorno alla necessità dell'unione con Francia. Questo avevano significato le parole di Napoleone, quando pochi giorni prima favellando al suo senato in Parigi aveva detto, nissuna nuova provincia dover essere aggiunta al suo impero. Allegavasi per suggestione e comandamento di lui da uomini prezzolati nelle Liguri province, allora essere stata perduta la independenza, quando fu fatta la rivoluzione; d'allora in poi essere stata sotto diversi nomi, e reggimenti diversi Genova serva; aver lo stato più pesi, che portar possa da se; potergli portare facilmente congiunto con Francia; sperarsi invano che il potente non manomettesse il debole; di ciò manifeste testimonianze aver dato l'Austria, che venne come amica, la Francia come alleata; ripugnare la natura umana, sempre superba, ai moderati desiderj, nè la giustizia regnare in chi troppo può; essere cangiate le sorti d'Europa; preponderare oltre modo la Francia, già abbracciar e stringere da ogni parte pel Piemonte unito, e pell'Italico regno obbediente l'esile Liguria; che starsi a fare, che non si domanda l'unione a Francia! Giacchè non più si può comandare da se, savio consiglio essere il comandare con altrui; le umili Genovesi insegne non rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne Africane, rispettarsi le Francesi, i Napoleonici segni avere a render sicuri i Liguri navilj; così una sola deliberazione politica essere per fare ciò che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste parole si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser posti al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione con Francia, supplicava il senato Napoleone, la decretasse.

Avendo le arti e i comandamenti del signore di Francia e d'Italia sortito l'effetto loro, acciocchè dai Genovesi s'implorasse quello, che l'imperatore aveva ordinato che implorassero, comparivano al suo cospetto in Milano il dì quattro giugno i Liguri legati. Girolamo Durazzo doge, serbato dai cieli a veder il fine della sua nobil patria, ed al quale erano state celate le arti usate in Liguria, dopochè egli era venuto a Milano, tutto pallido e sgomentato in cotal guisa orava:

«Portano i Liguri legati ai piedi di Vostra Maestà Imperiale e Reale i voti del senato e del popolo Ligure. Prendendo il carico di rigenerar questo popolo, voi vi addossate anche quello di farlo felice. A questo solo il possono condurre la sapienza ed il valor vostro. Le mutazioni introdotte nei popoli vicini, da loro intieramente segregandoci, rendono la condizione nostra infelice, e necessariamente richieggono la nostra unione con questa Francia, che voi tanto glorificate. Questi sono i desiderj del popolo Ligure, questi ei manda ad esprimere all'augusto cospetto vostro, questi per noi vi prega di esaudire. Le ragioni che a questa deliberazione ci muovono, pruovano all'Europa, ch'ella non è l'effetto di alcun impulso straniero, ma bensì il necessario risultamento della nostra condizione presente. Degnatevi, o Sire, udire benignamente la voce di un popolo, che nel tempi più difficoltosi sempre si mostrò affezionato alla Francia: unite all'imperio vostro questa Liguria, primo campo delle vostre vittorie, primo grado del trono, sopra il quale vi siete per la salute di tutte le civili società seduto. Siate, supplichiamovene, verso di noi tanto benigno, che consentiate a darci la felicità, che dall'esser vostri sudditi deriva: nè più devoti, nè più fedeli potrebbe la Maestà Vostra trovarne.»

Dettesi queste umili parole dal miserando doge, e porti i suffragi del Ligure popolo al signore, rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo venuto a parte delle faccende del Liguri, a buon fine sempre averle indirizzate; essersi accorto, che per loro era impossibile, che qualche cosa degna dei padri loro facessero: l'avara Inghilterra chiudere a piacer suo i porti, infestar i mari, visitar le navi: le Africane rapine andare ogni ora più crescendo: essere servitù nell'independenza Ligure: essere necessità ai Liguri di unirsi ad un popolo potente: adempirebbe i loro desiderj, gli unirebbe al suo gran popolo volentieri, memore dei servigi prestati: tornassero nella loro patria: visiterebbegli fra breve, suggellerebbe la felice unione in Genova.

Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente per mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono la repubblica, che chiuso è il mare dai Barbari, la terra dalle dogane, supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo impero unisse. Seguitavano le condizioni: si soddisfacesse dallo stato ai creditori Liguri, come a quei di Francia: si conservasse il porto franco di Genova; nell'accatastare si avesse riguardo alla sterilità delle terre Liguri, ed al caro delle opere; si togliessero le dogane e le barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero i soldati solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazi sugli introiti e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della Liguria ne sentissero beneficio, le cause sì civili che criminali si terminassero in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini dell'impero; gli acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e sicuri nel possesso, e nella piena proprietà di loro. Avviluppossi Napoleone, rispondendo, nelle ambagi, perchè dei patti della dedizione solo voleva osservar quelli ch'ei voleva, non quelli che volevano i Liguri. Intanto desiderando mitigare l'acerbità del fatto con un uomo di temperata e prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun, arcitesoriere dell'impero, perchè lo stato nuovo ordinasse a seconda delle leggi Francesi.

Restava, che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava Napoleone il dì trenta di giugno a Genova, tratto dal diletto di udire le Genovesi adulazioni, e di vedere popoli servi. Tutta la città si muoveva per vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavallerìa a Campo Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano, le fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi traeva alle ambizioni si componeva nei sembianti; le Genovesi donne attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del popolo chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Succedevano le adulazioni dei magnati. Michel Angelo Cambiaso, creato sindaco da Lebrun, si appresentava con le chiavi: Genova superba per sito, essere ora superba per destino, disse: darsi ad un eroe: avere gelosamente e per molti secoli custodito la sua libertà: di ciò pregiarsi; ma ora molto più pregiarsi, le chiavi della città regina in mano di colui rimettendo, che savio e potente più di ogni altro valeva a conservargliela intatta e salva. Rispose benignamente, restituì le chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla soglia della chiesa di San Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo l'incensava. Luigi Corvetto presidente del consiglio generale, venuto alla presenza del signore, favellava, avere lui liberato il buon popolo di Genova, averlo in figliuolo adottato; essere quivi in mezzo a' suoi figliuoli, dimenticare il Genovese popolo le passate calamità; ogni altro affetto in questo solo affetto comporsi dello amore dell'imperatore e re; per questo essere i Genovesi sudditi deditissimi; per questo i doveri più sacri affortificarsi dalle affezioni più dolci: non isdegnasse, pregava, la semplicità delle parole loro: eroe, sovrano, e padre, in buon grado accettasse il tributo dell'ammirazione, dell'amore, e della fedeltà loro. Poscia a nome proprio, e di Bartolomeo Boccardi, uomo di non mediocre ingegno, e stato sempre dedito alla parte Francese, Luigi Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria, chiamando Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare l'antica cesarea divisa in quest'altra “venni, vidi, felicitai”. Piacque la squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consiglier di stato. Bene ne occorse ai Liguri, che, perduto l'antico nome, trovarono in Corvetto chi affettuosamente gli amava, chi prudentemente gli consigliava, e chi utilmente appresso al signor del mondo gli avvocava, non a sdegni, nè ad antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma solamente al benefizio dei suoi compatriotti risguardando.

Queste smodate lodi a viso scoperto con tanta franchezza si ascoltava Napoleone, ch'io non so qual fronte fosse la sua. Alloggiava al palazzo Doria a quest'uopo diligentissimamente preparato. Terminati i complimenti si veniva alle feste. Incominciossi dal mare. Faceva magnifica mostra un tempio, che di Nettuno, o Panteon marittimo chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però che ciò apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante suolo, se ne andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni galleggiando. Una gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine Jonico il sostentavano, le immagini dei marini Dei l'adornavano. Sulle due facce interna ed esterna della cupola si leggeva una inscrizione, parto del padre Solari, la quale significava, i Liguri augurare a Napoleone imperatore e re l'imperio del mare, come già si aveva quello della terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio: sopra di lei, condotta che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone, i circostanti festeggiamenti rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro giardini cinesi adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, melagrani, rinfrescati da zampilli di acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più colori, ed adornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in moto dal continuo aggirarsi della macchina con dolce concento tintinnavano continuamente, givano con morbide giravolte ora qua, ora là a galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti, schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate, facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche e di vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento agli occhi dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o vogliam dire, gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte di mare, due da ciascuna con velocità maravigliosa contesero della vittoria, vinse la bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le grida festose montavano ai cielo. Fecesi notte intanto: diventò più bello lo spettacolo. Lumiere di cristallo, che fra le colonne del galleggiante tempio stavano sospese, subitamente accese gittavano sulle incostanti acque, che con lampi di vario colore gli rimandavano, raggi di abbondante e rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini anch'esse illuminate consentivano con la sopravvanzante luce del tempio. Fuochi in aria a forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio, si volteggiavano intorno al tempio, ed ai quattro giardini cinesi. Le agili barchette, poste fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire giri, guizzi, e baleni, che con la piena luce dei tempio, e delle isolette da un canto si confondevano, dall'altro a chi d'in sulle spiagge di lontano mirava, l'oscurità della notte con la immagine d'innumerevoli e vaganti stelle tempestavano. Alla dolce vista consuonava un soave ascoltare: imperciocchè dalle cinesi isolette uscivano suoni e concenti giocondissimi mandati fuori dai petti, e dagli appositi strumenti di musici vestiti alla Cinese. Al tempo stesso le mura della città risplendevano per una immensa luminaria; i palazzi e le case quasi tutte avevano anch'esse i lumi accesi a festa: tutto l'anfiteatro della superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva ai marini splendori. La torre della Lanterna accesasi ad un tratto da innumerevoli lumi con bel disegno ordinati, trasse a se gli occhi dei festeggianti spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe la maraviglia, che bentosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa di volcano, come se veramente volcano fosse. Nè i fuochi artificiati furono la parte meno notabile del magnifico rallegramento; poichè due bellissimi tempj di fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte dei moli, ed altri fuochi con mirabile artificio apprestati, ora si tuffavano nelle acque, ed ora più vivi che prima fossero, ne uscivano. Così fra il molle ondeggiare, il vago risplendere, il giocondo suonare, nasceva una scena, a cui niuna può esser pari in dolcezza ed in grandezza.

Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera: poi sceso dal marino tempio se ne giva al magnifico palazzo di Girolamo Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori, nuova e squisita adulazione. Festeggiavano con maggior pompa la servitù, che mai avessero festeggiato a libertà, il che non dee recar maraviglia; la libertà piace a tutti, e nissuno vuol piacere a lei; il dispotismo piace a nissuno, e tutti vogliono piacere a lui. Diessi un festino sontuoso a Napoleone nel palazzo pubblico in quel luogo stesso, dove i maggiori della spenta repubblica tante volte prudentemente e fortemente sulle più gravi faccende di lei avevano deliberato. Intervennero Giuseppina di Francia, Elisa di Piombino. Fu allegra la festa; se mescolata di antiche ricordanze, io non lo so. Cantossi l'inno Ambrosiano nella cattedrale di San Lorenzo. Quivi giurarono nelle parole dell'imperatore l'arcivescovo, ed i vescovi. Poi dispensò le insegne della legion d'onore, più eccelse a Durazzo, Cambiaso, Celesia, Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo Spina: presentò con dorate gioje Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile: questi furono i premj, e i segni della spenta patria. Comandò che si restituisse la statua d'Andrea Doria; quest'affronto mancava ad Andrea atterrato dai giacobini, rinnalzato da Napoleone. Contento allo aver fatti servi, e veduto comportarsi da servi i Genovesi, se ne tornava Napoleone per Torino ai suo imperiale Parigi. Rimase al governo di Genova il principe Lebrun, il quale temperatamente secondo la natura sua procedendo, diede norma allo stato nuovo riducendolo alla forma di Francia: ordinò con prediletto pensiero l'università degli studj; vedeva i professori volentieri: tra il bene operare ed il buon ricompensare cresceva il zelo ed in chi ammaestrava, ed in chi era ammaestrato; l'università Genovese diventò fiorente. Passarono alcuni mesi tra l'introduzione degli ordini Francesi, e la unione alla Francia: finalmente orando Regnault di San Giovanni d'Angely, decretava il dì quattro ottobre il senato, che i territorj Genovesi fossero uniti al territorio di Francia. A questo modo finì uno dei più antichi stati, non che d'Italia, d'Europa. Gl'innorpellamenti non mancarono nella bocca di Regnault: fra tutti fu lepidissimo il suo trovato, che la Francia distruggeva l'independenza di Genova, questo appunto significavano le sue parole, perchè l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il principio; per la potenza di Napoleone tornarono in patria i Genovesi, schiavi della crudele Africa.

La repubblica di Lucca anch'essa periva: così si verificava il detto di Napoleone, che le monarchìe non potevano vincere le repubbliche. Diè primieramente Piombino ad Elisa sorella, poi Lucca e Piombino a Bacciocchi ed Elisa. Fossevi in Lucca un senato: soldati non vi si scrivessero, ma tutti fossero soldati; tassa e tributo nissuno vi si pagasse se non per legge. Le cariche, salve le giudiziali, non si potessero conferire se non ai Lucchesi; principi di Lucca fossero Bacciocchi ed Elisa: nella nobile Lucca Bacciocchi dominava.

Animato dall'osare, viemmaggiormente osava Napoleone: avviava Parma all'unione con Francia: le leggi Francesi vi promulgava; già le ambizioni Parmigiane si voltavano alla fonte Parigina, Moreau di san Mery secondava l'imperatore piuttosto per piacere a lui, che a se, perchè amava il comandare assai più che a modesto ed attempato uomo si convenisse; ma dolce era il cielo, dolci gli abitatori, dolce il comandare.

Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone, e gl'Italiani stati rovinavano, tornava nella sua Romana sede il pontefice Pio. Parlò agli adunati cardinali delle cose fatte e delle cose sperate, molto beneficio per la religione, e per la Romana chiesa dal suo Parigino viaggio promettendosi. Ordinate le faccende religiose in Francia, aveva desiderato di compor quelle, che più vicino a lui avevano romoreggiato, e gettato anzi larghe radici in tutte le parti d'Italia: quest'erano le differenze tra la santa sede, e Ricci vescovo di Pistoja. Aveva papa Pio sesto gravemente censurato con la sua bolla “auctorem fidei” le proposizioni del sinodo di Pistoja, massimamente l'ottuagesima quinta; colla quale il sinodo dichiarava aderirsi alle quattro proposizioni del clero di Francia. Quando poi la Toscana se ne viveva sotto la reggenza imperiale fondatavi dai Tedeschi, era stato il Ricci confinato nella sua villa dì Rignano. L'arcivescovo di Firenze instantemente il confortava, e gravemente anche l'ammoniva, si ritratasse. Il vescovo, stando sui generali, affermava, non avere mai avuto le opinioni, che uomini perversi gl'imputavano: essere di mente, come di cuore e di coscienza cattolico. Frattanto morto Pio sesto, ed assunto al trono pontificale Pio settimo, scriveva, per mezzo del prosegretario Consalvi, nuove lettere al nuovo pontefice, protestando della sua riverenza verso l'autorità pontificia, fondata, come diceva, su quella sacra scrittura, della sua adesione a tutte le verità cattoliche, e dell'integrità della sua fede ortodossa. Queste cose scriveva parte perchè, salva qualche restrizione mentale in lui, erano vere, parte perchè la reggenza di Toscana, che procedeva molto vivamente, lo spaventava: erano tempi molto diversi dai Leopoldiani. Non soddisfecero le lettere. Gli si scrisse da Roma, o in modo formale e speciale gli errori del sinodo ritrattasse, o il papa rigorosamente procederebbe contro di lui con le censure. Gli fe' poi sentire da Toscana, che se non accedesse senza indugio alcuno alle domande di Roma, sarebbe stato portato in castel Sant'Angelo, per modo che non vedrebbe più lume. Quest'erano le intimazioni della reggenza. In su questo, vennero novellamente i Francesi ad occupar la Toscana. Compose allora il vescovo una nuova e più lunga apologìa, nella quale ad una ad una esaminando le ottantacinque proposizioni, le affermava ortodosse. Sulla ottuagesimaquinta, e rispetto a quanto s'attiene alla dichiarazione del clero di Francia, protestava, non credere aver fatto ingiuria a quell'illustre chiesa, la sua dottrina accettando: avere il gran Bossuet, al quale la comunione cattolica per tanti segnalati servigj restava obbligata, i quattro articoli difesi e mantenuti: non avergli lui nel suo sinodo, come dogmi addottati, ma come un mezzo potente e sacro per mostrare i limiti, che dividevano le due potestà ecclesiastica e secolare.

Rispetto poi alle regole di disciplina, essersi creduto, come vescovo, asseverava, tenuto a riformar gli abusi: di ciò averne fatto il concilio di Trento espresso precetto. Le medesime protestazioni di obbedienza e di fede fece il vescovo, e le mandò al pontefice, quando passando per Firenze, se n'andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando da Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a Ricci, che l'abbraccerebbe volentieri, se prima volesse sottoscrivere una dichiarazione. Voleva, che il Pistojese vescovo dichiarasse, accettare con rispetto puramente, e semplicemente di cuore e di spirito tutte le constituzioni apostoliche emanate dalla santa sede contro gli errori di Baius, Giansenio, Quesnel, e loro discepoli dai tempi di Pio quinto sino ai presenti, e specialmente la bolla dogmatica “auctorem fidei”, che dannava le ottantacinque proposizioni estratte dal sinodo Pistojese; ripruovare e dannare tutte e singole le proposizioni sopradette nella conformità e significati espressi nella bolla; desiderare, perchè fosse lo scandalo corretto, che la dichiarazione si rendesse pubblica; protestare finalmente voler vivere e morire nella fede della chiesa cattolica, apostolica, romana con sommessione perfetta, ed obbedienza vera a nostro signore papa Pio settimo, ed a' suoi successori, vicari di Gesù Cristo. Ricci stretto dai tempi, e temendo che il rifiuto gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse. L'aspettavano il papa, e la regina nel palazzo Pitti: il pontefice gittatosegli al collo, l'abbracciava, e fattolo sedere accanto a lui, molto l'accarezzava, della presa risoluzione con esimie espressioni commendandolo. Passate le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle mani del pontefice uno scritto, l'importanza del quale era, che per mostrare la obbedienza e sommessione sua alla santa sede aveva volentieri sottoscritto; ma stantechè tutta la sua coscienza riandando, nissuna altra dottrina vi trovava, se non quella che era definita dalla bolla di Pio sesto, per obbligo di verità e di coscienza era obbligato dichiarare, come dichiarava, non mai avere o creduto, o sostenuto le enunziate proposizioni nel senso eretico giustamente condannato dalla bolla, avendo sempre avuto l'intenzione, che se qualche espressione equivoca fosse trascorsa, questa incontanente fosse ritrattata e corretta. Pregare conseguentemente, soggiungeva, il pontefice, accettasse benignamente questa rispettosa dichiarazione, come un'effusione del suo cuore. Appruovò Pio questa seconda dichiarazione, affermando, non dubitare della purezza cattolica di Ricci, e ne farebbe fede al concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il vescovo. Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere: avere Ricci, affermava, per aver posposto l'amor proprio alla verità, ed alla cristiana obbedienza, ad essere tramandato con gloria alla posterità, ed il suo nome collocato fra quello degli uomini più illustri. Il lodò nell'allocuzione al concistoro; ma il governo Toscano non lasciò stampar l'allocuzione, perchè non si riaccendessero i fuochi spenti, e le disputazioni non si rinnovassero. A questo modo Pio, vittorioso di Napoleone, trionfava anche di Ricci, due avversari potenti, uno per la forza dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni. Tuttavia vi rimasero in Italia semi e radici contrarie. I discepoli di Ricci non solamente perseveravano nelle medesime sentenze, ma predicavano, Ricci non avere apertamente ritrattato. In fatti egli è certo, che il vescovo nelle sue giustificazioni per tal modo, sebbene copertamente, favellò, che facilmente si scorgeva, nodrire opinione avversa all'infallibilità del papa, ed a quella pienezza di potestà, che i curialisti di Roma attribuiscono al Romano seggio.

Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto, dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla sedia apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva medicare dalle radici il male, che credeva provvenire dalla setta che l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della chiesa primitiva. La giurisdizione dà ai pontefici Romani nei paesi esteri la potenza esterna, le informazioni e le insinuazioni la segreta. In quest'ultima bisogna molto efficace opera prestavano i gesuiti, perciocchè dall'una parte in virtù degli ordini loro ogni cosa che spiassero, facevano con diligenti informazioni nota al loro generale in Roma, e questi al governo pontificio; dall'altra consigliando i principi, ed ammaestrando la gioventù, tiravano e chi reggeva e chi era retto là dove volevano, soliti a voltar a fini mondani i mezzi della religione. Ordine potentissimo era questo per comandare ai re ed ai popoli, e che dinota in chi primamente il concepì, un capo gagliardo, ed una cognizione profonda delle cose umane. Napoleone stesso col suo disordinato ed incomposto procedere, non ebbe mai, per farsi padron del mondo, pensiero così forte qual ebbero un fraticello di Spagna, ed un preticello di Roma. Adunque i gesuiti, poichè, quantunque spenti, il loro spirito viveva, gran maestri del saper accomodare i consigli ai tempi, con sagacità maravigliosa spargevano; per questo appunto esser nate le rivoluzioni, per questo la rovina dei reali seggi, per questo imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per questo la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a sì potenti e sì ostinati nemici i re soli senza il papa, nè il papa solo senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter resistere, se non s'accosta l'opera ajutatrice, e tanto efficace dei gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi con un'apparenza di santimonia e di austerità: non esser padroni i re dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro, non esser padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario essere l'ajuto di coloro, che radici buone sanno porre negli spiriti, e di quanto gli spiriti concepiscono, e di quanto le mani fanno, possono essere, e sono diligentemente informati: conspirare il volgo contro i potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti, o rivoluzioni da rivoluzioni; nè altro modo di salvamento trovarsi che in loro. Queste cose spargevano, come se il mondo non sapesse, ch'eglino solo allora si facevano i difensori dei sovrani, quando i sovrani si facevano servi di loro.

Lo spavento è mal consigliero, perchè fa velo al giudizio. Alcuni principi mossi dall'artifizioso parlare desideravano i gesuiti, non pensando che per diventar padroni dei popoli, si facevano servi di altrui. Nè anco in questo vi era sicurezza alcuna, poichè solamente le monarchìe cattoliche, in cui vivevano i semi e le radici gittate dai gesuiti, rovinarono per rivoluzioni, non le protestanti, dov'erano ignote le dottrine e le arti loro. Del resto nissuno più apertamente e più tenacemente dei gesuiti sostenne la dottrina, che fosse lecito uccidere certi re. Supplicava il re Ferdinando di Napoli al papa, acciocchè per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e salutevoli dottrine, come diceva, vi rinstaurasse, siccome già in Russia aveva fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene consentiva; un Gabriello Gruber la ordinava; misera condizione degli uomini, che non san trovar rimedio ad un eccesso, se non coll'eccesso contrario. Così fu principiata la risurrezione dei gesuiti dannati da un papa, e da tutti i re, e fu principiata da un re, attivo cooperatore della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini, nemici acerrimi dei gesuiti; opera, come strana nel principio, così immensa nel risultamento. Se ciò fia con utile dell'umana società i nostri nepoti il vedranno; ma se si debbe giudicare del futuro dal passato, pensieri sinistri debbono annuvolar la mente degli uomini savj, che amano la quiete degli stati, l'independenza dei principi, la libertà dei popoli.

Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa. L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia, aveva sollevato gli animi di tutti i potentati, e dato loro cagione di temere nuovi sovvertimenti, e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava e se ne rallegrava, perchè credeva, che più stabile fondamento all'ingrandimento dei suoi stati fosse la nuova potenza di Napoleone, che l'antica dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente si scorgevano nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone; era la prima, che per loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti i Borboni, l'altra che avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva ridotto in mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia dovunque egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente, da nissuno si confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo si pensava, che non fosse prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul suo imperio. Si portava opinione, che i repubblicani di Francia, e gli amatori del nome Borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone si fossero risentiti, e divenuti meno inclinati ad ajutarlo, quando si venisse ad una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo da non usare efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e che se gli si desse tempo, sarebbe stato non che difficile, impossibile il frenarlo. Nè egli pel desiderio ardentissimo del comandare troppo s'infingeva. Il suo procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo voler significare, argomentavano, quegl'onori di Carlomagno offerti il giorno dell'incoronazione tanto a Parigi, quanto a Milano, questo la corona ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già fin d'allora, che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevansi nella mente dell'imperatore Alessandro alcune ragioni particolari di tenersi mal soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la principale consisteva nella uccisione del duca d'Anghienna, giovane di sua età, e da lui specialmente conosciuto, ed amato. Da questi motivi era sorto nelle principali potenze d'Europa il desiderio di una nuova collegazione a difensione comune, ed a conservazione degli antichi stati contro la Francia, il cui fine era o di accordarsi con Napoleone, se qualche termine di buona composizione a beneficio dell'independenza dei consueti sovrani con lui si potesse trovare, o di venire con esso lui al cimento dell'armi, quando ancora era tenero su quel suo sovrano seggio. Nè l'Inghilterra mancava a se stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma ancora pel pericolo che pareva sovrastare al cuore stesso del suo stato; conciossiachè avesse Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle coste della Picardìa e della Normandìa, minacciando d'invasione i tre regni. Nè era privo di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre alla grosse navi di guerra, una quantità considerabile di legni minori. Secondavano le intenzioni dell'imperatore con calore grandissimo i popoli di Francia con proferte di denari e di navi. Guglielmo Pitt, che a questo tempo reggeva i consiglj del re Giorgio, aveva questo moto in poco concetto, conoscendo, che pel prepotente navilio d'Inghilterra difficile era l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile nell'isola, prima che le sorti fossero definite. Ciò non ostante l'apparato di Francia travagliava la nazione, ed interrompeva i traffichi. Per la qual cosa intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi nemici, e ad ordinare una nuova lega contro la Francia. A questo fine, e già fin del mese d'aprile era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia e l'Inghilterra un accordo, col quale si erano obbligate ad usare i mezzi più pronti ed efficaci per formare una lega generale, e che per conseguire quest'intento adunassero cinquecentomila soldati, non compresi i sussidj d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre, o costringere il governo di Francia alla pace, e ad una condizione in Europa, in cui nissuno stato preponderasse sopra gli altri; evacuasse Napoleone l'Annoverese e la settentrionale Germania, rendesse independenti l'Olanda e la Svizzera, restituisse il re di Sardegna con qualche accrescimento di territorio, desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse da tutta Italia, compresa l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria erano entrate in questa lega. Prima però che all'aperta rottura si venisse, sì per vedere se ancora qualche modo di onesta composizione vi fosse, e sì per aver comodità di fare i necessarj apprestamenti, e di dar tempo agli ajuti di Russia di arrivare, si deliberarono gli alleati a mandare a Parigi il barone di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi recasse, e di un accordo conforme l'imperator Napoleone sollecitasse.

Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia; accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone, ed agli interessi dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperatore Alessandro il fatto, era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente, e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente si congiungeva con la Russia. Incominciarono i discorsi politici soliti a precedere le guerre. Mandò dicendo l'Austria a Napoleone, desiderare cooperar con la Russia e con l'Inghilterra al fine di un onesto e securo pacificamento d'Europa: ciò avere desiderato prima della unione di Genova e di Lucca, ciò ancora e molto più desiderare dopo. A tali mortificazioni si risentiva Napoleone: rispondeva, poco sperare dalla Russia, e dall'Inghilterra; l'Austria potere sforzarle a consigli pacifici, perchè per venir contro Francia dovevano passare pe' suoi territorj: ma non potersi fidar dell'Austria; armare lei in Polonia, ingrossare fuor di misura in Italia, empiere il Tirolo di soldati: se pur pace volesse, tirasse indietro dal Tirolo Italiano e Tedesco i reggimenti novellamente mandati, cessasse ogni fortificazione nuova; restituisse al pacifico numero i soldati posti alle stanze nella Stiria, nella Carintia, nel Friuli, e nei territorj Veneti; dichiarasse all'Inghilterra, volersene star neutrale.

Da questi discorsi si vedeva, che poca speranza restava di pace; nè Napoleone era uomo capace di disfare per minacce ciò che aveva fatto, nè l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo che Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti ciascuno di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente ed a Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia, di pace di tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti in Italia il trattato di Luneville, promettitore d'independenza per la Italiana repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti spaventata l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto di regolare da se gl'interessi delle nazioni con esclusione delle altre; richiedere la Francia dell'osservazione dei patti; richiederla della dignità e dei diritti delle altre potenze; offerire a norma delle condizioni stipulate la concordia, offerirla ora, che con le armi ancora non si contendeva, offerirla quando già si combattesse, e sempre essere parata a convenire, salvi i trattati conclusi, e l'independenza delle nazioni.

Seguitarono queste protestazioni altri discorsi sul medesimo andare da ambe le parti, nei quali e il desiderio di pace, ed il rispetto pei dritti altrui si pretendevano. Intanto le armi si apprestavano. L'imperatore di Francia, che con la celerità aveva sempre vinto, vedendo la nuova lega ordita contro di lui, e la guerra inevitabile, stando coll'animo riposato dal canto della Prussia, che accecata dalla cupidigia di avere l'altrui, falsamente giudicava della natura di Napoleone, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste di Francia verso l'Inghilterra, marciasse in Alemagna, soccorresse alla Baviera minacciata dall'Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi d'Alemagna, sapendo quanta mole della guerra fossero il suo nome ed il suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando, giovane animosissimo, l'esercito Germanico, dandogli per moderatore della sua gioventù il generale Mack, nel quale l'imperatore Francesco, piuttosto per industri parole che per egregi fatti, aveva molta fede.

Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere il nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito Italico, schierato sulle rive dell'Adige. I forti passi del Tirolo erano dati in guardia all'arciduca Giovanni con una grossa schiera congiungitrice dei due eserciti Germanico ed Italico. Si era fatto disegno, che a queste forze si accostasse sbarcando in qualche parte d'Italia, un grosso ajuto di Russi e d'Inglesi, che allora erano raccolti nelle isole di Corfù e di Malta. Ma Napoleone, contuttochè principal cura avesse delle cose di Germania, non pretermise quelle d'Italia, e poichè seppe che l'arciduca Carlo era stato posto al governo della guerra, avendo più fede nella fortuna di Massena che in quella di Jourdan, surrogava il capitano Italico al capitano Germanico. Mandava intanto nuovi soldati, per modo che tra Francesi ed Italiani Massena aveva un esercito fiorito, ed uguale pel numero all'Alemanno, che sommava circa a ottanta mila soldati. Stavasi Massena alloggiato sulla destra dell'Adige, pronto a tentar il passo, come prima fosse dato il segno della battaglia. L'imperatore di Francia, che in tutte le sue guerre poco curandosi delle estremità, ed amando le guerre grosse piuttosto che le sparse, badava sempre al cuore, perchè sapeva che a chi n'andava il cuore, ne andavano anche le estremità, fece disegno d'ingrossare sull'Adige, con mandarvi quella parte che sotto Gouvion San Cyr alloggiava nel regno di Napoli. Il che, perchè con sicurtà potesse eseguire, aveva con sue pratiche, e per mezzo del marchese del Gallo, ambasciadore del re a Parigi, indotto Ferdinando a sottoscrivere un trattato di neutralità. S'obbligava per quest'accordo il re a starsene neutrale durante la presente guerra, a respingere colla forza ogni tentativo fatto contro la sua neutralità, a non permettere che alcuna truppa nemica sbarcasse, o ne' suoi regni entrasse, a non ricettare ne' suoi porti alcuna nave nemica, a non commettere i suoi soldati, o le sue piazze ad alcun ufficiale o Russo, od Austriaco, o d'altra potenza nemica, ed in questo capitolo s'intendessero anche compresi i fuorusciti Francesi; il che particolarmente accennava al conte Ruggiero di Damas. Dalla parte sua Napoleone, fidandosi, come si spiegava, nelle obbligazioni e promesse del re, consentiva a sgombrar il regno dei suoi soldati, ed a consegnare i luoghi occupati agli ufficiali Napolitani. Si obbligava oltre a ciò, e prometteva di conoscere, ed aver per neutrale nella guerra presente, il regno delle due Sicilie. San Cyr marciava verso l'Adige.

I discorsi secondo il solito precedevano le armi, moderati dal canto dell'arciduca, più vivi da quello del capitano Napoleonico. Quando poi già le armi suonavano in Alemagna, e già la Baviera era invasa dagli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè d'Italia, pubblicava con parole aspre contro l'Austria la guerra. Avere Vienna contro il popolo Francese, contro il popolo Italiano risoluto la guerra: la casa d'Austria, prevalendosi della nobile sicurezza e confidenza di Napoleone imperatore, invadere i territorj di un principe dell'impero, solo perchè fedele ai trattati, amico ed alleato si era conservato all'imperator dei Francesi, ed al re d'Italia: ma non dubitassero, continuava dicendo, Napoleone guidare gli eserciti; sopra di loro lui riposarsi, sopra di lui riposassero, combattere a favor suo Iddio sempre terribile agli spergiuri; combattere la sua gloria, la sua mente, la sua giustizia, il suo valore, combattere finalmente la fedeltà e l'amore de' suoi popoli; saranno, terminava, i nemici vinti.

Già si combatteva aspramente in Germania, quando ancora si riposava dall'armi in Italia; imperciocchè a petizione dell'arciduca, che desiderava, prima di combattere, sapere a qual via s'incamminassero gli accidenti della guerra Germanica, si era fatto tra lui e Massena un accordo, perchè le offese non si potessero cominciare prima dei diciotto ottobre. Grande errore degli Austriaci fu questo, perchè cercar definizione di fortuna in un sol luogo, potendo in molti, non fu mai prudente consiglio. Aggiunge gravezza all'errore la congiunzione di San Cyr con Massena, alla quale per l'indugio si poteva dar luogo prima del combattere. Non commise simile errore Napoleone, che con incredibile velocità dalle spiagge marittime della Picardìa alle sponde del Danubio viaggiando, arrivò, e combattè gli Austriaci innanzi che i Russi giungessero sul campo di battaglia in ajuto loro. Dall'errore dell'Austria nacque, che l'arciduca fu, pei fatti di Germania, prima superato che combattuto.

Già vincevano le Napoleoniche stelle. L'imperatore dei Francesi arrivando in Alemagna innanzi che gli Austriaci avessero avuto tempo di riuscir oltre i passi della Selva Nera, e di fortificargli, si avventava, in ciò mostrando, oltre la celerità, una grandezza di militari concetti straordinaria, contro il nemico tante volte vinto. Trovossi Mack in pochi giorni cinto da ogni parte, segregato da Vienna, ridotto dentro le mura di Ulma. Aveva vinto Napoleone una prima battaglia a Vertinga, una seconda a Gunsburgo. Due accidenti principalmente gli avevano aperto l'adito a queste vittorie, l'aiuto dei Bavari, e l'aver calpestato, stimando più il vincere che l'osservanza della fede, la neutralità della Prussia a Bareit e ad Anspach: il primo fu cagione che i Francesi riuscissero sulla destra ad Augusta ed a Monaco, sulla sinistra a Novoburgo, Ingolstadt e Ratisbona, quinci e quindi alle spalle degli Austriaci. Per tale guisa non solamente furono serrati gli Austriaci, ma fu ancora Mack separato dall'arciduca Giovanni.

Spuntava appena il giorno diciotto ottobre, termine della tregua, che sapendo già Massena, essersi venuto alle mani in Germania con prospero successo de' suoi compagni, si deliberava a cominciar la guerra. Alle quattro della mattina, dando due assalti uno sotto, l'altro sopra Verona, si accingeva a sforzare sul mezzo il passo.

Imponeva a questo fine a Duhesme ed a Gardanne, che assaltassero il ponte: era murato e rotto; ma Lacombe San Michele, generale d'artiglieria, con un petardo, esponendosi a grave pericolo perchè i Tedeschi fulminavano dalla riva sinistra, rompeva il muro, ed il generale Chasseloup con pari valore riattava il ponte. Passarono i soldati armati alla leggiera: ma fortemente pressati dai Tedeschi correvano grandissimo pericolo. Non indugiò Gardanne a venire in soccorso loro col grosso delle sue compagnìe, e rinfrescò la battaglia. Si combatteva con molto valore e con vario successo da ambe le parti. L'arciduca che aveva il suo campo a San Martino, mandò tostamente nuovi soldati in soccorso de' suoi donde nasceva un più vivo e più generale combattere; Duhesme ancor egli era passato con tutta la sua schiera. Per quel giorno non fu compiuta pei Francesi, ancorchè avessero il vantaggio, la vittoria, e fu loro forza di tornarsene ad alloggiare sulla destra del fiume, conservando però in poter loro la signorìa del ponte. Mancarono in questi fatti dalla parte dei Tedeschi circa tre mila soldati tra morti, feriti e prigionieri, con qualche perdita di cannoni. Nè fu senza sangue la vittoria pei Francesi scemati di un migliajo di combattenti. Massena, o che il ritenesse il forte sito dell'arciduca, o che volesse aspettare che San Cyr l'avesse raggiunto, o che desiderasse prima di cacciarsi avanti, udire i fatti ulteriori di Germania, se ne stette più giorni senza fare alcun motivo d'importanza. In questo gli sopraggiunsero desideratissime novelle: avere tutto l'esercito di Mack, salvo una piccola squadra fuggita sotto la condotta dell'arciduca Ferdinando, deposto le armi, ed essersi dato, il dì diciassette ottobre, vinto e cattivo in mano di Napoleone; il che importava l'annichilazione quasi intiera delle forze Austriache in Alemagna. Napoleone imperatore aveva in questi fatti per arte e per fortuna superato Buonaparte generale e consolo. Cambiavansi le sorti dell'Italica guerra. Fu l'arciduca obbligato a debilitarsi con mandar parte de' suoi in ajuto dell'imperio pericolante del fratello. Sgomentaronsene i Tedeschi, presero animo i Francesi. Massena udito il maraviglioso caso di Ulma, si risolveva, senza frappor tempo in mezzo, ad assaltar l'avversario nel suo forte alloggiamento di Caldiero. Il giorno ventinove ordinava il passo del fiume. Duhesme e Gardanne erano destinati a varcare per l'acquistato ponte, Seras a stanca al passo di ponte di Polo, Verdier a destra più sotto tra Ronco ed Albaredo, luoghi già tanto famosi pei casi di Arcole. Duhesme e Gardanne, passato il ponte, si erano allargati a destra, Seras passato più sopra seguitava ad altro disegno le falde dei monti, ed occupando le alture di val Pantena, che signoreggiano il castello di San Felice, che con le artiglierìe aveva molto nojato i Francesi al passo del ponte, aveva obbligato i Tedeschi a sgombrare da Veronetta. Ciò diede abilità ad altre squadre di passare, massimamente ai cavalli, per modo che gli Austriaci cacciati da tutti i siti, e perfino da San Michele, si ritirarono con grave perdita, sempre però animosamente combattendo, oltre San Martino. I Francesi pernottarono in Vago. Si risolveva l'arciduca a far fronte a Caldiero, piuttosto coll'intento di non cedere la possessione d'Italia senza combattere in una giusta battaglia, che colla speranza di cambiare le condizioni della guerra già troppo preponderanti in favor di Napoleone. Si ordinava la mattina del giorno trenta l'arciduca alla battaglia, sprolungandosi a destra fin sopra alle eminenze di San Pietro rimpetto al villaggio di Fromegna, e distendendosi a sinistra verso l'Adige fin oltre a Gambione. Questi siti erano diligentemente fortificati. Perchè poi in un caso sinistro vi fosse luogo a far risorgere la fortuna, aveva adunato la cavallerìa, ed un grosso corpo di ventiquattro battaglioni di granatieri verso Villanova al bivio, dove la strada di Verona in due partendosi porta da un lato a Monigo, dall'altro a Vicenza.

Il generale di Francia aveva partito i suoi in tre schiere: la mezzana condotta da Gardanne, la destra da Duhesme, la sinistra da Molitor. Un grosso ordinato alle riscosse, e composto dai granatieri di Partonneaux, e dai cavalli di D'Espagne e di Monnet, se ne stava accampato in poca distanza alle spalle. Massena, avendo inteso che le fazioni ordinate di Seras e di Verdier avevano avuto il fine ch'egli si era proposto, si deliberava ad attaccare la battaglia. Il primo a far impeto fu Molitor: assaltò furiosamente, e furiosamente ancora fu risospinto. Fecersi avanti Gardanne e Duhesme, e ben tosto si cominciò a combattere su tutta la fronte da ambe le parti. Gardanne spingendosi avanti con estrema forza, faceva piegare la fortuna in favor suo; perchè, cacciati da luogo a luogo i Tedeschi, ancorchè fortemente contrastassero, s'impadroniva, avventandosi con le bajonette, di Caldiero. La qual cosa vedutasi dalle due ali estreme, si scagliarono ancor esse con forza contro il nemico, ed il costrinsero a piegare: ma rannodatosi sulle eminenze, vi faceva una ostinata difesa; tuttavia la giornata inclinava del tutto a favor dei Francesi. Erano le quattro della sera: l'arciduca mandò avanti il retroguardo, che, come narrammo, serbava alla ricuperazione della battaglia; ne era reintegrata, e le cose si mantenevano in modo bilanciate che non più in una, che in un'altra parte pendevano. Massena, veduto il nuovo rincalzo, mandava innanzi anch'esso il suo retroguardo: la zuffa divenne acerbissima e mortale; perchè così i granatieri ed i cavalli Tedeschi, come i granatieri ed i cavalli Francesi, che novellamente erano entrati nella mischia, facevano egregiamente il debito loro. Prevalse finalmente la cavallerìa di Francia: resistevano ancora i granatieri dell'arciduca, ma quei di Partonneaux, dato mano alle bajonette, con tale vigorìa gl'incalzarono, che gli obbligarono a dar indietro. Così i Tedeschi, lasciando la vittoria in potestà di chi poteva più di loro, cedettero del campo, e si ritirarono alle batterie, che l'arciduca aveva piantate sopra le eminenze che torreggiano oltre Caldiero. Fu notabile questo fatto d'armi per la somiglianza dei disegni orditi dai due avversi capitani, perchè ambidue ordinarono le ordinanze con una prima fronte, e con una schiera di riserbo, ed ambidue in lei posero un grosso nervo di granatieri, ed un battaglione fiorito di cavallerìa. Perderono gli Austriaci trenta cannoni, e tremila cinquecento soldati: i Francesi circa millecinquecento. Si portarono egregiamente tutti i generali di Massena: si dolse l'arciduca di Wukassowich, che trovandosi a campo a Campagnola, e standovi, come pare, a mala guardia, si lasciò fare un assalto improvviso addosso, il che disordinò i disegni del generalissimo d'Austria: tal'è l'incertezza delle guerriere sorti; imperciocchè questo era quel Wukassowich, che meritò tante lodi in queste storie di perito, animoso, e vigilante capitano.

Mentre si combatteva a Caldiero, aveva l'arciduca mandato a sua destra verso i monti una colonna di cinquemila soldati sotto la condotta d'Hillinger col proposito di circuire e di combattere i Francesi alle spalle. Questa mossa aveva ordinato, o che non sapesse che Seras assai forte marciava su quelle medesime terre, o che credesse potere più lungo tempo resistere a Caldiero. Ne nacque un grave accidente a danno delle forze Austriache. Seras oltre procedendo, ed intromettendosi tra Hillinger e l'arciduca, tagliò fuori la squadra segregata, e la ridusse alla necessità dell'arrendersi.

Il fatto di Caldiero, la calamità d'Hillinger, gli ordini dell'imperatore suo fratello non lasciarono più luogo ad elezione nell'arciduca. Per la qual cosa la notte del primo novembre principiò a tirarsi indietro per la strada di Vicenza: poi continuando, non senz'arte, a cedere del campo, conduceva le sue genti più intere che le perdite prime, e la presta ritirata potessero promettere, sulle sponde della Sava, ponendosi alle stanze di Lubiana. Il seguitarono velocemente i Francesi: raccolsero alcuni corpi, ma piccoli, disbrancati, e grossi magazzini di viveri, principalmente in Udine e Palmanova. A questo modo i fertili paesi delle terraferma Veneta, conquistati di nuovo dalle armi vincitrici di Napoleone, furono tolti all'Austria. Solo la città di Venezia restava in poter dei Tedeschi.

Era in questo mezzo tempo arrivato da Napoli San Cyr. Massena trovandosi in necessità di seguitare a seconda l'arciduca nelle montagne della Carniola e della Carintia, non voleva, per timore di qualche sbarco di Russi e d'Inglesi, lasciare senza difesa i lidi Veneziani. Ordinava pertanto a San Cyr, che si allargasse, e custodisse le spiagge dalle bocche dell'Adige sino a Venezia. Questa provvidenza ebbe felice successo, non contro i tentativi di mare, che nissuno fu fatto, ma contro uno di terra. Napoleone, volendo prostrare le forze d'Austria, che tuttavia tenevano le alte rupi del Tirolo e del Voralberga, aveva mandato da Augusta Ney contro l'arciduca Giovanni, Augerau contro Jellacich. Ney, guadagnato celeremente il passo di Scharnitz, occupava il Tirolo Tedesco; poi guadagnato con la medesima prestezza il passo di Sterzing, s'impadroniva del Tirolo Italiano, ritiratosene, o piuttosto fuggitosene a grave stento l'arciduca per ricoverarsi nella Carniola. Augerau cacciossi avanti Jellacich cedente da Voralberga: il capitano Tedesco, trovate le strade del Tirolo chiuse da Ney, fu costretto alla dedizione. La conquista del Tirolo partorì un altro effetto di grande importanza. Un grosso di settemila fanti e mille cavalli, sotto la condotta del principe di Roano, costretto a calarsi per le sponde della Brenta verso i piani bagnati da questo fiume, incontratosi a Castelfranco con San Cyr, dopo un furioso conflitto, fu obbligato, ad arrendersi. Dopo questo fatto Massena securo alle spalle, vieppiù innoltrava la sua fronte, e fermava gli alloggiamenti in Lubiana, ritiratosene l'arciduca per internarsi nella Croazia, e di là nel principato di Sirmio in Ischiavonia tra la Drava e la Sava. Seras occupava Trieste. I soldati di Massena e di Ney si congiunsero a Villaco ed a Clagenfurt: i due eserciti di Francia Germanico ed Italico si congregarono alle future imprese del Danubio. Grandi, audaci, ed ottimamente composte furono tutte queste mosse di Napoleone: il fine rispose alla maestrìa, colla quale erano state concette. L'apparato bellico dell'Austria, in men che non fece un mese, fu distrutto, e l'imperator Francesco, privo quasi interamente delle forze proprie, non aveva più altro rimedio che gli ajuti della Russia, sufficienti prima delle rotte, insufficienti dopo: l'Italia sgombra, come ai primi tempi di Napoleone, da uomini Alemanni.

Ambiva Napoleone di per se stesso gli stati altrui, e facilmente senza cagione o pretesto se gli appropriava: molto più volentieri se gli appropriava, quando se ne gli dava cagione. Di ciò con estremo suo eccidio ebbe pruova il re di Napoli. Aveva Ferdinando, siccome per noi si è narrato, stipulato la neutralità; ma quando appunto la guerra si definiva in favor di Francia in Germania, e nell'Italia superiore, essendo già corso oltre il suo mezzo il mese di novembre, arrivavano nel golfo di Napoli due navi Inglesi con molte onerarie, sopra le quali erano quindici mila soldati, dodici mila Russi venuti da Corfù, tre mila Inglesi venuti da Malta. Sbarcarono soldati, armi e munizioni tra Napoli e Portici, annunziando venire non solo per proteggere il regno, ma ancora per correre verso l'Italia superiore in ajuto degli Austriaci. Non fece il re, non bene considerando quel che potesse portare seco il tempo futuro, alcuna dimostrazione nè protesta per impedire lo sbarco di queste genti nemiche a Francia. L'ambasciador di Napoleone, viste le insegne del nemico, molto acerbamente si risentiva, e calati gl'imperiali stemmi dalla fronte del suo palazzo, richiedeva il re dei passaporti, e l'infedele terra, come diceva, abbandonando, se ne partiva alla volta di Roma. Per mitigarlo mandava fuori il governo un editto, per cui prometteva ai Francesi, Italiani, Liguri, e ad altre nazioni unite all'impero Francese, che sarebbero le proprietà loro, ed i traffichi securi e salvi. Fu la dimostrazione indarno, perchè non solo nissuna protestazione conteneva contro il moto dei confederati, ma nemmeno portava alcun dispiacere di quello, che la Francia aveva sentito sì gravemente. Gli effetti che ne seguitarono, e che per molti anni tolsero al re la possessione del regno di qua dal Faro, saranno da noi fra breve raccontati.

Vinceva Napoleone nei campi di Osterlizza una campale battaglia. Vinti i Russi ausiliarj, fu talmente prostrata l'Austria, che fu costretta a consentire a durissimi patti. Si fermarono a Presburgo d'Ungherìa il dì ventisei decembre. Consentiva l'imperator d'Alemagna e d'Austria a tutte le unioni dei territorj italiani: riconosceva le risoluzioni prese dall'imperator di Francia rispetto a Lucca ed a Piombino, riconosceva l'imperator di Francia, come re d'Italia, con ciò però che, seguìta la pace generale, le due corone, a seconda delle promesse fatte dall'imperator Napoleone, l'una dall'altra fossero separate, nè mai in perpetuo potessero esser riunite: dava in potestà dell'imperatore medesimo di Francia tutti gli stati dell'antica repubblica di Venezia a lui ceduti pel trattato di Campoformio, e consentiva, che fossero uniti al regno d'Italia, riconosceva ancora nei duchi di Virtemberga e di Baviera la qualità, ed il titolo di re: cedeva a quest'ultimo, oltre parecchi paesi situati sulle sponde del Danubio, il Tirolo, compresi i principati di Brissio e di Bolzano, le sette signorìe di Voralberga, e parecchi altri paesi sulle rive del lago di Costanza: dal canto suo l'imperator Napoleone guarentiva l'interezza dell'impero d'Austria; consentiva, che Salisburgo già dato all'arciduca Ferdinando di Toscana, al medesimo impero si unisse, e si obbligava ad intromettersi appresso al re di Baviera, perchè cedesse Visburgo all'arciduca in compenso di Salisburgo.

Si mandava ad effetto il trattato. Venezia e gli antichi suoi territorj, dopo otto anni di dominio Austriaco, tornavano sotto quello di Francia. Venne Law Lauriston a prenderne possesso da parte del re d'Italia. Confortava i Veneziani a star di buon animo, promettendo loro felicità, e chiamandogli figliuoli di Napoleone; bella consolazione per certo a tanti mali. Il dì diecinove gennajo arrivarono in Venezia per fondarvi la terza servitù, i soldati di Napoleone, gli mandava Miollis, destinato dai cieli a commettere in Italia duri fatti con molli parole. Arrivava il dì tre di febbrajo in Venezia Eugenio vicerè, testè sposato ad Amalia di Baviera. Fecersi i soliti rallegramenti, i quali, siccome quelli che o costretti erano dalla forza, o procurati dall'adulazione, muovevano piuttosto a compassione che a gioja.

A questo tempo si rinfrescavano le Napolitane ruine. Napoleone vittorioso pensava a soddisfare all'ambizione ed alla vendetta. Già sull'uscire del precedente anno aveva pubblicato, parlando a' suoi soldati, queste parole:

«Da dieci anni io feci quanto per me si potè, per salvare il re di Napoli, e da dieci anni ei fece quanto per lui si potè per perdersi. Dopo le battaglie di Dego, di Mondovì, e di Lodi deboli forze gli restavano per resistermi: fidaimi nelle sue parole, anteposi la generosità alla forza. Risolvè poscia Marengo la seconda lega; aveva il re, di tutti il primo, incominciato la guerra; da suoi alleati abbandonato a Luneville, solo e senza difesa rimase. Implorò perdono, gliel concedei. Voi a Napoli già vicini avevate in poter vostro il regno; i tradimenti io sospettava, le vendette poteva fare; novella generosità amaimi; che sgombraste il regno, ordinaivi; la terza volta restommi della salute sua la casa dei reali di Napoli obbligata. Perdonerò io la quarta ad una corte senza fede, senza onore, senza ragione? No; ceda dal regno la Napoletana famiglia; non può ella col riposo d'Europa, coll'onore della mia corona sussistervi. Ite, marciate, precipitate nell'onde quei deboli battaglioni dei tiranni del mare; seppure a loro basterà l'animo di aspettarvi: ite, e mostrate al mondo, come da noi si puniscano gli spergiuri; ite, e fate ch'egli presto s'accorga, che nostra è l'Italia, che il più bel paese della terra ha oramai gettato via dal collo il giogo d'uomini perfidissimi: ite, e mostrate che è la santità dei trattati vendicata, che sono le ombre de' miei soldati, sopravvissuti ai naufragi, ai deserti, a cento battaglie, ed alle uccisioni nei porti della Sicilia, mentre tornavano dall'Egitto, placate e paghe. Guideravvi mio fratello: partecipe della mia potenza, partecipe de' miei consigli, in lui fidatevi, come io in lui mi fido».

A queste aspre e superbe parole del terribile vincitore d'Osterlizza tenevano dietro consenzienti fatti. Giuseppe fratello con esercito poderoso marciava contro il regno; gli aveva dato Napoleone, conoscendolo irresoluto e solito a lasciarsi portare dalla volontà degli altri, per compagno e sostenitore de' suoi consigli Massena. Pruovossi Ferdinando di stornare la tempesta, con mandar Ruffo cardinale appresso allo sdegnato signore per iscusare il fatto dello sbarco. Adducesse, comandava, essere gli alleati stati troppo forti, lui troppo debole, nè aver potuto impedire; pregasse concordia, promettesse ammende, offerisse sicurtà. Nè vedeva il re, che Napoleone più serviva all'ambizione che alla vendetta; imperciocchè quanto allo sbarco, vi si poteva rimediare con qualche perdita di provincie o di denaro, senza venirne alla radice ed all'intiera distruzione del regno. Quanto all'ombre dei soldati, aveva Napoleone, dopo la uccisione, fatto amicizia col re; il che aveva dimostrato in quale conto avesse il sangue e l'ombre loro. Nè si vede perchè il re mandasse Ruffo cardinale a placar Napoleone, se non forse perchè credeva, che per qualche somiglianza di natura fossero facilmente per accordarsi. Mostrossi Napoleone inesorabile; gli piaceva Napoli; preparava reali seggi ai fratelli; voleva, per le sue cupidità, fermare in ogni luogo stati dipendenti intieramente da lui.

Quando pervennero a Ferdinando le novelle della volontà di Napoleone, si ristrinsero insieme i suoi consiglieri per deliberare su quanto la necessità del caso richiedesse. Pensava ad abbandonar Napoli, e desideravano che i Russi ed Inglesi si mettessero a qualche forte passo degli Abruzzi, per vietare ai Francesi l'entrata nel regno. Ma l'imperatore Alessandro, che amava meglio la salute de' suoi soldati, essendo anche l'impresa molto dubbia, aveva comandato per un corriero espresso, che tostamente s'imbarcassero, ed in Corfù tornassero. La ritirata dei Russi, che erano la più grossa parte rendè necessaria anche quella degl'Inglesi. Gli uni e gli altri partirono, quelli per Corfù, questi per Sicilia, lasciato Ferdinando nell'ultima ruina. Veduto che il regno andava senza indugio in manifesta perdizione, si risolvette nel consiglio, che il re si ritirasse in Sicilia, che seco conducesse la famiglia, i ministri, e quanti soldati e denari potesse. Già il nemico insultava da Ferentino, già si apprestava ad invadere le provincie. Si deliberò altresì, che il figliuolo primogenito del re andasse in Calabria per animare quelle popolazioni armigere, e sempre addette a chi più accesamente le instiga. Era in questa provincia rotta e sanguinosa il conte Ruggiero con qualche banda di regolari; si sperava, che i popoli congiungendosi a loro, avrebbero potuto tener vivo il nome regio fintantochè qualche favorevole accidente desse occasione di risorgere. Lasciava Ferdinando la real sede il dì ventitrè di gennajo. Così finì allora il suo regno, regno pieno, per la sfrenatezza dei tempi, di casi lamentevoli ed atroci; ma non pertanto cessarono le opere crudeli, come se fosse fatale che perpetuo sangue vi si versasse, o che il regno, o che la repubblica vi dominassero, o che forestieri d'Inghilterra o che forestieri di Francia la potestà del comandare vi esercessero.

Partito Ferdinando sul vascello reale l'Archimede, fu lasciata una reggenza composta dal generale Naselli, dal principe di Canosa, da don Michelagnolo Cianciulli, e da don Domenico Sofia. Era la città paventosa delle cose avvenire; si temeva del popolo, dei Francesi, dei Calabresi. Accrebbe il terrore un grave tentativo dei carcerati al serraglio, che se avesse avuto effetto, Napoli sarebbe andata a ruina. Marciavano intanto i Francesi alla conquista. Giuseppe fulminato vendetta contro la corte, e promesso dolcezza al popolo, se si sottomettesse, velocemente viaggiava contro la capitale. Correva a destra, a riva il mare, Regnier, nissun ostacolo in nessun luogo incontrando, salvo in Gaeta, piazza forte di sito, e custodita dal principe di Assia, capitano valoroso. Intimato di resa, rispose negando. Assaltarono i Francesi il bastione di Sant'Andrea, e se lo presero, non senza sangue. L'altra parte si difendeva egregiamente; ma essendo i Napoleoniani grossi, lasciato genti all'oppugnazione, passarono. Massena a sinistra senza impedimento alcuno camminando, poichè Capua già si era data, arrivava ai quattordici di febbrajo sotto le mura dell'appetita città. S'arresero castel Nuovo, castel dell'Uovo, castel del Carmine, e castel Sant'Elmo. Entrava Duhesme il primo con una scelta fronte di soldati leggieri sì fanti che cavalli. Faceva il dì seguente il suo ingresso Giuseppe a cavallo con molto seguito di generali, e con tutte le ordinanze in bellissima mostra. Smontò al palazzo reale; trovollo squallido, e spogliato dai fuggitivi. Addì sedici visitava la chiesa di San Gennaro; udita la messa di Ruffo Cardinale, presentava il Santo con doni, primizie del futuro regno. Tornatosi nella reggia sede dava le udienze ai magistrati, vedeva con viso benigno la reggenza di Naselli; ma tosto la cassava per crearne un'altra; fecene capo Saliceti. Erano nella serva Italia certe persone perpetue, alcune perchè Napoleone le amava, altre perchè le disamava; Vignolle, Menou, Miollis, Saliceti. Per far denaro si mantennero le tasse vecchie, se ne imposero delle nuove; per far sicurezza, si tolsero le armi ai cittadini, e si venne sul suono di far morire soldatescamente chi le portasse. Queste minacce già tante volte fatte, ed anche eseguite da ambe le parti, dimostrano, qual dolcezza di vivere fosse allora in Italia.

Intanto le Calabrie non quietavano. Si era il duca di Calabria accostato con un corpo di soldati uscito con lui da Napoli al conte Ruggiero, che con una squadra riempiuta di soldati Siciliani, Tedeschi, Napolitani, e con qualche misto di raunaticci, parte buona, parte pessima, aveva fatto un alloggiamento fortificato sulle rive del Silo nel principato di Salerno. Arso il ponte, schierava i suoi sulla riva. Parve il caso d'importanza; vi fu mandato Regnier. Andò il Francese all'assalto, mandò i Napolitani in rotta, perseguitò i vinti fino a Lagonero. Rannodaronsi i regj a Campotenese; venne loro sopra Regnier il dì nove marzo, e con un forte assalto gli risolvette facilmente in fuga. A stento salvossi il conte con mille soldati tra fanti e cavalli. Il Francese vittorioso s'inoltrava nella Calabria ulteriore; occupato Reggio, muniva di presidio la fortezza di Scilla, posta alla punta d'Italia, dove è più vicina alla Sicilia; il che dava e freno e sospetto agl'Inglesi, che in Messina si erano raccolti a difesa dell'isola.

Per la vittoria di Campotenese tutto il corpo Napolitano guidato da Rosenheim fu fatto prigioniero. Rodìo, che aveva veduto le guerre di Ruffo, e con lui e per lui aveva combattuto, perseguitato aspramente da Lecchi, fu preso nelle montagne di Pomarico. Sperava Regnier di pigliarsi Michele Pezza, che il volgo chiamava fra Diavolo, uomo facinoroso mandato da Palermo a sollevare i popoli; ma per l'audacia propria, e per conoscere il paese, gli sfuggì di mano, tornandosene a Gaeta. Molti de' suoi seguaci, gente da strada ed efferata, come egli, presi nelle montagne di Rocca Guglielma, Monticelli, e Sant'Oliva, furono incontanente dati a morte. Da un'altra parte Duhesme, oltratosi nella Basilicata, cacciava i nemici da Bernarda e da Torre, ed entrava in Taranto, città opportuna pel suo sito ad accennare ugualmente a Corfù ed alla Sicilia. Alcuni rimasugli dei vinti si erano rannodati a Castrovillari, ma combattuti da Regnier furono dispersi. Vi andarono presi un Tchudi ed un Ricci, capitani di qualche grido, e molto affezionati al nome del re. Sbaragliati i regolari, sorgevano, parte per la mutazione del governo, parte per gl'instigamenti di Sicilia, parte per amore della vendetta, parte per cupidigia del sacco, in diverse parti della Calabria bande collettizie di soldati spicciolati, e di uomini facinorosi, che mettevano la provincia a terrore, a ruba ed a sangue. In questi orribili ravvolgimenti perdeva chi aveva, acquistava chi non aveva; i buoni solamente perivano; i scellerati trionfavano. La ferocia d'uomini quasi ancora selvaggi era stimolata da uomini feroci per consuetudine; il male s'appiccava, e dominava in ogni parte. Spargevansi voci, che la regina fomentasse questi moti; il che era vero per qualche capo e per la guerra, non per le masse dei scelerati e per gli eccessi. I Francesi ed i partigiani loro accrescevano questi romori, e davan loro più credito coll'intento di seminar viemaggiormente rancori, ed odj contro quel governo, che da loro era stato cacciato. Da questi accidenti nasceva, che non solamente il desiderio di Ferdinando diminuisse continuamente nelle popolazioni quiete, e negli uomini facoltosi, ma ancora con minor avversione si vedesse il dominio dei Francesi, avvisando ciò che era vero, che, siccome potenti e speditivi, avrebbero posto freno a quella peste degli assassinj e delle ruberìe. Questi umori non ignorava Napoleone. Però giudicando, che fosse arrivato il momento propizio per mandar fuori quello che si aveva già da lungo tempo concetto, nominava Giuseppe re delle due Sicilie. Annestava la solita condizione, che le due corone di Francia e di Napoli non potessero mai essere posate sul medesimo capo. I principi consentivano, i popoli adulavano. Solo Carolina di Sicilia non si lasciava tirare alla debolezza universale, l'acerbità dell'animo con l'altezza compensando. Per questo Napoleone la chiamava Fredegonda, ed ella chiamava lui assassino di principi, e tiranno Corso. Finalmente vi cadde ancor essa, non per adulazione, nè per abiezione d'animo, ma per odio contro gl'Inglesi; perchè, come diremo a suo luogo, venne un tempo, in cui non piacendole il comandare frenato alla foggia degli ordini d'Inghilterra, desiderò, come più conforme alla sua natura, il comandare assoluto di Napoleone; per questo prese consiglio di accostarsi a lui.

La creazione del re Giuseppe fu sentita con qualche allegrezza in Napoli, ma più dai nobili che dai popolani. Furonvi luminarie, spari, feste, teatri, canzoni, sonetti al solito; e di questi sonetti, chi ne aveva più fatto per Carolina, più ne faceva per Giuseppe. Vi furono anche non insolite, ma indecenti cose. Il marchese del Gallo, ambasciadore di Ferdinando a Parigi, rivoltatosi subitamente alla fortuna di Napoleone, divenne ambasciadore di Giuseppe, poi incontanente suo ministro degli affari esteri. Di tanto anteponevano gli uomini, anche i nobili, l'ambizione all'onore! Nè miglior natura mostrò il duca di santa Teodora, ambasciadore di Ferdinando in Ispagna, poco prima mandato da lui a mansuefare il vincitore: accettò carica nella corte di Giuseppe. Aveva certamente il duca l'animo esacerbato pel supplizio di Caraccioli, suo parente; ma sarebbe stato più onorevole il non accettar cariche da Ferdinando, che il non tenergli fede. Ruffo cardinale esultando ricevè Giuseppe sotto il baldacchino. Vide l'età Maury cardinale fare fallo ai Borboni di Francia, per profondersi a Napoleone, vide Ruffo cardinale abbandonare i Borboni di Napoli per inchinarsi a Giuseppe. Scusavansi con dire, avere amato le cose, non le persone; il che sarà loro da ognuno facilmente conceduto. Tutti errarono, pontefice, imperatori, re, cardinali, vescovi, preti, nobili, popolani. Almeno imparassero i potenti a non giudicar gli uomini a norma di una perfezione, che non è nel mondo, ed a conoscere la debolezza propria in quella d'altrui. Ma tal è la superbia umana, che chi più può, si persuade anche d'esser migliore, e tal è anche qualche volta la perversità di lei, che alcuni credono, e vogliono far dimenticare i falli proprj col punirgli in altrui. La Turchìa stessa, a cui Napoleone aveva voluto torre quel granajo dell'Egitto, adulava. Il giorno dell'assunzione di Giuseppe il suo inviato in Napoli cacciò fuori sulla fronte del suo palazzo, in mezzo a non so qual luminaria, questo motto in lingua Turca e Francese: “l'Oriente riconosce l'eroe del secolo”. Vero è, che quest'era piuttosto adulazione Francese e Napolitana, che Turca. Napoleone rideva a queste mostre, e vieppiù disprezzava la natura umana.

Le vittorie di Lagonero e di Campotenese, avendo rotto le forze regie in Calabria, tutto il paese era venuto, salvo alcuni moti incomposti, a divozione dei Francesi. Solo Gaeta e Civitella di Tronto resistevano. Poca speranza restava al re di far frutto, sebbene sapesse che non mancavano mali semi contro il nuovo signore, se gl'Inglesi sbarcando sulle terre Calabresi non avessero somministrato qualche forte soccorso di battaglioni ordinati. Ma grandemente ripugnava ad una spedizione in terra ferma Stuart, che essendo succeduto a Craig nel governo dei soldati Britannici in Sicilia, continuava a starsene nelle stanze di Messina. Gli pareva che il principal fine degl'Inglesi fosse la conservazione della Sicilia. Nè ignorava che la spedizione sarebbe pericolosa per l'isola, se riuscisse infelicemente, di nissun frutto per la terra ferma, a cagione dell'eccessiva forza dei Francesi, se riuscisse felicemente. Fortunato capitano non sarebbe lodato; infortunato biasimato. Ma era a questo tempo giunto in Sicilia un uomo, a cui piacevano le imprese avventurose: questi era Sidney Smith, che, arrestata la fortuna prospera di Buonaparte in Oriente, si era persuaso di poterla arrestare anche in Occidente. Stimolato dalla propria natura, dalle preghiere di Ferdinando, e dalle instigazioni della regina, che non poteva vivere se non ricuperasse ciò che le era stato tolto, continuamente esortava Stuart alla fazione. Ma la prudenza dell'uno superava l'audacia dell'altro, e niuna cosa si risolveva. Si deliberava Sidney a fare qualche sforzo da se colle forze marittime per far vedere a Stuart, che la materia era meglio disposta ch'ei non credeva. Per la qual cosa partiva dalla Sicilia con qualche nave grossa da guerra e molte annonarie, con intento di andar a visitare le coste di Napoli. Due fini principalmente il muovevano; il primo di rinfrescar Gaeta, il secondo d'incitare, e di provvedere d'armi e di munizioni le Calabrie. S'appagava del suo primo intento; anzi lasciava nelle acque della piazza un'armatetta di navi sottili, affinchè cooperasse alle difese. S'impadronì dell'isola di Capri; la qual possessione il rendeva signore del golfo di Napoli. Poscia radendo i lidi a seconda verso scirocco, ora qua ora là si mostrava, e con la presenza, colle esortazioni, colle somministrazioni vi manteneva vivo il nome di Ferdinando. Vi scoverse inclinazioni favorevoli, ma non sufficienti perchè potessero fare da se. Tornossene in Sicilia: con intente esortazioni tanto fece che il prudente Stuart si lasciò muovere a tentare qualche fatto su quella tribolata e tumultuosa terra. Sbarcava sul principiar di luglio con circa cinque mila soldati sulle coste del golfo di sant'Eufemia: chiamava, ma con poco frutto, le popolazioni a levarsi. Stava sospeso, stante la freddezza dei popoli, se dovesse tornare alle navi, o persistere sulla terra ferma, quando gli pervennero le novelle, che Regnier con un corpo di circa quattro mila soldati aveva posto il campo a Maida, terra distante dieci miglia dal mare. Udì al tempo stesso, che una nuova schiera di tre mila soldati accorreva in soccorso di Regnier, perciocchè la nuova della venuta degl'Inglesi già si era sparsa nelle vicinanze. Si deliberava pertanto di assaltare il nemico innanzi che il soccorso si fosse congiunto con esso lui. Era il generale di Francia accampato sul pendìo di una collina boscata sotto il villaggio di Maida, soprastando alla pianura di sant'Eufemia: folte selve rendevano i suoi fianchi sicuri. Scorreva alla sua fronte il fiume Amato, che sebbene in ogni luogo fosse guadoso, tuttavia per avere le sue rive ingombre di paludi, difficoltava assai il passo agli Inglesi. Forte, come si vede, e quasi inespugnabile era il sito di Regnier, e se vi avesse aspettato l'inimico, la sua vittoria sarebbe stata certa. È da notarsi, che la dimora degl'Inglesi in quei luoghi non poteva esser lunga, perchè essendo il paese paludoso, esala, massime nella stagione estiva, miasmi pestilenziali, radice di malattie molto mortali. Ma Regnier, o nel proprio valore troppo confidando, o di quello del nemico troppo debolmente giudicando, consentì al commettere all'arbitrio della fortuna un'impresa certa. Calavasi adunque dalla bene promettente collina, varcava il fatale fiume, e s'innoltrava nella pericolosa pianura. Forse, oltre la confidenza di se stesso e de' suoi, che per verità valorosi soldati erano, a questo partito il mosse l'avere con se qualche squadra di cavallerìa, della quale l'Inglese mancava. Arrivavano in questo mentre i tre mila; il quale accidente accrebbe nei Francesi l'opinione del vincere. Si fece dalla sua parte avanti l'esercito d'Inghilterra: le due emule nazioni venivano al cimento.

Incominciò la battaglia, correva il dì sei di luglio, dall'affronto incomposto e sparso dei soldati armati alla leggiera: poi si venne alla zuffa delle genti grosse. Trassero poche volte con gli archibusi: mossi dall'emolazione, ed impazienti del combattere da lontano, s'avventarono colle bajonette in canna gli uni contro gli altri. La mischia spaventosa: vivi erano i Francesi, stabili gl'Inglesi. I primi, o perchè, avendo creduto di andarne a sicura e facile vittoria, restassero stupefatti all'inopinato rincalzo, od altra cagione che sel facesse, cominciarono, dopo un breve menar di mani, massimamente sulla sinistra loro, a piegare, poi andavano in fuga. Gli seguitarono velocemente gl'Inglesi, ed aspramente gli pressavano, non poca uccisione facendone. Volle Regnier ristorare la fortuna con assaltare colla cavallerìa la sinistra del nemico, ma fecero gl'Inglesi sì immobile resistenza coi tiri e colle bajonette, che fu costretto a rimanersene. Si pruovava allora, poichè coll'assaltar di fronte non aveva fatto frutto, di girare co' suoi cavalli intorno alla punta della medesima ala degl'Inglesi, e di urtarla di fianco ed alle spalle; con che sperava d'indurre qualche scompiglio nell'ordinanza. Già i cavalli circuivano; la battaglia pericolosa per gl'Inglesi, quando un nuovo reggimento partito da Messina, e testè sbarcato a Sant'Eufemia, arrivò sul campo, e postosi dietro un po' di riparo che il terreno offeriva, fece fronte ai cavalli, e coi tiri spesseggiando, non solamente arrestò l'impeto loro, ma ancora gli costrinse alla ritirata più rotti che intieri. Dopo questo fatto i soldati di Regnier si posero in fuga scomposti e sbaragliati, cercando ciascuno salute senza ordine o norma, come meglio avvisava. Fu compiuta la vittoria degl'Inglesi. Errò Regnier nell'essere sceso al piano: errò nell'aver troppo disteso le ordinanze. Morirono dei Francesi settecento, due mila vennero in poter dei vincitori, parte sul campo della battaglia, parte a Monteleone, dove si erano ridotti. Ornò massimamente la vittoria la presa del generale Compère. Dei dispersi, che furono un grosso numero, molti venuti in mano dei Calabresi, furono crudelmente ammazzati: alcuni condotti cattivi al cospetto di Stuart restarono salvi.

La vittoria di Maida diè nuova cagione ai Calabresi di levarsi a romore: ad uso barbaro ammazzavano quanti venivano loro alle mani. I Francesi dal canto loro irritati contro uomini, che a nissun uso civile attendevano, saccheggiavano ed ardevano tutte le terre che loro si scoprivano contrarie, uccidendo i terrazzani, e nissun rispetto avendo o al sesso, o all'età. La Calabria tutta fumava d'incendi e di sangue. Furono i Francesi obbligati a sgombrarne. I sollevati, fatti padroni delle coste, stabilmente vi si alloggiavano nei siti principali, donde comunicando con Sidney Smith, che in questa bisogna si dimostrava attivissimo, e da lui ricevendo armi e munizioni, le tramandavano nell'interno del paese, e somministravano continua esca a quel grave incendio. Amantea, Scalea, l'isola di Dina sulle coste della Calabria citeriore, erano tenute dai Calabresi: Maratea, Sapri, Camerota, Palinuro, ed altre terre del golfo di Policastro a loro parimente obbedivano. Massa di cruda ribaldaglia erano queste, nè io sarò mai per lodare quelli che le fomentavano: scelerati, la più parte, i gregari, scelerati i capi. Pane di Grano, uno dei primi, era un prete infame condannato per delitti a galera: Fra Diavolo, che imperversava più vicinamente a Napoli, uomo convinto di più latrocini, ed assassinii: ladri ed assassini a costoro si accostavano. Gl'Inglesi non gli potevano frenare, ancorchè Stuart per l'umanità sua molto vi si affaticasse. I Francesi, dove potevano, acerbamente si vendicavano, furore e crudeltà a furore ed a crudeltà opponendo.

Il trionfo di Maida poco durava. S'ingrossavano di nuovo i Napoleoniani: gli assassini erano cattivo fondamento; il capitano d'Inghilterra si ritirava in Sicilia, solo lasciando un presidio nel forte di Sicilia, di cui si era impadronito.

S'accalorava l'oppugnazione di Gaeta. Già per molti mesi l'aveva virilmente difesa il principe d'Assia: vi morirono molti buoni Francesi, fra gli altri il generale Vallelongue, uomo, in cui la dolcezza e l'integrità della vita pareggiavano la scienza ed il valor militare, l'uno e l'altro singolari. Il principe ferito gravemente fu portato in Sicilia. Gli assedianti impedivano le sortite con aver tirato una trincea dalla spiaggia di Mola sino all'altra estremità dell'istmo. Impedivano colle batterie i soccorsi di mare; una breccia molto grande era aperta nel muro della cittadella sino a piè della controscarpa: i terribili granatieri di Francia pronti all'assalto. Si diede la fortezza il dì diciotto luglio. Anche in questo fatto mostrò il generale Campredon molta perizia nell'arte d'oppugnar le piazze, ed a lui principalmente restò Napoleone obbligato dell'acquisto di Gaeta. Solo, siccome quegli che la voleva sempre fare da maestro, perchè gli altri si studiassero di fare, non che bene, meglio, si lamentò che Campredon vi avesse consumato troppa polvere.

La resa di Gaeta avvantaggiò le condizioni dei Francesi nel regno. La forte schiera che l'aveva oppugnata, andava a ricuperar le Calabrie; e stantechè il nome di Massena era di molto terrore, gli fu dato il governo della spedizione. Perchè un uomo terribile avesse potestà terribili, decretava Giuseppe, fossero e s'intendessero le Calabrie in istato di guerra: i magistrati civili e militari obbedissero a Massena: creasse commissioni militari pei giudizi, ed i giudizi si eseguissero senz'appello in ventiquattr'ore: i soldati vivessero a carico dei paesi sollevati: i beni degli assassini e dei capi dei ribelli si ponessero al fisco; i beni degli assenti ancor essi si confiscassero; chi non essendo scritto alla guardia provinciale, fosse trovato con armi, si desse a morte; i conventi che non dichiarassero i religiosi complici si sopprimessero. Andava Massena alla spedizione; seguitarono dalle due parti crudeltà inusitate. Lavria, Sicignano, Abetina, Strongoli incesi: i Napoleoniani trucidavano i Calabresi nelle battaglie, nelle imboscate, nei giudizi; i Calabresi ammazzavano i Napoleoniani, e gli aderenti loro nelle case, negli agguati, nelle battaglie: il furore partoriva morti, le morti furore: gli uomini civili divenivan barbari, i barbari vieppiù s'imbarbarivano. Il Crati, fiume principalmente in cui furono gettati a mucchi i cadaveri degli uccisi, portò con le acque sue al mare i rossi segni della bestiale rabbia degli uomini. Durò lunga pezza la carnificina: pure i Napoleoniani per la disciplina e per gli ordinati disegni prevalevano. Il terrore e le uccisioni frenarono, non quietarono la provincia: semi orrendi vi covavano, che ora in questo luogo, ora in quell'altro ripullulavano, e facevano segno, che più potevano l'odio e la rabbia che i supplizi: nè mai potè Giuseppe venir a capo dei sollevamenti Calabresi, ancorchè usasse rimedi asprissimi, e qualche volta anche dolcezza coi perdoni. Orrendi casi io raccontai, ma più orrendi, se mi fia dato di terminare queste storie, sarommi per raccontare, dai quali si vedrà, che se la dolcezza mescolata con la crudeltà non fece frutto per pacificare le Calabrie, una crudeltà pura il fece: feroce razza di Calabria, che non potè costringersi alla quiete, se non con lo sterminio.

Risoluzioni infedeli, atti soperchievoli, guerra barbara insanguinavano una costa dell'Adriatico: simili accidenti insanguinavano l'altra: di sì lagrimevoli frutti fu pregno il tradimento fatto a Venezia. Erano le Bocche di Cattaro, il più sicuro ricovero che si avessero i naviganti nell'Adriatico, state cedute alla Francia pel trattato di Campoformio, con tempo di sei settimane ad esserne messa in possessione. Spirato il termine, e non comparsi gli ufficiali di Francia a prenderne possessione, un agente di Russia, col quale concordavano, siccome Greci, gran parte dei Bocchesi e dei Montenegrini, selvaggi abitatori delle vicine montagne, sollevò il paese, predicando, che, poichè il tempo buono della consegnazione era trascorso, i Francesi erano scaduti, ed il paese padrone di se stesso. I comandanti Austriaci di Castelnuovo e degli altri forti, l'intendevano ad un altro modo, e volevano serbar la fede. Arrivava in questo mentre il marchese Ghisilieri commissario d'Austria, per far la consegnazione; ma non che il suo mandato eseguisse, perchè già i Francesi si approssimavano, consentì a sgombrar il paese, lasciandolo in potere dei natìi, dei Montenegrini, e dei Russi. Sgombrarono di mala voglia i comandanti Austriaci, e sdegnosamente anche protestarono della violazione dei patti. Nè meno sdegnosamente udì Vienna il fatto; fu il marchese dannato a carcere perpetua in una fortezza di Transilvania.

La fede violata in Cattaro diè occasione a fede violata in Ragusi. I Napoleoniani, non potendo più occupare Cattaro, s'impadronirono di Ragusi, nissuna ragione contro quella pacifica ed innocente repubblica allegando, ma solamente il pretesto di preservarla dalle scorrerìe dei Montenegrini. Certo i soldati Napoleonici difesero Ragusi, dico la città, perciocchè i Montenegrini orribilmente saccheggiavano il territorio; ma Napoleone spense la repubblica congiungendola all'Italico regno; singolar modo di preservazione. Sorse una guerra varia. Lauriston tenuto in assedio in Ragusi dai Montenegrini era soccorso da Molitor, che gli vinceva risospingendogli ai loro nidi delle montagne. Pure stavano ancora minacciosi, ed infestavano con spesse scorrerìe il paese, quando Marmont, con astuzia militare avendogli indotti a venir al piano, con istrage grandissima prostrava tutte le forze loro. Guerra orribile fu questa: i Montenegrini ammazzavano i prigioni, e gittavanne le teste tronche fra le file dei compagni inorriditi: i Napoleoniani perseguitavano sui monti loro i Montenegrini, e quando non gli potevano avere per essersi nascosti nelle tane, ne gli cacciavano con fuoco e fumo, come se fiere fossero, per uccidergli.

Cantava queste vittorie con gloriose promulgazioni, secondo la natura sua, Dandolo, che era per Napoleone provveditore generale della Dalmazia. Sì per certo, questo mancava allo scandalizzato mondo, che dopo di aver veduto Pesaro commissario Austriaco in Venezia, vedesse Dandolo provveditore Napoleonico in Dalmazia.

Fine del Tomo V.

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