LIBRO VIGESIMOPRIMO

SOMMARIO

Il consolo s'accorda con Roma, e rinstaura la religione cattolica in Francia. Concordato. Discussioni nei consigli del papa su di questo atto. Articoli organici aggiunti dal consolo, e querele del pontefice in questo proposito. Ordini Francesi introdotti in Piemonte, che accennano la sua unione definitiva colla Francia. Menou mandato ad amministrar questo paese in vece di Jourdan. Murat in Toscana. Suo manifesto contro i fuorusciti Napolitani. La Toscana data al giovane principe di Parma con titolo di regno d'Etruria. Il consolo insorge per arrivare a più ampia autorità, ed a titolo più illustre. Fa per questo sue sperienze Italiane, e chiama gl'Italiani a Lione. Quivi il dichiarano presidente della repubblica Italiana per dieci anni con capacità di esser rieletto. Constituzione della repubblica Italiana. Genova cambiata, e sua nuova constituzione. Monumento in Sarzana ad onore della famiglia Buonaparte, natìa di questa città. Il Piemonte formalmente unito alla Francia. Carlo Lodovico, infante di Spagna, re d'Etruria per la morte del principe di Parma. Descrizione della febbre gialla di Livorno. Le bilustri trame di Buonaparte arrivano al loro compimento; si fa chiamar imperatore. Pio settimo condottosi espressamente in Parigi, lo incorona.

Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia. L'assemblea constituente aveva interrotto la unione con la sedia apostolica rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi, qual era stata accordata tra Leone decimo, e Francesco primo, e tolto i beni alla chiesa con appropriargli alla nazione. I governi che vennero dopo, massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero gli ordini statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine religioso, perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni anche sforzarono, cosa nefanda, a rinegare il proprio stato, e le proprie opinioni. Il direttorio continuò a perseguitare i preti, ora confinandogli nell'esiglio, ora serrandogli nelle prigioni, e sempre impediendo loro, massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente celebrassero i riti divini. Fra tante amarezze dell'anime pie, qualche consolazione recavano i preti giurati colle esortazioni, e coi conforti loro: ad essi la Francia debbe restar obbligata della conservazione della fede; della conservazione medesima la sedia apostolica debbe sentir loro obbligo, sebbene abbia cagione di dolersene per la diminuzione da loro introdotta, e pertinacemente sostenuta con le parole, con le opere, e con gli scritti, nella giurisdizione della cattedra di San Pietro. Conservarono eglino la fede, che è la radice, senza la quale ogni religione, non che ogni disciplina ecclesiastica, sarebbe impossibile. Ma la religione senza un culto ordinato, e senza riti accordati con la pubblica autorità, e da lei riconosciuti e protetti, non potrebbe sussistere lungo tempo, la cattolica meno di ogni altra, solita a cattivar gli animi con le pompe e solennità esteriori. Ciò si vedevano gli uomini prudenti, nei quali era entrata la persuasione, che le credenze religiose sono un ajuto efficace alle leggi civili: quest'istesso vedevano gli uomini religiosi, che si dolevano, che quello che nelle menti e nei cuori loro pensavano ed amavano, non potessero in ordinato e pubblico modo manifestare. Era adunque nato un desiderio in Francia di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti Francesi in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più difficile sembrava la rintegrazione. Certo pareva, che ove una prima insegna di Cristo si fosse rizzata, là sarebbero concorsi cupidamente, e con amore avrebbero abbracciato coloro, che rizzata l'avessero. Buonaparte non era uomo da non vedersi queste cose, meno ancora da non usarle per edificare la sua potenza, e per arrivare a' suoi fini smisurati. Per questo aveva dato parole di pace, di religione, di rispetto, e d'amicizia verso il papa, quando ritornò, dall'Egitto arrivando, in Francia; per questo tenne i medesimi discorsi quando andò alla seconda conquista d'Italia; per questo le medesime protestazioni accrebbe quando vittorioso nei campi di Marengo se n'era tornato nella sua consolar sede di Parigi. Adunque divenuto libero dai pensieri, che più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava viemaggiormente l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne con lui ad un aggiustamento in materia religiosa. Offeriva di dare stato, culto, e comodi pecuniari alla religione cattolica, ed ai suoi ministri. Aggiungeva le solite lusinghe, favellando con accomodate parole della mansuetudine, e della santità del Chiaramonti, vescovo d'Imola. Nè tralasciava le consuete dimostrazioni del suo amore verso la religione, e verso i Francesi. Alcuni accidenti ajutavano queste pratiche, altri le disajutavano. Dava favore al consolo un concilio nazionale di vescovi giurati che dipendentemente da un altro tenuto nel novantasette, con suo consentimento espresso era per adunarsi in Parigi il dì di San Pietro. Non solamente ei non impediva che questi vescovi parlassero, ma gl'incitava anche a parlare, quantunque fossero giurati, e contrarj a quella pienezza di potestà, che i papi pretendono spettarsi alla sedia apostolica. Della quale facoltà largamente usando, mandavano circolari esortatorie ai vescovi, e preti loro compagni della chiesa gallicana, acciocchè imitando, come dicevano, quella carità, di cui Gesù Cristo aveva lasciato il precetto e l'esempio, venissero al destinato giorno ad unirsi nel concilio di Parigi. Compissesi, confortavano, l'opera incominciata nel concilio del novantasette, dessesi occasione ed incitamento al rinnovare queste nazionali e sante assemblee presso tutte le altre nazioni della cristianità, assemblee tanto raccomandate, e tanto commendate dalla veneranda cristiana antichità; nodrissesi speranza, che fossero esse il principio di un concilio ecumenico, la di cui convocazione già da più secoli interrotta, sebbene il concilio di Costanza avesse prescritto che ogni dieci anni si convocasse, era santa e necessaria cosa rintegrare. Mandavano al tempo stesso pregando il papa, col quale già il consolo negoziava per venirne allo statuire con lui precetti contrarj, inviasse suoi deputati per certificarsi, quale e quanta fosse la purità della fede loro: con lui si lamentavano di essere stati prima condannati che uditi da Pio sesto; affermavano, per opera loro non essere stato interrotto il corso della potestà episcopale: forse, sclamavano, poter essere loro imputato a peccato l'avere somministrato i sussidj, ed i conforti della religione a sì copioso numero di diocesi, e di parrocchie abbandonate dai pastori loro? Allegavano, che la facoltà di teologia, e di diritto canonico di Friburgo in Brisgovia aveva profferito una sentenza tutta a loro favorevole, sebbene non provocata; imploravano il parere di tutte le altre università cattoliche, offerendosi pronti a dire ed a scrivere quanto loro fosse addomandato a dilucidazione della controversia. Protestavano finalmente, essere figliuoli obbedienti della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, e romana; e con parole efficacissime testimoniavano, nel grembo suo voler vivere, nel grembo suo morire.

Trattavasi in queste controversie principalmente della elezione dei vescovi, cioè quanto al temporale, se la elezione fatta dal popolo fosse valida, come quella fatta dai re e da altri capi di nazioni, e quanto allo spirituale, se, perchè il filo della successione episcopale non fosse interrotto, fosse necessaria l'instituzione del pontefice Romano, o se bastasse quella fatta da un altro vescovo. Trattavasi poi anche di quest'altro punto, se gli ecclesiastici dovessero vivere per le sole obblazioni dei fedeli, o se dovessero possedere beni in proprio, e se dottrina eretica fosse il mantenere che la potestà temporale, pei bisogni generali dello stato potesse por mano senza il consenso del Romano pontefice nei beni della chiesa. Non era punto nè incerta, nè ignota la opinione dei vescovi giurati adunati in Parigi intorno alle annunziate questioni, poichè ognuno sapeva, che sentivano contro le dottrine della Romana sede. Nè solo queste opinioni in Francia erano sorte, ma a loro non pochi uomini dottissimi, e di ogni religiosa virtù ornati in Italia si erano accostati; conciossiachè, tacendo del Ricci, vescovo di Pistoja, che più vivamente di tutti procedeva, nella medesima sentenza erano venuti i professori Degola, Zola, Tamburini, Palmieri, e con loro Gautier, prete Filippino di Torino, Vailua canonico d'Asti, con molti altri sì Toscani, che Napolitani, che dal Ricci, o dai fratelli Cestari avevano le medesime dottrine imparato. Non dubitava Gautier di affermare, quale principio incontrastabile, che le elezioni dei vescovi sono di diritto divino, od almeno di apostolica constituzione, che sì fatto modo di elezione venne statuito dagli apostoli stessi, e servì di esemplare alla disciplina praticatasi universalmente nella chiesa nei secoli posteriori intorno ad un articolo di tanta importanza: allegava il Filippino a confermazione della sua dottrina, che l'elezione di San Mattia era stata fatta, non da San Pietro solamente, ma da tutti i discepoli adunati nel cenacolo, che sommavano a centoventi: finalmente usciva con dire, che se in fatto il pontefice Romano usava da più secoli la facoltà di instituire i vescovi, per mera usurpazione ne usava. Da tutto questo concludeva, che il papa doveva riconoscere, e confessare per veri e legittimi vescovi coloro, ch'erano stati creati in conformità degli ordini stabiliti dall'assemblea constituente di Francia. Voleva adunque Gautier, ed esortava i vescovi, andassero, non ammessa scusa alcuna, o pretesto in contrario, al concilio di Parigi per ingerirsi in quella gran causa, perchè pareva a lui, che chiunque diritto e senza prevenzione mirasse, avesse a venire in questa sentenza, che l'innocenza, la ragione, la giustizia, secondo i sani principj dei canoni stessero intieramente in favore dei pastori ordinati a norma della constituzione del clero di Francia; che essi veri e legittimi pastori fossero, siccome quelli che erano stati eletti dal popolo cristiano, ed appruovati e constituiti nelle loro chiese dai rispettivi metropolitani secondo i canoni primitivi dalla venerazione di tutto l'universo confermati, e contro i quali nissuna consuetudine potrebbe prevalere. A queste opinioni con l'autorità sua, e con gli scritti dava favore Benedetto Solaro, vescovo di Noli, mostrando gran desiderio di recarsi al concilio Parigino.

Pure da un'altra parte la Romana curia ardentemente impugnava le medesime dottrine: Pio sesto pe' suoi brevi dei dieci marzo e tredici aprile del novantuno, le aveva solennemente condannate, affermando, e costantemente asseverando, che la potestà di compartire la giurisdizione ecclesiastica secondo la disciplina da più secoli venuta in costume, e dai concilj, ed ancora dai concordati confermata, non apparteneva neppure ai metropolitani; che anzi questa potestà era alla fonte, dond'era derivata, ritornata, siccome quella che unicamente nell'apostolica sede ha la sua stanza, che presentemente al Romano pontefice spettava il provvedere di vescovi ciascuna chiesa, come spiega il concilio di Trento; dal che ne conseguitava che niuna legittima instituzione di vescovi può esservi, eccetto quella che dalla sedia apostolica si riceve; così avere statuito la Chiesa universale debitamente adunata in concilio; così avere constituito il concordato concluso tra Leone decimo pontefice, e Francesco primo re di Francia; dal che si vedeva, che sebbene solamente dal secolo decimoquinto i pontefici successori di San Pietro instituissero nelle sedi loro i vescovi, incontrastabile nondimanco era in questa materia il diritto loro, perciocchè vicarj di Cristo essendo, in se tutta avevano raccolta la potestà data da Dio in terra pel governo della chiesa; e se i vescovi erano posti a reggere le chiese particolari, ciò solamente potevano fare, quando dal supremo ed universal pastore ne avevano ricevuto il mandato.

A queste dottrine della curia Romana, come le chiamavano, non potevano star forti, nè udirle pazientemente gli avversarj, e con parole e con iscritti e con allegazioni di testi, e con sequele di ragionamenti continuamente le combattevano. Nè ciò facendo, del tutto modestamente procedevano: perciocchè, quantunque usassero discorsi artifiziosamente umili verso il pontefice, mescolavano nondimeno motti acerbi, e sentenze ancor più acerbe, quando favellano della potestà pontificia, e le disputazioni, come di teologi, s'innasprivano. Insomma, siccome per la constituzione civile del clero ordinata dall'assemblea constituente pareva loro avere vinto una gran causa, così con tutti i nervi, e con tutte le forze loro tentavano di riconfermare la conseguita vittoria.

Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli dimostravano una grande opportunità, perchè non dubitava che il papa, temendo ch'ei non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori della santa sede, avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che desiderava; perciò questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi erano gli accidenti favorevoli al consolo; ma per natura, e per uso, e per massima amava egli molto più il governo stretto e monarcale del papa, che il governo largo e popolare degli avversarj, e gli pareva che gli ordini papali, rispetto alla potestà unica ed universale, fossero un grande, utile e maraviglioso pensamento. Chiamava i giansenisti gente di molta fede, e di ristretti pensieri; nè gli pareva che la constituzione del clero, siccome cosa antiquata e cagione di molte disgrazie, si potesse utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace pensiero, e più conforme ai desiderj dei popoli, gli pareva che abbisognasse.

Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà. La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati e non istava senza qualche timore, che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, cui avevano e con fatti perseguitato, e con motteggi lacerato, non paresse avere agli occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in Francia. Temeva altresì su quei primi principj la setta filosofica, nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda dei beni della chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere del papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e sapeva che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna espressa dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era fondamento indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati erano di gran nome, e di qualche autorità, e il consolo gli voleva vezzeggiare: ma l'impetrare dal papa, che non solamente gli assolvesse, e nel grembo suo gli riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai primi seggi della gallicana chiesa gli sollevasse, appariva intricato, e malagevole argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli ecclesiastici della parte contraria, che avevano conservato i seggi loro anche ai tempi dell'esiglio, ed ai quali non avrebbero forse voluto rinunziare, parte per insistenza nell'antiche opinioni, parte per affezione alla famiglia reale di Francia.

Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il capitolo della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè essendo i medesimi andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo di scandalo, in mezzo a popolazioni iniette di usi e di opinioni contrarie, il volere che tutto ad un tratto pubblicamente, e secondo tutti gli usi della chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero enormità, dalle quali i fedeli ricevessero maggiore offensione, che edificazione. Ripugnava adunque il consolo, malgrado che il papa insistesse per ogni larghezza di culto pubblico, a questa condizione, volendo indugiare a tempo più propizio i desiderj di Roma.

Non ostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire, mandava Pio settimo a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo segretario di stato, Giuseppe Spina arcivescovo di Corinto, ed il padre Caselli, teologo consultore della santa sede. Dal canto suo dava il consolo facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a Cretet, consigliere di stato, ed a Bernier, curato di San Lodo di Angeri. Da questi si venne il dì quindici luglio al trattato definitivo tra la santa sede, e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica che di molta importanza, poichè per lui si restituiva alla chiesa cattolica una parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti uomini di coscienza timorata e pia. Il fece il papa per motivi religiosi, il consolo per mondani; nè troppo ei se n'infinse; il che fu non senza scandalo, perchè gli uomini religiosi abbominavano, che la religione si usasse per mezzo, non per fine, antica, fondata, ed inutile querela.

Confessatosi dal governo francese; che la religione cattolica, apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Francesi, e confessatosi altresì da Sua Beatitudine, che dalla sua rintegrazione in Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore, convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica, apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a quelle regole conformandosi, che il governo giudicherebbe necessarie per la quiete dello stato: s'accorderebbero la santa sede ed il governo ad ordinare una nuova circonscrizione delle diocesi: esorterebbe il pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e se nol facessero, con la elezione di nuovi titolari provvederebbe; nominerebbe il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di Sua Santità gli arcivescovi, ed i vescovi secondo la nuova circonscrizione, e conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole constituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse: le sedi vescovili, che in progresso vacassero ugualmente con nominazioni fatte dal consolo, si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi, e gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria allo stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli; i vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parocchie, nè nominare parochi, se non a beneplacito del governo; le chiese non vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto riguardo alla pace ed alla rintegrazione della religione in Francia, che nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli acquistatori dei beni ecclesiastici alienati, e che per conseguente la proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessevi, fossero e restassero incommutabilmente in loro, nei loro eredi, e negli aventi causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui assegnamenti ai vescovi ed ai parochi, a provvedere che i fedeli di Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione. Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi sovrani di Francia. Se accadesse, che un consolo acattolico arrivasse al seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così ancora la forma delle elezioni dei vescovi si regolassero per un nuovo accordo.

Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo, servirono alla rintegrazione dell'autorità papale piena in Francia.

Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle massime della curia Romana, apertamente biasimavano i plenipotenziarj dello avere troppo largheggiato nelle concessioni, e grandemente offeso i diritti e le prerogative della chiesa cattolica. Il papa medesimo, siccome quegli che molto timorato era, e delle prerogative della santa sede zelantissimo, se ne stava in forse, non sapendo risolversi al ratificare. I capitoli, su i quali cadevano principalmente le controversie, erano, primieramente quello che statuiva, doversi il pubblico esercizio del culto regolare dalla potestà temporale senza nissun intervento dell'ecclesiastica, secondamente quello, per cui si dichiarava da parte del pontefice la proprietà incommutabile a favore degli acquistatori dei beni ecclesiastici. Pareva ad alcuni, che il sostenere che la potestà laica possa di per se, e senza l'intervento della potestà ecclesiastica far regole pel culto pubblico, quandanche fosse per ragione della quiete dello stato, e che ad esse regole sia la chiesa obbligata ad uniformarsi, fosse proposizione non solamente contraria ai canoni, ma ancora più che sospetta di eresìa, siccome quella che è contraria al detto dell'apostolo, che i vescovi sono posti dallo Spirito Santo al governo della chiesa di Dio. Allegavano, che non vi è chiesa senza culto, che chi regola il culto regola la chiesa, e che chi regola regge. O è dunque falso, concludevano, che i vescovi siano destinati dal divino Spirito a reggere la chiesa, il che è eresia, o è indubitato, che i vescovi soli, e non i laici debbono reggere il culto, il che è dogma. A queste ragioni vieppiù si peritava papa Pio, e stava dubbio del partito al quale dovesse appigliarsi. Deliberò, prima di risolversi, di consigliarsi coi teologi più dotti di Roma: richiese del parer loro il cardinale Albani, e frate Angelo Maria Merenda dei predicatori, commissario del sant'officio. S'accordarono ambidue, che il papa, salva coscienza, potesse ratificare.

Il Merenda principalmente, molto sottilmente di questa materia ragionando, statuiva, che se si trattasse di stabilire una bolla, un canone, una definizione, od una massima in materia di dottrina, il dire, che la potestà laica possa regolare il culto senza l'intervento della potestà ecclesiastica, e che alle sue regole debbano gli ecclesiastici uniformarsi, sarebbe proposizione eretica; ma non parimente quando si trattasse, come nel caso presente, di trattato, convenzione, o accordo, che si facesse coll'intento d'introdurre una regola, per cui si rintegrassero e si repristinassero la religione e l'ecclesiastica disciplina, in un paese del quale erano da molti anni miseramente sbandite, benchè da più secoli, come in loro propria sede vi dimorassero, e gli abitatori suoi fossero stimati veri e legittimi figliuoli primogeniti della chiesa. Sapersi, quanto fosse la parte acattolica potente in Francia, quanto disusata la religione, quanto facili a nascervi gli scandali: però le circostanze dei luoghi e dei tempi richiedere, che per evitare i danni maggiori che da un rifiuto nascerebbero, per non privare un gran numero d'innocenti di quegli spirituali sussidj, che potevano con la condizione presente concordarsi, per avviare insomma l'importantissimo affare della religione di un paese, che nel miglior modo che si potesse la desiderava, poteva, e doveva il sommo pontefice risolversi alla ratificazione; nè all'uomo prudente appartenersi il far gitto di tutto, quando si può conseguire una parte: nè a patto alcuno potere il pontefice di tale atto venir censurato, perchè soltanto faceva una concessione, la quale dalla sua autorità procedendo, non dava nissun diritto alla potestà secolare: avere voluto il divino Redentore, che in tempi avversi usassero gli apostoli la prudenza del serpente, e la semplicità della colomba; il quale precetto, siccome spiega San Tommaso, significare, che, siccome il serpente nel pericolo s'avviticchia, e nasconde il capo per salvarlo, così la chiesa deve studiarsi di salvar la fede, che è il capo e il fondamento, su cui rimane la chiesa medesima edificata; e siccome colomba, ella deve con la dolcezza, e con la lenità sforzarsi di mitigar l'ira degli avversarj. Il cardinale Albani a questo parere tanto più volentieri si accostava, quanto più sapeva, che i plenipotenziarj di Francia avevano dato promesse certe per iscritto, che le modificazioni e restrizioni della pubblicità del culto non in alcuna parte sostanziale, ma solamente nelle processioni esteriori, nelle sepolture, ed in altri somiglianti casi consistevano.

Quanto poi al capitolo che concerneva i compratori dei beni ecclesiastici venduti, manifestarono Albani e Merenda una opinione del pari conforme, e del pari favorevole alle stipulazioni, parendo loro, che secondo i termini in cui era espresso, non per altro Sua Santità riconoscesse i compratori, come proprietarj dei beni alienati, se non in conseguenza delle promesse che loro faceva di non molestargli, nè per se, nè pe' suoi successori; dalla qual promessa ne veniva loro assicurato il quieto e pacifico possesso, dal quale sorgeva necessariamente il diritto incommutabile di proprietà. Non era adunque, pensavano, che Sua Santità riconoscesse negli acquistatori l'anzidetto diritto di proprietà independente dalla sua concessione; che anzi il diritto stesso di proprietà, siccome il capitolo esprimeva, era una sequela della condonazione implicitamente contenuta nella promessa di non molestare i possessori, condonazione, che il papa loro faceva colla pienezza dell'apostolica suprema sua autorità. Che se, aggiungevano i due consultatori della santa sede, le due parti del capitolo fossero state concepite con ordine inverso, e si fosse detto che il papa dichiarava, dovere la proprietà dei beni ecclesiastici alienati rimanere immutabilmente presso gli acquistatori, e che in conseguenza non avrebbero essi mai ricevuto molestia nel possesso di tali beni da parte della santa sede, una dichiarazione di tal sorta sarebbe stata di grave censura degna, perchè con lei si sarebbe appruovato in certo modo l'errore già dai sacri concilj Lateranense secondo, e Constanziense condannato in Arnaldo da Brescia, Marsilio da Padova, Giovanni da Garduno, e nei Valdesi, Viclefiti, ed Ussiti: ma trovandosi le due parti del capitolo collocate, come sono, il capitolo era irreprensibile, poichè la proprietà risultava dalla condonazione del papa, non la condonazione dalla proprietà.

Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario, non soprastette più lungamente Pio settimo a dare il suo assenso, e ratificò il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi titolari, acciocchè alle loro sedi rinunziassero. Alcuni rinunziarono, la maggior parte, massimamente quelli che si erano riparati in Inghilterra, ricusarono. Dei giurati Primat, le Blanc de Beaulieu, Perrier, Lecoz, Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse, e nelle sedi destinate dal consolo gl'instituisse, impetrarono.

Rimossi per tale guisa tutti gli impedimenti, pubblicava il consolo il giorno di Pasqua dell'ottocentodue il concordato. Scriveva ai vescovi una circolare, in cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi rivolgendosi ai francesi con Buonapartico stile discorreva, che da una rivoluzione prodotta dall'amore della patria erano sorte le discordie religiose, e per esse il flagello delle famiglie, gli sdegni delle fazioni, le speranze dei nemici; uomini insensati avere atterrato gli altari, spento la religione; per loro avere cessato quelle divote solennità, in cui l'un l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la mano di Dio creatore di tutti si stimavano fra di loro uguali; per loro non udire più i moribondi quella voce consolatrice, che chiama i cristiani a miglior vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla natura; dipartimenti distrutti dall'ire religiose, forestieri chiamati a danni della patria, passioni senza freno, costumi senz'appoggio, sciagure senza speranza, dissoluzioni di società; solo la religione avere potuto portarvi rimedio; averlo lui voluto, averlo nella sapienza sua voluto il pontefice, averlo i legislatori della repubblica appruovato; così essere sorto il concordato; così essere spenti i semi delle discordie, così svanire gli scrupoli delle coscienze, così superarsi gli ostacoli della pace. Dimenticassero, esortava, i ministri della religione le dissensioni, le disgrazie, gli errori; con la patria la religione gli riconciliasse; con la patria gli ricongiungesse; i giovani cittadini all'amore delle leggi, all'obbedienza dei magistrati informassero; consigliassero, predicassero, inculcassero, che il Dio della pace era per anco il Dio degli eserciti, e che, impugnate l'armi sue insuperabili, combatteva a favor di coloro, che la libertà della Francia difendevano.

Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la rintegrata religione. Gioinne anche maravigliosamente Roma, ma non fu il contento del pontefice senza amarezza; conciossiachè il consolo aveva accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto, che, secondo le Romane opinioni, offendevano le prerogative della santa sede, o restrignevano l'autorità dei vescovi, o difficultavano l'ingresso allo stato ecclesiastico. Voleva che nissuna bolla, o breve, o rescritto qualunque della Romana corte potessero, senza il beneplacito del governo, essere pubblicati, od eseguiti in Francia; la quale proibizione rispetto ai brevi della penitenzierìa parve cosa insolita, e poco decorosa per la santa sede. Voleva che nissuno senza il beneplacito potesse assumere la qualità di nunzio, legato, vicario, o commissario apostolico; che i decreti dei sinodi forestieri, ed anzi quelli dei concilj generali non si potessero pubblicare, se non previa appruovazione del governo; che nissun concilio o nazionale o metropolitano, che nessun sinodo diocesano senza permissione tenere si potesse; che le funzioni ecclesiastiche fossero gratuite, salve le obblazioni dei fedeli; che vi fosse ricorso al consiglio di stato per gli abusi; che s'intendessero abusi ogni contravvenzione alle leggi della repubblica, od alle regole stabilite dai canoni in Francia, ogni offesa delle libertà, franchigie, e costumanze della chiesa gallicana, ogni atto commesso nell'esercizio del culto, che od offendesse l'onore dei cittadini, o turbasse arbitrariamente le loro coscienze, o tendesse all'oppressione, all'ingiuria, allo scandalo. Voleva parimente, che i vescovi non potessero ordinare alcun ecclesiastico, se non possedesse almeno una rendita di trecento franchi, e se non fosse arrivato all'età di venticinque anni. Nè minore offesa aveva recato l'articolo statuito pure dal consolo, che i professori dei seminarj fossero obbligati a sottoscrivere la dichiarazione del clero di Francia del milaseicentottantadue, e ad insegnare la dottrina dei quattro articoli, dottrina incomportabile a Roma, almeno quanto spetta ai tre ultimi.

Tutte queste regole, che appartenevano alla disciplina ecclesiastica, quantunque fossero giuste e necessarie sì per la sicurezza della potestà temporale, come pel buon ordine dello stato, ed usate già dai tempi antichi non solamente in Francia, ma ancora in altri paesi d'Europa, e massimamente in Italia, facevano mal suono alle Romane orecchie; ma il consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava la giurisdizione, e questa fu, che i vicarj generali delle diocesi vacanti continuassero ad usare l'autorità vescovile, anche dopo la morte del vescovo, e fino a tanto che successore non avesse. Parve cosa troppo enorme; perciocchè i vicarj generali altro non sono, che i mandatarj del vescovo, ed ogni facoltà loro, come di mandatarj, cessa pel fatto della morte del mandatore. Bene dottrina più sana è quella, che sino alla creazione del successore ogni autorità sia investita nel capitolo della chiesa cattedrale, e che i vicarj capitolari eletti da lui la eserciscano.

Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse. Orava in concistoro Pio settimo, descrivendo con singolare facondia i negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia. Ecco, diceva, i templi dell'Altissimo di nuovo aperti; l'augusto nome di Dio, e de' suoi santi sulle loro fronti scritto; i ministri del santuario per le sacre cerimonie in un coi fedeli intorno agli altari accolti, le greggi novellamente sotto la tutela dei legittimi pastori ridotte, novellamente i sacramenti della chiesa con libertà e con riverenza ministrati, novellamente solidato il pubblico esercizio della cattolica religione, novellamente spiegato all'aura lo stendardo della croce, novellamente il giorno del Signore santificato; ecco novellamente il capo della chiesa, col quale chiunque non raccoglie, dissipa, riconosciuto; ecco finalmente uno scisma deplorabile, che per la vastità della Francia, per la celebrità de' suoi abitatori, per la chiarezza delle sue città minacciava gran pericoli, e gran ruine alla cattolica religione, ecco questo deplorabile scisma dissipato e spento. Tali sono i vantaggi, tali i benefizj, tale la salute, che il santo giorno della redenzione, in cui, pubblicato il concordato, la Francia empiè di compunti e venerabondi fedeli i tempj, ha partorito. Poscia il pontefice, in se medesimo raccoltosi, continuò dicendo:

«Non è però, venerabili fratelli, che l'animo nostro non sia in mezzo alla sua contentezza da qualche amara puntura trafitto. Sonsi col concordato, noi non consapevoli, pubblicati certi articoli, di cui è debito nostro, seguitando le vestigia del nostri antecessori, di addomandare e le modificazioni, e le mutazioni: di ciò richiederemo il consolo; ciò speriamo dalla sapienza e dalla religione sua, dalla sapienza e dalla religione della nazione Francese, che da tanti secoli tanto ha di questa religione meritato, e che oggidì novellamente con sì acceso desiderio l'abbraccia. Volle il governo di Francia, che la religione in Francia si ristorasse: non può non volere quanto la sua santa constituzione richiede, quanto la salutare disciplina della chiesa ricerca».

Infatti instò il papa, perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo, che, ottenuto il concordato, voleva essere padrone della chiesa, non che la chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugj, ora con minacce, nè mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove condiscendenze del pontefice, e nuove ambizioni del consolo mandarono ogni cosa in ruina ed in conquasso.

A questo modo travagliava Roma con Francia. Intanto cambiamenti notabili fin dal varcato anno erano accaduti in Piemonte. Aveva il consolo cupidigia di serbar questo paese per se. Ma indugiava a risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni. Aveva anzi veduto volentieri il marchese di San Marsano mandato a Parigi per negoziare della restituzione del Piemonte. Le incertezze e le ambagi del consolo, le offerte palesi fatte al re dopo la battaglia di Marengo, e la presenza del marchese a Parigi tenevano in pendente l'opinione dei popoli in Piemonte, e toglievano ogni modo di buon governo. Ognuno guardava verso Firenze, Roma, o Napoli, dove abitava, ora in questa, ora in quella, il re Carlo Emanuele. Appresso a lui vivevano molti nobili Piemontesi o de' più ricchi, o de' più capaci. Si aggiungeva Vittorio Alfieri, nato in Asti di Piemonte, uomo di quell'ingegno smisurato, che ognuno sa, padre della tragedia Italiana, e da essere eternamente, non che venerato, adorato da chi venera ed adora le Italiane muse. Avendo egli odiato e maledetto i re, quando erano in fiore, si era poi messo ad odiare ed a maledire le repubbliche, quando erano venute in potenza, e ciò meno forse pel male che in quelli od in queste era, che pel genio in lui naturale di andar sempre a ritroso. Adunque in Firenze standosene, continuamente fulminava contro la condizione delle cose Piemontesi. L'autorità di un uomo sì grande operava con efficacia, e vieppiù rompeva ogni nervo del governo. Sorsero le sorti fatte più certe della Cisalpina e della Liguria, mentre si tacquero quelle del Piemonte, onde chi sperava pel re ebbe cagione di più sperare, chi temeva di più temere. In tali intricate occorrenze avvenne di verso Borea un caso di grandissima importanza, perchè nella notte dei ventitrè marzo dell'ottocentouno morì di morte violenta Paolo, imperatore di Russia; della quale non così tosto fu avvisato il consolo, che trovandosi libero dalle instanze di lui, e volendo preoccupare il passo alle intenzioni di Alessandro suo figliuolo e successore, fece un decreto, il quale, sebbene ancora non importasse la unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava però manifestamente, che sua volontà fosse, che la unione si effettuasse: constituiva il decreto il Piemonte secondo gli ordini di Francia. Perchè poi non paresse all'imperatore Alessandro, che il signore della Francia troppo impertinentemente avesse operato nel prendere, prima di consigliarsi con lui, una deliberazione di tanta importanza, diede al decreto una data anteriore al giorno, in cui gli pervennero le novelle della morte di Paolo. Sperava che Alessandro, trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non difficilmente sarebbe per consentirvi. Importava il decreto dato ai due di aprile dell'ottocentouno, che il Piemonte formerebbe una divisione militare della Francia, che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi della repubblica rispetto agli ordini amministrativi e giudiziali vi si pubblicassero ed eseguissero, che le casse al primo giugno fossero comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse, che Jourdan restasse eletto amministrator generale. Si crearono sei dipartimenti, dell'Eridano con Torino, di Marengo con Alessandria, del Tanaro con Asti, della Sesia con Vercelli, della Dora con Ivrea, della Stura con Cuneo. Ma il consolo, che principiava a non amare i nomi antichi, cambiò quello del primo, non più dell'Eridano, ma del Po chiamandolo, e credè con ciò di aver fatto un bel tratto.

Mandava Jourdan a Parigi per ringraziare, e per promettere obbedienza deputati; furono quest'essi, Bossi uno dei consiglieri, Baudisson, professore dell'università, i nobili d'Harcourt, Alfieri di Sostegno, della Rovere, e Serra. Furono veduti molto volentieri, massime i nobili, perchè il consolo gli voleva allettare. Solo Fouché, ministro di polizia generale, trascorse in presenza loro con parole eccessive contro i preti e contro gli aristocrati: il che fe' ridere, e stringere nelle spalle i deputati.

Intanto il consolo si studiava a conciliarsi l'animo di Alessandro, ed a congiungerselo in amicizia; e siccome astutissimo ch'egli era, e sprofondato in tutte le arti di Francia, d'Italia, e d'Egitto, avendo udito che il novello imperatore era di natura generosa, e tendente al governar gli uomini piuttosto con dolcezza che con severità, se gli mise intorno da tutte parti tentandolo. Avere voluto la Provvidenza, diceva, arbitra delle umane cose, che un principe d'animo nobile e buono fosse salito al sovrano seggio delle Russie; avere voluto da un'altra parte, che un generale di qualche nome avesse recato in se la somma dell'autorità in Francia, generale, al quale e le filosofiche dottrine e la religione piacevano, che sapeva qual moderazione convenisse alle prime, quale tutela alla seconda: sarebbe felice il mondo, se Francia e Russia potentissime s'accordassero tra loro al medesimo fine; rotta, sanguinosa, desolata essere la umanità; ricordarsi delle ferite, non bene avvisare i rimedj; il dispotismo da una parte, l'anarchìa dall'altra; se Alessandro e Buonaparte nello stesso disegno convenissero, darebbesi dolce norma in Europa alla potestà assoluta, freno insuperabile alla licenza; aversi ad ordinare Italia, Svizzera, Olanda; parlasse Alessandro, del desiderio suo avvisasse, e fora pago l'intento suo; principiare il secolo, dover principiare con nuove e fortunate sorti; questi essere gli augurj, queste le arre date dal cielo a Buonaparte e ad Alessandro: dover loro mostrare, ad onta di tanti secoli infelici, che vi è modo di condurre gli uomini a felicità; dover mostrare, che calunniano l'umanità coloro che la odiano; dover mostrare che la filosofia non inganna, che la religione non perseguita, che la libertà non dissolve; dover mostrare che tutte insieme unite potevano far sorgere un vivere fortunatissimo; a sì lieto fine volere lui usare tutta la volontà, e tutta la forza sua; se le volesse usare anche Alessandro, direbbero i posteri, che non indarno sperarono i filosofi, che più avventurose stelle avessero a splendere sulle misere generazioni un giorno.

Ai dolci suoni, alla magnificenza e giocondità delle parole, come benevolo, si calava Alessandro, non sospettando quanto veleno in se nascondessero. Intanto il consolo, fatto sicuro dell'amicizia di Russia, insorgeva, e mentre Alessandro si pasceva di speranze lusinghiere, ei dava mano alle realtà, incamminandosi al dominio del mondo. Cominciando dal Piemonte, che stimava esser necessario congiungersi per avere senza impedimenti di mezzo la signorìa d'Italia, comandava, che il decreto dei due aprile fosse in ogni sua parte mandato ad effetto. L'Austria impotente per le disgrazie, l'Inghilterra per la lontananza, nè consentirono, nè contrastarono, persuase oramai, che se non arrivava qualche improvviso accidente che le ajutasse, indarno erano i consigli umani. Arrivarono a Torino i commissarj Parigini ad ordinar lo stato, chi per le finanze, chi pel fisco, chi pel lotto, chi per le poste, chi per gli studj, chi pei giudizj. L'antica semplicità degli ordini amministrativi di quel paese degenerava in forme complicate, i nuovi costarono a molti doppi più cari. Bene si migliorarono gli ordini giudiziali sì civili che criminali per l'acquistata prontezza, immenso benefizio, che consolava della perduta independenza. Ciò, quanto alle cose scritte: quanto alle arti subdole, non so se provvide, ma certamente furono strane. Voleva il consolo ridurre lo stato in forma di monarchìa: i repubblicani di Francia, eccettuati i più furibondi, che aveva confinati in carcere, o banditi in lidi lontani, il secondavano, nè egli era avaro verso di loro di carezze e di ricchezze. Quanto ai repubblicani Italiani, due mezzi gli si paravano davanti, o di vezzeggiargli, come quei di Francia, o di spegnergli, non già coll'ammazzargli, perciocchè sapeva che l'età non comportava sangue, come la Borgiesca, ma col tôrre loro l'autorità e la riputazione. Elesse quest'ultima; al che diede anche favore la ricchezza degli avversarj, che mandavano doni, presenti e denari nelle corrotte Tulierie: il che era cagione, che a quello, a che di propria volontà inclinava, fosse anche stimolato da altri. Tolse adunque le cariche a molti, nè solamente gli cassava, ma ancora dando favore e stimolo ai nemici loro, operava, che il nome e la fama ne fossero straziati e vilipesi; intricate infamie, perchè perseguitava chi l'aveva ajutato, vezzeggiava chi il disprezzava.

Buon procedere sarebbe stato questo, quanto all'utile, se mai non avessero potuto arrivare i tempi grossi, ma non al contrario, perchè per esso si perdevano gli amici, e non si acquistavano i nemici; ma il consolo sognava sempre prosperità. Restava Jourdan, che era stimato repubblicano. Deliberossi a tôrre anche questo capo ai repubblicani, quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro: partì Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai Piemontesi. Arrivava Menou in Torino in luogo di Jourdan. Raccontar le lepidezze, e gli arbitrj che vi fece questo Menou, sarebbe troppo lunga bisogna, e forse troppo più piacevole, che la gravità della storia comporti. Bene non mi posso tenere dal considerare il consiglio del consolo, che per instaurare, come diceva, gli ordini della monarchìa in Piemonte, vi mandava un Menou di Francia, e per instaurarvi, come anche diceva, la religione di Cristo, vi mandava un Menou d'Egitto. Forse voleva atterrire con qualche odore di Turchìa; ma è un pessimo modo di terrore il rendersi ridicolo. Basta, accidente strano e non più udito era quello di veder le carezze che Menou faceva ai nobili, e quelle che i nobili facevano a Menou, dal canto suo umili e dimesse, dal canto loro astute e superbe; ed ei se le godeva, ed erane contentissimo. Diceva che il governo il voleva, il che era vero: ma il governo dà l'autorità, non la discrezione, e Menou non ne aveva. A questa guisa passarono i tempi fra i Subalpini infino alla unione definitiva, partigiani di Francia perseguitati, partigiani di Sardegna accarezzati, partigiani d'Italia usati come stromenti di calunnie e di vendette, il giardino del re diformato da una succida baracca ad uso di una Turca. A questo modo incominciava il promesso legale dominio nel generoso e sfortunato Piemonte.

Il consolo teneva il Piemonte per Menou, la Toscana per Murat. Voleva, come a suo cognato, aprire a Murat l'adito alle grandezze; nè Murat era di cattiva natura, solo aveva poco cervello, e l'animo molto vanaglorioso: per questo, quantunque fosse buono, si piegava volentieri alle voglie del consolo, quali elle si fossero. La parte dell'esercito ch'egli governava, mandata primamente in Italia per rinforzare l'ala destra di Brune, e per alloggiare in Toscana, fu, dopo la pace di Luneville, mandata nello stato Romano con star pronta ad assaltare il regno di Napoli. Conclusa poi la pace col re, entrava nel Regno sin oltre a Taranto, in nome per isforzare il governo ad osservar il trattato, ed i perdoni verso i novatori, in fatto per minacciar gl'Inglesi, e per vivere a spese del Regno. Quanto allo stato Romano, concluso il concordato, Murat ritirava le genti, che vi aveva, in Ancona per tener quel freno in bocca al pontefice; si coloriva il fatto col pretesto degl'Inglesi. Così gl'Inglesi occupavano quanto potevano in Italia e nelle sue isole per impedire, come dicevano, il predominio e la tirannide dei Francesi; questi facevano lo stesso per impedire, come protestavano, il predominio e la tirannide degl'Inglesi; fra entrambi intanto l'Italia non aveva nè posa nè speranza. Murat girando per Toscana, e stando in Firenze, ed ora andando a Pisa, ed ora a Livorno, ed ora a Lucca, riceveva in ogni luogo, come cognato del consolo, onorevoli accoglienze; cagione per lui d'incredibile contentezza. Si mostrava cortese ed affabile con tutti: nè amava le rapine, manco il sangue: purchè il lodassero, se ne viveva contento. Pure trascorse ad un atto, credo per volontà del consolo, nel quale non so se sia o maggior barbarie, o maggior ingratitudine, o maggior insolenza. Comandava con bando pubblico, che tutti gl'Italiani, erano la maggior parte Napolitani, esuli dalle patrie loro per opinioni politiche, dovessero sgombrare dalla Toscana, e ritornare nei propri paesi, in cui, secondochè affermava, potevano, in virtù dei trattati, vivere vita sicura e tranquilla: chi fosse contumace a questo comandamento, fosse per forza condotto ai confini ed espulso. E perchè niuna parte di bruttezza mancasse a quest'atto, prese, per farlo, occasione da un tumulto popolare nato in Firenze nel mentre che si conduceva all'estremo supplizio un soldato Toscano reo d'assassinio contro un soldato Francese, come se i fuorusciti fossero in paese ospitale rei di ribellione alle leggi ed alla giustizia, o s'intendessero cogli assassini. Sì per certo, questo mancava alla malvagità del secolo, che coloro, i quali erano per le instigazioni di Francia venuti in odio ai loro antichi signori, fossero, come gente di mal affare, cacciati inesorabilmente dagli eletti ricoveri loro da un generale di Francia. Potevano i ladri e gli assassini di altri paesi ritirarsi in Toscana, quietamente dimorarvi, solo gli amatori del nome di libertà, uomini, se ingannati, certamente ingenui e dabbene, non potevano esservi ricettati, nè trovarvi riposo e salute, da quei medesimi cacciati, per cagione dei quali erano a quelle miserabili strette condotti. Nè credo che abuso di forza più intollerabile di questo sia stato mai, di far legar uomini innocenti per condurgli là, dove non volevano andare. Ma non sola la Toscana cacciava fuori i miseri. Mentre Murat espelleva gli esuli da questo paese, la repubblica Cisalpina gli mandava via da' suoi territorj con la solita giunta, che chi nel termine di dieci giorni non obbedisse, fosse condotto per forza ai confini. Quest'erano le arre, che i Buonapartidi davano ai re. Accadde poi un caso degno di molta compassione; perchè i fuorusciti Napolitani svelti per forza dal Toscano nido, quando furono arrivati a Roma, non avevano i passaporti che da loro si richiedevano, per modo che non potevano nè stare, nè andare, nè tornare. Da questo imparino prudenza coloro, che hanno smania di far rivoluzioni, e di fidarsi dei forestieri. Solo in Piemonte trovarono gli esuli ricovero lieto e sicuro.

Murat contento al comandar in Toscana, fu contentissimo d'instituirvi un re. Era l'infante principe di Parma arrivato in Parma, dove stava aspettando i deputati del novello regno. Vennervi a complimentarlo e riconoscerlo come re d'Etruria, quest'era il titolo che gli si dava, Murat, Ippolito Venturi, Ubaldo Ferroni. Assunse il nome di Lodovico primo; nominò suo legato a ricevere il regno Cesare Ventura. Murat annunziando l'assunzione di Lodovico parlava di civiltà e di dottrina ai Toscani, lodava i Medici ed i Leopoldi, esortava i regnicoli ad avere i Francesi in luogo di un popolo amico, che tanto sapeva rispettare presso i popoli esteri i principj monarcali, quanto era fortemente addetto in casa propria ai principj repubblicani. Cesare Ventura prendeva possesso del regno. Favellarono nella solennità Francesco Gonnella, notajo dello stato, Tommaso Magnani, avvocato regio, Orlando del Benino, senatore, tutti lusinghevolmente per le cose, francescamente per le parole. Vidervisi due donne complimentate da Gian Battista Grifoni, l'una sorella del consolo, l'altra vedova del ministro di Spagna. Venne Lodovico a Firenze; resse con dolcezza, le Leopoldiane vestigia calcando.

Era tempo di constituzioni transitorie, fatte non perchè durassero, ma perchè servissero di scala ad altre. Mandava il consolo, qual suo legato, Saliceti a riformar Lucca, oppressa dall'imperio dei forestieri, e straziata dalle discordie civili. Parve bello ed acconcio trovato per ritrarre i paesi, a satisfazione delle potenze, verso i loro ordini antichi, l'introdurre nei nuovi i nomi vecchi, come se le parole avessero a prevalere sulle cose. Fecero i Lucchesi le solite feste a Saliceti: chi agognava lo stato, il corteggiava; chi più aveva gridato contro gli aristocrati, più gli accarezzava; a loro principalmente il commissario di Francia si volgeva. Se i democrati si risentivano, rispondeva esortando, portassero i tempi pazientemente, perchè così voleva il consolo. Soggiungeva, meglio conservarsi la libertà con l'aristocrazìa e la democrazìa mescolate insieme, che con la democrazìa pura. Cominciavasi a parlar di aristocrazìa per far passo alla monarchìa. Constituiva Saliceti la repubblica di Lucca con un collegio, o gran consiglio di duecento proprietari più ricchi, e di cento principali negozianti, artisti e letterati: avesse questo consiglio la facoltà di eleggere i primi magistrati; fossevi un corpo d'anziani con la potestà esecutiva; presiedesselo un gonfaloniere eletto a volta dai colleghi, una volta ogni due mesi; un consiglio amministrativo, nel quale gli anziani entrassero, e quattro magistrati di tre membri ciascuno; esercesse le veci di ministri; proponessero gli anziani le leggi, e le eseguissero; una congregazione di venti eletti dal collegio le discutessero e le statuissero; rappresentasse il gonfaloniere la repubblica, le leggi promulgasse, gli atti degli anziani sottoscrivesse. I cantoni del Sercio con Lucca, del Littorale con Viareggio, degli Apennini con Borgo a Mozzano componessero la repubblica. Per la prima volta trasse Saliceti i magistrati supremi. Ordini buoni erano questi, ma il tempo gli guastava.

Le sorti della Toscana erano congiunte con quelle di Parma. Essendo il duca padre mancato di vita, cesse la sovranità del ducato nella repubblica di Francia. Mandava il consolo il consiglier di stato Moreau di San Mery ad amministrarlo. Resse San Mery, che buona e leale persona era, con benigno e giusto freno. Era egli, se non letterato, non senza lettere ed amatore sì di letterati, che d'opere letterarie: ogni generoso pensiero gli piaceva. Solo procedeva con qualche vanità, e siccome le vanità particolari sono intollerabili alle ambizioni generali, venne in disgrazia del consolo. Non potè constituire in Parma ordini stabili, perchè il consolo, che serbava il paese per se, non volle aver sembiante di lasciarlo ad altri.

Due qualità contrarie erano nel consolo, pazienza maravigliosa nel proseguire cautamente, anche pel corso di molti anni, i suoi disegni, impazienza di conseguire precipitosamente il fine, quando ad esso approssimava. Riconciliatosi col papa, vinta l'Austria, ingannato Alessandro, confidente della pace coll'Inghilterra, si apparecchiava a mandar ad effetto ciò, che nella mente aveva da sì lungo tempo concetto, e con tanta pertinacia procurato. Voleva che le prime mosse venissero dall'Italia, perchè temeva che certi residui di opinioni, e di desiderj repubblicani in Francia non fossero per fargli qualche mal giuoco sotto, se la faccenda non si spianasse con qualche precedente esempio. Sapeva che nella nostra razza imitatrice, cosa molto efficace è l'esempio, e che gli uomini vanno volentieri dietro alle similitudini. Deliberossi adunque, prima di scoprirsi in Francia, di fare sue sperienze Italiane, confidando che gl'Italiani, siccome vinti, avrebbero l'animo più pieghevole. Così con le armi Francesi aveva conquistato Italia, con le condiscendenze Italiane voleva conquistar Francia. Le rappresentazioni che sanno di teatro, sempre piacquero agli uomini, massimamente a Buonaparte. Sapeva che le cose insolite allettano tutti, spezialmente i Francesi nati con fantasia potente. Perciò volle alle sue Italiane arti dare pomposo cominciamento. Spargevansi ad arte e dai più fidi in Cisalpina voci, che la repubblica pericolava con quei governi temporanei; ch'era oggimai tempo di constituirla stabilmente, e come a potenza independente si conveniva; che ordini forti erano necessarj, perchè diventasse quieta dentro, rispettata fuori; che niuno era più capace di darle questi necessarj ordini di colui, che prima l'aveva creata, poi riscattata; non potersi più lei constituire con gli ordini dati dall'eroe Buonaparte nel novantasette, perchè avviliti dalla invasione, ricordatori di discordie, sospetti per democrazìa ai potentati vicini. Aver pace Europa, averla Italia, non doversi più la felice concordia turbare con ordini incomposti; volersi vivere in repubblica, ma non troppo disforme dai governi antichi conservati in Europa; sola potenza essere la Cisalpina in Italia, che a favor di Francia stando, fosse in grado di tener in freno l'Austria tanto potente per l'acquisto dei dominj Veneziani, nè essere la repubblica per acquistare la forza necessaria, se non con leggi conducenti a stabilità; varj essere gli umori, gl'interessi, le opinioni, le abitudini delle Cisalpine popolazioni, nè Veneziani, Milanesi, Modenesi, Novaresi, Bolognesi nel medesimo desiderio concorrere, nè la medesima cosa volere; rimanere i vestigi dell'antiche emolazioni; parti separate, e non consenzienti non poter comporre un corpo unito e forte, se un governo stretto, se una mano gagliarda in uno e medesimo volere non le costringessero: richiedere adunque un reggimento nuovo, concorde e virile la pace d'Europa, richiederlo la quiete della Cisalpina, richiederlo le condizioni felici, alle quali era chiamata.

Mentre questi semi si spargevano nel pubblico, Petiet coi capi della Cisalpina negoziava, affinchè i comandamenti imperativi del consolo avessero a parere desiderj e supplicazioni spontanee dei popoli. Maturati i consigli, a Parigi pel disegno, a Milano per l'esecuzione, usciva un decreto della consulta legislativa della repubblica: ordinava, che una consulta straordinaria si adunerebbe a Lione in Francia, e suo ufficio sarebbe l'ordinare le leggi fondamentali dello stato, ed informare il consolo intorno alle persone che nei tre collegj elettorali dovessero entrare; sarebbe l'assemblea composta dai membri attuali della consulta legislativa, da quei della commissione, eccettuati tre per restare al governo del paese, da una deputazione di vescovi e di curati, e dalle deputazioni dei tribunali, delle accademie, della università degli studj, della guardia nazionale, dei reggimenti della truppa soldata, dei notabili dei dipartimenti, delle camere di commercio. Sommò il numero a quattrocento cinquanta. Risplendevanvi un Visconti, arcivescovo di Milano, un Castiglioni, un Montecuccoli, un Oppizzoni, un Rangoni, un Melzi, un Paradisi, un Caprara, un Serbelloni, un Aldrovandi, un Giovio, un Pallavicini, un Moscati, un Gambara, un Lecchi, un Borromeo, un Trivulzi, un Fantoni, un Belgiojoso, un Mangili, un Cagnoli, un Oriani, un Codronchi, arcivescovo di Ravenna, un Belissomi, vescovo di Cesena, un Dolfino, vescovo di Bergamo. Andarono a Lione chi per amore, chi per forza, chi per ambizione; grande aspettazione era in Cisalpina; in Francia le menti attentissime. Pareva un fatto mirabile, che una nazione Italiana si conducesse in Francia per regolare le sue sorti. Il governo Cisalpino esortava con pubblico manifesto i deputati: gissero a fondare gli ordini salutari della repubblica in mezzo alla maggior nazione, in cospetto dell'autore, e del restitutore della Cisalpina; nissuno l'ufficio ricusasse: mostrassero con le egregie qualità loro, quanto la Cisalpina nazione valesse; a lei amore e rispetto conciliassero; ogni pretesto di calunnia togliessero; nel Lionese congresso livore nissuno, odio nissuno, parzialità nissuna, recassero; al mondo disvelassero, buonamente, nobilmente, affettuosamente verso la patria procedendo, esser loro quei medesimi Cisalpini, che nell'inevitabile tumulto di tante passioni, nell'avviluppamento di tante vicende, nell'alternativa di politici eventi tanto contrarj, mai non attesero a vendette, a discordie, a fazioni, a persecuzioni, a sangue; pruovassero, che non invano aveva il Cisalpino popolo nome di leale e di buono; pruovassero, che se a sublime grado fra le nazioni erano destinati, a sublime grado ancora meritavano di essere innalzati; dovere a se stessa dei proprj ordini restare la Cisalpina obbligata; solo se medesima potrebbe accagionare, se tanti lieti augurj, se tante concepite speranze fossero indarno.

Questi nobili consentimenti verso la Cisalpina patria, e questa rinunziazione di ogni affetto parziale ed interessato predicava un Sommariva, presidente del governo. Trovarono in Lione il ministro Taleyrand, che aveva in se raccolti tutti i pensieri del consolo; trovarono Marescalchi, che riconosciuto da Francia per ministro degli affari esteri della Cisalpina, guardava dove accennasse in viso Taleyrand, e il seguitava. L'importanza era, che vi fosse sembianza di discutere liberamente quello, che già il consolo aveva ordinato imperiosamente. Già aveva sparso sue ambagi: volere la felicità della Cisalpina; volere consigliarsi con gli uomini savj di lei; niuna cosa più desiderare, che la independenza e la salute sua; amarla come sua figliuola prediletta, stimarla principal parte della sua gloria. L'arte allignava; bene si disponeva la materia. Partivansi i deputati in cinque congregazioni, che rappresentavano i cinque popoli; esaminassero la constituzione già data dal consolo per Petiet a Milano, e come per leggi organiche si potesse mandar ad esecuzione.

Discutevasi a Lione dai mandatarj; la licenza soldatesca straziava intanto i mandatori; un inesorabile governo con le tasse gli conquideva. Dolevansi e delle perdute sostanze, e degli innumerevoli oltraggi, e della durissima servitù: le grida degli straziati a Milano furono soffocate dalle grida dei festeggianti a Lione. A Lione si discorreva, e si obbediva. Allungato il farne pubblica dimostrazione quanto potesse parere dignità e sufficienza di discussione, arrivava il consolo: era l'undici gennajo; Lionesi e Cisalpini a gara accorrevano. Era spettacolo grande a chi mirava la scorza, compassionevole a chi dentro, perchè là si macchinava di spegnere per legge la libertà, che già innanzi era perita per abuso. Ognuno maravigliava la dolcezza, e la semplicità del consolo: pareva loro, che fossero parte di grandezza; le adulazioni sorgevano. I repubblicani, se alcuno ve n'era, si rodevano, ma s'infingevano, non tanto per non esser tenuti faziosi, quanto per non esser tenuti pazzi o sciocchi; che già con questi nomi cominciava a chiamargli l'età. Buonaparte metteva mano all'opera; chiamava i presidenti delle congregazioni, e con loro discorreva intorno alla constituzione: ora approvava, ora emendava, ora domandava consiglio. Contradditor benigno, e docile alle risposte, pareva, che da altri ricevesse quello che loro dava. Chi conosceva l'intrinseco, ammirava l'arte; chi l'ignorava, la molestia. Infine dai discorsi permessi si venne alla conclusione comandata: fu appruovata la constituzione; parve buono e fondamentale ordine quello dei collegi elettorali: nominolli per la prima volta il consolo su liste doppie presentate dalle congregazioni. Ma non s'era ancor toccato il principal tasto, per cui mezza Italia era stata fatta venire in Francia. Meno una constituzione, che un esempio si aspettava dagl'Italiani. Trattavasi di nominare un presidente della Cisalpina. Importava la persona, importava la durata del magistrato: a Buonaparte non piacevano i magistrati a tempo. Fu data l'intesa ai Cisalpini, perchè il chiamassero capo della repubblica, e gli dessero il magistrato supremo di presidente per dieci anni, e potesse essere rieletto quante volte si volesse. Avevano queste due deliberazioni qualche malagevolezza, parte coi Cisalpini, parte con le potenze, per la evidente dipendenza verso Francia, se il consolo fosse padrone della Cisalpina. Importava anche il confessare, che niun Cisalpino fra i Cisalpini fosse atto a governare: alcuni andavano alla volta di Melzi. I ministri di Buonaparte fecero diligenze coi partigiani, ora lodando Melzi, ora asseverando, che avrebbe grande autorità nei nuovi ordini. Ebbero le arti il fine desiderato. Appresentaronsi colla deliberazione fatta i Cisalpini al consolo, nella quale era tanta adulazione di lui, e tanta depressione di loro medesimi, che non credo che nelle storie vi sia un atto più umile, o più vergognoso di questo. Confessarono, e si sforzarono anche di pruovare con loro ragioni, a tanto di viltà gli aveva ridotti, che nissun Cisalpino era, che idoneamente gli potesse governare. Gradì il consolo nelle umili parole i proprj comandamenti: disse, che domani fra i convocati Cisalpini in pubblica adunanza sederebbe. Accompagnato da ministri di Francia, dai consiglieri di stato, dai generali, dai prefetti, e dai magistrati municipali di Lione fra le liete accoglienze ed i plausi festivi dei Cisalpini, in alto seggio recatosi così loro favellava:

«Hovvi in Lione, come principali cittadini della Cisalpina repubblica appresso a me adunati: voi mi avete bastanti lumi dato, perchè l'augusto carico a me imposto, come primo magistrato del popolo Francese, e come primo creator vostro riempire io potessi. Le elezioni dei magistrati io feci senza amore di parti o di luoghi: quanto al supremo grado di presidente, niuno ho trovato fra di voi, che per servigi verso la patria, per autorità nel popolo, pel sceveramento di parti abbia meritato, ch'io un tal carico gli commettessi. Muovonmi i motivi da voi prudentemente addotti; ai vostri desiderj consento. Sosterrò io, finchè fia d'uopo, la gran mole delle faccende vostre. Dolce mi sarà fra tante mie cure l'udire la confermazione dello stato vostro, e la prosperità dei vostri popoli. Voi non avete leggi generali, non abitudini nazionali, non eserciti forti: ma Dio vi salva, poichè possedete quanto gli può creare, dico popolazioni numerose, campagne fertili, esempio da Francia».

Questo favellare superbo del consolo fu da altissimi plausi e di Francesi e di Cisalpini seguitato. La servitù era dall'un de' lati mitigata dall'imperio sopra i forestieri, dall'altro amareggiata dal vilipendio; pure lietissimamente applaudivano i servi doppi come se onorati, e liberi fossero. Dimostrarono desiderio che la repubblica (quest'era un concerto coi più fidi) non più Cisalpina, ma Italiana si chiamasse, cosa molto pregna massimamente in mano di Buonaparte. Consentì facilmente il consolo. Riprese, adulando, le parole Prina Novarese, il quale essendo di natura severa ed arbitraria, molto bene aveva subodorato il consolo, ed il consolo lui, e si voleva far innanzi al dominare. Piacque, e per rimunerazione fu fatto grande.

Chiamarono gl'Italici ad alta voce il consolo presidente per dieci anni, e rieleggere si potesse. Ebbe Melzi luogo di vice-presidente. Era Melzi uomo generoso, savio, molto amato dagl'Italiani: pendeva all'assoluto, ma piuttosto per grandezza, che per vanità.

Restava che si ordinasse la constituzione. Cominciossi dagli ordini ecclesiastici. Fosse la religione cattolica, apostolica e Romana, religione dello stato; ciò non ostante i riti acattolici liberamente si potessero celebrare in privato; nominasse il governo i vescovi, gl'instituisse la santa sede; nominassero i vescovi ed instituissero i parochi, il governo gli appruovasse; ciascuna diocesi avesse un capitolo metropolitano ed un seminario; i beni non alienati si restituissero al clero; si definissero le congrue in beni pei vescovi, pei capitoli, pei seminarj, per le fabbriche, fra tre mesi; si assegnassero pensioni convenienti ai religiosi soppressi; non s'innovassero i confini delle diocesi; per gl'innovati si domandasse l'appruovazione della santa sede; gli ecclesiastici delinquenti con le pene canoniche fossero dai vescovi puniti; se gli ecclesiastici non si rassegnassero, i vescovi ricorressero al braccio secolare; se un ecclesiastico fosse condannato per delitto, si avvisasse il vescovo della condanna, acciocchè quanto dalle leggi canoniche fosse prescritto, potesse fare: ogni atto pubblico, che i buoni costumi corrompesse, od il culto, od i suoi ministri offendesse, fosse proibito; niun paroco potesse essere sforzato da nissun magistrato a ministrare il sacramento del matrimonio a chiunque fosse vincolato da impedimento canonico. A questo modo fu ordinata la chiesa Italiana nella Lionese consulta. Alcuni capi, ancorchè laudabili e sani, toccavano la giurisdizione ecclesiastica, e sarebbe stato necessario l'intervento del pontefice. Nondimeno con acconcio discorso a nome di tutto il clero Italico assentiva l'arcivescovo di Ravenna, assentimento non necessario, se l'autorità civile aveva dritto di fare quello che fece, non sufficiente, se l'intervento dell'autorità pontificia era necessario. Ma il consolo su quelle prime tenerezze d'amicizia col papa non aveva timore, e sapeva che l'ardire comanda altrui.

Quanto agli ordini civili, i tre collegi dei possidenti, dei dotti, e dei commercianti erano il fondamento principale della repubblica: in loro era investita l'autorità sovrana. Ufficio dei collegi fosse nominare i membri della censura, della consulta di stato, del corpo legislativo, dei tribunali di revisione e di cassazione, della camera dei conti. Ancora accusassero i magistrati per violata constituzione, e per peculato; finalmente i dispareri nati tra la censura ed il governo per accuse di tal sorte definissero. Sedessero i possidenti in Milano; i dotti in Bologna, i commercianti in Brescia: ogni biennio si adunassero.

Magistrato supremo era la censura; componessesi da nove possidenti, da sei dotti, da sei commercianti; sedesse in Cremona; desse per se, e giudicasse le accuse date per violata constituzione e per peculato; cinque giorni dopo la fine delle adunanze dei collegi si adunasse; dieci giorni, e non più sedesse. Ordine buono era questo, ma l'età servile il rendeva inutile.

Fosse il governo della repubblica commesso ad un presidente, ad un vice-presidente, ad una consulta di stato, ai ministri, ad un consiglio legislativo. Avesse il presidente la potestà esecutiva, il vice-presidente nominasse; fossero i ministri tenuti d'ogni loro atto verso lo stato.

Ufficio della consulta fosse l'esaminare ed il concludere le instruzioni pei ministri presso le potenze, e l'esaminare i trattati. Potesse nei casi gravi derogare alle leggi sulla libertà dei cittadini, ed all'esercizio della constituzione: provvedesse in qualunque modo alla salute della repubblica. Se dopo tre anni qualche riforma giudicasse necessaria in uno o più ordini della constituzione, sì la proponesse ai collegi, ed i collegi definissero.

Aveva il consiglio legislativo facoltà di deliberare intorno ai progetti di legge proposti dal presidente, e di consigliarlo sopra quanti affari fosse da lui richiesto.

Il corpo legislativo statuisse le leggi proposte dal governo, ma non discutesse, nè parlasse: solo squitinasse.

Tali furono i principali ordini della constituzione dell'Italiana repubblica, forse i migliori, massime i tre collegi ed il magistrato di censura, che Buonaparte abbia saputo immaginare.

Letta ed accettata la constituzione, se ne tornava il consolo, traendo a calca e con acclamazioni il popolo, nel suo Lionese palazzo. Poscia, ricevute le salutazioni degl'Italici, e nominati i ministri, si avviava, contento del successo del suo Italiano sperimento, al maraviglioso e maravigliato Parigi.

Fecersi molte allegrezze nell'Italiana repubblica per la data constituzione, e per l'acquistato presidente le adulazioni montarono al colmo, fastidiose per uniformità. Presersi solennemente i magistrati secondo gli ordini nuovi; Melzi, prendendo il suo, parlò magnificamente del consolo, modestamente di se, acerbamente dei predecessori; toccò principalmente delle corruttele. Il lusso fu grande; Melzi viveva da principe, ma non con grandezza affettata. Essendo il presidente lontano, pareva l'indipendenza maggiore; i soldati si descrivevano, ed in buoni reggimenti si ordinavano. Prina, ministro di finanza, talmente rendè prospera la rendita dello stato, che non ostante il tributo annuo che pagava alla Francia, erano le casse piene, i pagamenti agevoli. Le lettere e le scienze fiorivano, ma più le adulatorie che le libere. Chi voleva favellare con qualche libertà, era posto dove nissuno il poteva più udire. La consulta di stato, che per questo era stata creata, siccome quella che era docilissima, sapeva fare star cheto chi avesse voglia di parlare. Seppelo Ceroni, giovane d'ingegno vivo e generoso, che per qualche verso, che toccava d'independenza, andò carcerato, poi esiliato; con lui si trovarono nelle male peste Teuillet, generale Italiano, Cicognara, ed alcuni altri, solo per aver lodato i versi di Ceroni. Le quali cose udite dagli altri poeti e letterati, si misero in sul più bello dell'adulare. Diceva Buonaparte, che era tempo di mettere il freno; nel che aveva tutta la ragione; ma il male fu, che il mise ugualmente sul favellar bene, e sul favellar male. Molte cose si scrissero in quell'età; nissuna che avesse nervo, se non forse qualche imprecazione contro l'Inghilterra, perchè le imprecazioni contra di lei erano diventate parte d'adulazione. Nissuna cosa si scrisse che avesse dignità, serpeggiando l'adulazione per tutto; nissuna che avesse novità, perchè la lingua ed i pensieri erano levati di peso dalla lingua e dai libri Francesi, e neanco dai buoni, ma dai più cattivi; i più insipidi libricciattoli, le più informi gazzettacce servivano d'esemplare. Buon modo aveva trovato Buonaparte presidente perchè gli scrittori non facessero scarriere; questo fu di arricchirgli, e di chiamargli ai primi gradi. Pareva loro un gran fatto, ed accettando il lieto vivere, tacevano, o adulavano. Tuttavia qualche volta il mal umore gli assaliva, e negl'intimi simposj loro si sfogavano, e si divertivano a spese del presidente di Parigi. Il sapeva e ne rideva, perchè non gli temeva. Insomma la letteratura fu servile, le finanze prospere, i soldati ordinati, l'independenza nulla. Pure un certo sentimento dell'essere e del vivere da se nasceva, e si propagava negli animi, che col tempo avrebbe potuto fruttare. Melzi, uomo di natura tutta Italiana, e che amava l'Italia, nodriva questi pensieri con arte; il che giunto alla grandezza del suo procedere aveva molta efficacia. Questi andamenti non piacevano al presidente; e però nol teneva più in quella grazia, in cui l'aveva per lo innanzi.

Fra tutto questo sorgevano opere di singolare magnificenza; il foro Buonaparte, come il chiamavano, fondossi nel luogo dove prima s'innalzavano le mura del castello di Milano. Fu questo un maraviglioso disegno, che molto ritraeva della Romana grandezza. Diessi mano al finirsi il duomo di Milano da tanto tempo imperfetto, e tanto fu promossa l'opera, che in poco d'anni vi si fece più lavorìo, che in parecchi secoli. Rendevasi la libertà impossibile, si acquistava la bellezza. Tutte queste cose, e quel nome di repubblica Italiana, singolarmente allettavano i popoli della penisola. Così vissesi qualche tempo in lei, finchè nuovi disegni di Buonaparte l'incamminarono a nuovi pericoli, ed a nuovi destini.

A questo nome di repubblica Italiana, ed all'essersene Buonaparte fatto capo, s'insospettirono le potenze, massimamente l'Austria, alla quale stavano per le sue possessioni più a cura le Italiane cose. L'imperatore Alessandro stesso, che già aveva concetto qualche sinistra impressione per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella Svizzera, vieppiù si alienava da lui pei risultamenti della Lionese consulta, e le cose della Russia colla Francia già si scoprivano in manifesta contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato a mezzo viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare una scrittura, colla quale si sforzava di mostrare, che la Francia, conservando l'Italiana repubblica, non aveva preso troppo per se, nè tanto quanto avevano per se stessi preso gli altri potentati. Fatta comparazione della potenza della Francia prima della rivoluzione alla presente, discorreva, che prima ella aveva autorità negli stati del re di Sardegna per la vicinanza, e per le pretensioni dell'Austria sul Monferrato, in Venezia per la necessità in cui era questa repubblica di trovare appoggio contra la vicina ed ambiziosa Austria, nel regno di Napoli pel patto di famiglia. Ma che ora Venezia apparteneva all'imperatore, e che il patto di famiglia era rotto. Concludeva che l'Austria sarebbe stata padrona dell'Italia, se la Francia non si fosse attribuita una nuova forza per l'accessione della repubblica Italiana. Tacque del Piemonte, come se il tacere più valesse che l'appropriarsi. Nelle altre parti d'Europa, seguitava, la Polonia preda e nuova forza delle maggiori potenze, la Turchia inutile, la Svezia impotente, l'acquisto dei quattro dipartimenti del Reno non compensare nè far giusto contrappeso per lo spartimento della Polonia. Toccò poi anche la fine di Tippo Saib, grande aumento all'Inghilterra; moderatissimi essere i desiderj della Francia; avere restituito in pace quello, che aveva conquistato in guerra; ma non volere, col debilitar troppo se stessa, derogare alla sua dignità, ed alla consueta sua potenza; solo volere che nissuno preponderasse in Germania, nissuno in Italia; non voler dominare altrui, ma non voler anco esser dominata; a chi bene considerasse, essere evidente, ch'ella non aveva pei nuovi acquisti conseguito nuova forza, solo avere conservato l'antica.

Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazìa: volle il consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazìa. Il supplicarono, affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro concittadini: essere arrivati al compimento dei desiderj loro: darebbe forma alla repubblica chi aveva dato pace all'Europa; avere dovuto la grande opera acquistare immortalità da un eroe: averlo essi di ciò pregato spinti dall'amor patrio, e dai patrj esempi; sperarne sorti felicissime; esserne sorta una constituzione annunziatrice della religione, conservatrice della libertà; essere il reggimento dello stato commesso a chi aveva, a chi industriava, a chi sapeva; esser posti in sicuro i diritti dei cittadini; restare che la pubblica saviezza tutelasse la pubblica felicità. Dimostrasse, aggiungevano, la nazione Ligure fra le Italiane nazioni a nissuna seconda in memorie illustri, che non erano spenti in lei i semi dell'antiche virtù, e che non degenere dagli avi era degna di conservare un nome grave di tanta gloria. Questo scritto dei reggitori Genovesi, disteso in lingua e stile assai più purgato, che le sucide scritture Cisalpine, Toscane e Napolitane, non era, quanto alla forma, senza dignità. Da Genova già erano venuti molti buoni esempi, ora veniva anche quella della limpidezza del parlare.

Importava la constituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva la repubblica: presiedesselo un doge: dividessesi in cinque magistrati: il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista triplice e presentata dai collegi.

Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in carica sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori, la repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo gli obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto l'assistesse.

Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli altri quattro magistrati, e di quattro altri senatori: il senato gli eleggesse; gli s'appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi e dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare i magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì interna che esterna dello stato; vegliasse che la giustizia rettamente e secondo le leggi si ministrasse; sopravegghiasse alle rendite pubbliche, agli affari ecclesiastici, agli archivi, alla pubblica istruzione; comandasse all'esercito. Quest'ordine del magistrato supremo rappresentava nella nuova constituzione l'antico piccolo consiglio, che i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il nervo del governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini, piuttosto onorifica che efficace: contro di lui manifestamente si vedeva la gelosìa degli antichi governi aristocratici d'Italia.

Quest'era il governo della repubblica Ligure. Restava a dichiararsi, in qual modo si attuasse. Stanziò il consolo, che vi fossero i tre collegi dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune, derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato, due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale: due di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta giurisdizionale, le consulte giurisdizionali i membri della consulta nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa.

Il dì ventinove di giugno entrava in ufficio il nuovo governo in cospetto di Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti con parole acconce, ma in aria al solito, e teoretiche.

Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia, non temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela: dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili, amassero la constituzione, le leggi, la religione; allestissero un navilio potente, rinstaurassero l'antica gloria del nome Ligure: sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, dell'avverse contristato.

Seguitavano le adulazioni. Decretava il senato, che a Cristoforo Colombo per avere scoperto un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte per avere pacificato l'universo, ampliato i confini della Liguria, stipulato i suoi interessi, riordinato le sue leggi, due statue marmoree, una a ciascuno, nell'atrio del palazzo nazionale s'innalzassero, e l'opera alla cura del magistrato supremo, alla emolazione degli artisti, all'amor patrio di tutti i Liguri si commettesse e raccomandasse. Oltre a questo i Sarzanesi, accalorandosi sempre più questo negozio delle adulazioni, supplicarono al nuovo governo, fosse loro lecito fondare nella loro città un monimento a memoria della famiglia Buonaparte, che in lei, come affermavano, avea avuto origine; allegavano avere avuto i Buonapartidi per tre secoli prima del cinquecento sede e cittadinanza in Sarzana; chiara esservi stata la famiglia loro sì per le cariche, sì per le attinenze; dai connubii loro essere nato il cardinale Filippo, fratello uterino che fu di Niccolò quinto, papa di gloriosa memoria. Fu udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e concesse loro volentieri la facoltà del monimento.

Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano esuli per l'Italia. Il re Carlo Emanuele, deditissimo alla religione, perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare al regno, acciocchè da ogni altra mondana sollecitudine rimoto, solamente ai divini servigi, ed alla salute dell'anima vacare potesse; rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo, che, se l'ambizione è tormento a se stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli alti, come negli umili seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emanuele venne il regno in potestà di Vittorio Emanuele suo fratello, che allora dimorava nel regno di Napoli. Riuscì la signorìa di Vittorio assai più dolce di quanto portasse la opinione, perciocchè siccome si era mostrato dedito all'armi, si dubitava che da guerriero fosse per governare. Nondimeno, mentre in ogni parte d'Europa per la prepotenza delle soldatesche a gran fracasso rovinavano le reggie, governò quietamente Vittorio Emanuele con pochi soldati l'isola di Sardegna: nè di ciò furono reconditi i consigli; la giustizia e la mansuetudine gli diedero forza e successo.

Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a manifesta discordia. Le sue minacce contro il corpo Germanico, l'autorità militare che continuava ad arrogarsi negli stati del papa, in Toscana, e nel regno di Napoli, la signorìa della Svizzera sotto nome di mediazione, la presidenza dell'Italica, le non adempite promesse pei compensi del re di Sardegna, avevano mostrato ad Alessandro, che Buonaparte meglio amava prendere che dare. Avvisava il consolo, che fra quegli umori già tanto mossi, il non unire il Piemonte non ristorerebbe l'amicizia, l'unirlo non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa decretava il dì undici settembre il suo senato, che i dipartimenti del Po, della Dora, di Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro, fossero e s'intendessero uniti al territorio della repubblica Francese. Principiò l'unione del Piemonte la sequela dell'Italiane aggiunte, quella opportuna per Francia, queste fantastiche e capricciose. Si fecero per la unione allegrezze in Piemonte; dai nobili volentieri, perchè per le carezze del consolo e di Menou vedevano, che il dominio interrotto dalle intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano, dal popolo non senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale fosse per cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto.

Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte Veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome, l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava, in Parma piuttosto Buonaparte che San Mery, a Genova piuttosto il consolo che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in Toscana piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone che Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti questi Italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava a suo arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che l'Egiziano gli toccasse che erano democrati coloro che si querelavano, tosto l'appruovava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni.

A questo tempo morì di febbre acuta il re Lodovico d'Etruria. Per la sua morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna Carlo Lodovico, il quale per essere minore d'età fu commessa la reggenza alla vedova regina, Maria Luisa. Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene dimostrarono i comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da Murat in Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel governo de' suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico truppe a Piombino, ed in tutto il littorale Toscano per impedire ogni pratica cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte nel porto, e molestava co' suoi corsari, che uscivano da Livorno, i traffichi Inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era sorta nuova guerra con la Gran Brettagna. Prendeva in mezzo a queste insolenze forestiere nel mese d'agosto possessione del regno Carlo Lodovico sotto tutela della regina madre. Giurarono fedeltà il senato Fiorentino, i magistrati, i deputati delle principali città. Furonvi corse di cocchi, emblemi, luminarie, fuochi artificiati, e le solite poesie elogistiche. Non solamente si lodava Carlo Lodovico, ma ancora Murat ed il consolo, gli chiamavano instauratori d'independenza, dolci e giusti governatori di popoli.

Le Toscane cose vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente, conciossiachè sorse in sul finire dell'autunno del milleottocentoquattro nella egregia città di Livorno una pestifera infermità, alla quale diede occasione, siccome pare, la state che trascorse in quell'anno, sotto il dominio continuo di venti australi, oltre al solito calda e piovosa. La quale infermità da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero, nomi l'uno e l'altro che a lei molto bene si confanno, pei segni strani che l'accompagnano. Incominciò ad infierire nelle parti più basse, più fitte e più sucide della città, per modo che a questi toglieva la vita in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti, che, in chi ella s'appiccava, ingenerasse, fora materia assai lunga e difficile, perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era molto proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che il corpo, massimamente il busto, e prima e dopo morte, giallo divenisse, e certo sozzume nero a guisa della posatura del caffè in copia lo stomaco recesse. Nè più facilmente nei cagionevoli, che nei sani s'accendeva il mortale morbo; perciocchè si vedevano spesso giovani gagliardi passarsene dallo stato il più florido di salute fra brevissimo tempo in fine di morte. Nè uno era nei diversi tempi l'aspetto del morbo, tre particolarmente notandosene: in sul primo poco aveva, che dalle solite ardenti febbri il differenziasse: l'insulto primo accompagnava un ribrezzo di freddo, massimamente lungo il dorso ed alla regione dei lombi, doleva acerbamente il capo, ma più alle tempia ed alla fronte, che altrove, dolevano in singolar modo le membra alle giunture, gli occhi accesi e come pieni di sangue; duri e presti i polsi: la pelle ardeva di calore intensissimo, nè godeva l'ammalato del benefizio del ventre, e delle orine. Augurio funesto erano principalmente un molesto senso alla forcella dello stomaco, ed una inclinazione al vomitare. Questo primo tempo concludeva una grande insidia, per modo che quando più pareva al malato, ai parenti ed agli amici vicina la guarigione, più vicina era la morte. Tutto il mortifero apparato s'attutiva ad un tratto, e cessata la febbre, se un leggieri sudore ed una somma debolezza si eccettuavano, sano si mostrava il corpo, ed a perfetta salute inclinante. Ma ecco improvvisamente, e dopo il breve spazio di poche ore, sorgere nuova e più fiera tempesta; che la molestia della bocca dello stomaco diveniva dolore acerbissimo, e dalla regione del ventricolo a quella del fegato si estendeva; nè il toccare queste parti, ancorchè leggierissimo fosse, era a modo alcuno sopportabile all'ammalato. Abborriva da ogni cibo e da ogni bevanda; gli occhi rossi, gialli si facevano, gialle ancora le orine e giallo il corpo, la faccia ed il collo più di ogni altra parte il giallore vestivano. Lo stomaco impaziente vomitava ogni presa vivanda, benchè leggierissima fosse; ovvero pretta bile, o bile mista a vermini buttava.

A questo si aggiungevano oppressione ai precordi, sospiri frequenti, purgamenti del corpo fetidissimi, liquidi, e come di color di cenere. Nè regola certa più restava ai medicanti per giudicar del male; perchè i polsi ad ogni momento variavano; ora tardi, ora celeri, ora piccoli, ora spiegati, ora urtanti, ora languidi, ora depressi, mostravano che se insorgeva qualche volta natura, invano ancora insorgeva, superando la prepotente forza del morbo. In mezzo a tanto tumulto, come se chi era per morire meglio dovesse vedere la sua morte, libera si conservava la mente ed intiera. Succedeva tantosto l'ultimo tempo più vicino a morte, in cui tremavano le membra, i reciticci divenivano, non più di muchi o di bile, ma di materia nera fetidissima, come di sangue putredinoso e marcio. Trasudava anche, e spesso in gran copia dalle gengive, e dalle fauci questo nero sangue; e così ancora dalle narici, e dal fondamento, e dall'utero copiosamente usciva: ogni cosa si volgeva a putredine ed a mortificazione. Bruttavano la pelle o macchie nere a guisa di piccoli punti, o larghi lividori a guisa di pesche, massimamente in quei luoghi a cui si appoggiava il corpo. Facevano la bocca disforme ed orrida, le labbra turgidissime e nere: gli occhi lagrimosi e tristi ogni vivo lume perdevano; quindi il delirio, od il letargo fra le convulsioni, ed un mortale freddo di membra la vita troncavano. Chi moriva nel primo, chi nel secondo, chi nel terzo tempo. Ma quando prima la malattia invase, più morivano nel primo che nell'ultimo; più nell'ultimo, che nel primo, ma non molti, quando già trascorsi essendo circa due mesi, o fosse per l'abitudine dei corpi, o fosse per la diminuzione delle cagioni, già era stata ammansita la ferocia del funesto influsso. Pessimi presagi erano la violenza della prima febbre, i dolori acutissimi delle membra, massime al petto, l'affanno sommo, la prostrazione delle forze, il vomito pertinace e nero, il comparire sulle prime il giallore, l'aggravarsi lo spirito, il chiudersi la via delle orine, il singhiozzo: ottimi la moderata febbre, il vomito raro e mucoso senza putridume, il giallore tardo, la transpirazione libera, il corpo lubrico, ma di bile, non di sangue, e il non tremare, e il non prostrarsi. Per le orine trovava per ordinaria via la natura a discacciare il veleno mortifero; imperciocchè quando copiose ed intensamente gialle fluivano, annunziavano l'esito felice. Ma non una era la maniera del guarire; conciossiachè si è veduto lo uscire improvvisamente e copiosamente sangue dalla bocca e dalle narici, chiamare inaspettatamente a vita chi già pareva preda d'inevitabil morte. Furono viste femmine guarite dal correre improvviso di mestrui abbondanti: fu visto lo sconciarsi della concetta creatura, ed il copioso versarsi del sangue che ne conseguitava, redimere la sofferente madre dalla fine imminente. Crudo era il male, e nemicissimo alla vita: funeste vestigia, anche già quando se n'era ito, nei corpi lasciava: lunghe, tristi, penose si vedevano le convalescenze: chi restava stupido lungo spazio, chi tremava, chi spaventato da funeste fantasime passava malinconici i giorni, spaventose le notti, miserabili segni che stata era vicina la morte. Strana ed orrenda contaminazione di corpi, che spesso, oltre le raccontate alterazioni, insolite apparenze induceva: a questo veniva in odio l'acqua, come se da cane arrabbiato morso fosse: a quello la vista si pervertiva, o doppio, o più grande del solito vedendo: a quest'altro gonfiavano straordinariamente le parotidi: a chi venivano bollicine piene di umore corrosivo in pelle, ed a chi pioveva sangue dagli orecchi. Escoriavasi la pelle, come se dal fuoco bruciata fosse, in quei luoghi dove la suffusa bile si spargeva: trascolava dai vescicatorj una linfa intensamente verde, simile piuttosto al sugo di cicoria che ad altro, la quale sì caustica e sì pungente natura aveva, che la pelle delle toccate membra dolorosamente infiammava, e tostamente cancrenava. Più feroce infierì il male contro i giovani robusti, più mite contro i deboli, contro i vecchi, contro le donne. Ma le gravide quasi tutte, che prese ne furono, morirono: i fanciulli passarono quasi tutti indenni. L'intemperanza di ogni genere, specialmente il darsi al bere eccessivo del vino e degli spiriti, ed il gozzovigliare, ed il trascorrere nei cibi cagionavano e più certa malattia, e più certa morte.

Ogni cosa poi sozza così dentro come fuori; imperciocchè negli sparati cadaveri le narici si vedevano imbrattate di nero sangue, e la morta bocca recere ancora, tanto n'era pieno il corpo, quel sucidume nero e fetido, che nelle ultime ore della vita da lei pioveva. Pieno ancor esso, e zeppo e gonfio di questo medesimo putridume infame e nero si trovava il ventricolo, roso oltre a ciò da serpeggiante cancrena, e rosi gl'intestini; la rete chiamata dai medici omento, rosa del tutto, mostrava quanta forza di distruzione l'orribile malore avesse. Un fluido rosso e giallastro, come di bile mista a sangue, il cavo torace ingombrava; e sangue nero e putredinoso tutti aveva pieni i polmoni, cospersi ancor essi di macchie livide e cancrenose; livido ed infiammato il setto trasverso; livida e di corrotto sangue piena la milza; livido, molle, putredinoso e di colore, come se cotto fosse, il fegato, sul quale, e così sul ventricolo pareva essersi specialmente scagliata con tutti i suoi effetti più tremendi la pestilenza. Insomma o putridume sanguinolente, o sangue nero, o infiammazione vicina a sfacelo, o distruzione intiera di parti in quel luogo, e nelle più vitali viscere si discoprivano. Nè perchè la funesta corruttela tali mortiferi effetti producesse, lungo tempo richiedevasi; che anche in coloro, i quali nel breve spazio di ventiquattr'ore restavano morti, si scorgeva che uno sfacelo universale, che un'aura venefica aveva il corpo tutto invaso, ed allo stato di morte ridotto, che tale vide, tale descrisse con singolar medica maestrìa questa esiziale infermità il dottor Palloni, mandato dal Toscano governo a vedere, se alcun senno, od umano provvedimento contro la medesima valesse. Nè solamente i visceri, che più vicini e concorrenti all'opificio della digestione, quali sono per esempio il fegato ed il ventricolo, ma ancora i più segregati e più lontani erano da lei tocchi e contaminati; posciachè la vescica, che serve di ricettacolo alle orine, vuota si rinveniva e di strisce sanguinose listata: il cerebro stesso, fonte principale di vita, ed i suoi proteggitori invogli col sozzo aspetto di vasi sanguigni strapieni, e con le cavità bruttate di un fluido sviato e giallastro alla vista si appresentavano. Corrotta era a bile, corrotta e sparsa per tutto il corpo dei miseri contaminati. Pessimi il quinto e settimo giorno; pure notati di morti frequenti anche il primo, il secondo ed il terzo; in alcuni, ma rari, indugiò la morte insino al decimoterzo, od al decimoquarto.

Varj furono gli argomenti usati dai medici per domare la dolorosa infermità; ma i più semplici, come suole, riuscirono anche i più vantaggiosi. Tenere il ventre libero col calomelano e con la gialappa, buono; buono promovere il sudore; buonissime le limonee con qualche piccola dose di tartaro emetico; utili i fomenti caldi, in cui fosse stata cotta senape. Nè mancò di sovvenire efficacissimamente agli ammalati l'acido nitrico, massimamente quando si usava in sulle complessioni deboli, e quando, essendo già molt'oltre trascorso il male, le emorragìe, il vomito nero, ed altri segni la incominciata dissoluzione del corpo indicavano. Deteriorava pei vescitatorj la condizione degli ammalati; pure giovarono in qualche caso applicati alla regione del sottoposto ed infestato fegato. Le orine soppresse la digitale purpurea giovava. Ma forte e sopra tutti supremo rimedio mostrossi l'aria pura, e spesse volte rinnovata, della quale tanta era l'efficacia, che per lei, anche a piccola distanza, si distruggeva la venefica qualità, ed il fomite stesso del male.

Dall'altro canto si vedeva, che per l'aria pregna di esalazioni animali si trasportava da uomo a uomo facilmente il morbo, e più fieramente l'infettato tormentava. Serve di argomento a compruovare questo accidente, che le contrade più piene d'immondizie, e meno ventilate della città, e le case dei poveri furono le più miseramente contaminate. Al contrario le contrade spaziose, e le case commode, pulite e di aria aperta e libera o andaronne esenti, o non peggiorovvi, o non vi appiccossi da corpo a corpo la corruzione; che anzi nel contaminato individuo si contenne, gli assistenti, i parenti, i medici, i ministri di Dio immuni lasciando. La quale cosa questa malattia dalle altre contagiose febbri, e specialmente dalla peste d'Egitto differenzia, il cui veleno largamente e lontanamente si appicca. Nè in contado si propagava, abbenchè continuamente infinite persone, ed infinite mercanzie da contrada a contrada, e dalla città nel contado si trasportassero e si diffondessero. Nè l'uomo sano, ancorchè nella vicinanza degli ammalati vissuto fosse, mai ad altri la infezione, se prima egli medesimo tocco dalla malattia stato non fosse, comunicava; nè per gl'individui sani delle contaminate famiglie, nè per gli arnesi loro, nè per le altre suppellettili delle case giammai fuori la corruzione si avventava; e sì pure che le monete, le carte, le merci tutte in un continuo giro, ed in un indistinto commercio dentro e fuori della città versavano. L'abitudine, per un mirabile e non conosciuto artifizio dei nostri corpi, al malefico influsso gradatamente avvezzandogli, gli salvava. Infatti pel funesto male che tanti fra la minuta gente toglieva di vita, un solo ministro di Dio, tre soli ministri di salute perirono, quantunque e gli uni e gli altri frequentissimamente, e con tutta cura agl'infettati assistessero. E quanta fosse la forza del rinnovato aere a domare l'acume del veleno, confermò visibilmente il provvedimento dato da chi reggeva nell'ospedale di San Iacopo, il quale quasi a riva il mare situato, ed ottimamente a salute edificato, di un'aria libera, sfogata e purissima godeva; conciossiachè non così tosto gl'infetti, ancorchè languidi, oppressi, e già quasi vinti fossero dalla malattia, la soglia di quel salutifero edifizio toccavano, ed in lui riposti erano, che i vitali spiriti in loro si rinvigorivano mirabilmente, e dalle angosce più crudeli subitamente ad un confortevole stato passavano. Toscano pregio fu rimedio all'inquilino morbo, perchè oltre alla purezza procurata dell'aria, la pulitezza delle case, la nettezza delle vestimenta, la mondezza dei corpi, qualità tanto eminenti nel Toscano paese, sovvennero agl'infermi, e per sanargli bastarono le consuete abitudini. Nè anco in così nemico tempo si scoverse quel fine crudele di schifare, e di fuggire gl'infetti per acquistar salute: a tutti rimasero i debiti sussidi o per la carità dei parenti, o per l'amorevolezza degli amici, o per la pietà dei cherici, o per la provvidenza del pubblico; dei quali vantaggi debbono i Livornesi o ad una maggiore civiltà, od a più celesti inspirazioni restare obbligati.

Adunque se oltre una naturale disposizione dei corpi, a restare contaminato dal morbo abbisognavano o la vicinanza, o il contatto dell'uomo ammalato, o delle robe che a suo uso avevano servito nel corso della malattia, se l'aria stagnante e chiusa, e zeppa di animali effluvi la dava, se l'aria aperta o sfogata o l'allontanava o l'alleggiava, se le persone sane, benchè vissute in prossimità degl'infetti, e le merci da loro tocche, solo che al puro e ventilato aere esposte fossero, l'infezione fuori della città non trasportavano, e se finalmente il medesimo aere ventilato e puro il malefico fomite presso al suo fonte stesso, cioè all'ammalato, distruggeva ed annientava, si deduce, che, o l'accidente mortifero di Livorno, quantunque avesse in se raccolti tutti i segni di quel morbo, che alcuni febbre gialla, altri vomito nero appellano, era nondimeno molto dal medesimo diverso, opinione non verisimile, perciocchè i segni indicano identità di natura, o che il terrore e la mossa immaginazione l'hanno in altri paesi fatto parer diverso da quello ch'egli è veramente, tassandolo di contagio, quando veramente contagioso non è a modo delle malattie, che i medici chiamano specialmente con questo nome, come per cagion d'esempio la peste di Egitto. Nè dimorerommi io a dire come in Livorno stato fosse recato; perchè, se il vi recasse, come corse fama, un bastimento venuto da Vera Croce, è incerto, siccome ancora è incerto, se da altro contagio qualunque, o se da mera disposizione del cielo piovoso e caldo, come alcuni credono, e pare più verisimile, ingenerato e sorto fosse. Certo è bene, ch'ei fu contaminazione schifosa ed abbominevole, e che funestò per numerose morti Livorno, spaventò le città vicine, tenne lunga pezza dubbiosa ed atterrita l'Europa per la fama delle province devastate in America. Queste cose ho voluto raccontare con quella maggiore semplicità che per me si è potuto, acciocchè la nuda verità meglio servir potesse a far conoscere per forza di comparazione, la natura ed i rimedi di un male, che omai minaccia di voler accrescere la soma di tutti quelli che già pur troppo affliggono la miseranda Europa.

Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia, si rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento pontificio nell'Italica; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la potestà sua fosse non che consenziente, richiesta, nell'Italiana constituzione. Il consolo per un suo gran fine voleva gratificare al papa. Per la qual cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il cardinal Caprara, legato della santa sede, e Ferdinando Marescalchi, ministro degli affari esteri della repubblica Italiana, fu concluso il dì sedici settembre, in nome del pontefice e del presidente un concordato, l'importar del quale fu quasi in tutto conforme al concordato di Francia. Ma bene ne ampliò le condizioni a favore della potestà secolare Melzi vice-presidente, nodrito nelle dottrine leopoldiane. Decretava, che la facoltà di vestire e di ammettere alla professione religiosa fosse ristretta agli ordini, conventi, collegi monasteri, che per istituto fossero dediti all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura degl'infermi o ad altri simili uffizi di speciale e pubblica utilità; che per vestire, o far professione religiosa individuale, e per la promozione agli ordini sacri, il beneplacito del governo si richiedesse; che la libera comunicazione dei vescovi colla santa sede non importasse nè devoluzione di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i tribunali, nè dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di privata competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi, ed i rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore e pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti, gl'iniziati negli ordini sacri, i chierici ammessi nei seminari vescovili, ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero esenti dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica per correggere gli ecclesiastici delinquenti, e gli appellanti dalle medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre i confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la vigente disciplina della chiesa nella sua attualità, salvo il diritto della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse. Sane e salutari e necessarie guarentigie erano queste in pro ed a conservazione dell'autorità secolare; imperciocchè la religione cattolica ha più che qualunque altra, modo d'influire per mezzo de' suoi ministri, che sono uomini, nelle deliberazioni dei reggitori dei popoli, e verso di lei debbonsi da questi usare cautele efficaci, perchè siano salvi la libertà ed i diritti della potestà temporale. Ma le sentì molto gravemente il pontefice, e vivamente se ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava alle risposte, e nelle solite ambagi avviluppandosi, nè dava, nè toglieva speranza di ammendazione. Intanto, quantunque il concordato Italico, e massime il decreto del vice-presidente fossero più accetti a chi amava le dottrine Pistojesi, e le riforme di Leopoldo, che ai papisti, servirono ciò non ostante a tranquillare le coscienze timorate del popolo, il quale avendo sempre perseverato nella fede, e nella riverenza verso il papa, vedeva malvolentieri le dissensioni con Roma: ed ora della ristorata concordia si rallegrava. I magistrati, i preti, i filosofi, i soldati, il popolo predicavano il presidente unico: il buonapartico nome a tutti sovrastava, ed a tutto.

Ma già le bilustri trame del consolo si avvicinavano al loro compimento. Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè negli antichi, nè nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva uguale al suo. Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini, e fresca era negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in Italia e prima e dopo le Egiziache fatiche. Avere lui, si ricordavano, subitamente l'umile fortuna della repubblica innalzato al più alto grado di gloria e di potenza; senza di lui essere ricaduta, con lui risorta; i mostri, così scrivevano, avere prevalso, lui lontano; essere stati vinti, quasi da Ercole secondo, lui presente: con esso lui lontano la guerra avere seguitato la pace, con esso lui presente la pace avere seguitato la guerra; nè solo con l'Austria avere procurato la concordia, ma ancora con la Russia, con l'Inghilterra, con la Turchia, col Portogallo, col duca di Vittemberga, col principe d'Oranges: i barbari stessi avere a beneficio di Francia pattuito con lui, Algeri e Tunisi essere tornati all'antica amicizia di Francia; nè più spaventare i Francesi cuori l'aspetto delle Africane crudeltà; potere le Francesi navi liberamente e securamente attendere ai traffichi loro nel Mediterraneo, nè i Libici ladroni più oltre insultare alle insegne della repubblica; avere lui solo spenta la civile discordia; lui solo restituito la patria agli esuli, lui solo restituito onore a papa Pio sesto, ed alle sue venerate ossa dato riposo; avere a pace delle coscienze, a conservazione dei costumi, a salute delle anime convenuto con papa Pio settimo; per lui essere restituita a luogo suo la generosità e la fedeltà Francese verso la sedia apostolica: lui avere stornato i Vaticani folgori dalla religiosa Francia; lui averla riconciliata con se stessa e con la cristianità; ciò quanto al politico ed al religioso: quanto al prospero, a lui essere obbligate le finanze dell'abbondanza loro, a lui i magistrati dei pagati stipendi, a lui i soldati delle diligenti paghe, a lui i viandanti delle racconce strade, a lui i naviganti dei ristorati canali, a lui i commercianti degli aperti mari: ogni cosa tornare all'antico splendore; i palazzi laceri dal tempo o dalla rabbia degli uomini, ristorarsi, nuovi edifizi innalzarsi: la Francia bella per natura, divenir più bella per arte; dileguarsi le ruine, segni abbominevoli delle passate discordie: sorgere moli, segni magnifici di generoso governo: tali essere i frutti della pace, tali quei della concordia; essere finita la rivoluzione, e con lei serrata l'officina di tante disgrazie: rotta, esser vero, di nuovo essere dall'infedele ed ambizioso Britanno la guerra; ma già correre sulle coste dell'Oceano le vendicatrici schiere, già apprestarsi le conquistatrici antenne, già Londra stessa esser mal sicuro nido ai corsari dominatori del mare; presto aversi a vedere quanto potessero a benefizio dell'umanità contro gli avari e superbi tiranni, che soli fra tutti restavano a domarsi, la Francia potente, ed il fortunato consolo; minacciare, esser vero, la Russia, essere appresso a lei efficaci le arti, e le profferte d'Inghilterra; ma lontano essere Alessandro, nè spoglio d'umanità, nè i dispareri poter durare tra chi a bene intende: così avere il consolo dato a Francia pace sicura, ed occasione di vittoria. Di tanti obblighi nissuno premio poter essere, non che maggiore, pari.

Queste cose si dicevano, ed ancor più si scrivevano. Il consolo non abborrendo dal scelerato proposito di ridurre in servitù una nazione, che con una piena di tanto amore si versava verso di lui, pensò essere arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni. Perciò, allettati gli amatori del nome reale con la patria, i soldati coi donativi, i preti col concordato, i magistrati con gli onori, il popolo coi commodi, si accinse ad appropriarsi la parola di quello, di cui già aveva la sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla suprema potenza. Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con l'uccisione del duca d'Anghienna. Diè le prime mosse il tribunato: il senato non s'indugiò a seguitare parte per paura, parte per ambizione: il dì diciotto maggio chiamava Napoleone Buonaparte, imperator dei Francesi.

Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia il mondo. I pazzi reali s'accorsero, che Buonaparte non era uomo, come aspettavano, che volesse fare il Monk: i pazzi repubblicani videro, che non era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato, questi più inescusabili di quelli; perchè, tacendo anche gli altri suoi andari, quell'aver detto al consiglio dei Giovani il dì nove novembre del novantanove, che la realtà non poteva più vincere in Europa la repubblica, avrebbe dovuto fargli accorti, ch'ei voleva fare che la realtà vi vincesse la repubblica. Poi, siccome il secolo era tutto di piacere, nulla di coscienza, come bene sel conobbe Buonaparte, i reali dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e gli uni e gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti. Pochi dall'una parte e dall'altra si ristarono; il secolo gli chiamò pazzi. Delle potenze d'Europa l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle qualità di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano il lontano ed ingannato Alessandro: la Turchìa, per timore della Russia, si peritava; l'Austria doma taceva; la Prussia, che tuttavia per le sue emolazioni verso l'Austria continuava ad ingannarsi, non solamente aveva consentito, ma ancora esortato. Quest'era stato uno dei principali fondamenti dell'ardimento di Napoleone. Primario confortatore a questi consigli era il marchese Lucchesini ministro del re Federigo a Parigi. Luigi decimottavo, re di Francia, che fino a questo tempo, forse per qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri governi Francesi, parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo atto di assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine era tolta, grandemente risentendosi, con gravissime parole contro l'usurpazione fin dall'ultimo settentrione, dove esule dai suoi regni se ne stava, protestò. Il Piemonte si confortava della perduta independenza per la unione con chi comandava; Genova ingannata sperava almeno di conservar l'antico nome; la repubblica Italiana, giacchè era perduta la libertà, si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che meglio di tutti giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che sperasse, nè che temesse; bene si doleva che i Leopoldiani tempi fossero perduti per sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava in dubbio se almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il papa era spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli si confortava con le promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste; imperciocchè vedendo, che, poichè alle antiche consuetudini se ne tornava, non aveva titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina della sovranità del popolo, perchè l'ammetterla era un confessare che chi faceva poteva disfare, ed ei non voleva esser disfatto, il pontefice con grandissime istanze, non purgate da qualche minaccia, richiedeva, che a Parigi se ne venisse per consecrarlo imperatore. Parevagli che la consecrazione del papa gli desse nell'opinione degli uomini quello, che per altre parti gli mancava. Era certamente un gran fatto, che il capo supremo della chiesa, in età già grave, in stagione sinistra, la lontana e straniera terra se n'andasse per legittimare con la santità del suo ministerio quello che tutti i principi d'Europa chiamavano o apertamente, o occultamente una usurpazione. Per indurre il papa a questa deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto aveva fatto a benefizio della religione e della Santa Sede in Francia, molto più era per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione. Si trovava il pontefice da queste domande molto angustiato, perchè dall'una parte desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne nascere frutti profittevoli alla religione; dall'altra il confermare con la efficacia del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare, gli pareva duro e disonorevole consiglio.

Tanto poi più se ne stava sospeso, quanto e Luigi decimottavo, e l'imperatore di Germania, e quel di Russia, e il re medesimo d'Inghilterra più o meno manifestamente il confortavano al non offendere con un atto tanto strepitoso la maestà reale, ed i principj, sopra i quali tutte le moderne sovranità si trovavano fondate. Non si commettesse, dicevano, abbandonando gli amici antichi, alla fede di un amico nuovo; la forza soldatesca non santificasse; la ruina d'Europa non appruovasse; considerasse, fugaci essere le cose violente, rovinare di per se stesse le eccessive; pensasse dopo quel nembo facilmente dileguantesi dovere avere bisogno dei patrocinj antichi; non più trattarsi di salvare la religione già salva, ma di salvare i seggi antichi: o legittimità o usurpazione, o temperanza o tirannide, o leggi o soldati, o civiltà o barbarie, di ciò trattarsi. Avvertisse finalmente quanto enorme sarebbe, se il pontefice di Roma, se il capo della cristianità si muovesse a santificar il sommo grado in chi usava la religione per fraude, le promesse per inganno, le armi per sovvertimento; vedesse la serva Italia, osservasse la tremebonda Germania, riflettesse alla soggiogata Francia, e giudicasse se gli fosse lecito, la dignità apostolica sua contaminando, onestare con sì solenne dimostrazione ciò, che tutte le leggi divine ed umane condannavano.

Queste esortazioni grandemente muovevano il pontefice. Ciò non ostante non gli sfuggiva, poichè al benefizio della religione aveva l'animo intento, che la religione, per essere in Francia la parte avversa tanto potente, per esservi la instaurazione tanto recente, per essere Napoleone imperatore in tutte le cose sue tanto arbitrario e tanto subito, maggiore pericolo vi portava, se a Napoleone non consentisse, che in Austria e negli altri paesi cattolici della Germania, se ai desiderj di Francesco imperatore non si uniformasse. Quanto alla Spagna, piuttosto suddita che uguale alla Francia, per la divozione del principe della Pace ai Buonapartidi, sapeva il pontefice, che la sua risoluzione a favor di Napoleone vi sarebbe stata udita volentieri.

Da un altro lato il signore di Francia tanto si dimostrava amorevole e lusinghiero verso la Santa Sede, che il papa venne in isperanza, non solamente di tenerlo nei termini, ma ancora di volgerlo in quella parte alla quale ei volesse. Confidava massimamente di poter conseguire qualche utile modificazione negli articoli organici annestati da Napoleone al concordato di Francia, e da Melzi a quello d'Italia. Desiderava altresì, e sperava d'indurre Napoleone a dare qualche larghezza di più al culto esteriore, al quale effetto erano corsi prima non pochi dispareri, perchè Napoleone intendeva il culto pubblico ad un modo, e Pio ad un altro. Nè dubitava punto che la presenza sua in Francia efficacemente non avesse ad operare, perchè la religione meglio si conoscesse, e meglio si amasse. Aveva anche difficoltà a persuadersi, che una sì lunga e grave fatica, ed una tanta condiscendenza in un affare di tanto momento per Napoleone, non fossero per ispirare al cuore di lui, quantunque di soldato fosse, affetti più miti, e maggiore agevolezza verso il Romano seggio.

Tutte queste cose molto bene e maturamente considerate, e co' suoi cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'ajuto divino, siccome quegli che piamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od avverso, si deliberava a voler fare quello, che da tanti secoli non si era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa risolutosi del tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano rispetto, convocati i cardinali il dì ventinove ottobre con queste gravi ed affettuose parole loro favellava:

«Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi annunziammo, siccome il concordato con Napoleone imperatore dei Francesi, allora primo consolo, era stato da noi concluso; da questo stesso vi partecipammo la contentezza che aveva ripieno il nostro cuore, nel veder volte novellamente, per opera del concordato medesimo, alla cattolica religione quelle vaste e popolose regioni. D'allora in poi i profanati tempj furono aperti e purificati, gli altari riedificati, la salvatrice croce innalzata, l'adorazione del vero Dio restituita, i misteri augusti della religione liberamente e pubblicamente celebrati, legittimi pastori a pascere il famelico gregge conceduti, numerose anime dai sentieri dell'errore al grembo della felice eternità richiamate, e con se stesse, e col vero Dio riconciliate: risorse felicemente da quella oscurità in cui era stata immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una rinomata nazione la cattolica religione.
«A tanti benefizj di gioja esultammo, e le esultazioni nostre a Dio nostro signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel potente principe, che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il concordato; ma ancora ci spinse, per la dolce ricordanza, ad usare ogni occasione che si aprisse, per dimostrargli, tale essere verso di lui l'animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperatore dei Francesi, che con le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene a noi significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi olj unto, e dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè i sacri diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano col carattere della religione impressi, e più potentemente sopra di lui le celesti benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo chiaramente la religione sua, e la sua filiale riverenza verso la Santa Sede dimostra; ma siccome quella che accompagnata da espresse dimostrazioni e promesse, da speranza che sia la fede sacra promossa, e che siano le dolorose ingiurie riparate; opera, che già ha egli con tanta fatica e con tanto zelo in quelle fiorite regioni procurato.
«Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi siano le cagioni, che ad intraprendere questo viaggio c'invitano. Muovonci gl'interessi della nostra santa religione, muoveci la gratitudine verso il potente imperatore, muoveci l'amore verso colui che con tutta la forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla cattolica religione libero e pubblico esercizio procurato, muoveci il desiderio, che d'avanzarla viemaggiormente in prosperità ed in dignità ci dimostra. Speriamo altresì, che quando al cospetto suo giunti saremo, e con lui volto a volto favelleremo, tali cose da lui a benefizio della cattolica chiesa, sola posseditrice dell'arca di salvazione, impetreremo, che giustamente con noi medesimi dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra santissima religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli parole tale speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui, di cui, quantunque immeritamente, siamo il vicario sopra la terra, dalla grazia di colui, che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei popoli si mostrano, specialmente quando all'eterna salute intendono, specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della cattolica chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori che la propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere la religione, e per gratificare ai principi, che della chiesa bene meritato avevano, peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente viaggio deliberati, avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto allontanarci la stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute inferma. Ma non fia che a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che voglia Iddio farci dei nostri desiderj grazia. Nè fu il negozio, prima che ci risolvessimo, da ogni parte ed attentamente non considerato. Stemmo dubbj, ed incerti un tempo; ma con tali assicurazioni si fece incontro ai desiderj nostri l'imperatore, che ci rendemmo certi, essere il nostro viaggio a pro della religione per riuscire. Voi ciò sapete, che su di ciò a voi chiesi consiglio: ma per non preterire quello che ogni altra cosa avanza, sapendo benissimo, che conforme al detto della divina sapienza, le risoluzioni dei mortali, anche di quelli che per dottrina e per pietà più riputati sono, di quelli altresì, il cui parlare, quale incenso, alla presenza di Dio sen sale, sono deboli e timide ed incerte, le nostre fervorose preghiere al padre di ogni sapere indirizzammo, instantemente richiedendolo, che ci sia fatto abilità di solo fare quello che a lui piacer possa, solo quello che a prosperità ed incremento della sua chiesa tornare prometta. Ecci Dio, al quale coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo, al quale nel suo sacro tempio le supplici nostre mani alzammo, dal quale e benigna audienza ed ajuto propizio in tant'uopo implorammo, testimonio, che niun'altra cosa vogliamo, a niun'altra intendiamo, che alla gloria ed agli interessi della cattolica religione, alla salute delle anime, all'adempimento dell'apostolico mandato, a noi, quantunque immeritevoli, commesso. Di questa medesima sincerità nostra voi stessi, venerabili fratelli, a cui tutto apersi, siete testimonj. Adunque quando un negozio sì grande con l'ajuto della divina assistenza vicino è a compirsi, qual vicario di Dio, Salvator nostro, operando, questo viaggio, al quale tante e sì ponderose ragioni ci confortano, imprenderemo.
«Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si manifesterà. Ad esempio di Pio sesto di riverita memoria, quando a Vienna d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto, che le curie, e le audienze siano e restino secondo il solito aperte; e siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così abbiamo ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse di tirarci a lui, si tengano i pontificj comizj. Infine da voi richiediamo, voi instantemente preghiamo, che vi piaccia per noi sempre quell'affezione medesima conservare, che finora ci mostraste, e che noi assenti, l'anima nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro Signore, alla gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo Pietro, acciò questo nostro viaggio, e felice sia nel corso, e prospero nel fine, raccomandiate. La quale cosa, se, come speriamo, dal fonte di ogni bene impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza ancora voi parteciperete, e tutt'insieme nella mercè del Signore esulteremo, e ci rallegreremo».

Giunto il pontefice sulle Francesi terre, fu per ordine dell'imperatore, ed ancor più per la pietà dei fedeli in ogni luogo con riverenza veduto. A Parigi, anche quelli che non credevano nè al papa, nè alla religione, si precipitavano a gara, o per moda, o per vanità, o per adulazione, alla sua presenza per esprimergli con parole sentimenti di rispetto. Incoronava Napoleone il dì due decembre. Il fece l'imperatore aspettare nella chiesa di Nostra Donna in Parigi un'ora prima che vi arrivasse: vollero, quando il pontefice si mosse alla volta di lui, i pii circostanti applaudire al venerando vecchio; furonne da Napoleone con imperioso e forte segno impediti: partito da Nostra Donna il consecrato ed incoronato Napoleone, fu lasciato Pio, come un uom del volgo, avviluppato ed impedito fra l'immensa folla del popolo concorso; tristi presagi dei casi avvenire. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte solennemente le imperiali aquile a' suoi soldati: le auliche insegne della repubblica, che avevano veduto le Renane, Italiche, Egiziache vittorie, lasciate nel fango, che era in quel giorno altissimo. Tanto i soldati di tutti già erano divenuti soldati di un solo! Disprezzar la gloria era segno, che non si sarebbe rispettata la libertà.

Andarono i magistrati, ed i capi dell'esercito a rendere omaggio all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo non più così scarso del corpo, com'era una volta, con esso lui della prospera salute si rallegrava. “Sì”, rispose il sire, “ora sto bene”.

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