LIBRO VIGESIMOQUARTO

SOMMARIO

Nuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo degli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè, generalissimo dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani. L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualità di Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra. L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta, poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda. Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi.

Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità. L'Austria depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le disgrazie presenti per la speranza del futuro. Nè solo la spaventavano i patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le profferte segrete, poichè Napoleone le esibiva ingrandimento nella distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di riscuotersi; però risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la sua cupidità, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquità commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare, con fare che le compagnìe d'ordinanza non solo avessero i numeri interi, ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si doleva Napoleone di sì romorosi apparecchj, affermando, non pretendere coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco, l'avere conservato la monarchìa Austriaca, quando la poteva distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servitù. Solo le mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei Bavari. Era questo moto di grave momento sì per la natura bellicosa della nazione, e sì per tener aperte le strade tra i due eserciti di Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento è sempre l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria, delle dure condizioni presenti, del futuro giogo più duro ancora ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, nè mai più promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai ella aveva fatto sì formidabile preparazione.

A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore. Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò non di meno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava meglio armato, e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli medesimo alla guerra Germanica, perchè vedeva che sulle sponde del Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome, fuorchè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante, al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino.

L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì nove aprile, al medesimo modo intimò la guerra a Broussier, che colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio vicerè, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra: poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente, del quale avevano già dato con le opere sì vere testimonianze: confidare che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed indulgente affetto.

Dal canto suo l'arciduca Giovanni, prima di venire al ferro, non se ne stava oziando con le parole, giudicando che potessero sorgere per tutta Italia per le varie inclinazioni dei popoli, gravi e favorevoli movimenti:

«Udite, diceva, Italiani, udite, e nei cuor vostri riponete, quanto la verità, quanto la ragione da voi richieggono. Voi siete schiavi di Francia, voi per lei le sostanze, voi la vita profondete. È l'Italico regno un sogno senza realtà, un nome senza effetto. Gli scritti soldati, le imposte gravezze, le usate oppressioni a voi bastantemente fan segno, che niuna condizione di stato politico, che niun vestigio d'independenza vi è rimasto. In tanta depressione voi non potete nè rispettati essere, nè tranquilli, nè Italiani. Volete voi di nuovo Italiani essere? Accorrete colle mani, accorrete coi cuori, ai generosi soldati di Francesco imperatore congiungetevi. Manda egli un poderoso esercito in Italia: non per sete di conquista il manda, ma per difendere se stesso, ma per restituire l'independenza a tante europee nazioni, di cui la servitù tanto è per tanti segni certa, quanto per tanti dolori dura. Solo che Iddio secondi le virtuose opere di Francesco imperatore, e de' suoi potenti alleati, fia novellamente Italia in se stessa felice, fia da altri rispettata: avrà novellamente il capo della religione i suoi stati, avrà la sua libertà. Una constituzione alla natura stessa, al vero stato politico vostro consentanea, sarà per prosperare le italiche contrade, e per allontanar da loro ogn'insulto di forza forestiera. Promettevi Francesco sì fortunate sorti: sa l'Europa, essere la sua fede tanto immutabile, quanto pura; il cielo, il cielo vi parla per bocca di lui. Accorrete, Italiani, accorrete: chiunque voi siate, o qual nome v'aggiate, o qual setta amiate, purchè Italiani siate, senza temenza alcuna a noi venite. Non per ricercarvi di quanto avete fatto, ma per soccorrervi e per liberarvi siamo in cospetto dell'Italiane terre comparsi. Consentirete voi a restarvi, come ora siete, disonorati e vili? Sarete voi da meno che gli Spagnuoli, eroica gente, che altamente dissero, e che più altamente fecero che non dissero? Meno che gli Spagnuoli amino, amate voi forse i vostri figliuoli, la vostra religione, l'onore e il nome della vostra nazione? Abborrite voi forse meno ch'essi, il vergognoso giogo a cui v'han posti coloro, che con belle parole v'ingannarono, che con tristi fatti vi lacerarono? Avvertite, Italiani, e negli animi vostri riponete ciò, che ora con ragione e con verità vi diciam noi, che questa è la sola, questa l'ultima occasione che a voi si scopre di vendicarvi in libertà, di gettar via dai vostri colli il duro giogo che su tutta Italia s'aggrava: avvertite, e negli animi vostri riponete, che se voi ora non vi risentite, e se neghittosi ancora vi state ad osservare, voi vi mettete a pericolo, quali dei due eserciti abbia ad aver vittoria, di non essere altro più che un popolo conquistato, che un popolo così senza nome, come senza diritti. Che se pel contrario con animi forti vi risolvete a congiungere con gli sforzi dei vostri liberatori anco i vostri, e se con loro andate a vittoria, avrà l'Italia novella vita, avrà suo grado fra le grandi nazioni del mondo, e risalirà fors'anche al primo, come già il primo si ebbe. Italiani, più avventurose sorti or sono nelle mani vostre poste, in quelle mani che in alto alzando le faci indicatrici di dottrina, di civiltà, di arti tolsero il mondo alla barbarie, e dolce, e mansueto, e costumato il renderono. Milanesi, Toscani, Veneziani, Piemontesi, e voi tutti popoli d'Italia, sovvengavi dei tempi andati, sovvengavi dell'antica gloria: e tempi e gloria potranno rinstaurarsi, e rinverdirsi più prosperi e più splendidi che mai, se fia che voi un generoso cooperare ad un pigro aspettare anteponiate. Volere, fia vittoria; volere, fia tornarvi più lieti e più gloriosi, che gli antenati vostri ai tempi del maggiore splendor loro non furono».

A questo modo l'arciduca spronava gl'Italiani, acciò non avessero a disperarsi di vedere la patria loro rimanere in altro grado che d'ignominiosa e perpetua servitù. Ma le sue esortazioni non partorirono effetti d'importanza, perchè coloro che avevano le armi in mano, parteggiavano, come soldati, per Napoleone: gl'inermi odiavano bensì la signoria Francese, ma non si fidavano di quella dell'Austria, nè che la vittoria di lei fosse per essere la libertà d'Italia pareva lor chiaro: tutti poi spaventava la ricordanza ancor fresca del caso di Ulma. Nè appariva che fosse per nascere alterazione tra Napoleone ed Alessandro, la quale sola avrebbe potuto dare speranza probabile di buon successo.

Addì dieci d'aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca, varcata la sommità dei monti al passo di Tarvisio, e superato, non però senza qualche difficoltà per la resistenza dei Francesi, quello della Chiusa s'avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante corredo di artiglierìe e di cavallerìa passava l'Isonzo, e minacciava con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei Napoleoniani. Fuvvi un feroce incontro al ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè molto valorosamente. Ma ingrossando vieppiù nelle parti più basse gli Austriaci, che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò per ordine del vicerè sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò il principe a piantare il suo alloggiamento in Sacile sulla Livenza, attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico, innanzi che egli avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Del quale consiglio, non che lodare, biasimare piuttosto si dovrebbe il principe; poichè sebbene l'arciduca non avesse ancora tutte le sue genti adunate in un sol corpo, tuttavia sopravvanzava non poco di forze, e non che fosse dubbio il cimento, era da temersi che gli Austriaci sarebbero rimasti superiori; che se conveniva all'arciduca, siccome fornito di maggior forza, il dar dentro, non conveniva al principe, che l'aveva minore: doveva Eugenio in questo caso anteporre la prudenza all'ardire.

Erano i Francesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo, Broussier a sinistra: le fanterìe e le cavallerìe del regno Italico formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i Tedeschi, correva il dì sedici aprile: destossi una gravissima contesa nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte cacciati e rincacciati: i soldati Italiani combatterono egregiamente. Pure restò Palsi in potestà dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavallerìe, insistevano; la destra dei Francesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con urto grandissimo, ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti a mal partito, se Barbou dal mezzo non avesse mandato gente fresca in loro ajuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo, pinse avanti con tanta gagliardìa, che pigliando del campo scacciò il nemico, non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo della fronte Francese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette, che non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi, che già manifestamente declinavano: Barbou eziandìo si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Francesi d'impeto e d'ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma contuttochè molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne a capo. In quest'ostinato combattimento rifulse molto egregiamente la virtù del colonnello Giflenga, mentre guidava contro il nemico uno squadrone di cavalli Italiani. Fuvvi gravemente ferito il generale Teste, guerriero molto prode. Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava. Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi ajuti la fronte, costrinse i Napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato in parte le loro schiere, e ucciso loro di molta gente. Patì molto la cavallerìa di Francia; fu anche danneggiata fortemente la schiera di Broussier, che servendo di retroguardo alle altre mezzo rotte e ritirantisi, ebbe a sostenere tutto l'impeto del nemico vincitore. Se la notte, che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico avrebbero i Francesi e gl'Italiani pruovato qualche pregiudizio molto notabile. Perdettero in questa battaglia di Sacile i Napoleoniani circa due mila cinquecento soldati tra morti, feriti e prigionieri: non mancarono dei Tedeschi più di cinquecento. Dopo l'infelice fatto non erano più le stanze di Sacile sicure al principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente dai Tedeschi, sempre lenti perseguitatori dei nemici vinti, e perciò perdenti molte buone occasioni, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre Veronesi, e quelli che sotto Durutte dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione di dare novelli spiriti ai Napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata. Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano, il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo mentre Palmanova, ma con poco frutto: tentò con un grosso sforzo il sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di Venezia; ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a trovar il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella superiore Lombardìa, dominio antico dei suoi maggiori. Non trovò nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche moto in Padova, ma di poca importanza; si levarono anche in arme gli abitatori di Crespino, terra del Polesine; e fu per loro in mal punto; perchè Napoleone tornato superiore per le vittorie di Germania, fortemente sdegnatosi, gli soggettò all'imperio militare, ed alla pena del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose, perdonare, ma a prezzo di sangue; gli dessero, per essere immolati, quattro di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare l'animo dell'imperatore, fu ridotto il numero a due; questi comperarono coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.

Intanto l'arciduca Carlo, varcato l'Oeno, aveva occupato la Baviera; e col suo grosso esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei primi principj dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi. Annidavansi negli animi di questo popolo armigero e virtuoso molte male soddisfazioni. Assuefatti da lungo tempo al mansueto dominio della casa d'Austria, molto mal volentieri sopportavano la signorìa dei Bavari, come non consueta, e come, se non per antico costume, almeno per gli esempj freschi, e fors'anche pei comandamenti Napoleonici, dura e soldatesca. S'aggiungeva, che il re di Baviera aveva abolito l'antica constituzione del Tirolo, riducendo la forma politica alla potestà assoluta, anche in materia di tasse. S'accordarono parte segretamente, parte palesemente per secondare con ogni nervo l'impresa dell'antico loro signore. L'Austria gli aveva fomentati, mandando per le montagne di Salisburgo nel Tirolo Jellacich con un corpo di regolari.

Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Oeno, e l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi mossi da una sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in armi, e diedero addosso alle truppe Bavare e Francesi, che nelle terre loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer, albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna qualità eminente, dico di quelle alle quali il secolo va preso: bensì era uomo di retta mente, e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre nelle solitudini dei Tirolesi monti, ignorava il vizio e i suoi allettamenti. I Parigini ed i Milanesi spiriti, anche i più eminenti, correvano alle lusinghe Napoleoniche, povero albergator di montagna, perseverava Hofer nell'innocente vita. Allignano d'ordinario in questa sorte d'uomini due doti molto notabili, l'amore di Dio, e l'amore della patria: l'uno e l'altro risplendevano in Andrea. Per questo la Tirolese gente aveva in lui posto singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contento al servire od al principe, od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide incendj di pacifici tuguri, vide lo strazio e la strage dei suoi; nè per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere sorti avevano dato in sua potestà, fosse messo a morte: anzi i feriti dava in cura alle Tirolesi donne, che e per se, e per rispetto di Hofer gli accomodavano di ogni più ospitale servimento. Distruggeva Napoleone le patrie altrui, sdegnoso anche contro gli amici: difendeva Hofer la sua, dolce anche contro coloro, che la chiamavano a distruzione ed a morte. Lascio io volentieri le illustri penne della vile età nostra lodare i colpevoli fatti dei potenti; ma non mi sarà, credo, negato, ch'io col mio basso ed oscuro stile mi diletti spaziando nel raccontare le generose opere di coloro, ai quali più arrise la virtù che la fortuna.

Adunque la nazione Tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo a schifo la signorìa nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde valli, e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso contro i Bavari ed i Francesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i Bavari a Sterchinga, a Inspruck, a Hall, e nel convento di San Carlo, non poterono resistere, e perduti molti soldati tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa diecimila, in potestà dei vincitori rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un corpo di tremila Napoleoniani Francesi e Bavari, che in soccorso degli altri arrivava, sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro, nè ora vi erano per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di giorno, i Tirolesi uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti Napoleoniani. Fu questa una guerra singolare e spaventosa, conciossiacchè al romore delle armi si mescolava il rimbombo delle campane, che continuamente suonavano a martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa, “in nome di Dio, in nome della santissima Trinità”. Tutti questi strepiti uniti insieme, e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno di orrore, di terrore, e di religione.

Quest'erano le voci di una patria santa ed offesa. Chi con le carabine trapassava da lontano i corpi degli offenditori, chi con sassi sparsamente lanciati gli tempestava, chi con enormi massi strabalzati gli ammaccava. Hofer composto in volto, e torreggiante per l'alta e forte sua persona in mezzo a' suoi, e solo da loro conosciuto per lei, non per l'abito conforme in tutto a quello dei compagni, appariva ora incitante contro gli armati, ora raffrenante verso gl'inermi, uccisore ardentissimo di chi resisteva, difensore magnanimo di chi si arrendeva. Dovunque, e quandunque andava, era una volontà sola per combattere, una volontà sola per cessare, e più poteva l'autorità del suo nome in quegli animi bellicosi, che in soldati ordinatissimi l'uso della disciplina, ed il timore dei soldateschi castighi. I fanciulli fecero da adulti, i vecchi da giovani, le femmine da uomini, gli uomini da eroi; nè mai più onorevole e giusta causa fu difesa da più unanime e forte consenso. Camminavano i vinti, erano una moltitudine considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria, gratissimo spettacolo a Francesco. I Tirolesi vincitori sulle terre Germaniche, passate le altezze del Brenner, vennero nelle Italiane, e mossero a romore le regioni superiori a Trento. Propagavasi il romore da valle in valle, da monte in monte, e la Trentina città stessa era in pericolo. Certo era, che quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige, la massa Tirolese sarebbe calata a fargli spalla; il che avrebbe partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: quest'era il disegno dei generali Austriaci. L'imperatore Francesco, sì per ajutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate, mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra i primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse Hofer. Mandava altresì, come abbiam notato, un corpo di regolari usi alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano esperto e conoscitore del paese. Come prima le insegne ed i soldati dell'Austria comparirono, sentirono i Tirolesi una contentezza incredibile. Entrarono gl'imperiali a guisa di trionfo; tante erano le dimostrazioni d'allegrezza che i popoli facevano loro intorno. Le campane suonavano a gloria, le artiglierìe, e le archibuserìe tiravano a festa: i vincitori popoli applaudivano: abbracciavano, s'abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo.

Qui finirono le allegrezze dell'Austria; poichè nel colmo più alto delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale giunto sulle terre Germaniche, e recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi giorni tre grossissime battaglie a Taun, a Abensberga, a Ecmul. Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai Napoleoniani per Vienna. Produssero anche le rotte dell'arciduca un altro importante effetto, e questo fu, che oltrandosi Napoleone alla volta di Vienna, fu forza all'arciduca Giovanni il tirarsi indietro dall'Italia; affinchè non gli fosse impedita la facoltà di ritornarsene in Austria, e perciò non solo l'Italia si perdeva per lui, ma ancora il Tirolo. Così per le vittorie acquistate dall'imperator dei Francesi tra Augusta e Ratisbona si cambiò la condizione della guerra. Chi aveva assaltato, era costretto a difendersi; chi era stato assaltato, aveva acquistato facoltà di assaltare; l'Italia si perdeva per l'Austria. Vienna pericolava, e niuna speranza restava a chi aveva mosso la guerra, che quelle dell'Ungherìa, della Moravia e della Boemia.

Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del fratello, s'accorse, e n'ebbe anche comandamento da Vienna, che quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era mestiero accorrere in ajuto della parte più vitale della monarchìa. Ordinava adunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza, alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi forti per poter condurre in salvo le artiglierìe, le munizioni e le bagaglie; opera difficile e pericolosa, con un nemico a fronte tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo il principe. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti. Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte, distendendosi colla destra sino al ponte di Priuli, stato a bella posta arso dall'arciduca, e colla sinistra a Rocca di Strada, sulla via che porta a Conegliano. Numerose artiglierìe rinforzavano la fronte che occupava le vicine eminenze in faccia al fiume; i luoghi bassi erano assicurati da alcune torme di cavalli. S'apprestavano i Francesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che è il principale. Non ostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero coll'artiglierìe poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo dell'intento. Poi passò il vicerè, sopra e sotto a Lovadina, con la maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il bersaglio stesso dei nemici, che con palle, e cariche continue di cavallerìa l'infestavano. Pareggiossi la battaglia, che continuava con grandissimo furore da ambe le parti; perchè i Francesi volevano sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar i Francesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca, in questa terribile mischia, a fatica od a pericolo, ora come capitani comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte Tedesca. Diedero dentro i Francesi, Abbé a destra, Broussier in mezzo, Lamarque a sinistra: secondavangli Pully, Grouchy, Giflenga. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva a favor del principe. Restava a superarsi il molino della Capanna, dove i Tedeschi ostinatamente si difendevano. Lamarque ajutato da Durutte, superati velocemente i fossi, e caricando con le bajonette, s'impadroniva finalmente di quel forte sito; il che fece del tutto sopravvanzare le sorti di Francia. Si ritirarono gli Austriaci, non senza disordine nelle ordinanze, a Conegliano. Poi pressando vieppiù il nemico, cercarono salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi patirono i Tedeschi: tra morti, feriti e prigionieri, i perduti sommarono circa a diecimila. Morirono fra gli altri, o vennero in potestà del vincitore, i generali Wolskell, Risner e Hager. Perdettero quindici cannoni, trenta cassoni, molte munizioni e bagaglie. Dei Napoleoniani mancarono tra morti e feriti circa tremila. Principal onore in questo fatto riportarono dalla parte dei Francesi, oltre il principe, Dessaix e Pully: da quella dei Tedeschi, oltre l'arciduca, Wolskell, che finì poco dopo per le ferite l'ultimo dì della sua vita con molto rincrescimento de' suoi, perchè era veramente valoroso, e perito capitano di guerra.

Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò il Francese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento. Inondando i Napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli, scioglievano l'assedio d'Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso la Carniola. L'intento era di sospingere con quella, occupando la Carintia e la Stiria, il nemico sino ai recessi dell'Ungherìa, e di congiungersi in tal modo coi Napoleoniani di Germania; con questa di accennare Lubiana, e di cooperare con Marmont, che a gran passi si accostava venendo dalla Dalmazia. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine, che il capitano di Francia si era proposto; conciossiachè Dessaix e Seras prendendo continuamente dei monti, e cacciandosi avanti per le valli di Ponteba, di Pradele, della Fella, e della Dogna i Tedeschi, si avvicinavano al sommo giogo, che disparte le acque del Mediterraneo da quelle del mar Nero. Incontrarono un primo intoppo nei forti di Malborghetto e di Pradele. Tentò Seras di corrompere con danari il comandante di Malborghetto. Ricusò il Tedesco contrattazione tanto abbominevole: anzi combattendo valorosamente, e confortando con gravi e virili parole i compagni alla difesa del forte, ed alla salute della patria, vi finì una onorata vita con una gloriosa morte. Duolmi di non aver conosciuto il nome di questo virtuoso Austriaco, poichè mi sarebbe stato caro il mandarlo ai posteri in queste mie storie. Ottenevano finalmente i Napoleoniani i due forti: superava il vicerè il passo di Tarvisio, ed entrava vincitore nella Carintia, alla volta di Judenburgo di Stiria incamminandosi. Jellacich cacciato dal Tirolo per le armi del maresciallo Lefevre, mandatovi da Napoleone dopo le vittorie di Ratisbona, perdè quasi tutti i suoi a San Michele di Stiria. Seras, passati i monti di Someringa, ed arrivato a Scottvien, si congiungeva con le prime scolte dell'esercito Germanico.

Mentre queste cose accadevano sulla sinistra del vicerè, Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino, Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, e quindi per la strada maestra che da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro intoppo in Prevaldo; ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte di accennare ai fianchi ed alle spalle costringeva alla dedizione quattromila Austriaci, che difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata così nobile vittoria, se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi fermossi aspettando, che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia. Come prima il generale dei Dalmatici ebbe avviso, che l'arciduca Giovanni, costretto dalla necessità della guerra d'Alemagna, si era mosso dal Vicentino per ritirarsi dall'Italia, si era messo in cammino per andar a congiungersi a cose maggiori col grosso dei Napoleoniani. Partitosi adunque da Zara, e superati i Tedeschi, che gli vollero contendere il passo al monte di Chitta ed a Gracazzo, si approssimava alla terra di Gospizza, forte di sito per le molte acque che la circondano, e per esservisi il nemico molto ingrossato. Erano, la più parte, Croati. Fuvvi un combattere molto fiero sì in una battaglia stabile, e sì alla campagna sparsa. Vinse, dopo molto sangue, la fortuna dei Napoleoniani. S'apersero, per la vittoria di Gospizza, facili le strade al capitano di Francia, perchè da un incontro in fuori, ch'egli ebbe col retroguardo nemico ad Ottossa, non gli fu più oltre contrastato il passo. Occupò successivamente Segra e Fiume, e trovati i compagni in Istria, s'incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto l'antico Illirico venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più opportuni, passava i monti di Someringa, e per la valle dell'Arabone, o Giavarino, che i moderni chiamano Raab, verso il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre. L'enfasi Napoleonica quivi si spiegava:

«O bene v'avvenga, diceva in uno scritto mandato fuori a posta, e siate ben venuti, o soldati miei dell'esercito Italico: sorpresi da un nemico perfido prima che le vostre colonne fossero unite, fino all'Adige ritraeste i passi; ma quando ordinaivi di marciare avanti, e quelli essere i campi d'Arcole ricordaivi, voi vinceste venti battaglie, voi conquistaste venticinque mila prigioni, voi seicento cannoni, voi dieci bandiere: nè la Sava, nè la Drava, nè la Mura, nè le strette di Tarvisio, nè gli aspri gioghi della Someringa vi arrestarono: quel Jellacich, primo autore dell'uccisione dei nostri nel Tirolo, pruovò di che sapessero le baionette vostre: voi feste pronta giustizia di quelli avanzi fuggiti dallo sdegno del grande esercito: o bene v'avvenga, e siate ben venuti, o voi soldati, che operaste, che quegli Austriaci d'Italia, che per poco d'ora ebbero contaminato con la loro presenza le mie provincie, vinti, dispersi ed annientati, servissero d'esempio della verità di questa divisa. Dio me la diede, guai a chi la tocca; sono, o soldati, contento di voi».

A queste intonazioni di Napoleone si stringevano nelle spalle gli uomini savi e temperati, i quali, per amore anche della grandezza di lui, avrebbero desiderato maggior moderazione; ma Napoleone non conobbe la grandezza della modestia.

Il giorno quattordici di giugno, anniversario della vittoria di Marengo, vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Giavarino una grossissima battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del Danubio in ajuto del suo fratello Carlo. Fu questa battaglia bene, e con arte egregia combattuta dal vicerè. Nè io voglio defraudare dalla dovuta laude l'arciduca, che in mezzo a tanto tumulto, a tanti spaventi, a tanto precipizio delle cose Austriache, conservò la mente immota, e le schiere ordinate. Combattè coi retroguardi valorosamente, tenne rannodati gli antiguardi, e dopo tante battaglie, ed una ritirata di tanto spazio, risorse più potente di prima nei campi di Giavarino, e se non fosse stata la prestezza del vicerè, avrebbe forse cambiato da tristi in liete le sorti del fratello augusto. Piacemi in questo luogo dire, di Eugenio e di Giovanni favellando, che giovani ambidue, se furono d'età pari, furono anche di valore; ma Giovanni più modesto per la natura della casa, Eugenio più borioso per gli sproni del padre, degno l'uno di difendere la propria patria, non degno l'altro di distruggere le patrie d'altrui.

Il dì sei di luglio periva la mole Austriaca nei campi di Vagria. Quivi fu prostrato l'arciduca Carlo: Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchìa. Si trovò facilmente forma di concordia per la depressione d'una delle parti: consentì l'imperatore Francesco a condizioni durissime di pace. Consentì anche, prevalendo in lui ad ogni altro rispetto la salute dello stato, a quello che era più duro ancora che tutte le altre condizioni, dico al congiungere la propria figliuola Maria Luisa in matrimonio a colui, che era la ruina della sua casa, e che principiante e durante la guerra, l'aveva chiamato coi nomi più vituperosi. Il dì quattordici ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento delle cose comuni, dal signor principe di Champagny per parte di Napoleone e dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di pace. Cedeva l'imperatore Francesco all'imperator Napoleone, oltre molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di Villaco nella Carintia, con tutti i paesi situati sulla riva destra della Sava, dal punto in cui questo fiume esce dalla Carniola, fin dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume, ed il littorale Ungherese, l'Istria Austriaca col distretto di Castua, Picino, Buccari, Buccarizza, Portore, Segua, e le isole dipendenti dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire di limite fra i due stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione coll'Inghilterra. Napoleone sempre intento a torre la riputazione a' suoi amici per tor loro poscia lo stato, fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si obbligava a cedere all'imperatore Alessandro di Russia, che era stato, contro ogni ragione, oziosamente riguardando il processo di questa guerra, nella parte più orientale dell'antica Galizia un territorio, che contenesse quattrocento mila anime, non inclusa però la città di Brodi; il quale capitolo accettò Alessandro, benchè fosse spoglia di un amico, che ne ricevette grandissima molestia. Di questa stipulazione non merita riprensione l'Austria, siccome quella che vi consentì per forza. Dello sforzatore poi e dell'accettatore, chi abbia meritato maggior biasimo, facilmente il giudicheranno i posteri. Questo fine sortirono la presa d'armi, ed il poderoso apparato di guerra dell'Austria, e questa concordia fu obbligata d'accettare. L'Europa viemaggiormente si confermava in servitù di Napoleone.

L'Austria percossa da tanto infortunio quietava per la pace: ma era dolorosa la sua quiete. Oltre la perduta potenza, l'infestava l'insolenza del vincitore, e l'aggravavano le grossissime imposizioni. Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte le sue, aveva dato molte nobili parti del suo dominio, e loro stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai Francesi, dai Sassoni e dai Bavari, più volte batterono, e più volte anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve impenetrabili, ai monti inaccessibili: vincitori, inondavano le valli, e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente dai Napoleoniani; vincitori, trattavano i Napoleoniani umanissimamente; e siccome gente religiosa, vinti, con segni di grandissima divozione pregavano dal cielo miglior fortuna alla patria, vincitori, coi medesimi segni il ringraziavano. E' furono visti, dopo di aver superato con incredibile valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro, che si erano arresi, scorrente ancora il sangue, e presenti i cadaveri dei compatriotti e dei nemici, gettarsi al punto stesso, dato il segno da Hofer, coi ginocchi a terra, ed in tale pietosa attitudine, tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria. Echeggiavano i monti intorno dei divoti ed allegri suoni mandati fuori da religiosi e forti petti. Infine sottentrando continuamente genti fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricoveratisi aspettavano occasione, in cui più potesse la virtù che la forza. Il bavaro dominio si restituiva nel Tirolo Tedesco, cedè l'Italiano in possessione del regno Italico.

Sul finire del presente anno Andrea Hofer si ritirava con tutta la sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente per la patria, tranquillo per se. Ma Napoleone era sitibondo del suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare, gli riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i Napoleoniani soldati, era la notte dei venzette gennaio dell'ottocento dieci. L'aperse Hofer: veduto che era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile: «Son io, disse, Andrea Hofer, sono in poter di Francia: fate di me ciò che v'aggrada; ma vi piaccia risparmiare la mia donna e i miei figliuoli: son eglino innocenti, nè de' fatti miei obbligati». Così dicendo, diessi in potestà dei Napoleoniani. Diedesi con lui un giovinetto di fresca età, figliuolo di un medico di Gratz, venuto, così muovendolo la virtù del Tirolese, a trovarlo, ed a dedicarsegli o a vita o a morte. Condotto a Bolzano, l'accompagnavano la madre, ed un figliuolo di tenera età. Ultimo destino gli soprastava. Fu il figliuolo lasciato stare a Bolzano, la madre mandata a Passeira ad aver cura di tre altri figliuoli ancor bambini, i quali, se ora avevano il padre prigioniero, presto il dovevano aver morto. Pure non se n'accorgevano per la fanciullezza; il che muoveva viemmaggiormente a compassione. Accorrevano i popoli smarriti dovunque i Napoleoniani con Andrea legato passavano, o nel Tirolo Tedesco o nell'Italiano che si fosse, alzando per dolore gli occhi al cielo, e lacrimando, e sclamando, e la memoria del diletto ed infelice loro capitano benedicendo. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto d'Andrea, lui non che intrepido, quieto in quell'estrema fine. Ostò ad Andrea l'età perversa: fu chiamato brigante, fu chiamato assassino. Certo, se le lodi sono stimolo a virtù, lagrimevole e disperabil cosa è il pensare al destino di Hofer.

Acquistata tanta vittoria dell'Austria, e deponendo ogni simulazione, non conobbe più freno Napoleone: l'antica cupidigia di Roma gli veniva in mente. Piacquegli per maggiore scorno dell'Austria, che sul principiar della guerra aveva favellato di liberare e restituire il papa, decretare il dì diciassette maggio in Vienna stessa queste cose: considerato, che quando Carlomagno imperatore dei Francesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi, gliene cedè loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero; considerato ancora, che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale e temporale era stata, ed ancora era, fonte e principio di continue discordie, che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e per questo le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si trovarono confuse colle temporali sempre mutabili, a seconda dei tempi; considerato finalmente, che quanto aveva egli proposto a conciliazione della sicurtà de' suoi soldati, della quiete e della felicità de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto indarno, pretendeva, voleva ed ordinava, che gli stati del papa fossero, e restassero uniti all'impero Francese; che la città di Roma prima sede della cristianità, e tanto piena d'illustri memorie, fosse città imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali; che i segni della Romana grandezza, e che ancora in piè sussistevano, a spesa del suo imperiale tesoro fossero conservati e mantenuti; che il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si amplificassero sino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse, ed a nissuna giurisdizione o visita, ed oltre a questo godessero d'immunità speciali; che finalmente una consulta straordinaria il primo di giugno prendesse possessione a suo nome degli stati del papa, ed operasse, che il governo secondo gli ordini della constituzione vi fosse recato in atto il primo giorno dell'ottocentodieci. Nè mettendo tempo in mezzo, chiamava il giorno stesso del diciassette maggio alla consulta Miollis, creato anche governatore generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo, e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.

A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava:

«Adunque sono adempite le tenebrose trame dei nemici della sedia apostolica? Adunque dopo la violenta ed ingiusta invasione della più bella e più considerabil parte dei nostri dominj, spogliati siamo, sotto indegni pretesti, e con ingiustizia somma, della nostra sovranità temporale, con cui la independenza spirituale nostra è strettamente congiunta! Fra questa persecuzione barbara consolaci e confortaci il pensiero dello essere in sì grave calamità caduti, non per offesa alcuna da noi fatta all'imperatore dei Francesi, od alla Francia, alla Francia stata sempre nostro amore e nostra cura prediletta, nè per alcun intrigo di mondana politica, ma per non aver voluto tradire nè i nostri doveri, nè la nostra coscienza. Se non lece a chiunque la religione cattolica professa di dispiacere a Dio per piacere agli uomini, molto meno conviensi a chi di questa medesima religione è capo, ed insegnatore supremo. Obbligati inoltre verso Dio, obbligati verso la chiesa a trasmettere ai successori nostri intatti ed intieri i nostri diritti, noi protestiamo contro di questa nuova e violenta spogliazione, e nulla dichiariamo, e di niun valore la occupazione testè fatta dei nostri dominj. Ricusiamo, e con ferma ed assoluta risoluzione rifiutiamo ogni rendita o pensione, che l'imperatore dei Francesi pretende fare a noi, ed ai membri del nostro collegio. Taccia d'infame obbrobrio in cospetto della chiesa incontreressimo, se il vitto ed il viver nostro accettassimo dalle mani dell'usurpatore dei nostri beni. Rimettiamocene nella provvidenza, rimettiamocene nella pietà dei fedeli, contenti al terminare per tale guisa nella mediocrità questa vita oggimai piena di tanti dolori, e di tanti affanni. Prosterniamci noi, e con umiltà perfetta i decreti impenetrabili di Dio adoriamo: prosterniamci, ed a favore dei nostri sudditi la sua divina misericordia invochiamo, dei nostri sudditi, nostro amore e nostra gloria, i quali, fattosi da noi quanto nella presente occorrenza dal debito nostro era richiesto, esortiamo ad amar la religione, a conservarsi in fede, a pregare, ed instantemente con pianti e con gemiti scongiurare, tra il vestibolo e l'altare prostrati, il supremo padre della luce, acciocchè si degni cambiare in meglio i consiglj perversi di coloro, da cui sono i nostri persecutori mossi».

Il giorno appresso, in cui mandava fuori dal suo pastorale petto queste lamentazioni, fulminava papa Pio la scomunica contro l'imperator Napoleone, e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato all'occupazione degli stati della chiesa, e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto contro tutti i vescovi, e prelati sì secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti, e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo.

Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte, e murare gli aditi del Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio. Informarono i Napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa, e della fulminata sentenza: pregarono, ordinasse ciò che avessero a farsi. Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni, quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando trovò duri esecutori. Andarono la notte dei cinque luglio sbirri, masnadieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali, e soldati Napoleoniani alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera dov'era più basso, ed entrati aprirono la porta ai Napoleoniani, parte gente d'armi parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i cardini, rompevansi i muri: il notturno romore di stanza in istanza dell'assaltato Quirinale si propagava: le facelle accese, che parte dileguavano, parte vieppiù addensavano l'oscurità della notte, accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso, tremavano i servitori del papa: solo Pio imperterrito si mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed ecco arrivare i Napoleoniani, atterrate o fracassate tutte le porte, alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio al mondo della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il generale di gendarmerìa Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura contro Napoleone con lo scultore Ceracchi, ed ora si era messo, non solamente a servir Napoleone, ma ancora a servirlo nell'atto più condannabile, che da lungo tempo avesse commesso. Radet pensando agli ordini dell'imperatore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due milioni, rivocasse la scomunica; altrimenti sarebbe preso e condotto in Francia. Ricusò, non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior forza, il pontefice la profferta. Poi disse, perdonare a lui, esecutor degli ordini: bene maravigliarsi, che un Diana, suo suddito, s'ardisse di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio; ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il rifiuto trapassava a protestare, dichiarando nullo, e di niun valore essere quanto contro di lui, contro lo stato della chiesa, e contro la Romana sede aveva il governo Francese fatto e faceva; poi disse, essere parato: di lui facessero ciò che volessero: dessergli pure supplizio e morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori del suo palazzo, ed ai soldati Napoleoniani, che non avevano abborrito dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva Radet, desse il nome dei più fidi, cui desiderasse aver compagni al suo viaggio. Diedelo, nissuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal grembo Bartolomeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto condotto, assiepandosegli d'ogn'intorno le armi Napoleoniche, nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato alla volta della Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis sorto a vegliar l'impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile, non so se a caso o a disegno, passeggiando. Certo, in tale accidente il nome di contestabile faceva un suono spaventevole, perciocchè ricordava Clemente settimo. Non era senza sospetto il generale Napoleonico di qualche romore. Per questo aveva scelto la notte, comandato prestezza, chiamato due mila Napolitani sotto colore di mandargli nella superiore Italia.

Stupore, ed orrore occuparono Roma, quando, nato il giorno, vi si sparse la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Tanto temeva il padrone di tutte armi una religiosa opinione. Transmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il cattivo e potente Pio. Quel di Genova, temendo di qualche moto in riviera di Levante, l'imbarcava sur un debole schifo, che veniva da Toscana. Addomandò il pontefice al carceratore, se fosse intento del governo di Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava nell'apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le soldatesche a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità di volo: a Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per partire con maggior celerità, che non era venuto. Lasso dall'età, dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio, adunque starommi questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio: gl'Italiani popoli non avendo potuto per la velocità venerare il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri gli chiamavano per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Semi di distruzione di Napoleone erano questi; già le profezie di Pio si avveravano, già la pienezza dei tempi si avvicinava. Pacca fedele fu mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pietracastello presso a Belley, funesta stanza d'ogni innocente, che non piaceva a Napoleone. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno in Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non vi fosse, fu fatto passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio sesto, atto tanto più incivile, quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro, che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove andasse. I Francesi colla medesima riverente osservanza l'onorarono, con cui l'avevano onorato gl'Italiani; il trattarono i prefetti dei dipartimenti con servimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.

Napoleone vincitore dell'Austria tornava in Francia nella imperial sede di Fontainebleau. I deputati Italiani, tal era stato il concerto e l'ordine, già l'aspettavano per le adulazioni, Moscati, Guicciardi e Testi pel regno Italico; Zondadari cardinale, arcivescovo di Siena, e grand'elemosiniere di Elisa principessa, Alliata, arcivescovo di Pisa, un Chigi, un Lucci, un Mastiani, un Dupuy, un Benvenuti, un Tommaso Corsini per la Toscana, il duca Braschi, il principe Gabrielli, il principe Spada, il duca di Bracciano, il cavaliere Falconieri, il conte Marescotti, il marchese Solombri, il marchese Travaglini per Roma. Moscati orando, ringraziò delle date leggi, Zondadari della data Elisa.

Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli, favellò dei Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere.

«Sussiste ancora, soggiunse Braschi, nipote che era di Pio sesto perseguitato, sussiste quel Campidoglio, sul quale ascesero tanti illustri conquistatori: sussiste, e addita a voi, sire, gloriose vestigia, e seggio degno del vostro nome immortale. Quivi risorge, quivi si rinverde quel serto d'alloro, che Nerva depose nel tempio di Giove. Voi solo potete con l'ombra vostra renderlo sicuro da qualunque insulto nemico, come l'aquila di Trajano dalle offese del Germano, del Parto, dell'Armeno, e del Dace il preservava.»

Braschi a Napoleone signore parlò di Cesare, di Nerva, e di Trajano: avrebbe anche potuto toccare di qualche altro, e non avrebbe spiaciuto a Napoleone, che accusava Tacito di aver calunniato Nerone. Ma come e perchè parlasse di Camillo e di Scipione, io non lo so; perciocchè Napoleone era solito dire, che i tempi di Roma da Tarquinio a Cesare erano episodio, e che i veri e legittimi tempi Romani solo erano gli scorsi sotto i re, e sotto gl'imperatori: così non re dei Romani, ma di Roma chiamò poscia il figliuolo, che ebbe da Maria Luisa Austriaca. A tanto di pazzia era giunto quest'uomo, che dopo di aver distrutto le repubbliche moderne, voleva anche distruggere le antiche. Pure i moderni repubblicani fecero cose di fuoco, e guerre incredibili per lui. Dal canto loro i re, per quel suo odio contro le repubbliche, il fomentarono, e se lo tennero caro credendo, ch'ei fosse venuto loro in concio ad un bel bisogno. Ma gliene cosse loro, e il mondo lo sa, ed eglino i primi per modo che io spesso ne risi, e più spesso ancora ne piansi.

Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro antenati: passerebbe l'Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro: gli imperatori Francesi suoi predecessori avergli scorporati dall'impero, e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia: del resto, aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere, che alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo primogenito della chiesa non voler uscire dal suo grembo: non avere mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità temporale: la Romana sede essere la prima della cristianità, essere il vescovo di Roma capo spirituale della chiesa, lui esserne l'imperatore, volere dar a Dio ciò che è di Dio, a Cesare ciò che è di Cesare.

Ora ho io a descrivere Roma Francese. La Romana consulta, come prima prese il magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo stato, sapendo quanti mali umori, e quante avverse opinioni covassero: parvegli bene spiare sul bel principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia; creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico; direttori particolari Rotoli, il conte Gherardi, Visconti, Delup-Verdun, Pesse, e Timetei, uomini nei quali i Francesi avevano fede. Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti: quanto agli scritti, anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome; perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere, massime quelle che s'indirizzavano a Savona, dov'era il papa. Si usava in questo un rigore eccessivo. I duchi d'Otranto e di Rovigo, e tutti gli agenti loro fino agli ultimi erano in questa bisogna affaccendati, che dentro alle Romane lettere spiassero. Ne lessero delle innocenti, ne lessero delle colpevoli contro la nuova signorìa; ne lessero anche delle ridicole, perchè i belli umori, che ve n'erano in Roma molti, malgrado delle disgrazie, scrivevano a posta lettere indiritte a Savona piene di beffe contro chi le spiava, e contro il maledetto modo di spiarle. Importava che a confermazione della quiete si unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si crearono le guardie, urbana in Roma, provinciali nelle province, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi ordini furono buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che infestavano l'agro Romano, e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a partire il territorio con fare i due dipartimenti, di cui chiamarono l'uno del Tevere, l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due prefetti, un Gacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali: furono le elezioni di gente buona e savia: faceva la consulta presto, ma faceva anche bene, salvo quella peste della polizia, e gli ordini fiscali, entrambi inesorabili: in questo Napoleone non rimetteva mai dalla sua natura. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale creato da Sisto quinto, ed attuato da Clemente ottavo, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, nè senza grande umiltà loro. La consulta l'abolì; sostituivvi le forme Francesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò senato: elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi docile a quanto Napoleone volesse, fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di Roma. Così andavano persuadendosi, che con un maire di fatto alla Francese, ed un senato di nome alla Romana, Roma sarebbe contenta. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e criminali di Francia si omettevano; che anzi per ordinazione della consulta si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose, sì quanto ai dritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della corte d'appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizj e di stato molto intendente. Conosceva Napoleone, predicava la sua ruina inevitabile. Chiamato consigliere di stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e prudente ch'egli era.

Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano: Janet ne aveva cura. Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un milione, ed il dazio sulla mulenda, che si estimava ad una valuta di circa cinquecento mila franchi. Fra il lusso dei primi magistrati, la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Miollis si godeva quindicimila franchi al mese, come governator generale, e diecimila franchi pure al mese, come presidente della consulta. Se poi, oltre a tutto questo, toccasse i suoi stipendi di generale di Francia con tutte le sue giunte, io non lo so. Lemarrois, comandante della divisione, aveva per se quindicimila franchi al mese, e per la sua polizia quattromila, pure al mese. I membri della consulta avevano ciascuno tremila franchi al mese. Ma Salicetti non se ne volle stare al ragguaglio dei colleghi, ed ottenne quattromila ciascun mese. Questi aggravi seguitavano le lunghe disgrazie di Roma. Pure buon uso faceva la consulta di un'altra parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone, e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro alla duchessa di Borbone parmense, ed a Carlo Emanuele re di Sardegna, che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della religione; nobile atto, e da non tralasciarsi nelle storie.

La parte più malagevole del Romano governo era l'ecclesiastica: aveva il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno Italico, proibito i giuramenti: confermò questa proibizione per lo stato Romano nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare la fedeltà, dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di fedeltà, perchè credevano, che importasse il riconoscere l'imperator Napoleone come loro sovrano legittimo; al che giudicavano di non poter consentire, non avendo il papa rinunziato. Nè si poteva pretendere, che uomini privati, dediti solamente agli uffici religiosi, la maggior parte senza letteratura, alcuni anche senza lettere, investigassero tutte le antiche storie per giudicare da loro medesimi, se la donazione o di Carlomagno o di Pipino fosse valida o no, assoluta o restrittiva, e se fossero validi o no i motivi, con cui Napoleone l'impugnava. Solo questo sapevano, che il papa era sovrano di Roma da più di dieci secoli, come tale riconosciuto da tutto il mondo, e da Napoleone stesso. Ancora sapevano che il papa, non che avesse rinunziato, aveva fortemente e nel miglior modo possibile protestato contro la spoliazione.

Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di maggiore ingegno. Andò discorrendo, la legge divina prescrivere la obbedienza ai magistrati statuiti dalle leggi dello stato, non avere questo precetto altra limitazione, se non quella che è sempre e di pieno diritto sottintesa, quella cioè, che non si debbe prestare obbedienza alle cose in se stesse, ed assolutamente illecite: non potere l'autorità ecclesiastica derogare nè in tutto nè in parte ad un precetto divino: conseguitarne adunque evidentemente, che debbesi al sovrano un giuramento puro e semplice d'obbedienza e di fedeltà senza alcuna esplicita restrizione: avere l'antico sovrano di Roma preteso proibire ogni giuramento da quello in fuori, di cui diede egli stesso la formola: non potersi certamente questa proibizione stimare precetto della Chiesa, e che quand'anche fosse, ella non obbligherebbe i sudditi ad esporsi, per osservarla, allo sdegno del sovrano, ed alle pene che il rifiuto del giuramento seguiterebbero, perciocchè le leggi della Chiesa, secondo le regole comuni, non obbligano mai sotto grave incomodo; ma nel fatto una tale proibizione altro non essere, che un mezzo concetto dallo spodestato principe di Roma con mire del tutto umane, cioè per turbare il possesso al nuovo governo, e per ricuperare il dominio temporale: non avere in questo il papa operato come capo della Chiesa, nè come vicario di colui, che disse, non essere il regno suo di questo mondo, e che insegnò co' suoi precetti e col suo esempio, che sempre si debbe obbedire ai magistrati stabiliti: adunque, ed unicamente dalla confusione delle due potestà temporale e spirituale in una sola mano, essere nata la opinione erronea che oggidì importava oltre modo di distruggere, pel buon ordine e per la quiete pubblica; le formole del giuramento prescritte agli abitatori dello stato Romano essere quelle stesse, che erano in vigore in tutto l'imperio Francese e nel regno Italico, e secondo le quali più di quaranta milioni di sudditi cattolici non esitavano punto a prestar giuramento ogni qual volta che l'occasione s'appresentava. La formola particolare prescritta ai vescovi ed ai curati, essere stata accordata nel concordato tra il governo Francese ed il papa Pio settimo: i dubbi sparsi nel popolo, che giurando obbedienza alle constituzioni dell'impero, si venisse ad appruovare il divorzio, e così ancora altre insinuazioni di simil sorta, non avere fondamento: sotto il nome di constituzioni dell'impero venire le leggi politiche, che constituiscono la forma del governo, e queste leggi sempre essere distinte dalle leggi civili: oltre a questo, non essere il divorzio comandato dalla legge civile: solo per esse permettersi a coloro, che credevano poterlo usare secondo i loro principj religiosi: già parecchi vescovi dello stato Romano, già un gran numero di curati, di canonici e di altri religiosi, tacendo dei magistrati civili, avere dato un esempio di sommessione e d'obbedienza, ch'altri doveva seguitare: importare che tale esempio si propagasse e dilatasse; volere il governo, ed in ciò porre grandissima cura, che gli ecclesiastici, i quali già si erano uniformati, o sarebbero per uniformarsi a' suoi ordini, fossero onorati con manifesti segni di soddisfazione e di confidenza.

Sani ed irrefragabili erano i principj del Dalpozzo, quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla al nuovo stato, e di più di giurare di non partecipar mai in nissuna congiura o trama qualunque contro di lui, così un governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, sì perchè volevano fare scoprir i renitenti, per avere un pretesto di allontanargli da Roma, dove gli credeva pericolosi. Vi era, in questo, troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra. Perciocchè gl'intimati potevano intendere la parola fedeltà non oltre il senso dell'obbedienza, e Pio VI medesimo nel novantotto aveva definito, che si potesse giurare fedeltà a quel governo, che era stato creato dagli occupatori del suo stato, e che era incompatibile con la sua sovranità temporale, cioè, alla repubblica. Del resto, noi non intendiamo dannar coloro, che sinceramente credendo di non potere, senza trasgressione, prestar il giuramento, anteposero la coscienza al carcere ed all'esilio, la materia aveva in se molta difficoltà. La Romana consulta procedeva cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Alcuni giurarono, altri ricusarono. Giurarono quei di Perugia, Segni e Anagni: ricusarono quei di Terracina, Sezze, Piperno, Ostia, Velletri, Amelia, Terni, Acquapendente, Nocera, Assisi, Alatri. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma pentitosi e condottosi a fare il pontificale nella chiesa del Carmine il giorno di San Pietro, con molte lagrime fece, dopo il Vangelo, la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro d'intorno le armi dei gendarmi Napoleonici, chi in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo divoto al papa, un Baccolo Veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo, e di natura facetissima. I carceratori non sapevano darsene pace, perciocchè più lo sprofondavano nell'esilio e nella miseria, e più rideva e si burlava di loro, tanto che per istracchezza il lasciarono andare come pazzo. Ma ei tornava in sul dire e in sullo scrivere cose tanto singolari a Genova, a Milano, a Venezia, che era forza ai Napoleoniani di spiare continuamente quello che si facesse. Insomma era questo Baccolo una gran molestia agli spiatori di Napoleone, e diè che fare a tutti dal duca di Rovigo fino all'umile Olivetti, ch'era stato surrogato a Piranesi: solo che udissero nominar Baccolo, tosto si scuotevano e risentivano. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Sperava Janet, che giurerebbero facilmente, avendo grossi benefizj e morbida vita. Molti giurarono; molti ancora non giurarono. Dei due capitoli di San Giovanni e di San Pietro in Roma, tutti ricusarono, salvo Vergani e Doria. Quei di Tivoli e di Viterbo, tre soli eccettuati, giurarono. Giurarono quei di Subiaco, ad instigazione dei Tivolesi; ma si ritrattarono. Ricusarono quei di Canepina, ricusarono quei di Cori: i gendarmi s'affaccendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in se i giuramenti dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita, e d'evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidj spirituali, ma ancora pei temporali. Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che s'indugiasse. Napoleone, che per la sua natura pertinace amava meglio usare ogni estremo, che allentare un punto solo delle sue deliberazioni, mandò loro dicendo, che voleva i giuramenti da tutti, ed obbedissero. Nelle province la maggior parte ricusarono; i gendarmi se gli portarono. Dei Romani, i più si astennero: tre giurarono, quei della Traspontina, di Santa Maria del Carmine fuori di porta Portese, della Madonna della Luce in Trastevere: i renitenti portati via, o se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San Calisto; i consenzienti accarezzati. Nasceva dagli esilj una condizione lagrimevole, che gli ufficj divini per la mancanza dei pastori s'interrompevano. Napoleone, posta la falce nella messe ecclesiastica, a suo modo vi rimediava. Sopprimeva di propria autorità i vescovati e le parrocchie dei vescovi, e dei parochi non giurati, e secondochè gli aggradiva, gli univa ai vescovati e parrocchie dei giurati, turbando in tale modo di per se, la giurisdizione spirituale come voleva, ed a chi voleva.

A questo tempo furono soppressi nello stato Romano i conventi sì di religiosi, che di religiose; i forestieri mandati al loro paese, i paesani sforzati a depor l'abito. Mandaronsi i soldati a far uscire le monache, tempo ventiquattr'ore: le valide d'età e di salute mandate alle case loro, le vecchie ed inferme in quattro conventi. L'aspetto di Roma a questi giorni compassionevole: gendarmi, che si portavano vescovi, canonici, parochi giovani, parochi vecchi, sani o malati, o dal contado a Roma, o da Roma all'esilio. Piangevano gli esuli, piangevano le famiglie degli esuli: i Romani colli risuonavano di querele e di pianti.

Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze, alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò, che con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessari alla specola del collegio Romano; condusse a fine i parafulmini della basilica di San Pietro stati principiati da papa Pio, ebbe speciale cura delle allumiere della Tolfa, e delle miniere di ferro di Monteleone nell'Umbria, nelle quali si era cessato di cavare ai tempi delle ultime guerre civili, quantunque il ferro sia assai più arrendevole e dolce di quello dell'isola d'Elba. Gente perita, denaro a posta addomandava; due allievi Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria, due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze nell'ecclesiastica Roma.

Temevasi che la presenza dei Francesi in Italia, massimamente in Toscana e nello stato Romano, giunta a quella loro lingua tanto snella e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza ed al candore dell'Italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia Napoleone, il quale, non so per quale strana fantasia, aveva unito Toscana e Roma alla Francia, ed introdottovi negli atti pubblici l'uso della lingua Francese, aveva, già fin dall'anno ultimo, decretato premi a chi meglio avesse scritto in lingua Toscana. La consulta di Roma a fine di cooperare con quello che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva, che la lingua Italiana si potesse in un con la Francese usare negli atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì, che l'accademia dagli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura Italiana promuovesse, e la lingua pura ed incorrotta conservasse con premi a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi, l'Arcadia sedesse sul Gianicolo nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura degli uomini, alle Romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca, chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta le dava più copiosi sussidi, l'imperatore più convenienti stanze, e dote di centomila franchi.

Parlando io dei benefizi delle lettere, non voglio passar sotto silenzio l'amorevolezza usata dalla consulta verso il convento di San Basilio di Grottaferrata, unico residuo dell'antico ordine di San Basilio, che primo fra le tenebre del medio evo portò in Europa la cognizione della lingua Greca, e con lei lo studio delle lettere. Nel coro e negli uffizi avevano questi monaci conservato la lingua ed il canto Greco, ma piuttosto per tradizione orale, che per lettera scritta. Ogni vestigio del canto Greco si sarebbe spento, se il convento fosse stato soppresso, ed i monaci dispersi. Supplicato l'imperatore dalla consulta, conservò il convento. Ciò non ostante l'ordine si spense, perchè il secolo a tutt'altro portava, che a farsi frate, ed a cantar greco.

Colla medesima mansuetudine opinò la consulta del convento dei Camaldolesi di Montecorona, Benedettini riformati di san Romualdo. Mi fia dolce raccontar qualche particolarità di Montecorona, poichè in quella tranquilla sede riposerassi alquanto l'animo stanco ed inorridito dalla rappresentazione di tanti tradimenti, espilazioni e morti. Conservava Camaldoli sincera e pura, dopo tanti secoli, la regola di san Romualdo. Tengono i Camaldolesi del cenobita e dell'eremita. Come cenobiti, vivonsi solitari, come romiti, attendono alle opere manuali sì agrarie che domestiche, senza differenza alcuna di padri o di fratelli, di superiori o d'inferiori. Servonsi tra di loro a vicenda, usano la ospitalità, esercitano la carità: la vita loro, anche ai tempi Napoleonici, pacifica e dolce: divoti a Dio, divoti al sovrano, divoti agli uomini, pregavano, obbedivano, soccorrevano. Siede il convento sulla sommità di un monte, ha all'intorno folta foresta, dista da Perugia a quattordici miglia: deserti una volta, campi fioriti adesso per opera delle cenobitiche mani. Naturarono su per quegli aspri monti l'abete; fecerne selva vastissima, magnifici fusti per le più grosse navi. È il convento stimolo a virtù, fonte di proventi, ricovero d'uomini fastiditi del mondano lezzo, ospizio di viaggiatori, largimento di soccorsi: è vita di deserto, testimonio di pietà. Rovinavano i regni, odiavansi gli uomini, infiammavansi gli appetiti, ammazzavansi le generazioni: Montecorona quieto, dolce, umano e benefico perseverava; e se la caduta del papa pose in forse la conservazione di lui, molto è da deplorarsi che l'ambizione dei tempi sia arrivata a turbare quelle sante solitudini. Bene meritò degli uomini infelici e pii la Romana consulta, a ciò movendola Janet, coll'avere addomandato la conservazione di quel pietoso secesso.

Emmi caro lo spaziare alquanto sull'ordine della propaganda. Napoleone imperatore, al quale piacevano le cose che potevano muovere il mondo, volle, mettendola in sua mano, conservare la propaganda: Degerando, siccome quegli che si dilettava di erudizione letteraria e di gentilezza di costumi, con l'autorità sua la favoreggiava. Dalla narrazione delle cose appartenenti a quest'ordine chiaramente si verrà a conoscere, ch'ei non meritava nè le lodi dei fanatici, nè gli scherni dei filosofi. Ancora vedrassi quanta sia la grandezza degli Italiani concetti. Era principal fine di questo instituto la propagazione della fede cattolica in tutte le parti del mondo; ma l'opera sua non era talmente ristretta a questa parte, che non mirasse a diffondere le lettere, le scienze, e la civiltà fra genti ignare, barbare e selvagge; che anzi una cosa ajutava l'altra, poichè la fede serviva d'introduzione alla civiltà, e questa a quella. Poteva anche mirabilmente ajutare la diplomazia e la politica: ciò massimamente aveva piaciuto a Napoleone; perciocchè un capo solo reggeva, e muoveva infiniti subalterni posti in tutte le parti del mondo. Il trovato parve bello a Napoleone, nè era uomo da non volersene prevalere, e siccome aveva usato la religione per acquistare la signoria di Francia, così voleva servirsi della propaganda per acquistar quella del mondo. Seppeselo Degerando, il quale scriveva, che per quanto alla politica s'apparteneva, la propaganda, recando in quelle lontane regioni coi semi del nostro culto i nostri costumi, le nostre opinioni, le radici delle idee d'Europa, la narrazione del regno il più glorioso, qualche cognizione delle nostre leggi e delle nostre instituzioni, preparando gli spiriti a certi avvenimenti, che solo s'apparteneva alla vastità dell'imperial mente a concepire, procacciando amici tanto più fidati, quanto più stretti da vincoli morali, e così ancora offerendo tanti, e così variati mezzi di corrispondenza in contrade, in cui il governo manteneva nissun agente, procurandoci notizie esatte sulla natura dei paesi, nei quali i missionarj soli potevano penetrare, aprendo finalmente una via, e quasi un condotto a farvi scorrer dentro coi lumi civili le influenze di un sistema la cui grandezza doveva abbracciare tutto il mondo, era un edifizio piuttosto di unica che di somma importanza. Queste cose erano di per se stesse molto chiare, e se alcuni filosofi, massimamente Francesi, tanto hanno lacerato Roma per avere, come dicevano, fatto servire la religione alla politica, si vede ch'essi non furono alieni dall'imitarla; poichè, divenuta Francia padrona di Roma, indirizzarono i loro pensieri al medesimo fine. Certo è bene, che Napoleone di nissuna cosa più si compiacque, che di questa propaganda: ora per dire qual fosse, ella fu creata dal papa Gregorio decimoquinto; e da lui commessa al governo di una congregazione di quattro cardinali, e di un segretario. Suo ufficio era mandar missionarj in tutte le parti del mondo. Gregorio la dotò di rendite del proprio, e d'assegnamenti considerabili sulla camera apostolica; le conferì immunità e privilegi; volle che ciascun cardinale nella sua esaltazione le pagasse un censo. Ma Urbano ottavo, considerato, che se era utile il mandare missionarj Europei a propagar la fede, maggiormente utile sarebbe il mandarvi uomini del paese convertiti ed ammaestrati nelle pratiche Romane, aggiunse il collegio della propaganda, in cui a spese pubbliche erano ricoverati ed ammaestrati giovani forestieri, massime di origine orientale, acciocchè fatti grandi e addottrinati, ritornassero nei propri paesi a secondare i missionarj apostolici.

Sommava il numero degli allievi per l'ordinario a settanta; i Cinesi, essendo loro riuscito contrario l'aere di Roma, furono trasportati in un seminario e collegio fondati per questo fine a Napoli. Innocenzo duodecimo, ed altri pontefici furono liberali verso la propaganda di nuovi benificj: uomini privati altresì con donazioni, e legati l'arricchirono. Le diede monsignor Vires il bellissimo palazzo in Roma: il cardinale Borgia, morto a Lione nell'ottocent'uno, le lasciò una parte de' suoi beni. Quattro erano gli ordini della propaganda, destinati alla propagazione della parola del Vangelo: occupavano il primo i vicarj apostolici, o arcivescovi, o vescovi, o prefetti delle missioni, il cui carico era lo scrivere le lettere, e la direzione delle fatiche apostoliche. Subordinati ai vicarj collocavansi nei secondi i semplici missionarj. Venivano in terzo luogo i collegi, le scuole, i monasteri. Cadevano nel quarto i semplici agenti amministrativi ed economici. La propaganda diede principio alla sua opera col fondare arcivescovi e vescovi nelle antiche chiese, due patriarchi, l'uno pe' Caldei, l'altro pei Siriaci, vescovi e vicarj apostolici nelle isole dell'Arcipelago, nell'Albanìa, nella Servia, nella Bosnia, nella Macedonia, nella Bulgaria, nella Mesopotamia, nell'Egitto, a Smirne, ad Antiochia, ad Anticira. Mandava due vescovi, vicarj apostolici, a Constantinopoli, uno pel rito Latino, l'altro per l'Armeno. Un gran numero ne destinava in Persia, nel Mogol, nel Malabar, nell'India oltre e qua del Gange, nei regni di Siam, di Java, di Pegù, in Cochinchina, nel Tonchino, nelle diverse province della China. Nè ometteva, parendole che fosse messe d'importanza, gli stati uniti d'America. Vicarj apostolici, e vescovi mandati dalla propaganda, seminavano le dottrine del Vangelo in quelle regioni d'Europa, che dalla chiesa Romana dissentivano. Questi tentativi e questi sforzi della comunanza cattolica, stimolavano le dissidenti a pruovarsi ancor esse a propagare la religione e la civiltà fra le nazioni ancor barbare e selvagge. Mandarono pertanto, gl'Inglesi massimamente, agenti loro nell'Indie Orientali, e nelle isole del mare Pacifico, dalla quale pietosa opera molte nazioni furono dirozzate, e ridotte alla condizione civile. E se i papi mescolarono la politica, come fu scritto, in questi conati religiosi, resterà a vedere, se la Russia e l'Inghilterra siano esenti da questa pecca. Per ajutare i vescovi ed i vicarj apostolici, s'erano instituiti a luogo a luogo, e più numerosi là dove i Cattolici vivevano in più gran numero, i prefetti ed i parrochi: questi avevano sede fissa e gregge permanente: i missionarj, che erano il secondo grado, comprendevano nel mandato loro vaste province, conducendosi ora in questo luogo ed ora in quello, ma sempre nella provincia destinato a ciascun di loro, secondochè i bisogni della fede da loro richiedevano. La elezione dei missionarj si faceva ordinariamente fra i sacerdoti del clero secolare. Era a loro raccomandato, e specialmente comandato dalla propaganda, che a niun modo nè sotto pretesto qualsivoglia si mescolassero o s'intromettessero negli affari temporali, meno ancora nei politici dei paesi, cui erano destinati ad indagare e ad ammaestrare. Solamente era solita la propaganda ad insegnarvi le scienze profane e le arti utili, affinchè con esse potesse volgere a se gli animi, e cattivarsi l'attenzione, e la benevolenza degli uomini ignari di quelle incolte regioni. Dipendevano i missionarj del tutto da lei, ed ella gli spesava con le sue rendite. Aveva creato sei scuole, o collegi in Egitto, quattro nell'Illirio, due in Albania, due in Transilvania, uno a Constantinopoli, parecchi in diverse contrade non cattoliche d'Europa. Erano questi collegi mantenuti col denaro della congregazione: mille scudi all'anno pagava ai vescovi d'Irlanda per le scuole cattoliche di quel regno; i collegi Irlandese, Scozzese, Greco, e Maronita di Roma da lei medesimamente dipendevano. Finalmente ciascun ordine di religiosi aveva un collegio separato pe' suoi missionarj, così questi stessi missionarj avevano dipendenza dalla propaganda, in quanto spettava alla bisogna delle missioni. Gli allievi dei collegi, ciascuno secondo il suo merito, erano creati sul finire degli studi o vescovo, o prefetto, o curato, o semplice missionario. Gli agenti o procuratori a niuna bisogna religiosa attendevano, ma solamente, essendo distribuiti nei luoghi più opportuni, al mandar le lettere e i fondi necessari per tener viva dappertutto macchina sì vasta.

Quanto alla congregazione in Roma, aveva cinque parti, la segreterìa, dove si scrivevano le lettere, ed a questa parte appartenevano anche gl'interpreti; gli archivi, che comprendevano la librerìa ed il museo, entrambi pieni di cose curiosissime; la stamperìa tanto celebre per la varietà e la bellezza de' suoi caratteri; il collegio degli allievi; la computisterìa: in quest'ultima si tenevano i conti, e le ragioni della congregazione. Le rendite sommavano a trentatremila trecento novantasei scudi romani all'anno, che sono centosettantottomila seicentosessanta franchi. I fonti erano i luoghi de' monti, i livelli pagati da Napoli, da Venezia, e dai corpi religiosi, e finalmente i censi dei cardinali novellamente creati. Ma la ruina universale aveva addotto la ruina di quest'instituzione, con avere o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione delle sussistenti: s'aggiunse la rovina del palazzo devastato nel mille ottocento. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto, quando Napoleone s'impadronì di Roma; poi, i frutti dei monti non si pagavano, la computisterìa per comandamento imperiale sotto sigilli, gli archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato per senatus-consulto, volere la sua conservazione, e doterebbela coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere quel zelo a propagazione degl'interessi politici, che per amore della religione, per le esortazioni dei papi, e per la lunga consuetudine era sorto nei membri della congregazione a tempi pontificii. Così sotto Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione, nè per la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico edifizio, e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto. Portati via gli archivi per arricchirne Parigi, si voleva privar Roma anche dei tipi delle lingue orientali, che si trovavano raccolti nella sua stamperìa: eranvi i tipi di ventitrè lingue d'Oriente. Domandava la stamperìa imperiale di Parigi, che le si mandassero le madri per supplire con loro ai punzoni alterati. Grave perdita sarebbe stata questa per Roma, dove l'erudizione, e la letteratura orientale erano, come in sede propria, coltivate. Pregò Degerando, che o si gittassero con le madri i punzoni a Roma, o si mandassero a Parigi, non tutte ma solamente quelle dei punzoni alterati. Fu udito benignamente; a lui restò la città obbligata della conservazione di opere di gran valore per la erudizione e per le lettere.

Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura, che serviva di norma alle altre, era attinente a San Pietro, e si sostentava colle rendite della sua fabbrica: per la necessità dei tempi, mancando la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse, pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario imperiale, ma perchè Napoleone, che non amava lo spendere a credenza, non si tirasse indietro, fu d'uopo alla consulta l'inorpellare la cosa con dire, che il musaico pagato dall'imperatore non servirebbe più solamente ad abbellire San Pietro, ma che protetto dal più grande dei monarchi, adornerebbe il palazzo del principe, ed i monumenti dell'imperiale Parigi. «Che bel pensiero sarebbe, diceva la consulta, l'immortalare con opere di musaico il quadro dell'incoronazione dipinto da David, e gli altri tre, che dalle maestrevoli mani di questo grande artista erano per uscire?» A questi suoni Napoleone si calava, e pagava. Restava che, poichè si era provveduto all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavorerìa loro addossata al colle del Vaticano, ed in parte sotterranea, e perciò molto malsana, troppo spesso infermavano, e sovente il vedere perdevano. Oltre a ciò gli armadi e gli scaffali, in cui si conservavano gli smalti, infracidavano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi, dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camuccini. Decretò la consulta, trasportassersi gli opificii nelle stanze del Sant'Officio.

Concedutosi dall'imperatore un premio di ducentomila franchi ai manifattori di Roma, volle la consulta, che fossero spartiti a chi meglio filasse o tessesse la seta o la lana, a chi meglio conducesse le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquarzente, a chi meglio lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi più, e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più ulivi, a chi ponesse più semenzai di piante utili. Si venne anche sul capriccio dello zucchero dell'uve, e della saggina di Caffrerìa. Ma papa Pio, che conosceva Roma ed i Romani suoi, si stringeva nelle spalle, quando udiva queste novelle, e dal suo carcere di Savona sclamava, che bene e con frutto si sarebbero favoreggiate in Roma le manifatture attinenti alla erudizione ed alle belle arti, ma che sarebbe tempo ed opera perduta il dar favore alle altre: perciocchè la natura degli uomini, le consuetudini, le opinioni, il cielo stesso ripugnavano.

I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i preziosi capi d'arte, che adornavano i conventi, ed erano molti e belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione loro dalla consulta una congregazione d'uomini intendenti, e giusti estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond, l'abbate Fea, e Tofanelli, conservatore del Campidoglio.

Conservando Roma odierna, si poneva mente a scoprire l'antica: almeno così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca il poteva fare. Si ordinarono le spese del cavare nei luoghi più promettenti. Sarebbesi anche, come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero guastato l'intenzione.

Discorreva Napoleone di voler visitar Roma sua. Se di fatto non voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore. Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna; il Quirinale per la città: il Quirinale grande e magnifico per se, sano per sito, e con bell'apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperial costume si accomodava. Nè la bellezza, o la salubrità si pretermettevano. Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate, specialmente alla porta del Popolo da riuscire a Trinità del Monte, di trasportar i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le Pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Francese, Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome, e di scienza pari al nome, le visitavano, e fra di loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione dei tempi contrari; e se le Pontine non peggiorarono sotto il dominio Francese, certo non migliorarono.

Così vivevasi a Roma, con un sovrano prigioniero a Savona, con un sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze avvenire, diventata, stravagante caso, provincia di Francia, non poteva nè conservare le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie parti lagrimava, e si doleva, nè poteva la consulta, quantunque vi si affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla.

Nuovi, strani e lamentevoli casi mi chiamano nel Regno. Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva comandare da se, il dominio degl'Inglesi, nè sperando di riconquistare il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di quello che le restava. Napoleone, che conosceva bene gli umori degli uomini, e quelli delle donne ancora, aveva penetrato quel di Carolina, e per mezzo di sue pratiche le persuase, ch'era pronto a secondare le sue intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il fine del quale era, che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati di Napoleone, e promettesse che gli occupassero, sì veramente che l'imperatore ajutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar la Sicilia sperando che la durezza del governo Caroliniano, procurandogli aderenze negli scontenti, gli aprirebbe l'occasione di far frutto con le spalle loro. Già le truppe Francesi si erano condotte nella Calabria ulteriore; al che aveva consentito Napoleone per dar gelosìa agl'Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse si erano accostati i Napolitani, la costa di Calabria da Scilla a Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi d'Inghilterra, che per vietar loro il passo le avevano assaltate nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano, e sulle spiaggie di Bagnara. S'ingiungeva a tutti i comuni posti sul littorale del Mediterraneo, che somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat, che a Scilla voleva imitar Napoleone a Bologna di mare, spesso imbarcava, e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle. Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe: i più confidavano nella fortuna di Napoleone, affermando, che finalmente poi lo stretto di Messina, non era più difficile a passarsi, che il Reno od il Danubio. Ma siccome il nervo principale della spedizione consisteva nei Francesi, così aveva Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero coi suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo negoziava colla regina, nelle sue solite ambagi ravviluppandosi, rispose nè appruovando nè disdicendo, contento al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nissun ordine mandò a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Giovacchino acceso per se stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar la fazione da se, e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani, fra i quali era il reggimento di Reale-Corso, partivano di nottetempo dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e s'avviavano alla volta di Sicilia, con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo stesso Murat, standosene sulla reale gondola riccamente addobbata, dava opera ad imbarcare le genti Francesi, come se anch'elleno dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed elle meglio di lui, che non s'attenterebbero. Ma avevano consentito ad ajutar l'impresa con un po' di romore, e con quelle vane dimostrazioni. Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale Cavagniac; ma non così tosto posero piede sulle terre Siciliane, che invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie, accorsero coll'armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto, fu preso; alcuni dei presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore dalle stanze di Messina; ma arrivarono quando già la vittoria era compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la speranza conceputa, ritirava Giovacchino i soldati verso Napoli, e con pubblico scritto annunziava, essere terminata la spedizione di Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'ulteriore Calabria miserabili vestigia del furore dei Napoleoniani. Tra il guasto fatto per accampare, e quello dei soldati scorrazzanti per le campagne, ne furono guastate vaste tenute d'ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di quà desolato.

Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar segreti, che non venissero a cognizione degl'Inglesi, ne intrapresero anche le lettere certissime. Ciò fu cagione, che Carolina a loro, e principalmente a lord Bentinck mandato in Sicilia a confermarvi il dominio della Gran Bretagna, tanto venisse in odio, che per allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo l'obbligarono anche a partire dalla Sicilia, accidente molto singolare e strano, che sarà da noi raccontato a suo luogo.

Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria di nuovo uscendo dai loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun campo riposto erano più sicuri. Divisi in bande e sottomessi a capi, si erano spartite le province. Carmine Antonio, e Mescio infestavano coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nierello, Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali di Cosenza; Boia, Giacinto Antonio, ed il Tiriolo la Serra stretta, ed i borghi di Catanzaro; Paonese, Massotta, e il Bizzarro le rive dei due mari, e la estremità dell'ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzarro specialmente, e lungo tempo, la selva di Golano, e le strade da Seminara a Scilla. Questi erano gli effetti dell'antiche consuetudini, e delle guerre civili presenti. Si temeva, che alla prima occasione i capi politici contrarj al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre nemici dei Francesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano, non le ruberìe e gli assassinj, che anzi cercavano di frenargli, ma l'incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro quella nazione, che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte necessario a Murat l'estirpar del tutto quella peste dei facinorosi di Calabria, e lo spegnere, se possibil fosse, la setta tanto importuna dei carbonari. Varj per questo fine erano stati i tentativi ai tempi di Giuseppe, varj altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi, non tanto per la forza della parte contraria, e per la difficoltà dei luoghi, quanto pei consigli spartiti, e la mollezza delle risoluzioni. A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi ed un'autorità piena per punirgli. Un Manhes generale, ajutante di campo di Murat, che già aveva con singolar energìa pacificato gli Abruzzi, parve al re uomo capace di condur a buon fine l'opera più difficile delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse. Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito, ma di natura rigida ed inflessibile, nè stromento più conveniente di lui poteva scegliere Giovacchino per conseguir il fine che si proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ci fosse, non si curava: ciò si pose in pensiero di fare, e fecelo, ferocia a ferocia, crudeltà a crudeltà, insidia ad insidia opponendo; e se questi rimedj sono necessari, che veramente erano in Calabria, per ridurre gli uomini a sanità, io veramente dell'umana generazione mi dispero. Primieramente considerò Manhes, che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perchè i facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in cui si procedeva più rimessamente: così cacciati e tornanti a vicenda da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente andò pensando, che i proprietarj, anche i più ricchi, ed i baroni stessi che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e morti, quest'uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato per ispegnergli. S'aggiungeva che la gente sparsa per le campagne, per non essere manomessa da loro, dava loro, non che ricovero, vettovaglie; e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare era impossibile il sopraggiungergli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche mezzo straordinario, giacchè gli ordinari erano stati indarno, si assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò ne cavava quest'altro frutto, che i giudizj sarebbero stati severi, operando contro i delinquenti l'antica paura, ed i danni sopportati. Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta peste, e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al suo fine quattro mezzi mise in opera: notizia esatta del numero dei facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni, armamento dei buoni, giudizj inflessibili. Chi si diletta di considerare le faccende di stato, ed i mezzi che riescono e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo prudente e rigido Francese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età. Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare bestiami e contadini ai borghi più grossi, che erano guardati da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori d'agricoltura, dichiarò caso di morte a chiunque, che ai corpi armati da lui non essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori a correrla i corpi dei proprietarj armati da lui comune per comune, intimando loro, fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi, che truppe urbane che andavano a caccia di briganti, e briganti che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato, rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano, e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre, che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata una fanciulla, alla quale furon trovate lettere indiritte a uomini sospetti. Nè il sangue dei carbonari si risparmiava. Capobianco loro capo, tratto per insidia, e sotto colore d'amicizia nella forza, fu ucciso. Un curato ed un suo nipote entrati nella setta, furono dati a morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, il zio il secondo. Rifugge l'animo a me, che già tante orrende cose raccontai, dal raccontare i modi barbari che contro di loro si usarono. I carbonari spaventati dalle uccisioni, perchè molti di loro perirono nella persecuzione, si ritirarono alle più aspre montagne.

I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e privo di vettovaglie, perivano, o nei combattimenti, che contro gli urbani ferocemente sostenevano, morivano, o preferendo una morte pronta alle lunghe angosce o da sè medesimi si uccidevano, o si davano volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi, condotti innanzi a tribunali straordinari composti d'intendenti delle provincie, e di procuratori regj, erano partiti in varie classi; quindi mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes. Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà. Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi gli favoriva, o poveri, o ricchi, o quali fossero, o con qual nome si chiamassero; perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure, per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a pene giuste fatti iniqui. Succedevano vendette che mi raccapriccio a raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico di Carlopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Non è però da tacersi, ch'ei fu condannato dalla corte di Cosenza sopra l'accusa datagli dal procuratore del re d'aver avuto segrete intelligenze coi briganti. Parafanti, donna, per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome, arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo supplizio, perì. Posti in fila nel destinato giorno, l'infelice donna la prima, i parenti dietro, preti e boja alla coda, marciavano, in una processione distendendosi, ch'io non so con qual nome chiamare. Eransi poste in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di San Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo s'accostarono al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizi coloro, che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani spinti da rabbia e da desiderio di vendetta infierivano contro i malfattori: insultavano con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani dei carnefici togliendogli per uccidergli. Furono i Calabri facinorosi sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizi, morì per fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati casali, od anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor minacce, ferocia e furore: la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari angusta e malsana, videne perire nell'insopportabile tanfo gran moltitudine.

La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi; i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi si brancolavano per isfinimento e per angoscia sui morti, i sani sui moribondi, e se stessi, come cani, con le unghie e coi denti laceravano. Infame puzza di putrefatti cadaveri diventò la Castrovillarese torre: sparsesi la puzza intorno, e durò lunga stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di luogo in luogo, rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggio a Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi: biancheggiarono, e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa. Così un terror maggiore sopravvanzò un terror grande. Diventò la Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che ai viandanti: si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori all'agricoltura; vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie, Manhes la fece: il suo nome saravvi e maladetto e benedetto per sempre.

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