LIBRO VIGESIMOQUINTO

SOMMARIO

Papa Pio prigione in Savona, e come trattato. Sue discussioni con Napoleone circa l'esecuzione del concordato, e l'instituzione dei vescovi. Ragioni addotte dalle due parti contro, ed in favore della facoltà dei pontefici Romani del delegare l'autorità spirituale ai vescovi. Prelati Francesi mandati a trattar col papa a Savona. Il papa non si mostra alieno dal dar l'instituzione fra sei mesi ai vescovi nominati, o di consentire, che fosse data in nome suo dai metropolitani, solo astenendosi da questa concessione pei vescovi suburbani. Concilio di Parigi. Breve del 20 settembre. Il papa ricusa costantemente di rinunziare alla sovranità temporale. Minacce che gli si fanno. Come e quando condotto da Savona a Fontainebleau.

Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza; sì soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo coll'imperio degli ecclesiastici in freno la parte contraria, alla quale non piaceva quella sua immoderata cupidigia di dominare. Nè trovò in questo la materia renitente: gli ecclesiastici non solamente accorrevano chiamati, ma ancora si offerivano non chiamati, molti per amore della religione, e molti ancora per ambizione, e speranza dei premj. Restava che la religione Romana stessa domasse con depressione dell'autorità pontificia: aveva in ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la Romana città, e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione certamente indegna di tanti benefizj. S'accomodavano gli accidenti a' suoi pensieri: perchè, allettati con le ricchezze, e colla potenza i prelati più ragguardevoli, si accorgeva facilmente, che, se per lo innanzi gli era venuto fatto di voltare il papa contro Porto Reale e contro Voltaire, poteva presentemente voltare i prelati contro il papa. Più oltre anzi mirava; e già si motivava, che a lato dell'altar maggiore delle chiese Anconitane la sua immagine si dovesse esporre alla divozione dei fedeli. Da un papa prigione ad un papa spento, da un papa spento ad un autocratore in tanta forza e grandezza pareva facile il passo. Liberato per le vittorie del Danubio da ogni timore, si accingeva all'insolito e pericoloso tentativo. I Russi ed i Britannici modi gli venivano in mente, e gli pareva gran fatto, che quello che Alessandro e Giorgio erano, egli non fosse. Ma non considerava che la opinione cattolica è inflessibile ed indomabile, e che ancor più impossibile è il cambiarla, che lo spegnerla: gli ordini papali poi alla natura sua stessa, e per così dire, alle viscere sue più vitali sono inerenti secondo la credenza della maggior parte dei fedeli.

Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì quindici agosto dell'ottocentonove, se per caso o pensatamente, perciocchè quello era giorno festivo di Napoleone, il lettore giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di un Sansoni, sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano, non senza contentezza, che o fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa, e minore fanatismo, così il chiamavano, mostrava verso il sovrano pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non alterava punto la obbedienza verso il governo. Parlossi lungamente nei consigli imperiali, se si dovesse permettere che il papa comparisse in cospetto del pubblico, sì coll'uffiziare pontificalmente in chiesa, e sì col dare le benedizioni. Si temeva lo sdegno aperto degli uomini, se vedessero il papa prigioniero, le ire secrete ancor più pericolose, se nol vedessero. Prevalse l'opinione che il papa si mostrasse: ma i soldati erano numerosi nelle Savonesi terre, le spie ancor più numerose, il castello pronto a ritorlo alle genti. Insino a che Napoleone comandasse, erano vietate le udienze al papa, ed a nissuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti le guardie. Poco dopo il principe Borghese, governatore del Piemonte e del Genovesato, avutone comandamento da Parigi, ordinava, che il palazzo dove abitava il papa, trasferito nelle stanze nuove del prefetto, si circondasse di guardie, avesse un solo luogo per uscire, non si permettesse a nissuno di entrare; il papa non desse nissuna udienza; su quanto facesse nelle interiori stanze diligentemente si vigilasse e sopravvigilasse; fra i suoi servitori e segretarj segretamente s'inframmettessero uomini dediti a Sua Maestà. Ordinava oltre a ciò Napoleone per mezzo di un Vincent, soprantendente sull'Italica polizia a Parigi, che si guardasse bene agli atti di chi venisse a visitar il papa, e di più, che ogni lettera che gli fosse indiritta, si copiasse e mandasse al ministro della polizia generale, e che medesimamente tutte quelle che da Sua Santità, o da chi appresso a lei serviva, fossero scritte, si copiassero e mandassero al ministro medesimo.

Del resto Borghese principe, e Vincent soprantendente volevano e comandavano, che il papa fosse intieramente libero della persona, il che, se pure qualche cosa significa, a chi considera gli ordini precedenti, vuol dire ch'ei non fosse legato con corde. A questo si voleva, perchè si temeva di qualche concistoro segreto, che nissun cardinale in Savona, salvo lo Spina, potesse dimorare: fosse vietato allo Spina stesso di parlare al pontefice, se non presenti le guardie, anzi desiderando mandargli certe delicature di cibi, non gli era permesso, se non con licenza del governo. Un umile uomo, che Ostengo aveva nome, ed era ai servigi del pontefice, per avere scritto un viglietto con lettere di piombo di vetro, fu cacciato nelle segrete, nè gli furono concessi i giudici. Esitava il papa a nominar le persone che dovessero attendere a' suoi servigi, essendo stimolato a farlo da chi aveva mezzo di frenare così gl'infedeli, come i fedeli. Temeva che l'amor suo fosse ad altri cagione di disgrazie, nè in ciò s'ingannò. Pure nominò il prelato Doria-Pamfili, maestro di camera, Soglia cappellano, Porta medico, Ceccarini chirurgo, Moiraghi e Morelli ajutanti di camera, un Campa giovane di florerìa, ed alcuni altri di minor condizione. Se ne viveva il pontefice nel suo Savonese carcere con molta semplicità, nè mai si mostrava sdegnarsi, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi. Vedeva volentieri il conte Chabrol, prefetto di Montenotte, perchè il conte usava con lui molto umanamente, temperando con dolci modi l'acerbità degl'imperiali comandamenti; della quale dolcezza ed umanità ne ebbe anche le male parole da Parigi. Offertogli, se gli piacesse passeggiare a diporto per la campagna, s'intendeva con le guardie, rispondeva, non poter divertirsi quando la chiesa piangeva. Mandava Napoleone imperatore il conte Sarmatoris di Cherasco a metter grandi mense, a fare addobbi, a mostrar magnificenze, a condur servidori in livrea attorno al papa, e pel papa. Con qual nome chiamare questo imperiale scherno contro il pontefice prigioniero, io non so. Nè so nemmeno perchè Sarmatoris conte, che buon uomo era, accettasse un carico tanto derisorio. Si appresentava lusingando, e con le imperiali profferte. Toccò, sperare, poichè Sua Beatudine aveva aggradito i suoi servigi a Parigi, sarebbe per aggradirgli anche in Savona. Rispose pacatamente, esser cambiati i tempi: allora come a principe e sovrano essersi convenuto l'apparato esteriore, ora come a prigioniero disdirsi: fuori del suo seggio, in paese straniero, stretto da guardie armate, privo de' suoi servitori e consiglieri più intimi e più fidi; prigioniero essere, prigioniero tenersi, da prigioniero voler essere trattato: sciogliessero prima le catene che le pontificie membra strignevano, nella sua pontifical sede il rimettessero, i suoi cardinali gli rendessero, ed accetterebbe i sovrani onori: del resto provvederebbero i fedeli, provvederebbe Iddio, che mai non abbandona i servi suoi devoti. Le medesime cose asseriva, ma con maggiore forza, come a soldato, a Cesare Berthier, generale mandato a Savona da Napoleone per ajutar le spie coll'armi.

Giovami spaziare alquanto sui sentimenti del papa carcerato. Fulminava Ugo Maret da Parigi, tentava di spaventarlo. Si facesse, comandava, bene capire al papa ed a' suoi famigliari, che dopo la scomunica, il cui fine evidente era di eccitar i popoli alla ribellione, e di far ammazzare con le coltella sua maestà l'imperatore, aveva il governo pontificio fatto l'estremo di sua possa, e consumate tutte le sue armi; se gli facesse osservare, quanto pregno fosse quel capitolo della pace, col quale l'imperatore d'Austria si era obbligato a riconoscere tutte le mutazioni fatte, o da farsi in Italia, se gli facesse riflettere, che ugualmente dai trattati d'Amiens e di Tilsit si deduceva, che l'imperatore Napoleone poteva fare quanto gli piacesse e paresse, per impedire che il papa s'intrommettesse negli interessi terreni, e nell'amministrazione interna de' suoi stati: spesso facessero salire alle sue orecchie questo suono, che le cose temporali non hanno comunanza alcuna colle spirituali, che i sovrani da Dio acquistano la potenza loro, non dai papi, che la chiesa gallicana aveva accettato come dottrina invariabile, le dichiarazioni dell'assemblea del clero del 1682, e che finalmente una scomunica era contraria a tutti i principj della chiesa gallicana: se gli ricordasse, che Pio sesto, ancorachè al suo pontificale seggio fosse stato tolto, ed i suoi stati invasi, ancorachè a' tempi di lui la religione fosse sbandita di Francia, ed il sangue dei vescovi scannati bruttasse gli altari, non era venuto a quell'estremo passo di usare un'arma, che la religione, la carità, la politica e la ragione del pari condannavano. Così Ugo Maret predicava in nome di Napoleone imperatore la religione e la carità a papa Pio. Ma il prigioniero in contesa tanto disuguale, in cui gli avversari ajutavano le ragioni loro con tutto l'apparato delle Europee armi, non se ne stava tacendo, ed opponeva costanza a forza. Dello aver voluto eccitare i popoli alla ribellione, asseverantemente negava, poichè in tale forma aveva scritto l'atto della scomunica, che la sommessione e l'obbedienza alle potestà temporali, la salute delle persone, e la conservazione delle sostanze ne fossero specialmente raccomandate; che non era stato badando se fulminando la scomunica consumasse tutte le armi sue, e tutta la potenza, che solo aveva inteso a far il debito suo, e che del resto per la salute della chiesa si rimetteva nella provvidenza di Dio; che finalmente la politica ecclesiastica non era punto come quella dei governi; che là si trattava sempre secondo la verità e la giustizia, qua secondo le passioni umane. Aggiungeva che se presto non si acconciassero le faccende e l'imperatore colla santa sede non convenisse, vedrebbe il mondo quanto papa Pio fosse capace di fare, nè più oltre spiegava i suoi pensieri, le quali ultime parole tenevano in sentore continuo i palazzi delle Tuillerie e di San Clodoaldo. Raccomandavasi di nuovo alle spie si affaccendassero.

Nè a queste protestazioni si ristava il papa, nè all'accordo dei potentati d'Europa. Si mostrava persuaso, che non più si trattava di separar le cose temporali dalle spirituali, ma bensì di ruinare le une per mezzo delle altre; che i potentati se ne pentirebbono, che già i tentativi erano stati pregiudiziali a quelli che gli avevano fatti, massimamente all'Austria; che del resto, ed intanto in occorrenza di tal forma, come capo e rettor supremo di quanto allo spirito ed alla religione s'apparteneva, non doveva e non voleva starsene ozioso; che anzi un suo debito e volontà era di usare contro i perniziosi disegni tutta la sua pontificale potenza, riposandosi colla speranza in Dio, che supplirebbe a quanto la debolezza sua non poteva effettuare. Affermava poscia, che i sovrani sono eletti dai popoli, e che dopo la loro elezione tengono la loro potenza da Dio; che male si era interpretato l'uso, che una volta avevano i vescovi ed i papi, di mettere nelle cerimonie delle sagre la corona in capo ai sovrani; conciossiachè quest'atto null'altro volesse significare, se non se che, stantechè la potenza, dopo la elezione fatta dagli uomini, veniva da Dio medesimo, egli stesso era quello, che per mano de' suoi ministri incoronava i sovrani. Quest'erano le dottrine della scuola Romana spiegate massimamente, dopo il celebre Gravina, dallo Spedalieri, siccome da noi fu raccontato nel libro secondo delle presenti storie. Che certamente, ed egli il sapeva, soggiungeva il pontefice, le cose di quaggiù sono sempre solite a trascorrere oltre i termini della natura loro, e che per questo spesso divenivano necessarie le riforme, cambiando, e mutandosi continuamente i tempi e gli usi; che in questo Roma aveva sempre mostrato molta agevolezza, consentendo di buon grado alle riforme medesime; che solo si rendeva necessario di non operare a caso ed alla spartita, ma bensì con procedere pensato e metodico; che così l'Austria, dopo alcuni errori a lei funesti, aveva con somma sua utilità operato sotto Pio sesto di santa memoria; che del rimanente egli biasimava, ed altamente dannava quel desiderio sfrenato d'innovazioni, che a quei tempi regnava, desiderio, che invece di riformare ordinando, contaminava rovinando.

Quanto alle quattro proposizioni del clero gallicano, affermava, che erano opinioni ancora in pendente, e che Innocenzo undecimo, al quale si atteneva per dritto pontificio di giudicare, era stato in un punto di condannarle; che il clero di Francia, siccome quello, che era, non tutta la chiesa, ma solamente una parte di lei, non aveva diritto di giudicare da se della potestà della sedia apostolica, nè di limitarla, nè di modificarla, che del rimanente non aveva difficoltà di ammettere la prima, che in ciò consiste, che Dio diede alla santa sede il governo delle cose spirituali, non delle temporali; che i re ed i principi non sono soggetti nelle temporali alla potestà ecclesiastica, e che non si possono per l'autorità delle chiavi di san Pietro deporre, nè dal giuramento di fedeltà esimere i sudditi. Ma quindi passando papa Pio a quello che era il soggetto della controversia, distingueva il diritto di deporre i sovrani, e di dispensare i sudditi dal giuramento di fedeltà, da quello di fulminare una scomunica contro i principi, quando eglino secondo le leggi, ed i canoni della chiesa l'hanno incorsa; che conseguentemente qui non cadeva la dottrina della chiesa gallicana, nè che mai la chiesa di Francia aveva preteso, che il papa non avesse autorità di fulminare la scomunica contro chi l'avesse meritata, che egli aveva bensì scomunicato Napoleone, ma non deposto, nè sciolto i sudditi dal giuramento; che se poi per effetto della scomunica alcuni dei sudditi di lui rimettessero della divozione e fedeltà loro, ciò non al pontefice giusto castigatore, ma al principe colpevole prevaricatore, doveva unicamente attribuirsi; che tale dottrina, bene il sapeva, era del tutto consentanea ai pensieri di Bossuet, quantunque non in tutto con lui consentisse, e che bene era persuaso, che se tutto il clero di Francia fosse assembrato, la dottrina medesima accetterebbe ed approverebbe; che a lui non era ignoto, che ai tempi andati avevano qualche volta i vescovi ed i papi liberato i sudditi dal giuramento, ma solamente quando il sovrano era stato deposto dagli stati del regno e dai grandi, per modo che la dispensa dal giuramento altro non era, se non se la conseguenza di una deposizione fatta da coloro, ai quali aspettava il diritto di farla. Pertanto la deposizione non proveniva dalla dispensa, ma bensì la dispensa dalla deposizione, opera non dei papi, ma d'altrui. Venendo poi all'esempio allegato di Pio sesto, si spiegava con dire, che la tempesta aveva sorpreso improvvisamente quel generoso pontefice, e quando già vecchio e paralitico non aveva più in lui spirito, che intiero fosse; che perciò la debolezza del corpo già più vicino a morte che a vita, aveva in lui nociuto alla prontezza dell'animo; che se dal costume di tutta la sua vita si avesse a giudicare, non si poteva dubitare, che alle novità introdotte da Napoleone nelle cose ecclesiastiche, ed alle usurpazioni di lui nel patrimonio di San Pietro si sarebbe più presto e più acerbamente risentito ch'egli stesso non aveva fatto; che per verità Clemente settimo era stato condotto a duro passo, ma che fu persecuzione che presto ebbe fine, e che quelli stessi che l'avevano perseguitato e cacciato dalla sua apostolica sede, si erano raumiliati, ed avevano da lui chiesto perdono; come le parole avevano suonato, così essere succeduti i fatti, poichè tantosto fu rimesso nella sua Romana cattedra, e restituito alla pienezza dell'apostolica potestà, mentre Napoleone nella durezza e persecuzione sua ostinatamente perseverando, non solo faceva alcuna dimostrazion di volersi ritirare da quanto aveva fatto in pregiudizio dell'autorità ecclesiastica, e dalle sue usurpazioni contro il patrimonio di San Pietro, ma ancora pertinacemente affermava ed apertamente dichiarava, volere di per se stesso e senza intervento dell'autorità pontificia, turbare le sedi vescovili e parrocchiali, e far violenza al pontefice sulle nomine dei vescovi, e tener Roma suddita in sua mano.

Tornando quindi all'esempio di Pio sesto, aggiungeva, che egli non aveva avuto a fare col direttorio, che fuori della Chiesa essendo, alle leggi della Chiesa nè obbediva, nè si protestava obbediente, ma che egli, Pio settimo, aveva a far con Napoleone imperatore, il quale nella sua qualità di figliuolo primogenito della Chiesa, qualità, che continuamente assumeva e di cui si vantava, si trovava soggetto a tutte le sue regole e leggi; apparire, nè il taceva, che mai nissuno de' suoi antecessori era stato ridotto a quelle ultime strette in cui era egli; e quanto al patrimonio di San Pietro aveva giurato di difenderlo sino a sparsione di sangue, e che così si era risoluto di fare; che i canoni avevano decretato, che chi esso patrimonio offendesse e toccasse, incorresse incontanente nelle censure ecclesiastiche, che ad esse Napoleone imperatore si era confessato soggetto, poichè aveva fatto professione di cattolico; ch'egli le censure medesime fulminando, aveva adempito quell'obbligo al quale per le ecclesiastiche leggi consentite da tutta la Chiesa era tenuto, che non solamente il doveva fare, ma che non poteva non farlo, bene dolersi, e nell'interno del paternale suo animo compiangere, che le prese deliberazioni potessero offendere la Francia, sua figliuola prediletta, e sopra la quale con tanto amore si era versato; ma giudicherebbe ella se fosse per amare meglio un papa prevaricatore, o un papa osservatore de' suoi doveri, un papa innocente ed oppresso, od un imperatore colpevole e persecutore: della elezione non conservare dubbio alcuno; ricordarsi ancora con infinita allegrezza le grate accoglienze, l'affezionato concorso dei popoli, quando in quel nobile reame se n'era andato ad un ministerio, che ogni altra cosa portendeva, piuttosto che ruine: ricordarsi come fra quell'immenso apparato d'armi e di soldati avesse trovato luogo, per la Francese pietà, un umile preticciuolo inerme, solamente perchè la comunanza dei fedeli nella persona sua rappresentava; ricordarsi che dove concorrevano, se non supplici, almeno umili i primi potentati d'Europa, una opinione solamente fondata sul consenso dei popoli devoti a Dio, devoti al suo vicario in terra, devoti all'apostolica sedia tanto avesse potuto, ch'egli non potente fra mezzo ai più potenti, il principale e più onorato seggio si vendicasse: gisse pure onorata, gisse contenta, gisse felice la Francia; che quanto a lui, memore della pietà dimostrata, ogni cosa fuori dell'impossibile avrebbe e consentito ed operato, perchè ella quella pace di coscienza si godesse, che pei meriti suoi le era giustissimamente dovuta.

Desiderava Napoleone, solito a fare prima le cose, poi a volere che gli si consentissero, che il senatus-consulto dell'unione dello stato Romano al suo impero sortisse il suo effetto, anche per consentimento del papa. Non gli era nascosto, che ove il pontefice accettasse le condizioni proposte, facendosi abitatore di Parigi e suo pensionario, avrebbe dovuto finalmente consentire a quanto egli volesse nell'argomento della giurisdizione ecclesiastica; perciocchè la forza del pontefice tutta era fondata sull'opinione, e quando diventasse vile in cospetto degli uomini, avrebbe perduto coll'opinione quell'antico suo fondamento; che certamente avrebbe avuto parte di viltà, se in vece di viversene padrone con isplendore a Roma, o carcerato con onore in Savona, avesse accomodato l'animo a vivere suddito in Parigi. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a quei tempi la potenza di Napoleone inconquassabile: le paci di Tilsit e di Vienna, il matrimonio coll'arciduchessa, esercito invitto, vincitore, innumerabile, la fondavano. Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere; il sapeva, il credeva, il diceva, ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali proposte. Che sapeva ben egli, affermava, ciò che volevano fare; che questi disegni, e se n'era accorto, già fin d'allora covavano, quand'egli era andato a incoronar Napoleone a Parigi; che già fin d'allora vi si racconciava il palazzo arcivescovile per la stanza dei papi; che vedeva chiaramente che era nato il pensiero di far i papi viaggiatori, e fors'anche primi elemosinieri degl'imperatori: papi di Francia volersi, non papi di Cristianità: del resto non volere, protestava, il palazzo di Parigi: sarebbe un nuovo carcere: non la potestà temporale, ma San Pietro avere fissa la sua sede in Roma; avere ciò dimostrato colla sua venuta in quella veneranda città, averlo dimostrato colla sua dimora, averlo dimostrato col suo martirio; il sangue dell'apostolo avere indicato, e santificato il luogo dell'apostolica sedia; volere Pio successore quella, o nissuna: non disfarebbe col consenso suo Pio ciò, che Cristo stesso Salvatore per mezzo di Pietro aveva fatto, che nè giuramento presterebbe, nè pensione accetterebbe; sarebbe vile agli occhi suoi, vile al mondo, se quel prestasse, se questa accettasse: essere il senatus-consulto la servitù della Chiesa: volersi mandar ad effetto le macchinazioni dei filosofi, rendere il papa tanto suddito, quanto i vescovi in Francia: che si mirava evidentemente alla distruzione della religione; che non potendo assaltarla di fronte, perchè la impresa era troppo difficile, la volevano assaltar di fianco: non mai i sacerdoti del paganesimo essere stati tanto dipendenti dalla potestà temporale, quanto i preti d'oggidì; volersi anche mettere sotto il giogo il papa: presumere che tali disegni non provenissero dal consiglio ecclesiastico raunato in Parigi, perchè se ciò fosse, tosto il separerebbe dalla comunione sua: in mezzo a tante turbazioni, o tanti sovvertimenti sperare, che Dio fosse quello che avesse a salvare la sua Chiesa: che del resto non poteva più riconoscere, qual figliuolo primogenito, l'usurpatore dei beni della santa sede, che già, e pur troppo aveva sopportato, che già gli era venuta a schifo la sua pazienza; che la sede di Roma non poteva operare come gli altri sovrani; ch'ei potevano rinunziare secondo gli accidenti a parte dei loro diritti col pensiero di riacquistargli, quando che fosse, ma che doveva il papa operare in coscienza; i trattati di Roma spirituale essere santi, e di buona fede ripieni.

Così papa Pio tormentato dai Napoleonici i suoi pensieri spiegava. Quanto poi a quello ch'egli in quei tempi tanto per lui lagrimevoli desiderasse fare, i ricordi dell'età non lasciano luogo a dubitazione. L'animo suo era di addomandar sempre i beni temporali della santa sede, ma di non mai far cosa che tendesse a volergli riacquistare per forza: solo questo chiedeva e richiedeva, che libero fosse, e libero lasciato tornare a far il papa nella sua Roma; che farebbe anche il papa in una grotta, che farebbelo nelle catacombe; che se alla parsimonia ed ai pericoli della primitiva Chiesa gli fosse duopo tornare, con piena rassegnazione vi tornerebbe, nè ciò fora anco grave a chi non mai tanto felice era stato, quanto, quando semplice fraticello essendo, in un umile chiostro le dottrine teologiche insegnava.

In cotal modo si raffermava, quanto alle sue particolari sorti, l'animo del pontefice; ma bene piangeva, ed amaramente deplorava le novelle discordie. Deploravale principalmente perchè laceravano le viscere più intime e più vitali della cristianità cattolica: deploravale perchè impedivano l'unione, della quale aveva allora speranza delle parti dissenzienti; imperciocchè aveva concetto il pensiero, che alcuni paesi addetti alle dottrine di Lutero avessero presto a ritornare nel grembo della chiesa. Solo disperava dei Calvinisti, siccome quelli ch'egli riputava più induriti, e che avevano voluto introdurre nel governo ecclesiastico gli ordini democratici.

Quest'erano le tribolazioni di Pio settimo. Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo, in cui la sua virtù doveva esser messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi soldati, di osservarlo colle spie, di sgomentarlo colla segregazione, di scuoterlo con le minacce, si faceva passaggio ad assalirlo con le dottrine, e con le persuasioni di coloro, che o per antica amicizia, o pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta autorità nelle sue deliberazioni. La mancanza dell'ufficio pontificale, che il papa ricusava di compire già da parecchj anni, principiava a farsi sentire fortemente nella cristianità cattolica, la condizione peggiorava ogni giorno. Molte sedi vescovili, ricusando il papa le bolle d'investitura, erano vacanti tanto in Francia, quanto in Italia ed in Germania. Altre vacanze si scoprivano alla giornata, ed era per estinguersi l'episcopato. L'imperatore, avendo dato favore col concordato all'opinione cattolica, vedeva non potersi esimere dal ricorrere all'autorità pontificia. Pensò sulle prime di usar l'autorità del cardinal Caprara, arcivescovo di Milano, e legato della santa sede a Parigi, di cui conosceva la condiscendenza. Scrisse il cardinale supplicando al papa, desse le bolle per le sedi vacanti ai vescovi nominati dal consiglio dei ministri dell'imperatore. Aggiunse che Napoleone consentiva, che in esse il pontefice non facesse menzione delle nomine imperiali, purchè egli non v'inserisse la clausula del moto proprio, od altra equivalente.

Rispose risolutamente il pontefice, maravigliarsi, che Caprara queste cose proponesse: esser evidente ch'ei non poteva accomodarvi l'animo: non mai la cancelleria apostolica avere ammesso simili instanze da parte dei laici: del resto, a chi concederebbonsi le bolle, se alle instanze del consiglio dei ministri si concedessero? Non esser loro l'imperatore medesimo? Non gli organi de' suoi ordini, non gli stromenti della sua volontà? Ora dopo tante innovazioni funeste alla religione fatte dall'imperatore, contro le quali egli si era sì spesso e sì inutilmente querelato, dopo tante vessazioni commesse contro tanti ecclesiastici dello stato pontificio, dopo l'esilio dei vescovi e della maggior parte dei cardinali, dopo la carcerazione di Pacca cardinale, dopo l'usurpazione del patrimonio di San Pietro, dopo di essere stato assalito lui medesimo da uomini armati nei penetrali stessi del suo pontificale palazzo, dopo di essere stato forzatamente in terra sotto strette guardie condotto per modo che i vescovi di parecchi luoghi non avevano potuto avvicinarsi a lui, o parlargli senza testimonj, dopo tanti attentati sacrileghi, tacendone anche, per amor della brevità, altri infiniti, contro i quali i concilj generali e le constituzioni apostoliche fulminavano l'anatema, che altro avere lui fatto, se non uniformarsi, com'era suo dovere, ai decreti di questi concilj, se non obbedire ai termini di queste constituzioni? Come adunque potrebbe oggidì riconoscere nell'autore di tante violenze il diritto di nominar i vescovi, come consentire ch'egli l'usasse? Il potrebbe forse senza farsi reo di prevaricazione, senza contraddire a se medesimo, senza dare, con iscandalo gravissimo, materia ai fedeli di credere, ch'egli sbattuto e vinto dalle disgrazie, a tanto di abiezione fosse venuto, che potesse tradire la sua coscienza, e fare quello, ch'essa con terribil voce l'ammoniva di dannare? Pesasse bene, e queste ragioni ponderasse, non secondo la sapienza umana, ma prostrato nel santuario il cardinale, e vedrebbe, quanto vere, quanto inconcusse, quanto incontrastabili fossero. Chiamare tuttavia Dio in testimonio di quanto egli in mezzo a sì crudeli tempeste desiderasse provvedere alle sedie vacanti della chiesa di Francia, di quella chiesa di Francia, suo primo amore, e suo supremo diletto: con quanto piacere abbraccerebbe egli un consiglio, che gli permettesse di soddisfare ad un tempo ed al suo pastorale uffizio, ed a' suoi doveri sacrosanti! ma come potere, come risolversi solo e senza soccorso in un affare di tanta importanza? Toltigli essere tutti i consiglieri suoi, toltagli la facoltà di comunicare con loro, nissuno restargli, da cui pigliar lume in sì spinosa discussione. Se vera affezione avesse l'imperatore alla cattolica chiesa, incominciasse dal riconciliarsi col suo capo: togliesse le innovazioni funeste, rendessegli la sua libertà, la sua sede, i suoi ufficiali; restituissegli il patrimonio, non suo ma di san Pietro; riponesse sulla cattedra dell'apostolo il suo capo supremo, il suo capo di cui ella era vedova e priva dopo la Savonese cattività; rimandassegli i quaranta cardinali dal suo grembo divelti pei crudi comandamenti suoi; richiamasse alle diocesi loro tanti esuli vescovi: pregare incessantemente e ferventemente fra tante sue tribolazioni quel Dio, che tiene in sua mano tutti i cuori, incessantemente e ferventemente pregarlo per l'autore di tanti mali: esaudisselo, piacessegli spirare al duro cuore di Napoleone più salutevoli consiglj; ma se per segreto giudizio di chi tutto sa e tutto puote, altrimenti accadesse, piangerebbe egli le presenti calamità, certo e sicuro che nissuno a lui imputare le potrebbe.

In questo mezzo tempo Napoleone per intimorire il papa, e farlo consentire a quanto egli desiderava, con dargli sospetto che se non consentisse, ei farebbe da se, aveva convocato un consiglio ecclesiastico a Parigi chiamandovi i cardinali Fesch e Maury, l'arcivescovo di Tours, i vescovi di Nantes, di Treveri, d'Evreux, di Vercelli, ed un Emery, prete superiore del seminario di San Sulpizio a Parigi. L'imperatore, per mezzo del ministro dei culti Bigot di Préameneu, personaggio di buona e posata natura, ma che ciò non ostante procedeva con molto calore in questa faccenda contro il papa, propose loro certi quesiti, acciocchè gli dichiarassero. Erano questi prelati, o tutti o la maggior parte, nemici dei seguaci di Porto Reale; ma la fortuna, e la Napoleonica ambizione gli avevano condotti a questo duro passo, o di opinare, circa la potestà della sedia apostolica, conforme alle dottrine di quella famosa scuola, o di dispiacer a Napoleone. Una sola risposta dovevano e potevano dare, ed era quest'essa: che si rimettesse il pontefice nella condizione in cui era quando concluse il concordato, ed allora se ricusasse le bolle, opinerebbero; ma non la diedero, perchè quelli non erano tempi da Ambrogi. Certamente se il papa debbe essere assicurato contro i principi in materia religiosa e spirituale, i principi debbono essere assicurati contro il papa in materia politica e temporale. A quest'ultimo fine mirava la necessità nel papa nel dar le bolle in un dato tempo, salvo i casi d'impedimenti canonici nei nominati; ma la prigionìa del pontefice rendeva impossibile ogni negoziato, e Napoleone voleva non solamente la independenza per se, ma ancora la servitù negli altri. Il governo della chiesa, portavano i quesiti, è egli arbitrario? Può il papa per cagioni temporali ricusare il suo intervento negli affari spirituali? Conviensi, che solamente prelati e teologi trascelti nei piccoli luoghi del territorio Romano giudichino degl'interessi della chiesa universale? Conviensi, che il concistoro, consiglio particolare del papa, sia composto di prelati di tutte le nazioni? Quando no, l'imperatore non ha in se raccolti tutti i diritti, che ai re di Francia, ai duchi del Brabante, e ad altri sovrani dei Paesi Bassi, ai re di Sardegna, ai duchi di Toscana, e simili s'appartenevano? Ancora, ha Napoleone imperatore, o i suoi ministri violato il concordato? Essi migliorata, o peggiorata la condizione del clero di Francia dopo il concordato? Se il sovrano di Francia non ha violato il concordato, può il papa di suo proprio arbitrio, ricusare l'instituzione agli arcivescovi e vescovi nominati, e perdere la religione in Francia, come l'ha perduta nell'Alemagna senza vescovi da dieci anni? Non avendo il governo di Francia violato il concordato, se dal canto suo il papa ricusa di eseguirlo, intenzione di sua maestà è, ch'esso si abbia e si tenga per abrogato: ma in tale caso, che conviensi fare pel bene della religione?

A questi quesiti, che risguardavano specialmente la Francia e l'Italia, se ne aggiunse un altro per l'Alemagna, desiderando l'imperator Napoleone sapere, quale cosa gl'incombesse di fare per la salute della religione in questa parte d'Europa, a lui, che era il cristiano il più potente di tutti, signore dell'Alemagna, erede di Carlomagno, vero imperatore d'Occidente, figliuolo primogenito della chiesa. Ancora ha bisogno la Toscana di nuove circoscrizioni di diocesi, e se il papa non vuol cooperare, che farà sua maestà?

Ancora, e finalmente éssi questa bolla di scomunica stampata e sparsa per tutta Europa: che farà Napoleone imperatore per impedire, che in tempi di turbazioni e di calamità, non diano i papi in questi eccessi di potenza tanto contrari alla carità cristiana, quanto all'independenza, ed all'onore del trono?

Intanto Napoleone costretto dalla necessità, perchè la vacanza delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio, che poteva dargli, secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo, e conclusione definitiva delle differenze nate colla santa sede. Aveva egli udito, che dopo la morte del vescovo la giurisdizione episcopale si trasferiva nel capitolo della chiesa cattedrale, e che a questo s'apparteneva il nominare vicarj generali, che governassero la diocesi durante la sede vacante. Oltre a ciò fu fatto sapere a Napoleone, che i capitoli investiti alla morte del vescovo della potestà episcopale, conferivano, secondo gli antichi usi di Francia, la potestà medesima all'ecclesiastico nominato dal sovrano alla sede vacante. Quest'ultimo pensiero gli fu suggerito dal consiglio ecclesiastico. Ma al tempo medesimo il consiglio aveva mitigato il concetto con dire, che lo spediente proposto non poteva essere che transitorio, che solo per l'ultima necessità, e per non lasciar perire l'episcopato in Francia dovevano i capitoli delegare la giurisdizione ai nominati, che, cessata la necessità, si rendeva necessario tornare ai metodi consueti; che sebbene i vescovi nominati e delegati avessero potestà di reggere le diocesi, non potevano esercire tutta la pienezza dell'autorità episcopale, perciocchè, se avevano la giurisdizione, non avevano l'ordine; i vescovi instituiti possono fare certe funzioni, che i vescovi delegati non possono; che pure era richiesto per la salute dei fedeli, e pel perfetto delle diocesi, che l'autorità episcopale tutta intiera in loro si raccogliesse; che del resto non pareva conveniente, che lungo tempo i vescovi esercessero le facoltà loro, e governassero le diocesi come semplici delegati dei capitoli; altro maggior decoro, altra maggiore independenza essere richiesta ad un vescovo perchè si possano aspettare dal suo ministerio i debiti frutti.

Certamente non piaceva neppur a Napoleone, che era d'indole assoluta, questa condizione, che i vescovi, come delegati esercessero, perchè voleva, che i capi fossero padroni, non servi. Ciò nondimeno il guadagnar tempo gli pareva cosa d'importanza. Deliberossi pertanto, insino a che da Savona migliori novelle gli pervenissero, a servirsi del temperamento proposto dal consiglio ecclesiastico. Erano in Francia e nell'Italia Francese diocesi vacanti da lungo tempo, in cui governavano i vicarj capitolari. A volere che i capitoli delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore, era d'uopo che i vicarj rinunziassero: conciossiachè non vi potessero essere due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo Napoleonico; dal che nacquero accidenti di non poca importanza. Aveva Napoleone nominato vescovo d'Asti in Piemonte il prelato Dejean, fratello d'un suo ministro. Richiesti del rinunziare, i vicarj del capitolo ricusarono. Avute le novelle, Napoleone sdegnosamente decretava: fosse il capitolo d'Asti ridotto a sedici, i beni spettanti ai canonicati soppressi cadessero in potestà dei fisco, i renitenti fossero arrestati e processati, come di crimenlese. Aggiungeva Bigot di Préameneu, che sua maestà si era risoluta ad unire al fisco i beni dei vescovati, dove sorgessero erbe di ribellione. Aveva Napoleone nominato Osmond vescovo di Nancy, uomo di nobile tratto e di pulitissima favella, all'arcivescovato di Firenze. Scrisse risolutamente il pontefice al vicario capitolare, comandando che non rinunziasse, che era Osmond illegittimo secondo i canoni. Seguitarono effetti conformi: non ebbe mai Osmond quieto vivere in Firenze.

Ma a quest'amarezza serbava il cielo Napoleone imperatore, che il prigioniero di Savona gli turbasse i suoi pensieri nella capitale stessa del suo impero. Aveva egli nominato arcivescovo di Parigi il cardinale Maury, surrogandolo al Fesch, che nominato ancor esso alla medesima sede non aveva voluto accettare. Maury, parendogli un bel seggio il Parigino, l'accettò. Seppelo il santo padre per avviso mandato dal cardinal Dipietro, che confinato a Semur faceva una mirabile polizia a suo modo. Scrisse un breve ai vicarj capitolari di Parigi della colpevole audacia del cardinale, e del debito loro gravemente ammonendogli. Essere, rammentava, il cardinale Maury un intruso, essere irremissibile la sua temerità; calcare lui i sacri canoni, calcare le decretali dei papi, calcare tutte le leggi dell'ecclesiastica disciplina: avessero i vicari per nulli tutti gli atti che il cardinale facesse: niuna qualità, niuna giurisdizione l'intruso avere, tutte a lui essere negate, tutte tolte: essere legato Maury alla chiesa di Montefiascone; niuno poternelo sciorre, che la santa sede: le sue risoluzioni gli comunicassero, e dell'esecuzione l'ammonissero. Intanto Maury, che non era uomo da sgomentarsi così alla prima, nè solito a cambiarsi in viso pei rabbuffi, scriveva al papa informandolo della sua nomina, ed accettazione dell'arcivescovil sede di Parigi. Rispose il pontefice, maravigliarsi dell'audacia sua, ma maggior dolore ancora sentirne, che maraviglia: inaspettato e deplorabile accidente, sclamava, ch'egli tanto da se stesso disforme fosse divenuto, che ora quella causa della chiesa abbandonasse, che sì degnamente aveva patrocinata nei calamitosi tempi della rivoluzione. Adunque, continuava, la podestà civile questo punto vincerà, che ella al governo delle chiese chi più le pare e piace, instituisca? Adunque sarà cassa la libertà ecclesiastica, le elezioni invalide, il scisma presente? Tali essere gli effetti, tali i risultamenti dell'esempio detestabile che egli dava. Pertanto comandava al cardinale, pregavalo, scongiuravalo, incontanente cessasse dal governo della Parigina chiesa, si ritirasse dagl'imperiali doni: quando no, procederebbe rigorosamente contro di lui.

Non erano le opinioni conformi nel capitolo di Parigi; chi amava meglio l'imperio che la chiesa, e chi la chiesa meglio che l'imperio. Più erano i primi che i secondi; quelli avevano accettato Maury, questi gli contrastavano. Degli ultimi Paolo Dastros, canonico e vicario generale, preso occasione del mandare al vescovo di Savona certe dispense, aveva supplicato al papa, affinchè il consigliasse di quello che si avesse a fare nelle congiunture presenti. Il santo padre rispondendo, tornava in sul chiamare Maury intruso, disubbidiente, uomo di audacia intollerabile: ordinava, ed in virtù della santa obbedienza comandava a Dastros, incontanente mostrasse al cardinale la sua lettera, e gl'imponesse da parte sua, che dalla temeraria impresa si ritirasse.

Seppesi Rovigo, che sapeva tutto, queste cose; le disse all'imperatore. Sdegnossene Napoleone: prima cosa, fatto arrestare a furia Dastros, il cacciò nelle segrete al solito: poi fece rimproveri e minacce tali a Portalis, consigliere di stato, perchè le lettere del papa a Dastros erano venute sotto sua coperta, che il povero giovane se ne tornò tutto smarrito e lacrimoso a casa. Ma le Savonesi cose pressavano. Scrutaronsi diligentemente dalla polizia Napoleonica i fogli ai servitori del papa; a Paolo Campa, a Giovanni Soglia, a Carlo Porta, al prelato Doria, al prelato Maggiolo, ad Andrea Morelli, a Moiraghi, a Targhini, cuochi, e valletti. Trovarono lettere del papa per le Astigiane, Fiorentine, e Parigine controversie; trovarono lettere di Dipietro al papa, trovarono suppliche per dispense, modi di condursi ai Romani, descrizioni ed attestazioni di miracoli. Le ferrate porte di Fenestrelle sorbirono Morelli, Soglia, Moiraghi, ed un Ceccarini chirurgo, ed un Bertoni valetto: anche un Petroncini domestico del Doria, fu cacciato nelle segrete. Porta se la passò con una buona ammonizione, e che, se vi tornasse, mal per lui: speravano che scoprirebbe qualche cosa degli affari del papa. Doria fu mandato a starsene co' suoi a Napoli, e badasse a non guardar indietro. Nè Dipietro potè fuggire lo sdegno imperiale: preso a Semur, cambiò l'esilio in carcere.

Dispersi i minori, Rovigo e Napoleone pensavano a quello che fosse a farsi del pontefice; perchè, se gli altri avevano fatto fallo a Napoleone, il papa, pensavano, l'aveva fatto maggiore, e maggiore anche da lui veniva il pericolo. Non sapevano darsi pace, come tra quelle folte tenebre che avevano con tanta cura addensate intorno al pontefice, avesse trovato uno spiraglio a vedere, ed a far veder lume: il prefetto di Montenotte sentì qualche sprazzo della collera suprema. Incominciava a fulminare con grandissimo sdegno contro il papa Bigot di Préameneu: sapere l'imperatore, che il papa aveva scritto al capitolo di Firenze, acciocchè non conferisse la potestà all'arcivescovo nominato; recarsi l'imperatore quest'atto a grave offesa. Adunque vuole il papa tutto sovvertire e mandar sossopra? Adunque non vuol nemmeno che le diocesi siano transitoriamente amministrate dai prelati, che l'imperatore giudica degni della sua confidenza, ed ai quali secondo l'uso i capitoli conferiscono le potestà al tempo delle sedi vacanti? Adunque danna il papa uno stato transitorio, che è in facoltà sua di far cessare, dando le bolle, incontanente? Crede egli, che Sua Maestà sia subordinata ad un capitolo, per forma che il vicario ch'esso capitolo ha eletto, non abbia bisogno di essere riconosciuto dall'imperatore, e che, se riconosciuto non è, o cessasse d'essere, ei conservi il diritto di far funzioni, che sono ad un tempo stesso e temporali e spirituali? Un vescovo canonicamente instituito non può nominare un vicario generale senza l'intervento di un decreto imperiale: come può il capitolo avere maggior diritto che il vescovo? I sudditi dell'imperatore, che il capitolo compongono, non renderebbersi forse colpevoli, se un vicario altro che quello che il loro sovrano loro indicasse, o nominassero o mantenere volessero? Questo vicario capitolare non dovrebbe egli forse per la pace della chiesa cessare di per se medesimo l'ufficio, o se questo motivo, più sacro certamente dell'autorità arbitraria del pontefice, a ciò fare nol risolvesse, la volontà del sovrano non gli torrebbe forse ogni potenza dell'atto, o se ribelle si costituisse, non dovrebbe egli portar la pena della sua ribellione? Avere veduto il papa i sovvertimenti prodotti dalle instruzioni ch'ei non aveva diritto di dare sulla formola del giuramento d'un suddito al suo sovrano; nè poter non preveder quelli, che potrebbero nascere dalla sua lettera al capitolo di Firenze. Nissuna violenza, nissun oltraggio del papa l'imperatore lascerebbe impunito: essere tuttavia parato l'imperatore a venirne a giusti termini d'accordo, solo che il papa, scrivendogli, il facesse certo della sua volontà. Ma se al contrario da una parte perseverasse nel voler lasciar le chiese senza capi instituiti, dall'altra nell'impedir i capitoli, e nel mettergli in caso di ribellione contro il sovrano loro, non vedrebbe più Sua Maestà in questi atti le funzioni del governo pontificale, che tutte sono di pace e di carità, non vedrebbe più sotto un titolo rispettabilissimo, che un nemico protervo; obbligo suo sarebbe di torgli ogni mezzo di nuocere coll'interdirgli ogni comunicazione col clero del suo impero, e con isolarlo, qual ente pericoloso: non potere il prelato Doria aspettarsi altro destino, che quello di Pacca cardinale. Le quali ultime parole dette, non so per qual rispetto, non di Pio, ma di Doria, chiaramente significavano, che di Doria si dicevano, perchè Pio come dette di se le riputasse.

Crebbero a dismisura gli sdegni, quando si scoverse l'affare di Dastros. Sclamava il Parigino ministro, la pontificia lettera esser fonte di ribellione; girare il papa le incendiarie faci all'intorno; parlare di concordia, suscitare la discordia. Poi per bocca imperiale comandava al prefetto di Montenotte, badasse bene a non lasciare trapelar lettere, nè per dentro, nè per fuori della papale stanza, e non mancasse; parlasse più risolutamente al papa; gl'intuonasse alle orecchie, che dopo la fulminata scomunica, ed il procedere suo a Roma, che tuttavia continuava a Savona, l'imperatore il tratterebbe come meritava; che tanto era oramai il secolo oltre nei lumi, che sapeva distinguere le dottrina di Gesù Cristo da quelle di Gregorio settimo.

I fatti seguitavano le minacce. Per dispetto, e per speranza di ottener concessioni col terrore, ordinava l'imperatore, che ogni apparato esteriore si sbandisse dall'abitazione pontificia: trovarono i rigidi comandamenti diligenti esecutori. Camillo Borghese principe toglieva le carrozze al papa, toglievagli Sarmatoris e gli altri servitori, sopprimeva ogni segno di rispetto, gl'interdiceva penna ed inchiostro, gl'intimava per ordine di Napoleone imperatore, che gli era fatta inibizione di comunicare con alcuna chiesa dell'impero, nè con alcun suddito dell'imperatore sotto le pene di disubbidienza tanto per lui, quanto per loro; che cessava di essere l'organo della Chiesa colui che predicava la ribellione, colui che aveva l'anima tinta di fiele; che poichè niuna cosa il poteva far savio, se gli faceva a sapere, che sua Maestà abbastanza era forte, perchè potesse far quello che i suoi antecessori avevano fatto, e deporre un papa.

Si credeva a Parigi che i comandamenti ripetuti avessero maggior forza. Per la qual cosa Bigot di Préameneu novellamente inculcava, si intimasse a Pio, che per cagion sua i cardinali, ed i vicari generali perdevano la libertà, i canonici le prebende; che queste occulte trame erano indegne di un papa; ch'egli sarebbe cagione delle disgrazie di tutti coloro, che avrebbero a far con lui; che dichiarato nemico dell'imperatore doveva quietamente starsene, e poichè da sè si chiamava carcerato, operare come se fosse carcerato, nè avere con nissuno pratica o corrispondenza; che gran disgrazia era per la Cristianità lo avere un papa così ignorante di quanto è dovuto ai sovrani: che del resto, non sarebbe la pace dello stato turbata, e che il bene si farebbe senza di lui.

Oltre i comandamenti del ministro dei culti, e del principe governatore del Piemonte, perciocchè tutto il governo Napoleonico era mosso contro il prete di Savona, intuonava dalle sponde dell'investigatrice e dispotica Senna la polizia, si guardasse bene dentro e fuori della pontificia abitazione; si stillasse tutto, si spiasse tutto; niuna cosa, per minima che fosse, trapelare, o, per usare le parole stesse, filtrare potesse, senza che la polizia la sapesse; si guardasse attentamente al grande, si guardasse colla medesima gelosìa al minuto; non si prestasse fede di tutto a tutti, ma solo ai più fidi; se alcuno mentisse, fosse punito; se alcuno dicesse la verità, fosse ricompensato; vigilante fosse la investigazione, e continua, ma invisibile, fosse anche proteiforme; fossero gli agenti di tutte le lingue, di tutte le forme, di tutti i mestieri, varj ed infiniti i pretesti, ma sempre naturali, perchè il lambiccato svela l'arte; si usasse ogni astuzia, ogni strattagemma, ogni scaltrimento; superassersi in astuzia, queste parole stesse portavano le lettere, i preti, anche i più maliziosi; si avesse l'occhio massimamente alle strade da Savona a Torino, perchè là era il marcio; si guardasse addosso ai pedoni molto diligentemente, e per ogni parte si ricercassero; non mancherebbero i pretesti per non dar sospetto; ora si motivasse di un vagabondo, ora di uno scappato di galera, qui si cercasse un soldato fuggitivo, là un truffatore condannato, poi un po' di scusa velerebbe il segreto: le Savonesi terre desolate dalla polizia. Voleva ancora, essa polizia, si procurasse, che pei concorsi d'uomini o di alta o di bassa condizione, gli autorevoli e di buona favella intendessero alle persuasioni, dicendo, che l'imperatore aveva ragione, il papa torto; che più amava l'imperatore la religione, che il papa l'amasse. Insinuava altresì, che le sacristìe ed i confessionali farebbero servizj grandi, se si facesse sentire ai curati instrutti, ed ai preti giurati, che la loro obbedienza e sommessione erano conosciute, e che sarebbero anche premiate; se qualche canonico, o se qualche regolare passato a vita secolare compiangesse o titubasse, se gli facesse tosto suonare all'orecchie l'interesse personale, la perdita delle pensioni, e che la polizia sapeva tutto; se qualcheduno ricalcitrasse, si mettesse in luogo dove gli passerebbe voglia; finalmente con ogni sorta di cortesi dimostrazioni, tanto in pubblico, quanto in privato si accarezzassero, ed al ministro dei culti si raccomandassero gli ecclesiastici che si mostrassero più fedeli, che usassero l'autorità loro per ridurre i compagni a fedeltà, e che predicassero che ogni potestà temporale viene da Dio, e che il Vangelo insegna e raccomanda l'obbedienza e la sommessione verso i principi; ponessesi mente ad operare che tutti gli spiriti s'imbevessero di quest'opinione, che l'imperatore non tornava mai indietro, che per la sua munificenza infinita sempre premiava chi fedelmente e devotamente il serviva, ma che per la sua giustizia mai non perdonava a chi denigrasse, a chi ricalcitrasse, a chi dissidj e discordie seminasse.

Queste che abbiamo raccontate, furono le cautele poste in opera dai Napoleonici per murare il papa, e per fare, che nissuno sapesse, o dicesse, o facesse altro che quello che piaceva a Napoleone. Arti veramente perfette erano queste, e da servir per esemplare a chi ama il comandare da se. L'imperatore veduto che nè le persuasioni, nè le minacce, nè gli spaventi, nè la strettezza del carcere non avevano potuto piegare l'animo del pontefice, e credendo, per le opinioni dei popoli, di non potere da se, e senza che gli estremi mezzi prima si fossero tentati, fare questa gravissima mutazione, che i vescovi di Francia, e di tutti i paesi sudditi a lui più non ricevessero la instituzione canonica della sede apostolica, si era risoluto ad usare più efficacemente il sussidio del consiglio ecclesiastico adunato in Parigi. Opinava, che il parere di ecclesiastici di grado o di dottrina, fosse per operare fortemente in favor suo sulla mente dei popoli, caso che per la necessità delle cose si avesse a rompere quel legame, che congiungeva l'episcopato Francese alla Chiesa di San Pietro.

Inoltre, a ciò consigliato, e stimolato principalmente dal consiglio ecclesiastico, si era deliberato a convocare un concilio nazionale a Parigi; acciocchè considerasse la necessità presente, e proponesse i mezzi di rimediarvi. Dava favore a questo suo pensiero, oltre la maggior autorità di un concilio, la speranza che i vescovi Italiani chiamati all'assemblea, siccome nutriti, la maggior parte, nelle dottrine che abbracciate in Italia da molti dotti canonisti, avevano negli ultimi tempi trovato una principal sede in Pistoia, avrebbero deliberato in favor d'un'opinione, che, quanto alla trasmissione dell'episcopato, pareva conforme agli usi antichi della Chiesa primitiva.

Ordinate in tal modo le cose, e sicuro di quello che dovesse avvenire, Napoleone stimolava il consiglio ecclesiastico; acciocchè desse principio a quanto si era ordinato. In primo luogo rispondeva il consiglio, non senza molt'arte, a quesiti fatti con maggior arte. Quanto all'articolo, se il governo della Chiesa fosse arbitrario, dichiarò che non era; che quanto alla fede, la santa scrittura, la tradizione, ed i concili servivano di regola; e quanto alla disciplina, l'universale reggevano i decreti della Chiesa universale, la particolare quelli delle Chiese particolari; il che il consiglio non diceva senza cagione. Aggiunse, che la disciplina particolare era sempre stata rispettata dalla Chiesa universale, piena di carità e di condiscendenza. Ragionò, che Dio aveva dato a san Pietro, ed a' suoi successori il primato d'onore e di giurisdizione; ma i consiglieri ecclesiastici, procedendo con questa generalità, e non venendo a nissuna particolarità, non si spiegavano, in che cosa consistesse questo primato di giurisdizione, perchè in ciò appunto stava tutta la difficoltà della materia venuta in controversia; che Dio diede al tempo stesso agli apostoli, continuavano i consiglieri, la facoltà di reggere le Chiese, con subordinazione però al capo degli apostoli: dal che ne risultava, che ove questa subordinazione non si offendesse, avevano i successori degli apostoli pieno mandato di governar le Chiese.

Non potere, statuirono, il papa ricusare il suo intervento negli affari spirituali per cagione dei temporali, quando questi di tale natura non siano, che non impediscano il pontefice di far uso della sua autorità liberamente, e con piena independenza: convenirsi, che nel concistoro intervengano cardinali di ogni nazione, ma dello speciale modo non convenirsi deffinire, dovendosi lasciare qualche libertà al papa nella elezione de' suoi consiglieri; nè in ciò potersi andar più oltre che il concilio Basileense ebbe prescritto, cioè eleggesse il papa cardinali di tutte le nazioni, quanto più comodamente fare si potesse, e secondochè se ne trovassero dei degni. Ma prelati tostamente contraddissero a questa soluzione, nè potevano fare altrimenti, dichiarando, veramente avere l'imperatore raccolti in se stesso tutti i diritti del richieder cardinali, che competevano ai re di Francia, ai principi del Brabante, ai sovrani della Lombardìa, del Piemonte, e della Toscana; dal che ne conseguitava, che, eccettuati i cardinali degli stati ereditarj d'Austria, dovendo presto aggiungersi i diritti di Spagna, tutti i cardinali gli avrebbe nominati egli; e che independenza di papa e di concistoro fosse quella, ponendo eziandìo che il papa si restituisse a Roma, ed al dominio temporale, nissuno è, che nol veda.

Il concordato, opinarono, non essere stato violato in niuna essenziale parte dell'imperatore; qui i prelati si trovarono a un duro cimento, perchè sapevano che il papa aveva protestato contro gli articoli organici di Francia, e più ancora contro quei d'Italia. Trovarono per iscampo, che parecchj articoli, di cui s'era il pontefice querelato, erano massime ed usi della chiesa gallicana. Assai migliorata essere, risposero, la condizione del clero in Francia dopo il concordato, ed in questo avevano i prelati ogni ragione, nè tanto non dissero, che non potessero dire molto più.

Per sentenziare se il papa di suo proprio arbitrio potesse rifiutare le instituzioni, i prelati s'aggirarono per molti ragionamenti; imperciocchè in questo giaceva tutto il nodo della difficoltà: che il concordato, esposero, era un contratto sinallagmatico tra il capo dello stato, e il capo della chiesa, pel quale ciascuno di loro si era obbligato verso l'altro; che era anche un trattato politico di sommo momento per la nazione Francese, e per la chiesa cattolica, che per lui Sua Maestà era investita del diritto di nominare gli arcivescovi ed i vescovi, di cui prima godevano i re di Francia pel concordato concluso tra Leone decimo e Francesco primo, ed era riserbato al papa quello di dare l'instituzione canonica agli arcivescovi e vescovi nominati da Sua Maestà, secondo le forme accordate, rispetto alla Francia, prima del cambiamento di governo, ma che il papa, non di proprio arbitrio, ma secondo i canoni doveva dare la instituzione, che a termini del concordato del millecinquecento quindici egli era obbligato a dar le bolle, od allegare motivi canonici del suo rifiuto; a volere ch'egli potesse rifiutare senza cagione, ed arbitrariamente le bolle, e bisognerebbe supporre, che da nissun trattato fosse obbligato, neanco da quello al quale aveva solennemente ratificato, e potesse mancar della fede data all'imperatore, alla Francia, ed alla Chiesa tutta, alla quale il concordato dell'ottocento uno assicurava la protezione del più potente sovrano del mondo. Aggiungevano i prelati, sapersi il papa queste cose, confessare la verità dei narrati principj, ma negare le instituzioni pei motivi addotti nella sua lettera al cardinal Caprara: insussistenti essere questi motivi, non avere l'imperatore alcuna offesa di importanza fatta al concordato: dei motivi politici non poter loro giudicare; diverse essere le temporali cose, diverse le spirituali; il senatus-consulto, che unì Roma alla Francia, non avere offeso l'autorità spirituale del papa, nè il temporale dominio essere necessario all'esercizio della potestà pontificia; non avere la presa di Roma violato il concordato, nè il concordato aver dato sicurtà al papa di Roma; non come principe temporale, ma come capo della Chiesa avere quel solenne atto stipulato; il principe non esser più, ma essere il pontefice, e la pontificia autorità rimanersi intatta; avere potuto il papa protestare, potuto richiamarsi della Romana possessione, ma non potere usar mezzi per ridurre in atto le proteste ed i richiami, non iscomunicare; dichiarare l'imperatore, che nulla voleva innovare nella religione; protestarsi che voleva l'esecuzione dei patti convenuti; non potere per motivi temporali tirarsi il papa indietro; nè Clemente settimo da Carlo quinto oltraggiato essere venuto a tale estremo. Restava che i prelati parlassero della libertà violata, della perfetta segregazione del pontefice; posciachè il papa di tali ingiurie si era doluto nella sua lettera al Caprara, e sopra di esse principalmente fondava il rifiuto delle bolle. A questo passo con brevissime parole osservarono, che facilmente l'imperatore s'accorgerebbe di tutta la forza e giustizia delle lagnanze del papa. Con questo freddo discorso favellarono prelati cattolici, prelati che da Pio tenevano i seggi loro, dell'atroce caso del pontefice, nè in ciò sono a modo alcuno scusabili; conciossiachè, posto eziandio, che circa la questione canonica l'imperatore avesse ragione, il papa torto, il fatto solo della carcerazione del pontefice rendeva dal canto loro ogni opinare impossibile. Il concordato, che era un vero trattato, supponeva equalità di condizione nelle due parti, e libertà di deliberazione sì nell'una che nell'altra: ma quale libertà di deliberazione fosse in un papa prigioniero, e quale equalità di condizione tra un papa carcerato ed un imperatore carcerante, ciascuno potrà facilmente da per se stesso giudicare. Certamente debbe stare inconcussa la libertà dei principi, debbonsi troncar le strade agli abusi pontificj, e chi arrivasse a stabilir bene questo punto, meriterebbe bene del mondo cattolico, anzi di tutta l'umanità. Ma la carcerazione del pontefice turbava ogni cosa, e prima di trattare la questione canonica, si doveva definir quella della liberazione.

La materia, quanto più si va oltre, tanto più si stringe. Non potere, risposero i prelati, aversi il concordato per abrogato, perchè non era già esso una transazione meramente personale fra l'imperatore e il papa, bensì un trattato che costituiva parte del dritto pubblico di Francia, ed in cui si contenevano i principj fondamentali, e le regole del governo della chiesa gallicana; importare adunque, che, quandanche il papa perseverasse, in quanto a lui si atteneva, nel non volerlo eseguire, la sua esecuzione continuamente si addomandasse, e della medesima il sovrano pontefice si richiedesse: ma se il papa tuttavia perseverasse nel ricusar le bolle, doversi protestare contro questo rifiuto illegale, ed appellarne o al papa meglio informato, o al suo successore. Quivi i prelati erano arrivati all'estremo passo; perchè o che il concordato come abrogato, o solamente come sospeso si riputasse, un rimedio diveniva necessario. Ora, stantechè la religione cattolica non può sussistere senza l'episcopato, e l'episcopato non si può avere senza la instituzione canonica, nè senza la giurisdizione unita all'ordine, e stante ancora che la chiesa gallicana, parte tanto nobile e tanto essenziale della Cristianità cattolica, venuta, non per sua colpa, in queste fatali strette, non doveva e non poteva nè abbandonare se stessa, nè lasciarsi perire, nè non trovar modi di conservazione, i prelati opinarono, e così all'imperatore rappresentarono, che si ricercasse quanto negli antichi tempi della chiesa, ed in quelli più vicini si fosse praticato. Descrissero, nei primi secoli della Chiesa, i vescovi essere stati nominati dai suffragi dei vescovi conprovinciali, dal clero, e dal popolo della chiesa che del vescovo abbisognava; essere stata la elezione confermata dal metropolitano, o se del metropolitano si trattasse, dal concilio della provincia: nella serie dei tempi posteriori poi, avere gl'imperatori, o gli altri principi cristiani grandemente partecipato nelle nomine dei vescovi: di grado in grado non essersi più chiamati alle elezioni il popolo ed il clero della campagna, e devolute essere le elezioni al capitolo della chiesa cattedrale, ferma sempre però stando la necessità del consenso del principe, e della conferma del metropolitano, o del concilio provinciale: la disusanza di queste assemblee, le contese frequenti, che nascevano dalle elezioni, la difficoltà di terminarle sui luoghi, il vantaggio che trovavano i principi di trattare immediatamente col papa, avere introdotto l'uso di promuovere queste cause innanzi alla santa sede, e per tal modo essere i sovrani pontefici appoco appoco venuti in possessione del confermare la maggior parte dei vescovi: tale essere stata la condizione delle cose ai tempi del concilio Basileense, di cui la Chiesa di Francia accettò i decreti relativi alla nomina, ed alla confermazione dei vescovi, e statuiti per la sanzione prammatica di Bourges nel millequattrocentotrent'otto; per lei essersi mantenute le elezioni capitolari, e la confermazione, o instituzione lasciata ai Metropolitani: così colla prammatica di Bourges essersi rimediato alla mancanza dell'instituzione pontificia: essere poscia circa un secolo dopo, sorto il concordato fra Leone decimo e Francesco primo, dal quale la nomina del re fu sostituita alla elezione capitolare, e la conferma, od instituzione canonica riservata al papa: per tale forma essersi trasfusa la potestà dell'instituzione dai metropolitani, e dai concilj provinciali nel sovrano pontefice, e le elezioni capitolari nel capo temporale dello stato. Ora adunque, ristringendo il discorso loro, dicevano i prelati, poichè la necessità non ha legge, e la conservazione della chiesa gallicana da ogni umana e divina legge è non solo raccomandata, ma comandata, volersi, persistendo il papa nei rifiuti, tornare all'antico dritto dei metropolitani, non per sempre nè definitivamente, ma temporaneamente e transitoriamente, insino a che piacesse a chi muove a posta sua gli umani cuori, voltar quello del pontefice in meglio verso di quella grande, affezionata, e zelante gallicana chiesa: la prammatica disusata di Bourges avere ad essere il rimedio dei mali presenti. Grave ed enorme passo era questo: però aggiunsero al parer loro i prelati, opinare, che si convocasse un concilio nazionale: non volere i prelati giudicare anticipatamente delle risoluzioni del concilio, ma presumere, che nel caso in cui egli sentenziasse di risuscitare la prammatica, supplicherebbe prima il pontefice, e scongiurerebbelo, che della gallicana chiesa gli calesse, ed a lei la vita coi vescovi ridonasse; ma se nè le preci, nè le supplicazioni potessero vincere l'ostinazione del pontefice, decreterebbe il concilio, per ultima necessità, e per non perire, che la prammatica si rinnovasse.

Intanto le dottrine dei partigiani dell'antica disciplina vieppiù si spargevano, le Italiane contrade principalmente ne risuonavano. Coloro che a queste opinioni erano addetti, credevano essere venuto il tempo ch'elleno avessero a prevalere, si rallegravano della diminuzione dell'autorità pontificia, ed affermavano ch'ella era medicina non solamente utile, ma ancora necessaria al corpo infermissimo, come il chiamavano, della Chiesa. La ricordanza del milleottocentuno, e ciò, che era accaduto al concilio di Parigi in quell'anno, non gli rendevano accorti del procedere e delle intenzioni di Napoleone: che il corpo, spargevano, dei vescovi esercenti, rappresentasse la Chiesa, e fosse per rappresentarla finchè ella durasse; che attentato condannabile dei papi degli ultimi tempi fosse l'aver voluto diminuire e frenare la potestà divina dei vescovi; che la potestà inerente al carattere dei vescovi immediatamente, e senza che nissuna umana potestà potesse arrogarsi il diritto di alterarla, derivasse da Gesù Cristo; che non mai potesse la giurisdizione episcopale perire, che i concilj prima del mille non avessero mai voluto riconoscere per veri e legittimi vescovi, se non quelli che dai rispettivi metropolitani erano stati ordinati; che così avevano statuito, così definito i concilj Niceni, tanto venerati in quei primi e purissimi tempi della cristiana comunità; che le massime contrarie solamente dai concilj Lateranensi, concilj quasi domestici dei papi, erano state introdotte; che insomma, continuavano, i metropolitani dovessero dare la giurisdizione ai vescovi; che l'arrogarsi i papi di volerla dar soli, fosse usurpazione; che avesse Dio dato a Pietro il primato d'onore, e la potestà suprema di regolare e mantener sana la disciplina, sana la fede in tutte le chiese che la universale compongono, ma non il privilegio di giurisdizione nel caso di cui si tratta: che la potestà di giurisdizione, per quanto spetta alla transmissione della potestà ecclesiastica, fosse in ciascun vescovo, per diritto ed ordinazione divina, piena, come piena era nel supremo pontefice; così avere ordinato Cristo Redentore nel dare ai vescovi la facoltà di reggere le chiese, così richiedere la sicurezza degli stati, e l'independenza della potestà temporale. È giusto forse, sclamavano, è conveniente, è consentaneo alla divina volontà, che i papi possano, con mettere l'interdetto, o a continuazione dell'episcopato ricusando, turbare le coscienze dei fedeli, sconvolgere le province, e i regni? Non è assurdo il supporre, che Dio non abbia dato a ciascuna società il mezzo di conservarsi sana e salva da se stessa? E che sicurezza, e che salute può esservi, se elleno da un forestiero dipendono? Varj e diversi essere stati i modi immaginati dai principi per preservare gli stati proprj dai pericoli, che a loro sovrastavano pei decreti della Romana sede, ora prammatiche, ora appelli, ora concordati: ma tutti essere stati insufficienti, perchè sempre si lasciò sussistere la radice del male, cioè l'eccessiva ed illegittima potenza dei papi: ripullulare i pericoli e le turbazioni ad ogni Romano capriccio, concepir timore gli animi ad ogni elevazione di papa, un cardinale di più o di meno nel pontificio concistoro poter mandar sossopra una provincia intiera: essere oggimai tempo di strigarsi da questi fino allora inestricabili lacci; la Romana tirannide doversi conculcare, ora che un principe potentissimo il voleva; restituissesi all'episcopato tutta la sua dignità, tutta la sua potenza; l'independenza da Roma sarebbe la libertà universale; sarebbe altresì la purezza delle dottrine cattoliche; perciocchè l'avere mescolato le cose temporali con le spirituali, che fu fonte di tanti scandali, e di un deplorabile scisma, essere stato opera di Roma; fosse la religione tutta spirituale, e non turberebbe gli stati, nè darebbe cagione ai malevoli di denigrarla, e più imperio avrebbe e quelli stessi che in lei non credevano, rispettata l'avrebbero: la cristianità cattolica tuttavia piangere la perduta Germania, la perduta Inghilterra; tale doloroso smembramento alla prepotenza di Roma, alle usurpazioni dei papi, alle temporali cupidigie loro doversi certamente ed unicamente scrivere: tornassesi adunque, predicavano, a quel sistema, che stabilito da Cristo e dagli apostoli aveva durato per tanti secoli nella primitiva Chiesa, che gli uomini più pii, più dotti, più esemplari avevano sempre inculcato, e coi più intensi desiderj loro chiamato: da lui solo poter derivare la purezza della religione, e la incolumità degli stati. Vivevano ancor fresche, massime in Italia, le onorate memorie di Leopoldo e di Ricci: non pochi ecclesiastici, anche di prima condizione, e per dottrina e per virtù compitissimi, vi seguitavano le medesime vestigia, e sostenevano le medesime dottrine; non per ambizione nè per desiderio di servire a chi allora tutti servivano, e principalmente gli avversari loro, ma per convinzione propria, per ritirar la Chiesa, come credevano, all'antica sua constituzione, per riformarne gli abusi, per rinstaurare e confermare la libertà dei principi offesa dalla potenza immoderata dei papi.

Queste sparse dottrine piacevano a Napoleone, perchè gli davano occasione d'intimorire il papa e speranza di ridurlo a sua volontà; nè dispiacevano agli arcivescovi ed ai vescovi amatori dell'independenza: quel Romano giogo già pareva loro grave ed intollerabile; quel diventar papi essi sommamente a loro arrideva. Le cose andavano a satisfazione di Napoleone in quanto si atteneva agli ecclesiastici dei suoi stati.

Vinceva il papa non solamente per la costanza, ma ancora per la disgrazia, sempre potente nel cuore degli uomini. Nè i suoi teologi tacevano, benchè Napoleone si fosse sforzato di por loro un duro freno in bocca. Difendevano la sedia apostolica e Romana, non solamente contro le dottrine di Porto Reale e di Pistoja, ma ancora contro le allegazioni del consiglio ecclesiastico. Avere, andavano ragionando, Cristo fondatore sopra Pietro fondato tutto l'edifizio della religione; a lui avere dato primato d'onore, a lui primato di giurisdizione, per lui tutta l'autorità della Chiesa, e per lui solo potersi e doversi tramandare, e trasfondere in altrui: avere per verità Cristo salvatore posto i vescovi a governar la Chiesa, ma non per se medesimi, nè independentemente da Pietro, ma per mandato suo, e sotto la sua dipendenza: Pietro essere il fonte di tutti i rivi, lui il fonte di ogni ecclesiastica potestà; avere per la necessità dei tempi in quei primi secoli, fra una religione contraria, fra le persecuzioni continue, fra un popolo padrone del mondo, che altri Dei confessava ed adorava, fra tante nazioni diverse, e nel vasto campo d'Asia, d'Africa e d'Europa, avere prima gli apostoli per instituzione divina, poscia i vescovi per instituzione apostolica usato la loro autorità senza mandato espresso di Pietro, ma però lui consenziente, imperciocchè non è da credersi, che per condurre una così gran mole, gli apostoli ed i loro successori non si siano accordati, acciocchè a questo ed a quello, senza confusione e senza conflitto, questa o quella provincia fosse di consenso comune devoluta: ciò non ostante rimanere fisso ed inconcusso questo principio, che Pietro aveva un mandato ordinario e perpetuo, gli apostoli un mandato straordinario e caduco da finirsi in loro, o nei successori loro immediati; che quello aveva avuto un mandato per istabile fondamento, e perpetuo governo della Chiesa, questi un mandato temporaneo per la necessità dei tempi; che, cessata questa necessità, tornava il mandato sparso negli apostoli e loro successori immediati al fonte comune, vale a dire ai successori di Pietro; che così la Chiesa nata da un solo tornava in un solo: mirabile, e divino artifizio. Del rimanente anche nella più rimota antichità apparire i segni della trasfuzione del mandato di Pietro nei rettori delle altre chiese del mondo: l'ordine stesso dei metropolitani confermare questa verità; perchè a quei tempi antichissimi era il mondo diviso, per rispetto alla cristianità, in Oriente ed Occidente; due erano nel primo i metropolitani, quei di Alessandria e di Antiochia, uno nel secondo, quel di Roma; comunicavano il mandato ecclesiastico; cioè l'ordine e la giurisdizione, la qualità e il luogo, i due metropolitani d'Oriente ai vescovi delle loro rispettive province, il metropolitano d'Occidente, successore di san Pietro, a quelli d'Occidente; ma i primi da Pietro nell'origine prima avevano ricevuto le potestà loro: imperciocchè aveva governato egli stesso la chiesa d'Antiochia, ed a lei dato un successore, quando venne a fondare e governare quella di Roma: rispetto alla chiesa d'Alessandria, avere Pietro mandato a governarla san Marco, suo discepolo, ma se la origine scopre il mandato, gli accidenti posteriori il confermano; perchè i Romani pontefici, successori di Pietro, ai metropolitani d'Oriente mandavano il pallio, segno della conferita autorità; essi metropolitani addomandavano la comunione ai pontefici di Roma, e senza la ottenuta comunione non si credevano legittimi. Sonsi anche veduti Romani pontefici deporre metropolitani d'Oriente, o patriarchi, perchè con questo nome poscia si chiamarono: a tutti questi segni, affermavano i curialisti di Roma, riconoscersi la superiorità Romana fin dai tempi primitivi; dal che si deduce la pienezza e la perpetuità del mandato nei papi, la dipendenza e la delegazione nei metropolitani. Ne conseguita altresì, che poichè tutta l'autorità spirituale consiste nella facoltà del trasmettere il mandato di Cristo, il diritto di confermare e d'instituire tutti i vescovi della Chiesa è supremo, e divino e conseguentemente inalienabile, imperscrittibile, non soggetto a interruzione, ad eccezione, e cessazione alcuna, e che a lui niuna potenza che sia, nemmeno quella della Chiesa può portar diminuzione, che se qualche modificazione fu introdotta in qualche tempo, massime nei primitivi, ciò o per determinazione, o per consentimento dei sommi pontefici avvenne.

Rispetto poi alla Francia particolarmente, i Romani teologi insistevano dicendo, assai più manifesta essere la trasmissione del mandato di san Pietro nelle chiese di questo reame, che in qualunque altro; perchè i papi, rispetto a lui, non solamente erano papi, ma ancora metropolitani, essendo metropolitani d'Occidente, e se qualche metropolitano particolare pel miglior governo delle chiese di questa vasta provincia fu creato, lui essere stato creato per autorità pontificia: della nominazione ed instituzione di vescovi fatte dai papi nelle Gallie, anche senza l'intervento dei metropolitani, e dell'autorità regia stessa, aversene esempj, e se si vedono nominazioni, vedersi anche deposizioni; il che dimostra la pienezza dell'autorità pontificia in Francia in tutti i tempi.

Nè più si ristavano i difensori dell'apostolica sedia all'argomento addotto della prammatica di Bourges, perchè lei nulla e di niun valore, per essenziale vizio della sua origine, predicavano, siccome quella, che per l'autorità secolare ed incompetente del re era stata concertata e pubblicata: che se poi nulla la chiamavano per vizio originario, nulla maggiormente la predicavano per decreto della Chiesa universale, perchè il quinto concilio Lateranense l'aveva abrogata, annullata, ed anzi dichiarata scismatica. Ora mettendo anche caso, che non fosse viziata d'origine, e che tutta si potesse riferire all'autorità ecclesiastica, cioè ad un concilio nazionale di Francia, l'autorità di un concilio nazionale può forse prevalere a quella di un concilio universale? Può la decisione di una parte più forza avere che la decisione del tutto? Forse nei concilj particolari risiede la infallibilità? Forse non negli ecumenici? La chiesa gallicana stessa, il clero del 1682 è forse mai trascorso a dire una simile enormità? Non ha egli forse definito al contrario, che la infallibilità risiede nel concilio universale unito al papa? Se questo è vero, come è verissimo, come si potrà sostenere la proposizione, che la prammatica di Bourges non sia scismatica? Come ciò sostenere il clero di Francia senza contraddire a se medesime? La lateranense condanna pruovare l'errore del consiglio ecclesiastico, e la necessità del mandato pontificio per acquistare la giurisdizione episcopale. Del resto avere il concordato di Leone decimo e Francesco primo abolito la prammatica, nè potersi a modo niuno risuscitare; avere il concilio tridentino, cioè la Chiesa universale, appruovato il concordato medesimo, e l'autorità pontificia, come indispensabile per l'instituzione canonica dei vescovi, in solenne modo confermata e definita. Nè valere il dire, che il concilio tridentino non sia stato accettato in Francia, quanto alla disciplina, perchè il mandato immortale dei successori di san Pietro non è regola di disciplina, bensì instituzione divina, e perciò attinente al dogma. Oltre a ciò il re di Francia, cioè la potestà secolare sola non volle accettare, cioè pubblicare il concilio di Trento, ma il clero gallicano l'accettò veramente, e presso ai re continuamente insistè, perchè il pubblicassero.

Nè maggior valore avere, continuavano, l'allegazione della necessità, perchè egli è evidente, che per ministrare un rimedio straordinario, anche nel caso di necessità, si richiede la facoltà di ministrarlo: senza una tale facoltà il rimedio sarebbe veleno, e darebbe morte, non vita. Ora certamente il clero gallicano non ha facoltà di modificare, molto meno di annullare quello, che supponendo eziandio che non fosse d'instituzione divina, è stato dichiarato, definito e decretato dalla Chiesa universale: in simili casi, non da se, ma dalla provvidenza si debbono aspettare i rimedj.

Dicono e sostengono i prelati del consiglio ecclesiastico, che il governo della Chiesa non è arbitrario, che il papa debbe uniformarsi ai canoni, e ne appellano al concilio. Ma quando il papa per venirne all'esecuzion del concordato fatto con Napoleone, non avuto riguardo alcuno ai canoni, usava un'autorità insolita ed inudita, e non ostante, come dichiarò egli medesimo, i concilj, anche i generali, deponeva senza accusa e senza processo tutti i vescovi di un regno, cioè della Francia, questi medesimi prelati, ora tanto gelosi delle gallicane libertà, non esse libertà invocarono, non dei papali arbitrj si lamentarono, non al concilio appellarono; che anzi benignissimamente, e volonterosissimamente si assisero su seggi dei deposti, ed ora si servono dell'autorità, che il papa, a pregiudizio dei deposti, loro diede, per impugnarlo e per predicare, che niuna potestà è independente dai canoni. Allora non domandarono un concilio ecumenico, allora non l'assenso della Chiesa, quando si trattava di acquistar cariche, emolumenti ed onori: ma se allora errarono, e sono inconcussi i canoni, inconcusse le libertà gallicane, come non sono eglino o ignoranti, o impostori, poichè per errore e partecipazione loro non vi sarebbe più in Francia, da dieci anni indietro, giurisdizione legittima, e tutti i vescovi, e tutti i curati intrusi vi sarebbero? Rinunziarono per l'adesione loro al concordato, alle loro libertà, riconobbero implicitamente la superiorità del papa sui canoni, riconobbero la sua infallibilità, ed ora l'impertinente viso loro alzano contro quel medesimo papa, di cui predicarono sì altamente la potenza! Credono essi adunque, che il papa debba, a grado della cupidigia e dell'ambizione loro, ora condannare ciò che appruovava, ed ora appruovare ciò che condannava? Si lamentano del procedere arbitrario del papa? Adunque credono, che solo il loro imperatore, da essi tanto adulato, abbia questa facoltà al mondo di essere arbitrario? Piacciono loro gl'imperiali capricci, non piacciono le pontificali sentenze: nemici del loro capo innocente sono, adulatori del loro tiranno sono: amano meglio uno scomunicato, che un papa.

A ciò, e che voglion significare, continuavano gli avvocati dell'apostolica sede, quelle parole, che i vescovi rappresentano la Chiesa universale? Sono eglino forse, i vescovi, i deputati dei fedeli? Forse il mandato di governar la Chiesa, non lo hanno da Dio sotto la superiorità del successore di san Pietro? Non sono eglino i mandatarj del popolo, ma i deputati del signore. Che può dare di spirituale il popolo? Chi ha dato al popolo la facoltà di reggere la chiesa di Dio? Certo nissuno. L'avvilupparsi in parole subdole giova ai nemici della santa sede. Infatti, che voglion dir essi con quelle parole, che la potestà inerente al carattere dei vescovi da Gesù Cristo immediatamente deriva, senza che nessuna umana potestà si possa arrogare il diritto di alterarla in alcun modo? Ma chi non sa, solo che abbia toccato i primi principj della scienza canonica, che altra cosa è il potere dell'ordine, ed altra il potere della giurisdizione? Per l'ordine possono i vescovi conferire la cresima, conferire l'ordine, consecrar le chiese, consecrar gli altari; possonlo sempre validamente, quantunque non sempre legittimamente: per la giurisdizione, quando l'hanno ricevuta dalla santa sede, possono governar le chiese, far regole pel governo loro, appruovar confessori, decretare segregazione di fedeli, e statuire altre simili cose che si appartengono al governo della chiesa confidata loro dal papa. L'ordine è indelebile, la giurisdizione caduca: questa si dà e si toglie da chi ha dritto di dare e di tôrre, nè alcuno di questi audaci impugnatori della sedia apostolica sarà tanto audace, affermavano i teologi di Roma, che pensi e dica, che un vescovo, a cui il papa ha tolto la facoltà di governare una data chiesa, la possa ancora governare legittimamente; il che pruova la necessità del mandato pontificio. Non perisce la giurisdizione episcopale! ma non perisce ella, continuavano a sclamare i Romani canonisti, in un vescovo eretico, non in un vescovo scismatico, non in un vescovo scomunicato? Chi s'ardirà sostenere la contraria sentenza? Da quanto si è ragionato, opinavano, segue, che l'autorità stessa dei metropolitani era delegata, e derivata dai sommi pontefici: tal essere, aggiungevano, la monarchìa cristiana stabilita da Cristo Salvatore, tali gli ordini cattolici, che non si possono impugnare senza eresia; conciossiachè e le memorie antiche, ed il concilio tridentino ugualmente gli confermano.

Del rimanente, a qual fine si narrano tutte queste cose, e che voglion significare? Siano pur salve le gallicane libertà. Forse ne conseguita, che fuori di Francia abbiano ad aver forza, e ad obbligare le genti? Serbinsi in Francia, se tal è l'umore di quel clero e di quei popoli; ma con quale diritto, e con quale ragione volerle trasportare in Italia? Forse per l'Italia stipulava il clero gallicano del 1682? E chi lo dice, e chi lo fa? un decreto di Napoleone, un senatus-consulto di Napoleonici! adunque perchè Napoleone disse, voler Torino, Genova, Milano, Firenze e Roma, tosto hanno queste provincie a diventar soggette delle gallicane libertà, e l'assemblea del 1682 tenuta in Parigi ha ad esser legge per loro? dov'è il mandato di Napoleone per turbare le ecclesiastiche cose in Italia, massimamente in Roma? Chi s'ardirà dire, che un decreto civile abbia effetti ecclesiastici?

Molte cose si son dette, e molte ancora si dicono, si continuava a discorrere dalla parte di Roma, sull'abuso dell'autorità pontificia. Certamente errarono i pontefici, che turbarono le province per rispetti temporali, come errarono i principi, che le turbarono per rispetti spirituali: da qual parte in questo sia maggiore il torto, e più si sia errato, non è questo il luogo di dire, e le storie il narrano. Bene non si sa vedere, quali sinistri effetti abbia prodotto negli stati della casa d'Austria, ed in tutta l'Italia, e così anche nella Spagna, e nel Portogallo, l'autorità del papa dell'istituire i vescovi. Neppure si sa vedere qual male sia nato da questa stessa autorità, poichè di questa sola è nato dissidio, e si tratta, in Francia, in Inghilterra, ed in altri paesi della cristianità; imperciocchè, se si eccettuano le discordie nate ai tempi di Luigi decimoquarto, le quali veramente versavano su questo punto della instituzione, non si scorge che alcuna da questa medesima cagione sia nata. Altre ed assai più ampie radici ebbero le controversie Germaniche, dalle quali sorse l'eresia di Lutero. Similmente per altre maggiori questioni, e da quella dell'instituzione assai diverse discordò Arrigo ottavo dalla santa sede, donde risultò la separazione dell'Inghilterra. Senza entrare nei meriti di quelle antiche o dolorose cause, nè diffinire da qual parte fosse la ragione o il torto, questo è certo, che l'instituzione ne è stata o innocente, o piccola parte. Del resto, qual segno, quale apparenza era, che Pio settimo fosse per abusare della facoltà dell'instituzione a fine di turbare lo stato quieto della Francia? Come sarebbe potuto cadere in lui la volontà di turbare la Francia di Napoleone, in lui, che nella sua vecchia età, per aspri monti, nella stagione più rigida dell'anno, a malgrado dei principi d'Europa, contro la sentenza di molti cardinali se n'era andato a Parigi per incoronarlo? Qual presagio aveva dato Pio di se, che altri potesse credere, che volesse assumere o in Francia od altrove un'autorità eccessiva, una dominazione intollerabile? Dicono, guardate nell'avvenire; ma per guardar nell'avvenire, e' bisogna prima guardar nel passato: guardate in questo, e vedrete, dove sia stato l'incomportabile dominio. Nè qui si parla di libertà ecclesiastica, perchè questo discorso non potrebbe piacere a prelati che la vogliono dar in preda all'imperio: solo si osserverà, quale sarà essa per diventare, se la nomina dei vescovi ai principi secolari, e l'instituzione loro ai metropolitani, o ad altri vescovi sudditi di essi principi si appartenessero. Correggevasi la nomina dei principi dall'instituzione pontificia: se l'una e l'altra sono in mano loro, quella immediatamente, questa per mezzo di prelati sudditi, la religione è serva, ed in caso di voglie a lei contrarie, anche in materia di fede, dei principi, non rimarrebbe altro scampo a' suoi ministri, che l'abbominazione dell'eresia, o i tormenti del martirio. Resiste papa Pio, resiste ad un'incomportabile tirannide: la Chiesa debbe restargli obbligata per sempre, i principi ancora, poichè vinto il papa, la cristianità, il mondo è servo: trattare il papa la libertà di tutti.

Già il disegno ordito contro un papa carcerato, era pronto a colorirsi: i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati s'accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali, o arcivescovi, o vescovi, Fesch, Maury, Caselli cardinali, gli arcivescovi di Tours, di Tolosa, di Malines, i vescovi di Versailles, di Savona, di Casale, di Quimper, di Monpellieri, di Troja, di Metz, di Nantes e di Treveri. S'aggiunse il vescovo di Faenza. Comandava l'imperatore, che mandassero una deputazione a muovere il papa a Savona. Elessero l'arcivescovo di Tours, ed i vescovi di Nantes e di Treveri. Il concilio nazionale convocato in Parigi pel dì nove giugno, parte ancor egli della macchina imperiale per intimorire il papa, stava pronto a proporgli i termini d'accordo voluti dall'imperatore. Comandava Napoleone ai deputati, che annunziassero al papa, essere convocato il concilio, essere abrogato il concordato a cagione che il papa, una delle parti contrattanti, ricusava di osservarne le clausole; dovere in avvenire i vescovi, come avanti al concordato di Francesco primo, essere instituiti secondo le forme che saranno regolate dal concilio, ed appruovate dall'imperatore: tuttavia mandare l'imperatore i prelati con facoltà di negoziare a Savona; ma queste facoltà non usassero, se non nel caso in cui trovassero il pontefice disposto a convenire: due convenzioni doversi fare, l'una independente dall'altra, e con atti separati: nella prima si trattasse dell'instituzione dei vescovi, ed in questa consentirebbe l'imperatore a tornarne all'esecuzione del concordato, con ciò che però il papa instituisse i vescovi già nominati, ed in avvenire le nomine fossero comunicate al papa, a fine di conseguirne l'instituzione canonica; e che se il papa non avesse instituito nel termine di tre mesi, fosse la nomina comunicata al Metropolitano, il quale dovesse instituire il suffraganeo, e questi ugualmente instituisse l'arcivescovo, se si trattasse dell'arcivescovo. Nella seconda voleva l'imperatore, che si accordassero gli affari generali, ferme stando le condizioni seguenti: il papa tornasse a Roma, se consentisse a prestare il giuramento prescritto dal concordato; se ricusasse il giuramento potesse risiedere in Avignone: quivi avrebbe gli onori sovrani, quivi due milioni per onoranza e per vivere, quivi residenti delle cristiane potenze, quivi finalmente libertà di governar le faccende spirituali, ma tutto sotto condizione espressa, che promettesse di fare niuna cosa nell'impero, che fosse contraria ai quattro articoli del 1682. Se il papa accettasse le narrate condizioni, l'imperatore proponeva molte speranze e faceva molte offerte: s'inclinerebbe volentieri ad accordarsi col papa, sì pel libero esercizio delle sue funzioni spirituali, come per fondare nuovi vescovati, tanto in Francia, quanto nei Paesi Bassi: farebbe inoltre ogni sforzo per proteggere i religiosi della terra santa, per riedificare il santo sepolcro, per dar favore alle missioni, per ordinare la dataria, per restituire gli archivj pontificj; ma prima e soprattutto si tagliasse interamente la speranza al papa di ricuperare la sovranità temporale di Roma; se gli facesse sentire, che il concilio era convocato, e la chiesa di Francia capace di fare quanto richiedessero la salute delle anime, ed il bene della religione.

Gran fede aveva Napoleone in se, nei prelati, nella forza, poichè si potè persuadere, che un papa a tanto di abiezione potesse venire, che consentisse a tornar suddito là, dove aveva regnato sovrano, che consentisse a giurare obbedienza e fedeltà a Napoleone imperatore con quello stesso giuramento, che sovrano essendo, aveva, come sovrano, coll'imperatore medesimo accordato e statuito; che consentisse a servirgli, per obbligo di giuramento, di delatore e di spia, non eccettuati nemmeno i casi di confessione. Che Napoleone una tale proposizione abbia fatto, certo nissuno sarà per maravigliare; ma che prelati, che portavano in fronte il nome di cattolici, abbiano assunto il carico di significarla, se muove a maraviglia, muove ancora più a sdegno.

I deputati ecclesiastici arrivati a Savona con le cose digerite, ed avuto licenza dal ministro dei culti di favellare al papa, posciachè appunto di questa licenza abbisognavano, se gli appresentarono, e con rispettosi modi s'ingegnarono di renderselo benevolo. Introdotti, ed accolti con significazione grande di amore, vennero nel primo giorno e nei seguenti sul negoziare. Militando sempre le difficoltà della sua carcerazione, rispose, nissuna deliberazione poter fare, nissuna bolla dare, se prima non fosse restituito alla sua libertà, poichè nella condizione, in cui era, privo de' suoi consiglieri naturali, privo de' suoi teologi, privo di libri, di carta, di penne, privo infino del suo confessore, che aveva domandato indarno, nè potendo prendere alcuna informazione sulla idoneità dei soggetti nominati, non potea nulla, non che concedere, esaminare. Non ostante queste prime caldezze del pontefice, speravano i prelati, che appoco appoco o per fastidio della situazione presente, o per timore della condizione avvenire, o finalmente per disperazione di poter cambiare i destini Napoleonici, l'animo suo si sarebbe mitigato, consentendo, se non a tutto, almeno a parte di quanto si domandava. Il modo del negoziare era artifizioso dal canto dei delegati; maggiormente ancora artifiziose erano le fondamenta, sulle quali voleva l'imperatore che si negoziasse. Tutta l'importanza del fatto in questo consisteva, che si provvedesse all'instituzione dei vescovi con fare, che quando in un dato tempo il papa non gli avesse instituiti, i metropolitani avessero facoltà d'instituirgli. Faceva anche un gran momento, che se il papa avesse convenuto coll'imperatore, l'avrebbe purgato dalla scomunica, se non esplicitamente, almeno implicitamente, e pel fatto stesso.

Il papa assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua risoluzione di non voler trattare, se prima non fosse libero, incominciò a manifestare le sue intenzioni. Quanto al giuramento, risolutamente negò; quanto alle quattro proposizioni, dalla prima non si mostrò alieno, le tre altre costantemente rifiutò, siccome quelle che gli parevano condannabili. Aggiunse che se accettasse, la Chiesa il chiamerebbe vile, e traditore per fastidio di cattività, che il nome suo ne sarebbe contaminato, che ne concepirebbe un'amarezza incredibile; che del resto, per amor della quiete, nulla avrebbe operato in contrario. Ma venendo al principal soggetto del negoziato, cioè all'instituzione, sclamava, che il termine di tre mesi fosse troppo breve; se consentisse, l'imperatore sarebbe giudice dell'idoneità dei soggetti; che in ultimo il metropolitano sarebbe giudice dei rifiuti della santa sede; che troppo eccessiva mutazione era questa; che un pover uomo, com'era egli, solo e senza consigli non poteva assumersi di farla. Ricordava altresì, e con parole efficaci ed affettuosissime protestava, che sarebbe troppo enorme deviazione, se rinunziasse ai diritti particolari sui vescovi d'Italia, che la sua coscienza ripugnava, che altri sovrani avrebbero domandato le medesime prerogative ed eccezioni, che potrebbe darsi che si nominassero soggetti indegni, o di opinioni sospette nella fede, che la santa sede non sarebbe più la santa sede, che perirebbe il mandato dato da Dio a san Pietro, che nascerebbe l'anarchìa nella Chiesa, ch'ella del tutto si governerebbe a piacere della potestà secolare.

Gli rappresentavano i deputati i mali imminenti della Chiesa, le perdite irreparabili delle prerogative della santa sede, le calamità di tanti suoi aderenti. Rispondeva Pio, alzando gli occhi al cielo, e sclamando, pazienza: nol permettere la coscienza, non avere con chi consigliarsi, il capo della Chiesa essere in vincoli. Per far novella pruova di vincere gli scrupoli e la costanza del pontefice, i deputati pregarono il vescovo di Nantes, siccome quegli che aveva maggior dottrina e fermezza in queste materie, che gli altri, distendesse uno scritto da presentarsi al papa. Il fece in lingua Francese, il tradusse in Italiano il vescovo di Faenza. Era la sostanza, che, poichè Napoleone non voleva cedere, il papa doveva di necessità cedere egli. Insomma i deputati in questo loro scritto ammonivano, e fortemente richiedevano il papa della clausola dei metropolitani: pretendevano che non era necessaria una lunga discussione, nè bisogno di consiglieri per decidere, se la santa sede conserverebbe o perderebbe per sempre, rispetto ai vescovi di Francia, il diritto d'instituzione. Intendevano per vescovi di Francia, non solamente quei di Francia, ma ancora quelli del regno d'Italia, del Piemonte, di Parma, di Toscana, e dello stato Romano stesso. Offerivano finalmente, vedesse Sua Beatitudine, se nei luoghi vicini fosse qualche prelato, in cui avesse fede: specificavano dello Spina, come se in quei tempi e nel carcere di Savona qualcheduno potesse libero essere, e liberamente consigliare.

Mossero oltre la cattività e la segregazione, i ragionamenti dei deputati l'animo del pontefice per l'aspetto dei mali avvenire, e sebbene sempre fosse titubante, ed ora si ritraesse, ed ora tornasse, cominciava a non mostrarsi alieno dall'accordar con loro la clausola domandata: solo voleva allargare il tempo dell'instituzione da darsi dai metropolitani sino a sei mesi, che l'imperatore avesse un termine necessario per le nomine, siccome egli l'aveva, parendogli, che se questa necessità s'imponesse a lui, non al principe, l'equalità fra le due parti fosse rotta; nel che aveva ragione, anche secondo i deputati; conciossiachè se l'interruzione dell'episcopato non debbe essere in potestà del papa, non debb'esser nemmeno in potestà dei principi.

Restava l'impedimento della scomunica, per la quale l'imperatore era stato separato dal consorzio della Chiesa. A questo passo i deputati, che già vedevano incerto e vacillante il pontefice, siccome quelli che bene avevano imparato alla scuola Napoleonica i tempi morbidi per incalzare, e temendo di dare causa d'indegnazione a Napoleone, se non riuscissero a fare la sua volontà a Savona, si gettarono tutti addosso a Pio, e il pressarono, e l'aggirarono, e gli diedero di mano da tutte parti. Che cosa essere, dicevano, questa scomunica? Non autentica in Francia, non accettata nè da accettarsi mai; non mai la Francia si scosterebbe dalle massime gallicane: pessimi effetti avere lei prodotti fra i popoli, anche fra le persone più aderenti, e divote alla sedia apostolica: a tutti esserne doluto, come di cosa molto pregiudiciale al papa ed alla Chiesa; i cardinali, non solo i rossi, ma ancora i neri (con questo nome chiamavano i cardinali o esiliati o carcerati) non avere mai cessato di comunicare in divinis con Sua Maestà, aver loro cantato in memoria delle imperiali vittorie, avere cantato ogni festa nell'imperiale cappella. Già il pontefice titubava: per espugnarlo del tutto, i deputati se gli pararono innanzi, ammonendolo, che partivano: badasse bene ai mali soprastanti: solo, sarebbene tenuto verso Dio e verso gli uomini: per lui essere stato, che le piaghe della Chiesa non si sanassero: partivano; farebbe il concilio; avrebbe nuove da Parigi.

Insomma il papa tentato da ogni parte, e separato dal consorzio del mondo, promise di venire ad un accordo, il cui importare fosse questo, che Sua Santità, considerato i bisogni, ed i voti delle chiese di Francia e d'Italia a lui rappresentati dai deputati, e deliberatosi a mostrare con un nuovo atto la sua paterna affezione verso le chiese medesime, darebbe l'instituzione canonica ai soggetti nominati da Sua Maestà con le forme convenute nei concordati di Francia e del regno d'Italia; che si piegherebbe ad estendere con un nuovo concordato le medesime disposizioni alle chiese di Toscana, di Parma e di Piacenza; che consentirebbe che s'inserisse nei concordati una clausola, per la quale prometterebbe di spedir le bolle d'instituzione ai vescovi nominati da Sua Maestà in un certo determinato tempo, ch'egli stimava non poter essere minore di sei mesi; e caso ch'ella differisse più di sei mesi, per altri motivi che per quelli dell'indegnità personale dei soggetti, investirebbe, spirati i sei mesi, della facoltà di dar in suo nome le bolle, il metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui, il vescovo più anziano della provincia ecclesiastica. Aggiunse, che Sua Santità a queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza concetta nei colloquj avuti coi vescovi deputati, ch'elleno fossero per appianar la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace della Chiesa, e restituirebbero alla santa sede la libertà, l'independenza, e la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo scritto contenente queste promesse del pontefice, i deputati affermarono per consenso di lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in questi termini, che i diversi aggiustamenti relativi al governo della Chiesa, ed all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbero materia di un trattato particolare, che Sua Santità era disposta a negoziare, tostochè a lei fossero restituiti i suoi consiglieri, e la sua libertà.

Il pontefice, pensando alla larghezza delle concessioni fatte, e ricorrendogli alla mente le solite dubitazioni, non ebbe dormito tutta la notte. Massimamente gli dava grande angustia il capitolo aggiunto, temendo, che per lui si fosse obbligato a venire ad un negoziato, trattato, o compromesso intorno al governo della Chiesa, ed all'esercizio dell'autorità pontificia, quanto alla parte spirituale. Per la qual cosa, presa il giorno seguente la penna, restituitagli a tempo pel negoziato, scrisse di proprio pugno sullo scritto queste stesse parole: che con sorpresa aveva veduto aggiunte alla bozza delle domande, che gli erano state fatte, le parole, i diversi aggiustamenti con quello che seguitava sin alla fine del capitolo. Continuò, sempre di proprio pugno scrivendo, che le dette domande erano state da lui ammesse, nè come un trattato, nè come un preliminare, ma solamente per dimostrare il suo desiderio di soddisfare alle provvisioni delle chiese di Francia, allorquando, le cose bene considerate, si potesse di loro convenire in un modo stabile, obbligandosi a fare le dette provvisioni transitoriamente, e caso che ciò non si volesse o potesse, si obbligava a trattare di un altro modo di provvisioni. Questa sua protesta non contentando ancora l'animo del pontefice, fatti a se chiamare il prefetto, ed il gendarme Lagorsse, gendarme che era del palazzo pontificale, asseverantemente affermò loro, che non ammetteva l'ultima frase dello scritto accordato tra lui ed i vescovi. Dichiarò loro oltre a questo, che il giorno precedente, non avendo dormito tutta la notte, era come se fosse mezzo ebbro, e che conseguentemente non aveva potuto fare in quel giorno alcuna promessa; che del rimanente non intendeva essersi obbligato nè per un trattato, nè per preliminari di un trattato, che desiderava che ciò fosse chiaramente conosciuto, perchè non voleva esporsi a strepitarne, nè a parere mancar di parola; che del resto, se divenisse necessario, farebbene romore, e voleva che fosse bene inteso, che di nulla dal canto suo si era definitivamente convenuto. Poco importava ai vescovi deputati, che questa giunta fosse o no nello scritto consentito dal papa, perciocchè l'importanza del fatto era nell'instituzione da darsi dal papa o dai metropolitani, nel caso d'indugio da parte della santa sede. Per la qual cosa consentirono facilmente al cassare dallo scritto quest'ultima parte, ed il mandarono al ministro da Torino.

Non senza allegrezza annunziarono i deputati all'imperiale governo le concessioni fatte dal papa: al tempo stesso lo accertarono, che pareva impossibile l'indurre il santo padre a promettere per iscritto, che nulla tenterebbe contro le tre ultime proposizioni del clero del 1682; che solo assicurava, sua intenzione essere di nulla tentare; che ancora era impossibile che prestasse il giuramento, o che rinunziasse al dominio temporale; quanto a' due milioni dichiarare non volergli accettare, poco bastargli per vivere, e di poco voler vivere: soccorrerebbelo, diceva, la pietà dei fedeli. Fra mezzo a tutto questo i deputati si accorsero, e ne informarono il governo, che fissa ed inconcussa deliberazione del pontefice sopra tutte le altre era questa, che non voleva consentire che l'imperatore nominasse i soggetti destinati alle sedi vacanti negli stati pontificj, ed affermava, che dei medesimi a lui solo si appartenesse la nomina e l'instituzione. Come, sclamava con infinita commozione il santo padre, i titoli dei cardinali vescovi, i titoli delle chiese più suburbane saranno, o in parte o in tutto, distrutti senza il consenso della santa sede! Volersi adunque, ch'ei consenta ad un concordato, nel quale l'imperatore nominerebbe a tutti questi vescovati, anche a quelli che di accordo comune sarebbero conservati! Bene terribil cosa sarebbe questa, soggiungeva, se in tutta la cristianità il papa non potesse di suo proprio moto nominare un solo vescovo, e nulla avesse in suo potere per ricompensare i suoi servitori, che bene e fedelmente l'avessero servito nella pontificale amministrazione.

Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice, negl'imperiali palazzi in cui si stava aspettando con molto desiderio quello, che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona: piacque a tutti la scomunica abolita, la instituzione assicurata. L'imperatore domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo del tutto. Insorse adunque con maggiori richieste, volendo, che quanto nelle instruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto per modo che nissuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, o se n'andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio imperiale. A questo fine si deliberava di usar il concilio. Mandò primieramente al pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi, e di questi neanco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal secondar le sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande fondamento poi faceva principalmente sul cardinal Bajana, siccome quello che era molto entrante, e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel concistoro consigliatore di deliberazioni quiete verso l'imperatore. Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus d'Edessa, timida ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col pontefice, ed in grandissima fede e favore appresso a lui.

Così Napoleone minacciava, Bajana parlava risolutamente, Bertazzoli persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti comandava, che nissuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarj, il prefetto, e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Fecero bene i mandatarj la parte loro: solo Dugnani e Ruffo diedero in qualche scappata, favellando della libertà del papa: ma furono dette loro certe parole, che fu loro forza pensare ad ogni altra cosa piuttosto che a questa, di procurare la libertà del carcerato. Intanto il concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse del santo padre: portasselo a Savona una deputazione del concilio, acciocchè il papa ratificasse, e desse un breve conforme. Furono deputati, e portatori della conciliare deliberazione l'arcivescovo di Tours, l'arcivescovo di Malines, il vescovo di Faenza nominato patriarca di Venezia, l'arcivescovo di Pavia, i vescovi di Piacenza, d'Evreux, di Treveri, di Nantes e di Feltre. Gli vide umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì venti settembre il breve, che appruovava il decreto conciliare: le sedi arcivescovili e vescovili, più di un anno non potessero vacare; l'imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse instituito, il metropolitano, od il più anziano instituissero essi. Solo ai notati capitoli aggiunse il pontefice il seguente, che, spirati i sei mesi, e se alcun impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano, o il più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione di fede, e tutto, che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente, che instituissero in nome suo espresso, od in nome di colui che suo successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli atti autentici della fedele esecuzione di queste forme. L'avere statuito un termine alle instituzioni pontificie, oltre il quale se il papa non avesse instituito, potessero instituire i metropolitani, era cosa piuttosto di estrema che di grande importanza per la sicurezza e quiete degli stati, e in questo aveva Napoleone bene meritato della potestà secolare; imperciocchè in così stretta congiunzione delle cose temporali e spirituali possono nascere facilmente tra le due potestà gravi controversie, per terminar le quali a suo vantaggio Roma potrebbe usare contro i principi il rimedio nell'interruzione dell'episcopato per mezzo della negazione delle instituzioni. Il termine prefisso di cui si tratta, suppliva, in quanto spetta all'independenza della potestà temporale, agli ordini spenti dell'antica disciplina, o legittimi che si fossero e d'instituzione divina secondo l'opinione di molti dotti teologi, o solamente tollerati per tacita od espressa delegazione dai successori di san Pietro secondo l'opinione della curia Romana. Beato Napoleone, se ciò avesse domandato, ed ottenuto dal pontefice per amor della libertà, non per cupidigia della dominazione! Beato egli ancora, se in ciò si fossero contenuti i suoi pensieri! Ma quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice, tanto più egli osava. Bajana, l'arcivescovo di Tours con tutti gli altri si serrarono addosso al prigioniero, acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperatore. Facilmente si vede, quale libertà ecclesiastica potesse ancora sussistere, se il papa prestasse il giuramento, se vivesse in Roma o in Avignone cinto dai soldati Napoleoniani, e salariato dall'imperatore, se l'imperatore nominasse tutti o quasi tutti i cardinali, se tutti i dispacci del papa si tramandassero per le poste imperiali. Certamente in questo i prelati facevano piuttosto la parte di avvocati dell'imperio, che della Chiesa, e procuravano la libertà intiera della potestà secolare. I principi avrebbero dovuto restar loro obbligati, se tale fosse stata la lor intenzione qual era il fatto. Del resto qui era un caso straordinario, dal quale non si poteva argomentare agli ordinarj; perciocchè tutte le potestà secolari erano a questo tempo serve di una sola, la quale, per l'intiera soggiogazione della potestà ecclesiastica, diventava padrona assoluta del mondo. Caso strano, ma vero: la libertà ecclesiastica era parte e sostegno della libertà universale, e caduta quella, che di tutti i freni era il solo che fosse rimasto, anche questa se n'andava in precipizio per dar luogo ad una universale tirannide.

A tutta la tempesta che gli si faceva intorno, domandava primamente il papa la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliarj (il narro perchè la posterità conosca l'età), ch'egli era libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare a Roma, o dell'andar ad Avignone in qualità di suddito con fermezza grandissima negava. Il dolce Bertazzoli, che aveva paura, non se ne poteva dar pace: pietosamente sclamava: «Speriamo in Dio, obbidienza al governo, ho speranza, preghiamo Dio»: e così tra queste speranze e questa obbedienza il buon prelato passava tempo, ma nulla fruttava col pontefice: anzi finalmente il papa gl'intimò, non gli parlasse più di faccende. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla, volle pruovare, se una solenne e subita minaccia potesse far effetto. Comandò ai deputati, ed il fecero, che si appresentassero al pontefice, e ad aperte parole gli dichiarassero, esser loro per ordine dell'imperatore in sul partire da Savona, lui essere cagione che l'imperatore si ritirasse dai concordati, lui operare che i vincoli della chiesa gallicana colla santa sede si rompessero, lui fare che di tanto notabile diminuzione della cattedra di san Pietro potessero giustamente i posteri, e massimamente i suoi successori, accagionarlo; pensasse bene, quello essere l'ultimo momento, Romana chiesa perduta, imperio trionfante. Aggiungevano molte altre cose sul benefizio che riporterebbe ciascuna delle parti dalla condiscendenza del papa. Rispose, non potere contro coscienza, Dio provvederebbe, non curarsi di quanto dicesse il mondo, manco di quello che cardinali e prelati contaminati a Parigi dicessero. Partirono disconclusi.

Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gravemente lo ammoniva dell'importanza del fatto, delle calamità sovrastanti, dei pentimenti, che ne avrebbe, dell'opinione di tutto il clero, anzi del mondo, contraria alla sua. Aggiunse, che se non si piegasse, ed in meglio non voltasse le sue risoluzioni, aveva carico di notificargli cosa, che porterebbe grave ferita al suo cuore. Rispose, nol permettere la coscienza; che Dio mostrerebbe la sua potenza. Il prefetto gli significava allora da parte del governo, che il breve dei venti settembre non essendo stato ratificato, l'imperatore teneva i concordati per abrogati, e non soffrirebbe più, che il papa intervenisse nell'instituzione canonica dei vescovi.

Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far pruova, se da vicino fossero più fruttuose. Oltre a ciò già i tempi incominciavano a stringere, e i fati a dar di mano a Napoleone: quel papa renitente e lontano dava qualche timore. Deliberossi l'imperatore a tirarlo in Francia, dove potesse e vederlo e minacciarlo egli medesimo. La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del giorno. Diessi voce, che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva accompagnare il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia dell'imperatore, per essersi mostrato troppo agevole ed amico con Porta, medico del papa, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per udire da lui gli imperiali comandamenti. Tant'oltre andò la simulazione, che i Savonesi ingannati compativano Lagorsse, e davano attestati di buona vita a copia per discolparlo: la cosa allignava. L'ingegnere, capo dei ponti e strade, apprestava ogni cosa alla partenza. La notte dei nove giugno era scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messogli addosso una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile in petto, lui non ripugnante, anzi serbante serenità, spignevano il capo della cristianità nella carrozza apprestata, e l'incaminavano alla volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo d'Albenga, che andasse a Novi. Passarono per Campomarone non per Genova, per sospetto della città. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo pontificale per far visita al pontefice, come se fosse presente: i domestici preparavano le stanze, apparecchiavano e sparecchiavano le mense, andavano a mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in vita, se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo, i gendarmi attestavano a chi il voleva udire, ed a chi nol voleva, avere testè veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o sul terrazzo, o in cappella; Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto le grazia dell'imperatore. Chi non sapeva parlava, chi sapeva non parlava. Ma si voleva che niuno parlasse: un pover uomo della riviera ebbe a dire, per sua disgrazia, che aveva veduto il papa a Voltri: gli fu intimato si ritrattasse: quando no, mal per lui: si ritrattò, e fu lasciato andare con le raccomandazioni: fece proponimento di non nominar mai più papa. I Napoleonici stavano in sentore, se mai qualche voce in Savona, o nei luoghi vicini sorgesse: i magistrati scrivevano, ogni cosa essere sicura; nissuno addarsi. Insomma già era il pontefice a dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano perfettamente orditi i disegni del Napoleonici! Arrivava il pontefice a nuovi soldateschi insulti in Fontainebleau: poco dopo arrivava anche Napoleone. Caso fatale, che là, dove otto anni prima era Pio arrivato trionfante, ora prigioniero arrivasse, e di là dove ora Napoleone signore del mondo arrivava, prigioniero due anni dopo se ne partisse.

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