San Girolamo

«Morbidam non contemnas ovem»

Girolamo a Damaso

Sul finire del 376 il vescovo di Roma, Damaso, riceveva fra le altre, col corriere d'Oriente, una inattesa lettera che gli inviava dalla solitudine di Calcide nella Siria un asceta cristiano, a nome Eusebio Girolamo. Con parole ossequiose, con accenti commossi, il solitario implorava, dal remoto deserto siriano luce e cibo per la sua anima in pena, da quella cattedra di Pietro, donde aveva già ricevuto, una dozzina d'anni prima, la tunica candida dell'iniziato. Dopo averla rotta con tutta la sua famiglia; dopo aver ramingato per l'Oriente attraverso un viaggio periglioso; Girolamo, avido di raccoglimento e di pace, aveva abbandonato i buoni amici di Antiochia e aveva chiesto alla solitudine ascetica il riposo e la letizia della contemplazione. Ma mai delusione più amara aveva seguito a così breve scadenza un sogno più lungamente vagheggiato. Il deserto di Calcide ospitava numerosi asceti, che il medesimo ideale aveva allontanato dal tumulto delle città. Ma la serenità che avrebbe dovuto aleggiare sulle loro celle, fatte per il raccoglimento e la preghiera, aveva irreparabilmente esulato dal giorno in cui le polemiche teologiche, che travagliavano da decenni tutte le chiese d'Oriente, quali estreme propaggini della memoranda lotta ariana, avevano valicato il limite del deserto ed erano venute ad insidiare la virtù della carità fin tra i ripudiatori del mondo. Immaginandosi di capitare in mezzo ad un vero coro di angeli, Girolamo era precipitato invece in una bolgia di polemizzanti teologi. Gli asceti dovettero farsi intorno al nuovo venuto, che già tanto aveva peregrinato nel mondo, e dovettero ingaggiare viva lotta, per trarlo ciascuno al proprio partito. La polemica divampava intorno al significato e al valore del vocabolo ipostasi (ὑπόστασις) e alla possibilità di adoperarlo per designare il Verbo e lo Spirito, distinti dal Padre nell'unica sostanza divina. Poichè Girolamo era abituato a scorgere, secondo il linguaggio delle scuole, nel termine di ipostasi un semplice sinonimo di essenza (οὐσία), si rifiutava ostinatamente di pronunciare la formola delle tre ipostasi, che, a suo parere, comprometteva in maniera irreparabile la purezza della fede monoteistica. La via più semplice per levarsi d'impaccio sarebbe l'appello all'autorità ecclesiastica più vicina, al vescovo cioè di Antiochia di Siria. Ma per un complesso di circostanze che non è qui il caso di analizzare, i dissidi teologici d'Oriente erano in quel momento intrecciati a numerosi conflitti d'indole disciplinare e personale, che rendevano infinitamente più difficile l'intesa teorica fra gli aderenti al medesimo simbolo di Nicea. Ad Antiochia in particolare tre presuli, Vitale, Melezio e Paolino, pretendevano in quel momento, con pari energia, di rappresentare la correttezza ortodossa. Nell'imbarazzo, Girolamo aveva preso il suo coraggio a due mani, e si era rivolto direttamente «al successore del pescatore e all'autentico discepolo della croce» che da Roma presiedeva ai destini della società ecclesiastica, protestando in termini calorosi di voler essere strettamente ed unicamente vincolato alla cattedra di Pietro.

Damaso dovette leggere e rileggere l'interessante lettera, e per quanto si sentisse lusingato dalle dichiarazioni ossequiose di ubbidienza e di rispetto che essa conteneva, si astenne lì per lì da ogni risposta. Roma sentiva istintivamente di dover procedere con molta cautela nell'esame e nella valutazione delle polemiche filosofico-teologiche che dilaniavano l'Oriente e di cui le sfuggivano talora le più delicate sfumature e i più profondi moventi. Damaso in particolare in quel momento difficile avrebbe preferito non immischiarsi con larghezza in faccende ardue ed insidiose. Tanto più egli era indotto alla prudenza, in quanto qualche suo recente intervento nella questione del vescovato antiocheno aveva suscitato le rampogne, tutt'altro che corrette e riguardose, di personaggi eminenti, come Basilio di Cesarea. L'accorto vescovo di Roma pose dunque la lettera in un canto e si diè più tosto a raccogliere in città particolari biografici sull'asceta che l'aveva interpellato: potevano essere sempre utili.

A Roma in realtà parecchi ricordavano Eusebio Girolamo venuto, a pena ventenne, a studiarvi grammatica sotto Donato, sedici anni prima, dalla nativa Stridone, al confine delle Pannonia e della Dalmazia (oggi Grahovo, presso Glalnac in Bosnia). Vi aveva menato sul principio vita dissipata, assaporando con avida brama tutte le gioie sensuali che una grande città può offrire al provinciale che vi giunga con abbondanza di mezzi finanziari a propria disposizione. L'immagine anzi tentatrice del tripudio carnale a cui si era abbandonato durante la giovanile permanenza a Roma doveva a lungo ossessionare la sua fantasia fervida e la sua sensibilità raffinata. «Quante volte – confiderà egli stesso più tardi alla sua giovane amica Eustochio – a me sperduto nel deserto, ospite di quella immensa solitudine arsa dal sole, cui i monaci chieggono squallido riposo, parve in sogno di partecipare ancora alle ardenti delizie di Roma. Ero solo; l'animo riboccante di amarezza; smunto e deforme, provavo io stesso ribrezzo contemplando le mie membra aride e la mia pelle abbrustolita. Gemevo e lacrimavo ad ogni levar di sole e quando a notte il sonno aveva ragione del mio stesso volere, gettavo sulla pietra un fragile cumulo di ossa. Non parlo del cibo e della bevanda: laggiù i monaci stessi infermi si dissetano con acqua fredda, e un cibo caldo è un lusso inconsueto. Ebbene: io che volontariamente, per timore dell'eterna dannazione, mi ero condannato a simile supplizio; io che avevo cercato l'orrida compagnia degli scorpioni e delle belve, provavo ancora la sconcertante illusione di assistere, ebbro, alle danze procaci delle cortigiane romane. Potevano pure le gote essere macerate dal diuturno digiuno: il cuore fiammeggiava di cupidigia, e nel gelido corpo, nella carne premorta all'individuo, divampava l'incendio della lussuria. E allora, spoglio di ogni soccorso, mi gettavo ai piedi di Gesù, l'inondavo di lacrime, l'asciugavo con i miei capelli, protraevo per settimane le mie astinenze, onde fiaccare la carne ribelle.»

Ma un giorno, ben lo ricordavano a Roma, il dalmata focoso aveva voluto sottoporre al lavacro purificatore la sua anima, ormai satolla di soddisfazioni volgari. La cerimonia battesimale del sabato santo l'aveva visto, ai tempi di Liberio, tra le file dei neofiti ed egli aveva promesso solennemente in quel giorno di cercar solo nella professione cristiana la pace e la serenità per il suo animo irrequieto. Visse ancora per un po' di tempo a Roma, intento ad un lavoro assiduo di trascrizione di codici e alla esplorazione delle venerande memorie cristiane dell'urbe. Nei giorni sacri al Signore amava, con qualche amico, uscire per le grandi vie consolari e, abbandonandosi al fascino di questa meravigliosa campagna romana che ama svelare le sue bellezze solo a chi sappia indagarle con amore volenteroso, scendeva nei luoghi dove il cristianesimo dei tempi di Settimio Severo, di Decio e di Diocleziano, aveva segnato le orme sue più luminose. Ma ben presto Roma non dovette essere più sufficiente al suo bisogno inesauribile del nuovo e dell'imprevisto. Ne uscì: non diretto al suo paese di nascita (era assioma per lui che la perfezione non può raggiungersi da un monaco in patria) bensì nella Gallia, di cui visitò amorosamente le chiese e le scuole più rinomate.

A Roma si erano così perdute le tracce di lui. Solo dopo che, ripassato per la Dalmazia e venuto a lotta con la sua famiglia, Girolamo aveva preso la strada suggestiva dell'Oriente e si era isolato nel deserto di Calcide, Roma aveva riudito, nella maniera più inattesa e più sonora, la sua voce lontana.

Aveva accompagnato Girolamo, da Aquileia in Oriente, deciso con lui a romperla per sempre col mondo, un giovane amico, Eliodoro. Ma giunti a destinazione, compiute le prime esperienze ascetiche, Eliodoro aveva sentito di non poter reggere ai rigori dell'aspra e disagiata solitudine, ed aveva ben presto fatto ritorno al mondo. Nel 373 Girolamo aveva scritto all'amico partito una lunga lettera di esortazione alla solitudine, e questa lettera, fatta circolare in un grande numero di esemplari, in un momento in cui le tristi vicende politiche dell'impero, tentennante sotto i colpi barbarici, inducevano tante anime ad assegnare alla vita interiore dello spirito l'unico valore assoluto, aveva suscitato echi vasti e profondi. Parecchie copie dell'opuscolo erano giunte a Roma e nel raccoglimento discreto di parecchie case patrizie cristiane, già iniziate alla conoscenza dell'ascetismo orientale, le pagine alate avevano suscitato brividi di commozione ed entusiasmi di desideri e di consensi. Mai in verità l'ideale della rinuncia e della purezza aveva avuto assertore più reciso e predicatore più insinuante.

Girolamo vi aveva esortato con le lacrime agli occhi il fragile amico a tornare con lui nel deserto: «tu sai, Eliodoro, con quanto premuroso amore io abbia cercato invano di tenerti avvinto a me, nella solitudine. Le mie dolci parole di persuasione sono state vane: debbo tentare ormai il rimbrotto e la minaccia. Orsù, soldato effeminato, a che t'indugi nella casa paterna? Ecco, già squilla dal cielo la tromba: il sovrano armato scende dalle nubi a soggiogare il mondo; l'affilata spada che esce dalla bocca del re fende quanto si leva sul suo cammino: e tu pretenderesti di passare subitamente dal soffice giaciglio al combattimento, e dall'ombra discreta, al fulgore abbagliante del sole? Un corpo abituato alla tunica non può tollerare il peso della corazza e un capo ricoperto di solito di stoffa, si ribella al casco. Tu ricorda la sentenza del sovrano: chi non è con me, è contro di me. Ricorda il giorno solenne della tua iniziazione, quando sepolto in una con Cristo nelle acque battesimali, giurasti solennemente con la formola sacramentale d'esser pronto, per il suo nome, a dimenticare padre e madre. L'eterno avversario cerca ora di trafiggere Cristo nel tuo spirito: tutta l'oste nemica brama di carpirti il soldo che ricevesti, dando il tuo nome alla sacra milizia. Ebbene: qualora pure il pargoletto nipote si avviticchi forte al tuo collo; qualora pure tua madre, con i capelli discinti e le vesti a brandelli, venga a mostrarti il petto con cui ti nutrì; dico di più, qualora pure tuo padre venga a porsi traverso alla porta di casa: tu fuggi, passando sul corpo di tuo padre, tu, a ciglio asciutto, vola, vola alla croce. Nel dominio della vita spirituale, l'esser crudeli significa essere pii... Nè devi credere che le supreme rinuncie siano imposte sol nell'istante del martirio. Tutta la nostra esistenza si svolge sotto il pungolo di una implacabile persecuzione, e in ognuno di noi mille avversari, con mille arti, tentano ad ogni secondo di manomettere la nostra grazia cristiana. Via dunque dalla tua patria: il monaco non può toccare in patria la perfezione, e rinunciare alla perfezione è già un delinquere. Nè devi addurre l'esempio del clero che vive nel mondo. Dio mi guardi dal pronunciare parola sinistra sul conto di coloro che, succedendo in dignità agli apostoli, con le labbra consacrate fanno presente il corpo di Cristo; per mezzo dei quali noi stessi diveniamo cristiani; che, padroni delle chiavi celesti, giudicano in certo modo prima del dì del giudizio e conservano la sposa del Signore in uno stato di specchiata castità. Ma il monaco non è l'ecclesiastico. Questi pasce il gregge, quegli è sotto il suo vincastro. Ma a quanto numerosi e gravi rischi è esposto il pastore! Non credere che basti la dignità gerarchica a costituire ecclesiastici: e pensa che quegli cui più fu donato, a più dura resa di conti sarà chiamato. Se il monaco vacilla e cade, il prete pregherà per lui: ma sulla caduta del prete, chi mai leverà la sua supplica a Dio?.... Ma io debbo sospendere la mia parentesi e sciogliere ormai l'inno della mia gioia. Oh, deserto smaltato dei fiori primaverili di Cristo; o solitudine dal grembo della quale erompono le pietre onde si leva la città apocalittica del re glorioso; o eremo tripudiante nella dimestichezza di Dio: che cosa fai mai nel mondo, o fratello, tu del mondo più grande? Fino a quando ti lascerai opprimere dall'ombra dei tetti e chiudere e soffocare fra le mura di queste affumicate carceri, che sono le nostre città? Credimi: sull'orizzonte aperto scorgo una luce smisurata. Temi forse la povertà? Ma Cristo ha chiamato beati i poveri. Pensi al cattivo cibo? La fede non prova gli stimoli della fame. Ti fa raccapriccio il riflettere che dovrai dormire sulla nuda terra? Rallegrati: il Signore ti sarà compagno a giacere. Ti sgomenta l'immensità del deserto? Il tuo spirito vagherà negli spazi radiosi del cielo. Prevedi che la pelle diverrà ruvida senza il bagno? Chi ha ricevuto il battesimo in Cristo, non ha più bisogno di lavarsi. Via, sei bene esigente, amico, se pretendi di folleggiare qui col mondo e poi regnare col Cristo. Verrà pure il giorno in cui questa nostra veste corruttibile dovrà trasfigurarsi nella immortalità. A che cosa varranno quel giorno il fasto e la dottrina, le dignità e le ricchezze, i sogni di Platone e gli argomenti di Aristotele? Soli rideranno i disgraziati e gl'ignoranti di Cristo....».

Ammiratore appassionato dell'ideale ascetico; inculcatore instancabile del celibato ecclesiastico; Damaso dovette versare lacrime di vera commozione su pagine così riboccanti di fervore mistico, dove, non senza paradosso, ma ad ogni modo con ispirazione elevatissima, si stabiliva un'equazione assoluta fra la perfezione e il monachismo. Il suo cuore l'avrebbe indotto a rispondere senz'altro al solitario di Calcide, che aveva scritto pagine così meravigliosamente toccanti, e a sollevarlo autorevolmente nelle sue angustie; il suo fine accorgimento di reggitore della chiesa romana ne lo trattenne. Frattanto Girolamo attendeva e soffriva.

Il fervore parossistico delle dispute teologiche spingeva i monaci ai più ripugnanti eccessi. Girolamo stesso li denunciava: «fa pena il doverlo dire. Dal fondo delle nostre caverne osiamo giudicare l'universo. Sotto la tunica della penitenza rechiamo con noi una superbia regale, dimentichi che le catene, la sordidezza, le lunghe chiome, stanno ad indicare, non già un diadema, ma il pianto. Per una proposizione teologica noi ci accapigliamo e giungiamo a sputacchiarci a vicenda, dopo avere a lungo discusso.»

Stanco e nauseato, Girolamo volle ritentare la prova e scrisse una seconda lettera a Damaso, chiedendo nuovamente che fossero illuminati i suoi dubbi e indicata alla sua incertezza teologica, la via sicura da battere. Forse, ma non se ne ha notizia sicura, Roma questa volta rispose: ad ogni modo Girolamo non volle più a lungo essere vittima dei rancori e delle gelosie dei suoi compagni di ascetismo e abbandonò nella primavera del 379 il deserto di Calcide. Pochi mesi prima, nell'agosto del 378, l'impero d'Oriente aveva subito uno scacco clamoroso ad Adrianopoli, e lo stesso imperatore Valente era scomparso nella confusione della disfatta. I Goti vincitori dovettero traboccare fin nella Dalmazia e forse allora fu distrutta Stridone, la patria di Girolamo. Egli dovette sentirsi così veramente tagliato fuori del mondo, navicella portata alla deriva. Solo e ramingo, egli poteva porsi in cammino a cercar, dovunque, la pace e la libertà dei figli di Dio.

Si recò da prima ad Antiochia, dove il vescovo Paolino, quegli stesso verso il quale andavano le preferenze di Roma, l'ordinò prete, senza riuscire con ciò a fargli porre radici sul terreno della sua giurisdizione. Continuando il suo indocile pellegrinaggio, mosse verso Costantinopoli, bramoso di completare la sua cultura teologica, cui aveva già atteso ad Antiochia al suo primo arrivo in Oriente sotto la guida del famoso Apollinare, e che aveva più assiduamente coltivato nel deserto, commentando qualche libro del Vecchio Testamento e studiando l'ebraico, per leggerne il testo nell'originale. Si trovava allora a Costantinopoli il famoso oratore Gregorio, cappadoce di nascita, monaco per vocazione, origeniano per cultura teologica, vescovo e patriarca contro voglia. Girolamo fu assiduo alle sue prediche: fu più assiduo alle sue conversazioni, e ne ricavò un incalcolabile profitto. Sotto la sua ispirazione, cominciò quel suo indefesso lavoro di traduttore dal greco, che mirava ad avvicinare le comunità cristiane di occidente alle opere fondamentali della cultura ecclesiastica orientale. La cronaca eusebiana, alcune omelie di Origene su Ezechiele e su Geremia, furono i primi saggi di questa attività di traduttore, cui Girolamo non doveva più rinunciare. Contemporaneamente, prima manifestazione di un'operosità strettamente teologica che non fu mai molto profonda e tanto meno originale, Girolamo redigeva un trattatello sui Serafini, dedicato poco più tardi a Damaso.

Pur essendo di solito molto proclive a disseminare lettere e scritti polemici di particolari biografici; pur avendo avuto la disinvolta franchezza di inserire un breve saggio autobiografico nella sua schematica cronistoria delle figure più eminenti che avevano illustrato il cristianesimo fino ai suoi tempi; Girolamo non ci parla mai a lungo di questa sua permanenza a Costantinopoli, dove si svolgeva nel 381 quel solenne concilio che condannava i macedoniani e le loro teorie contrarie alla divinità dello Spirito Santo e che vedeva nel giro di un mese l'elezione del Nazianzeno a patriarca della capitale e le sue dimissioni. Molto probabilmente Girolamo non si trovava affatto a suo agio in mezzo a quei vescovi scissi da irriducibili divergenze teologiche, attraverso le quali si esprimevano profonde avversioni politiche ed etniche. Il suo ansioso pensiero volava lontano, a Roma, verso cui gravitava quanto di latino sopravviveva nell'impero, ormai così profondamente orientalizzato. Un'occasione improvvisa si offrì ben presto, per tradurre l'accarezzato sogno in realtà.

Il sinodo che il 3 settembre del 381 si era inaugurato, sotto la presidenza di Ambrogio di Milano, ad Aquileia, per esaminare l'eterna questione delle infiltrazioni ariane in seno all'episcopato cattolico e per promuovere possibilmente qualche provvedimento inteso ad appianare i dissensi personali che laceravano la compattezza dell'episcopato d'oriente, si era chiuso col proposito di favorire la convocazione di un concilio plenario a Roma, dove Oriente ed Occidente potessero incontrarsi e intendersi direttamente. L'idea fu accolta da Teodosio, che facilitò la riunione del sinodo a Roma nel 382. Non possediamo copiose informazioni sui suoi lavori, ma non dovettero essere di straordinaria importanza e forse il principale risultato della non comune adunanza fu quello di aver raccolto a Roma, intorno a Damaso, un notevole gruppo di vescovi famosi, tra cui spiccavano l'instancabile Acolio di Tessalonica, il venerando Ambrogio di Milano, il bistrattato Paolino di Antiochia, Epifanio di Salamina. Questi due ultimi provenivano da Costantinopoli. Girolamo, colta l'occasione, si era posto al loro seguito e aveva veleggiato anche lui verso l'Occidente.

Rientrando a Roma dopo più che un quindicennio, preceduto dalla fama in cui ormai l'avevano posto i viaggi avventurosi e l'intensa propaganda ascetica, al reduce dal deserto di Calcide poteva forse prospettarsi un brillante avvenire ecclesiastico. Le correnti spirituali non guadagnavano rapidamente il miglior ceto dell'aristocrazia colta a Roma e non era egli designato naturalmente ad assumerle tutte sotto la sua tutela e la sua guida? Girolamo aveva allora circa 42 anni: era nella pienezza delle sue forze fisiche e morali, nella possibilità di adoperare con successo le naturali attitudini del suo ingegno e le capacità acquisite attraverso lunghi anni di tirocinio e di studi. Oltre a maneggiare il latino come uno dei più felici scolari di Donato, Girolamo aveva ormai la piena padronanza del greco e dell'ebraico, e una conoscenza non comune della letteratura ecclesiastica. Preso tutto da una passione ardente per quell'ideale di rinuncia al mondo che investiva e soggiogava la società cristiana del IV secolo, come quei soffi potenti di vento che piegano d'un subito in un vasto movimento di onde un campo di spighe mature, Girolamo era l'uomo adatto a dominare i più raffinati gruppi di cristiani romani del suo tempo. A parte le sue personali aspirazioni, avrebbe indubbiamente raggiunto i più alti gradi della gerarchia ecclesiastica, come molti ben presto credettero di poter prognosticare a Roma, se un complesso di circostanze non l'avesse, come suol dirsi, sollecitamente compromesso.

Egli entrò d'un subito nelle grazie e nella dimestichezza di Damaso. Come dovette essere gradita al vecchio pontefice, amareggiato dalla durissima lotta col partito di Ursino, intrattenersi con l'autore della lettera ad Eliodoro e parlar con lui di quegli argomenti concernenti la situazione delle chiese orientali, intorno ai quali non aveva osato parlare pubblicamente per lettera! Nel governo della chiesa, Girolamo apparve a Damaso un cooperatore prezioso: e questi se ne servì nella copiosa corrispondenza, nella delucidazione dei dubbi biblici, nella trattazione delle questioni d'Oriente. Nè basta. Bramoso di ridurre ad unità il testo latino corrente del Nuovo Testamento, di cui può dirsi che corressero ormai «tot lectiones, quot codices», Damaso affidava al traduttore di Eusebio e di Origene il compito di rivedere la versione latina del Nuovo Testamento sull'originale greco, e uscendo poi dai confini della letteratura neotestanientaria, lo incaricava di correggere sul testo dei Settanta la versione corrente dell'Antico.

Ma l'opera più grata al suo cuore di monaco, più dolce al suo ideale di spiritualista eletto, fu a Roma la direzione affettuosa della piccola «chiesa domestica» che la vedova Marcella organizzò sotto i suoi auspici nella sua dimora signorile dell'Aventino.

L'ideale della continenza aveva già dietro a sè una lunga storia in seno alla società cristiana. Sbocciato con la stessa propaganda evangelica, poteva dirsi, secondo modelli molteplici ed eterogenei, aveva avuto, oltre che seguaci insigni, teorici rigorosi. Nella stessa chiesa di Occidente, Tertulliano agli albori, Cipriano alla metà del III secolo, avevano, con parole rudi e allusioni impressionanti, raccomandato a quanti e a quante abbracciavano il programma della verginità, di essere seriamente fedeli alla professione di vita prescelta. E pare che ve ne fosse urgente bisogno. Quel che Cipriano dice nel De habitu virginum fa pensare che l'ideale della continenza fosse nella Cartagine del terzo secolo, alla vigilia della persecuzione deciana, una non incomoda e non gravosa moda, se le giovanette che lo avevano abbracciato non sentivano nè pure la necessità di evitare i bagni promiscui, dove i pericoli erano infinitamente maggiori di quelli che le nostre consuetudini, di tanto più corrette, potrebbero farci immaginare.

Nella seconda metà del III secolo gli asceti cominciano a separarsi dalla comunità cristiana per ritirarsi nella solitudine. Paolo di Tebe (234-345) è il primo solitario di cui una leggenda in parte lussureggiante ci abbia tramandato il ricordo, ma sant'Antonio è il tipo più rappresentativo della vita eremitica, che Pacomio trasforma nel deserto egiziano in cenobitica. Esule a Roma, sotto la persecuzione ariana di Costanzo, fra il 339 e il 340, Atanasio, il grande vescovo d'Alessandria, aveva fatto conoscere l'ideale monastico praticato laggiù oltre mare e la sua apologia dell'ascetismo aveva riscosso nei circoli aristocratici romani, calorosi consensi.

In verità il piccolo cenacolo cristiano di cui Marcella era il centro, preesisteva all'arrivo di Girolamo a Roma. Marcella aveva visto da fanciulletta l'austero volto di Atanasio e aveva udito qualcuna delle sue parole ispirate. In fondo all'anima sua era rimasto come il senso inappagato di un ideale non raggiunto e nella sua vedovanza aveva preso la consuetudine di raccogliere quotidianamente presso di sè, nella grande casa dell'Aventino, il modesto ma sceltissimo nucleo di amiche, che vagheggiavano concordemente il sogno di costituire nel tumulto di Roma, un saggio di cenobitismo cristiano. Girolamo diede cemento al gruppo eletto, in cui figuravano, oltre la nobile ospite, la vedova Lea, la vergine Asella, la vedova Paola e la sua tenera figliuola, Eustochio, della famiglia degli Scipioni, e poi Albina, Marcellina, Felicita, Principia, Feliciana.

Tra questo stuolo di spirituali donne cristiane e Girolamo l'amicizia nacque spontanea: e fu calda e tenace. Fu la simpatia che sgorga pronta e irrefrenabile dalla comunanza delle aspirazioni e dei sogni. «Nessuna donna – poteva proclamare più tardi l'asceta – soggiogò a Roma il mio spirito, se non quelle che piangenti, digiunanti, accecate quasi dalle lacrime, solevano implorare ogni notte la misericordia del Signore e si facevano cogliere dal sole nascente ancora intente a pregare.» Dal canto loro, le nobili matrone e le giovanette dell'Aventino rispondevano alle delicate attenzioni e alla premurosa sorveglianza dell'asceta, bevendo con avidità la sua dotta e amata parola, cercando di seguirlo quanto più da presso fosse possibile nella sua esplorazione biblica e nella sua speculazione religiosa. Paola si diè anzi allo studio dell'ebraico, onde le spiegazioni scritturali del maestro potessero riuscirle più agevoli e più perspicue.

Ma le frequentatissime riunioni dell'Aventino non bastavano alla fervida brama di Girolamo di essere a contatto con lo spirito delle sue fedeli, di foggiarne durevolmente le attitudini, di imprimervi un'orma incancellabile. E dopo averle lasciate, chiuso nel suo rifugio, si intratteneva ancora con loro scrivendo lettere, in cui riversava la piena della sua erudizione e del suo entusiasmo cristiano. Forse non era estranea alla sua attività epistolare la volontà di raggiungere, al di là del suo nucleo affezionato, il gran pubblico di Roma, e di raccogliere in mezzo ad esso nuovi proseliti.

Gli anni romani di San Girolamo furono in realtà ricchi di una attività prodigiosa. Segretario di Damaso, padre spirituale della «chiesa domestica» dell'Aventino, revisore della Bibbia latina, epistolografo pieno di brio e di sottigliezza, Girolamo trova pure il tempo di sostenere polemiche. Avendo un tal Elvidio scritto una breve opera per sostenere che Maria aveva avuto figli da Giuseppe, dopo aver generato, per virtù dello Spirito Santo, Gesù, e che fra le nozze e lo stato virginale non sussiste alcun divario in rapporto al merito etico, Girolamo mandò fuori un opuscolo nel quale metteva in evidenza quanti pensieri e quante molestie porti con sè lo stato matrimoniale. Su questo punto l'asceta non si stancherà mai insistere fermamente.

Frattanto il clero romano cominciava a guardare con diffidenza e dispetto questo prete-monaco, la cui vita irreprensibile era un eloquente rimprovero alla sua sfacciata mondanità; la cui dottrina era una solenne riprovazione della sua crassa ignoranza; i cui lavori filosofico-biblici turbavano così direttamente le consuetudini liturgiche; il cui ascendente infine cresceva a dismisura ogni giorno. Girolamo, incurante e spavaldo, trovò il modo di bollarlo per l'eternità.

Tra le fedeli ascoltatrici dell'Aventino, una raccolse ben presto le predilezioni del monaco: Eustochio, la diciottenne figlia di Paola, che dedicata a Dio la sua verginità, prometteva di riuscire lo specchio più fedele dei principi ascetici inculcati dal maestro. Per lei Girolamo volle scrivere un manuale di regole di condotta, da cui potessero trarre norma quante fossero prese da vaghezza di stringersi con Cristo in immacolate nozze spirituali. Nacque così una lettera ad Eustochio che toccò un successo clamoroso, ed è senza dubbio il capolavoro della letteratura ascetica.

Girolamo vi comincia col raccomandare alla giovane amica la più stretta sorveglianza sul proprio corpo, onde non restar vittima degli innumerevoli tranelli che il demonio tende alle anime pie nel mondo. Gli esempi perversi ne circondano da ogni parte e il contagio della dissolutezza è implacabile. «Fa pena il constatare quante vergini ogni giorno precipitino, quante ne perda dal suo grembo la chiesa, sopra quanti astri il superbo nemico collochi il trono suo, quante pietre vada subdolamente scavando, per porvi la propria dimora. Pensa, o Eustochio, quanto numerose vedove, prima che coniugate, proteggono soltanto con la veste di rito, che è una menzogna, una coscienza infelice, le quali, se riescono a non essere tradite dalla gravidanza e dal vagito dei pargoli, incedono a fronte alta e a passo saltellante. Altre bevono in antecedenza il farmaco della sterilità, perpetrando la soppressione di una creatura umana, ancora non formata. Altre, non a pena si accorgano di aver concepito in seguito alla colpa, vanno studiando il modo di preparare venefiche pozioni abortive, e spesso, vittime di sè stesse, finiscono all'inferno ree di tre delitti: suicidio, adulterio, parricidio. Tutte costoro sogliono sfrontatamente proclamare: – tutto è mondo per i mondi. A me basta la lucida testimonianza della coscienza. Dio desidera il cuore puro: null'altro. Perchè mi dovrei astenere da cibi che Dio creò per il nostro uso? – Quando poi vogliano darsi l'aria di festevoli e di spiritose, ben bene satolle di vino, accoppiano il sacrilegio all'ebbrezza e proclamano: – Dio mi guardi dall'astenermi dal sangue di Cristo! – Qualora scorgano una vergine smunta e dignitosa, la additano motteggiando, come misera preda di un monachismo manicheo. Per costoro, il digiuno è una eresia. Certamente tu le avrai viste costoro, per Roma, a passeggio, in atto di farsi ammirare e di trarsi dietro, con furtivo balenar di sguardi, tutto un gregge di adolescenti sfaccendati.... Io voglio che tu, o Eustochio, eviti di frequentare i salotti mondani. Sposa di Dio, a che ti affretteresti a frequentare spose di uomini? Ti desidero lontana non solo dalle dimore di quelle matrone che stanno tutte in sussiego per gli onori onde son colmati i rispettivi mariti; che sono circondate da fitta siepe di eunuchi e nelle cui vesti, metalli preziosi sono intessuti in minutissimi fili. Ma devi fuggire anche quelle che necessità, non il proposito, fece vedove. Non dico, s'intende, che dovessero desiderare la morte dei mariti: ma dovevano afferrare a volo l'occasione per esercitare la castità. Invece, pur nel lutto, non hanno cambiato sentimento. L'incedere delle loro lettighe nelle vie è preceduto da una turba di eunuchi, e a vederle con le labbra tinte di cinabro e le gote colorite di belletto, non diresti che abbiano perduto il marito: penseresti più tosto che lo vadano cercando. Hanno la casa affollata di adulatori e di convitati: gli ecclesiastici stessi, che dovrebbero essere maestri e ispiratori di rispetto, baciano sulla fronte le nobili patronesse e, stesa la mano, non benedicono, come tu ignaro avresti immaginato, ma strappano il prezzo del saluto. Ed esse, accorgendosi che i preti abbisognano del loro patrocinio, levan superbia e perchè, prive ormai di marito, preferiscono la libera signoria della vedovanza, son chiamate caste e nonne, e dopo cene succolente, riveggono in sogno i loro apostoli. Tu, lontana da costoro: frequenta più tosto quelle che il digiuno assottiglia e la penitenza ha segnato con la sua impronta indelebile. Apparirai raramente in pubblico. Leggerai con assiduità: il sonno ti coglierà con un codice dinanzi agli occhi, e la pagina santa raccoglierà il tuo volto reclinato. Poichè è difficile che l'anima umana non ami e che il nostro spirito non sia tratto all'affetto, occorrerà che l'istinto dell'amor carnale sia sopraffatto dall'amor spirituale e che il desiderio della voluttà sia estinto e superato nel desiderio dell'infinito. Oh, lodo sì le nozze e non denigro il connubio: ma solo perchè di là nascono i vergini. Colgo così tra le spine, le rose; investigo nella terra, il filone aureo; strappo alla conchiglia, la perla. Dopo il Vangelo, la verginità è il vero stato cristiano. Vigila dunque onde conservare gelosamente il tuo proposito. Ti custodisca incessantemente il segreto della tua stanza e sempre lo sposo celeste si sollazzi con te nell'intinto. Preghi? Parli con lo sposo. Leggi? È lui che ti parla. E quando il sonno ti avrà vinto, egli verrà alla parete del tuo cubicolo, passerà la mano attraverso ad essa, palperà il tuo seno. Tremando ti desterai, e dirai con le parole del Cantico: son trafitta d'amore. Ed egli ti dirà: orto chiuso, sorella, mia sposa... Quando digiunerai, la tua faccia sia ilare e serena. La veste non ecceda in accuratezza e non esageri in negligenza: non sia eccentrica, onde la gente non si arresti al tuo passaggio, e non ti mostri a dito. Non mancano le giovani cristiane che macerano i loro volti, onde apparire agli altri digiunanti. Costoro, non a pena vedano alcuno, si danno a gemere, abbassano le ciglia, e col volto coperto lasciano un solo occhio libero per vedere. La loro veste è nera; il cingolo ruvido; le mani e i piedi trasandati: il ventre solo, perchè non si può vedere, è satollo di cibo… Altre, in abito maschile, arrossiscono d'essere donne, e, tagliatisi corti i capelli, levano impudentemente il loro volto eunuchino. Ma perchè non mi si rimproveri di parlar solo di donne, ti dirò: evita anche gli uomini che vedrai ricchi di catene, con le chiome femminee, contro il precetto dell'apostolo, con la barba da caproni, il pallio nero e i piedi nudi, quasi a sfidare i rigori del freddo. Sono altrettante lustre di Satana. Così si presentavano quell'Antimo e quel Sofronio su cui Roma pianse di recente. Individui di tal risma, insinuatisi nelle case nobiliari, tratte abilmente in inganno donne ingenue, ostentano mestizia nel volto, quasi uscissero da prolungati digiuni: in realtà si satollano di notte, furtivamente. Non dirò di più perchè il mio discorso, che vuol essere un ammonimento, non assuma l'andatura di un'invettiva. Altri – parlo di miei confratelli nel sacerdozio – aspirano al diaconato e al sacerdozio sol per avvicinare con maggior sicurezza le donne. Costoro non pensano che alle loro vesti, ai loro profumi, alla loro pelle. Arricciano i loro capelli, pongono anelli rilucenti alle dita, e per non contaminare i piedi sul suolo umido, imprimono a pena la loro orma sul terreno. Incontrandoli, li prenderesti per sposi novelli, anzichè per ecclesiastici. Alcuni fecero unico scopo della loro esistenza conoscere a menadito i nomi, gli indirizzi, le abitudini delle nobili matrone. Uno di questi, principe nell'arte, descriverò con pochi tratti, onde tu possa senza imbarazzo, conosciuto il profilo del maestro, ravvisare gli scolari. Sorge all'alba e dispone senz'altro l'ordine delle visite, gli itinerari più brevi. Vecchio importuno, non esita a disturbare matrone a pena destate dal sonno, nei loro più intimi appartamenti. Scorgendo un piccolo cuscino, un elegante tappeto, un oggetto qualsiasi di suppellettile domestica, comincia a lodarlo, a farne le meraviglie, a osservarlo ben bene, e lamentando d'esserne privo, non lo chiede, lo ghermisce: e le matrone lasciano fare, perchè tutte hanno un sacro orrore di recare offesa al corriere della città. Si capisce come la castità e i digiuni non abbiano alcuna relazione amichevole con costui. Giudica i pranzi dalle esalazioni della cucina. Il popolo lo chiama: – la vecchia gru ingrassata. – Ha la bocca da barbaro, procace e ghiotta. Dovunque ti volti, te lo trovi fra i piedi. Qualunque voce circoli per la città, dì pure ch'egli ne è l'autore o il propalatore. Cambia i cavalli al suo cocchio ogni ora, sì che lo prenderesti per un fratello del re della Tracia..... Tu, o Eustochio, non cadrai nelle insidie che il demonio tende per mezzo di questi suoi camuffati emissari. Attenderai assiduamente alle tue letture e mai cercherai svago nella coltura profana. Che cosa ha che vedere Orazio col Salterio, Virgilio col Vangelo, Cicerone con Paolo? Io ricordo: molti anni fa, quando tagliai violentemente da me ogni comunicazione con la famiglia, quando mi sottrassi alle liete abitudini della mia vita mondana e, soldato di Cristo, mi avviai a Gerusalemme, non potei fare a meno della pingue biblioteca che a Roma avevo accumulato. Me misero! Pronto a leggere M. Tullio, digiunavo, e dopo avere trascorso notti intiere vegliando, dopo aver pianto al penoso ricordo dei miei vecchi peccati, prendevo in mano Plauto. E quando, tornato in me, cominciavo a leggere un profeta, la forma antiestetica destava in me ripugnanza, e poichè i miei occhi non vedevano luce, io accusavo il sole. Mentre così l'antico serpente si burlava di me, a mezzo la quaresima, una febbre tremenda colpì il mio esausto organismo e nell'insonnia le mie membra infelici si consumarono in modo che mi ridussi a uno scheletro. Già mi si preparavano le esequie, e solo un alito di vita, nel corpo già irrigidito, trasaliva nel petto, quando improvvisamente fui tratto al tribunale del giudice, dinanzi a cui sfolgorava così radiante luce, che con la fronte nella polvere, non osavo alzare lo sguardo. Interrogato sul mio essere, pronunciai forte la mia professione cristiana. E il giudice: mentisci, non cristiano, bensì ciceroniano tu sei! Tacqui allibito, e condannato ad essere flagellato, mormorai umilmente: pietà, Signore, di me! Anche gli astanti imploravano per me il perdono, allegando ad attenuante la mia inesperienza giovanile. Promisi allora solennemente: – O Signore, se porrò più la mano a codici profani, sarà come ti avessi rinnegato. – A questa formola di giuramento fui rimandato assolto ed io aprii gli occhi inondati di lacrime. Nè fu sogno il mio: fu realtà, come provarono il tribunale, la sentenza, le lividure e le piaghe, lo studio sacro stesso a cui mi dedicai da quell'ora con una assiduità ben superiore a quella con cui avevo coltivato la letteratura profana… Ti guarderai infine, o mia Eustochio, dall'avarizia che deturpa tante nobili cristiane. Vidi pochi giorni fa – taccio il nome, perchè tu non creda che voglio stendere un libello – una tra le più insigni matrone romane nella basilica di san Pietro, preceduta da una coorte di eunuchi, distribuire con le sue mani, onde apparire più religiosa, soldi ai poveri presenti. Ad un certo punto una povera vecchia si fece innanzi per ricevere una seconda moneta. Ma la riconobbe la matrona, e invece del soldo le assestò un ceffone, che fece versar sangue per così grosso delitto!... Quanto ti son venuto esponendo circa i doveri della cristiana fedele alla sua professione, sembrerà duro a chi non ama Cristo. Ma chi reputi lordura la pompa del secolo e vanità quanto appare sotto il sole; chi in altre parole sia veramente morto col suo Signore e risorto dopo aver crocifisso la sua carne, griderà: chi potrà strapparci all'amore del Cristo?...»

La lettera del poco più che quarantenne monaco alla diciottenne Eustochio, così libera ed aspra, così tagliente e così schietta, così riboccante di allusioni trasparentissime che tutti dovevano afferrare a volo, suscitò in tutta Roma, che la conobbe subito, un'impressione enorme. I pagani si affrettarono a farne trascrivere numerosi esemplari, se la passarono e la lessero avidamente, vi fecero su le più matte risate. Chi mai di loro avrebbe potuto stendere caricatura più saporita dei costumi cristiani? Il clero ufficiale, colpito a sangue a quel modo da un collega, andò su tutte le furie. E poichè non poteva cogliere in fallo l'austero Girolamo; poichè non poteva gridargli sul viso: medice, cura te ipsum, si prese la rivalsa ponendo in dubbio l'ortodossia del suo lavoro filologico di revisione testuale sul Nuovo Testamento e sui Salmi.

Girolamo aveva del resto preveduto questo genere di opposizione. Già presentando a Damaso la revisione della versione latina del Nuovo Testamento, corretta sull'originale greco, aveva scritto: «tu hai voluto che fra gli esemplari neotestamentari dispersi nel mondo io mi assidessi arbitro sovrano. Pio lavoro codesto, senza dubbio, ma pericolosa impresa quella di giudicare altrui, di cambiare il linguaggio consuetudinario di un vecchio, e di riportare alle origini un mondo decrepito, prossimo al disfacimento. Ne sono in anticipo sicuro: il dotto come l'incolto, prendendo in mano il nuovo volume e percependone il suono diverso dall'abituale, mi chiameranno sacrilego e falsario. Ebbene: mi rassegno alla mia sorte. Tu mi comandasti il lavoro: tu lo approvi.»

E alle prime esplosioni dell'attacco ecclesiastico in Roma, levò la voce con fierezza, non disgiunta dal sarcasmo amaro e dalla pena mal repressa. Scrivendo a Marcella a mezzo il 384 si sfogava: «mi giunge all'orecchio la voce che qualche omiciattolo mi va capricciosamente accusando sol perchè, contro la lettura corrente, ho cercato di emendar qualcosa nella versione latina dei Vangeli. Potrei magnificamente ignorare e disprezzare costoro: la lira canta forse per i somari? Ma per evitare che mi accusino, secondo il solito di superbia, ecco la mia risposta. Non sono veramente così sciocco e così ignorante – quantunque l'ignoranza appaia a costoro elemento indispensabile della santità – da ritenere che nella parola del Signore possa impunemente mutarsi qualcosa, quasi essa non fosse divinamente ispirata. Il mio proposito è stato semplicemente quello di ristabilire la esattezza della versione di un testo che i codici rendono in maniere tanto diverse. Se ad essi garba rinunciare alle pure fonti, vadano pure a dissetarsi ai pantani... Mi par di vederti, o Marcella, alla lettura di queste righe: corrugherai la fronte, e dirai che ancora una volta la mia rude franchezza è fomite di polemiche. Mi par di vederti in atto di tapparmi la bocca con le mani, onde io non rilevi quel che gli altri non si sono vergognati di fare. Ma, di grazia, quale la mia colpa? Ho forse inciso – Marcella capiva perfettamente dove andavano a parare le sarcastiche allusioni – su piatti immagini di idoli? O forse ho posto sotto gli occhi delle vergini, durante le agapi religiose, gli abbracciamenti di satiri e di baccanti? Mi son forse doluto che molti da poveri siano divenuti ricchissimi, od ho esercitato il mio rimbrotto su tanti funerali diretti a carpire eredità vistose? Solo perchè, sciagurato, osai raccomandare che le vergini stiano più con le donne che con gli uomini, ho irritato le pudibonde orecchie di tutta la città, e per le vie sono segnato a dito.»

Infine, dedicando a Paola e ad Eustochio la sua prima revisione della versione latina di Giobbe, Girolamo osservava con amarezza: «se per campar la vita e provvedere alle esigenze del ventre, dedicassi il mio tempo a far panieri di giunco e ad intrecciare palme, nessuno mi biasimerebbe e nessuno farebbe osservazioni. Ma poichè, uniformandomi al precetto del Salvatore, cerco di lucrare quell'alimento che non è soggetto a consunzione e di estirpare le male erbe dal sentiero che conduce alle Sante Scritture, sono addentato da ogni parte. Son trattato da falsario, mentre mi sforzo di correggere errori e accusato di disseminare la falsità, io che a sopprimerla ho dedicato ogni mio sforzo. Così tenace è la forza della consuetudine, che gli errori correnti piacciono, anche quando siano stati smascherati!»

In fondo Girolamo poteva ridersela di tutti i vituperi con cui gli ecclesiastici e le pseudo-bigotte, flagellati a sangue dalla sua frusta implacabile, cercavano di scalzare il suo prestigio presso il pubblico romano. Damaso lo proteggeva e le accuse dei preti ignoranti e mondani dovevano necessariamente cadere dinanzi al suo favore sovrano. Girolamo poteva ancora assaporare, senza eccessive preoccupazioni, le gioie della sua paternità spirituale. Il cenacolo dell'Aventino faceva ogni giorno progressi sul terreno della erudizione religiosa. Paola ed Eustochio si perfezionavano sempre più nella conoscenza dell'ebraico; la trascrizione dei codici biblici trovava sempre più alacri amanuensi; l'ideale ascetico spingeva sempre più profondamente le sue radici nello spirito degli ammiratori di Girolamo, che vedeva guadagnati dalla sua parola anche uomini insigni, come Pammachio, Marcellino, Domnione, Rogaziano, Oceano. Infine un'altra illustre conquista venne ad allietare il suo cuore, avido di proselitismo. Un'altra figliuola di Paola, Blesilla, di pochi anni maggiore di Eustochio, che, rimasta precocemente vedova, si era data a vita spensierata e mondana, improvvisamente conquisa dalla propaganda ascetica geronimiana e dall'esempio della madre e della sorella, aveva rinunciato alle gioie del secolo e si era aggregata anch'essa allo stuolo delle penitenti dell'Aventino. Girolamo trionfava su tutta la linea: ma giammai la Rupe Tarpea era stata più vicina al Campidoglio!...

Nella prima quindicina di dicembre del 384 Damaso moriva e gli succedeva nel pontificato romano Siricio, uomo pio e mite. Intorno a lui cominciarono i maldicenti che da tempo ormai mal tolleravano l'ascendente che Girolamo si era conquistato nella più alta società cristiana di Roma, a spargere i loro sussurri e le loro mormorazioni. Credettero giunto il momento per vendicarsi di tutti gli strali che egli aveva, implacabile, scagliato contro il loro sacerdozio trafficante e mondano. Che cosa voleva questo paradossale ed ambiguo predicatore di ascetismo che si circondava di femmine, le iniziava liberamente alle discipline religiose e si faceva forte del suo agevole successo per denigrare il venerando clero di Roma? La predicazione ascetica di questo strano monaco, spinta a conclusioni teoriche estreme, non racchiudeva forse pericolose infiltrazioni manichee?

Un improvviso, luttuoso avvenimento venne ad accreditare i dare definitivamente il tracollo alla sua posizione ecclesiastica in Roma. Siricio era salito da poche settimane sulla cattedra pontificale quando la giovane Blesilla, strappata da Girolamo alla vita mondana, ammalava repentinamente e in pochi giorni moriva. Il lutto della nobile famiglia, su cui convergevano gli sguardi di tutti, cristiani e pagani, in città, fu lutto pubblico. Il giorno dei funerali una fitta calca di popolo si assiepava nelle vie per cui doveva passare il funebre corteggio. Improvvisamente un bisbiglio commosso percorre la folla: che cosa era accaduto? Una matrona che seguiva con altre il feretro era caduta priva di sentimenti. Chi era? Si seppe ben presto: era la madre della morta: Paola. L'ira e il raccapricio del popolo non furono più contenuti: «non lo dicevamo noi? – si mormorava: – la madre si strugge per la perdita della figlia, consunta dai digiuni. Fino a quando tollereremo noi che questa miserabile progenie di monaci turbi la serenità e la felicità delle famiglie? Perchè non li gettiamo tutti a fiume o non li lapidiamo o quanto meno non li cacciamo dalle mura? Hanno sedotto Paola, costoro, e l'hanno tratta nolente ai loro disegni. O come può essere spontaneamente monaca una donna che piange la sua figliuola come nessuna pagana ha mai pianto i suoi morti? –» Se Girolamo si fosse quel giorno avventurato per le vie della città, abbiamo tutta ragione di pensare che il Tevere avrebbe quel giorno portato alla foce il suo cadavere. Rifugiato forse in casa di Marcella egli sfuggì invece alla bufera che investiva la sua propaganda ascetica: ma il colpo che ne sentì in cuore fu tremendo e incurabile.

Pieno di disgusto e di rancore, si affrettò a scrivere un'amara lettera a Paola, deplorando il contegno poco cristiano ch'essa aveva tenuto durante i funerali della figliuola. Quindi si diè a studiare il modo di abbandonare la città, schieratasi ormai apertamente contro di lui. Da prima concepì il proposito di fissare la sua dimora nel suburbio, forse in qualcuno dei domini di Marcella sull'Appia, e cercò di accattivare lo spirito della sua amica a simile georgico e idilliaco progetto: «lungo spazio della nostra vita (Girolamo aveva allora un 45 anni) è ormai trascorso tra i flutti e la nostra piccola barca, tra procelle e scogli, fa ormai acqua da più parti. Orsù, via: al più presto possibile rifugiamoci in porto, chiediamo pace ai campi. Ivi avremo pane casareccio e legumi conditi con le nostre mani; un po' di latte a pena munto: tutti cibi modesti, ma puri e genuini. Il sonno non ci torrà, alla preghiera, nè il ventre satollo, alla lettura. D'estate, cercheremo l'ombra degli alberi; d'autunno, ci assideremo su un tappeto di foglie. A primavera tripudieremo con la natura fiorita e fra il coro degli uccelli, ci parrà più dolce cantar salmi al Signore. D'inverno, non dovrò comprar legna. Oh, la Roma ebbra e tumultuosa si abbia pure gli spettacoli lussuosi del circo e della scena; si tenga le sue quotidiane visite al senato matronale. Per noi, unica meta, l'adesione al Signore.» Marcella non cedette al solleticante invito. Doveva essere un temperamento di donna perfettamente equilibrato e pure apprezzando e gustando la conversazione dell'asceta dalmata, doveva in fondo diffidare dei suoi ardenti entusiasmi, come dei suoi pur generosi disegni. Girolamo ne fu amareggiato, ma ebbe sollecita rivincita nel pentimento di Paola per la sua debolezza di madre, orbata della figliuola amata, e nella dichiarazione sua e di Eustochio che lo avrebbero immancabilmente seguito dovunque.

L'impegno giungeva in buon punto. Le voci malevole e calunniose sul conto di Girolamo prendevano per Roma sempre maggiore consistenza. Qualcuno giunse fino a deporre presso i tribunali formale denuncia contro «il monaco versipelle e criminale, indegno e menzognero, immorale e diabolico,» le cui relazioni femminili facevano supporre le più anormali aberrazioni sensuali. Girolamo dovette difendere il suo decoro ed ebbe causa vinta: l'accusatore, stretto fra i tormenti, ritirò la sua denuncia. Ma ormai l'aria di Roma non era più respirabile per Girolamo e questi, dopo aver concertato ben bene il piano del viaggio con Paola ed Eustochio, che lo avrebbero seguito a distanza di qualche mese per non offrire nuova esca al fuoco della maldicenza, nell'aprile del 385 si imbarcava ad Ostia per l'Oriente.

Il congedo dai Romani fu affidato ad una lettera diretta ad Asella – non a Marcella – e fu uno sfogo violento: «hanno elevato calunnie sul mio stesso modo di camminare e di vivere. L'uno leggeva sinistri propositi sul mio volto, l'altro diffidava della mia disinvoltura. Per tre anni ho vissuto a Roma. Un numeroso stuolo di giovanette si raccolse intorno a me, e io lo intrattenni assiduamente, secondo le mie forze, intorno alla Scrittura. La lettura generò la frequenza, la frequenza la familiarità, la familiarità la fiducia scambievole. Era inevitabile. Ma provarono mai esse per me un sentimento che non si addicesse alla professione cristiana? E dal canto mio, presi mai denari o doni? Nella mia mano passò mai oro altrui? La mia parola fu mai doppia o il mio sguardo audace? Diciamolo pure: una cosa sola mi si rimprovera, il mio sesso. E pure, prima che frequentassi la casa di Paola, riscuotevo le simpatie di tutta la città. Che cosa ho dunque fatto? Sono entrato forse nella casa di una cortigiana? Son corso dietro forse a vesti seriche, a gemme preziose, ad una faccia imbellettata, a ricchezze favolose?... Purtroppo, coloro che sollevano dubbi sulla mia probità son cristiani, che dimentichi del trave che traversa i loro occhi, scoprono la pagliuzza nella pupilla altrui. Alla buon'ora: ti piace il bagno quotidiano? altri reputa questa delicatezza una vera immondità morale. Ti vanti dei tuoi pasti copiosi? io empio il mio stomaco di fave. Ti solleticano i cori lascivi delle ballerine? io mi delizio del pianto cristiano di Paola e di Melania. Ti inebri di vino temprato nel miele? costoro bevono acqua, e la ritengono più soave. Godetevi pure quel che vi piace: a me piace il pallore e la macilenza. Tu ci credi per questo dei disgraziati: noi ti rendiamo la pariglia. Oh, son ben felice che il mondo mi odi. Prega più tosto, o Asella, il Signore, ch'io esca incolume da Babilonia per Gerusalemme, che non disponga di me il Nabucco sospettoso!... Fui ben sciocco a pensare di poter intonare il canto del Signore in terra straniera e a chieder soccorso all'Egitto! Mi han chiamato malefico: gran privilegio in verità. Anche il mio maestro fu chiamato mago dai Giudei, e l'Apostolo, seduttore!»

Come si vede, il saluto di Girolamo partente non era improntato ad eccessiva cordialità. Ogni sua parola era una frecciata, specialmente all'indirizzo del clero mondano e leggero di Roma, ch'egli definirà in blocco più volte anche dopo con un'immagine rovente: «Senato dei farisei!» Con Girolamo si imbarcarono il fratello minore Paoliniano, un tal prete Vincenzo, altri monaci. L'itinerario seguito sarà ricordato più tardi nella polemica con Rufino, che andrà a rinvangare nel passato del suo avversario, materia di insinuazioni e di sospetti scandalosi: Reggio Calabria, Cipro, Antiochia, Gerusalemme, Egitto, di nuovo la Palestina e Betlem. Ad Antiochia il gruppo maschile fu raggiunto da Paola ed Eustochio che, partite all'inizio della estate, si erano un po' fermate a Costanza, ospiti del vecchio Epifanio. Nell'elogio che Girolamo scriverà in lode di Paola dopo la sua morte, sarà descritta la straziante scena degli addii ad Ostia: «Scese Paola al mare accompagnata dal fratello, dai parenti, dagli amici, dai figli, fiduciosi di poter all'ultimo momento commuovere la pietà materna e indurre la partente a rinunciare al suo viaggio. Tutto invano. Già le tele si gonfiavano sotto il soffio del vento e sotto la spinta dei remi la nave si allontanava dalla riva. Il piccolo Tossozio, l'ultimo figlio di Paola, tendeva dalla spiaggia le supplici manine. L'altra figlia, la giovinetta Rufina, implorava con le lacrime che la madre volesse almeno attendere l'epoca delle sue nozze. Paola, con le ciglia asciutte, teneva fissi gli occhi in cielo, sopravvanzando con l'amore di Dio l'amore dei figli, dimentica d'essere madre, per assurgere alla qualità di perfetta ancella di Cristo. Le sue viscere materne si struggevano nella pena, ma calcando ogni affetto umano, Paola riposava il suo spirito sulla sua Eustochio, compagna di ideali e di navigazione.» A meno di un secolo da Costantino, la propaganda dell'ascetismo cristiano poteva fare in mezzo all'aristocrazia romana di tali conquiste.

II viaggio durò più di un anno e non prima del tramonto del 386 la piccola comunità ascetica poteva piantare le sue tende alle porte di Betlem, in un modesto rifugio intorno a cui vennero rapidamente formandosi tre case religiose, due femminili ed una maschile. La solitudine che dodici anni prima Girolamo aveva cercato a Calcide spinto da un vago miraggio di perfezione ascetica, si offriva ora al suo cuore esacerbato come un rifugio sicuro, allietato dalla presenza di coloro, nella cui anima egli aveva travasato fruttuosamente il suo religioso entusiasmo. Girolamo non uscirà più dalla dimora di Betlem, e sebbene il suo occhio e il suo orecchio si protendano incessantemente per cogliere quanto a Roma si dice e si fa, specialmente in rapporto agli ideali mistici, della cui propagazione ha fatto lo scopo precipuo della sua vita, la sua anima irrequieta trova nel lavoro indefesso, nella conversazione candida ed elevata dei suoi compagni e delle sue compagne il pascolo capace di riempire la più arida solitudine e di far dimenticare la lontananza dal centro inobliabile della sua passata attività.

Chi voglia raffigurarsi Girolamo nella sua singolare e caratteristica fisionomia di inculcatore dell'ascetismo e di patrocinatore dell'ideale della continenza nel recinto della società cristiana del IV secolo, non può attardarsi a seguire in tutte le sue manifestazioni la sua opera strettamente filologica di traduttore e di esegeta. Senza dubbio è merito inapprezzabile suo quello di aver dato alla chiesa latina un testo della Bibbia tradotto direttamente dall'originale, al posto della vecchia, imperfettissima e discordante «Itala». È anche insigne merito suo quello di aver portato a conoscenza dei latini le migliori opere degli scrittori ecclesiastici greci, sia in versioni dirette, sia con i suoi scritti esegetici, in cui è così spesso e così pedissequamente loro tributario. Ma nella storia del cristianesimo e del suo sviluppo etico e disciplinare Girolamo è innanzi tutto il predicatore dell'ascetismo e il polemista accanito che difende lo stato verginale e il celibato come la professione adeguata per quanti aderiscono compiutamente al Vangelo.

Era da sei anni nel suo ritiro di Betlem e veniva intercalando ai suoi lavori di testo e di esegesi scritturali le sue lettere agli amici lontani, quando Girolamo fu informato che un ex-monaco, a nome Gioviniano, menava un'intensa campagna antiascetica, orale e scritta, sostenendo fra l’altro che vergini, vedove e maritate, una volta ricevuto il battesimo, rivestono il medesimo merito morale; che colui il quale è veramente rinato nel battesimo non può più soggiacere alle insidie diaboliche; che nessuna divergenza etica sussiste fra l'astinenza dai cibi e il loro libero uso; che infine quanti sono fedeli al battesimo hanno riservata in cielo la medesima mercede. Non possediamo più alcuno scritto di Gioviniano, e conosciamo le sue idee solo attraverso la confutazione di Girolamo, le allusioni di Agostino, gli accenni delle lettere pontificie. Ma dal complesso della situazione teologico-disciplinare in cui si svolge la polemica, possiamo verisimilmente arguire che Gioviniano si scagliava specialmente contro il manicheismo e quelle che sembravano a lui infiltrazioni manichee nella Chiesa, attraverso la propaganda ascetica. In verità, quell'insistere sulla minor perfezione dello stato coniugale in confronto col verginale; quella che a lui pareva esagerata nobiltà assegnata alle astinenze e ai digiuni; non implicavano il trapiantemento del dualismo manicheo nella Chiesa, non presupponevano il postulato dualistico, per cui il mondo appariva come il diuturno duello del male e del bene, personificati nella carne e nello spirito? Girolamo ha un bel chiamare Gioviniano l'Epicuro cristiano, sicuro di avere con ciò gettato il discredito sulla sua propaganda antiascetica. Il pericolo denunciato dall'ex-monaco lombardo era reale, e non è detto che i suoi avversari non meritassero a loro volta l'appellativo, altrettanto compromettente, di Manichei. I due libri che Girolamo scrisse per confutare Gioviniano sono i più brillanti ed eruditi nella sua vasta produzione. Vecchio e Nuovo Testamento, scienza profana e letteratura patristica, sono da Girolamo chiamati a soccorso per mostrare la superiorità e l'eccellenza dello stato celibatario sullo stato matrimoniale. E fra gli altri citato un singolare passo di Teofrasto, da un suo trattato sul matrimonio dell'uomo saggio, che non possediamo più: «L'uomo saggio non prenderà mai moglie. Innanzi tutto ciò equivarrebbe alla rinuncia completa ad ogni occupazione filosofica. Come attendere in pari tempo alla moglie e ai libri? Infinite sono le esigenze delle donne: vesti preziose, oro, gemme, grandi mezzi, serve, mobili vari, lettighe e cocchi dorati. E poi per tutta la notte sono recriminazioni e discussioni. – La tale compare in pubblico con vestiti più ricchi; la tal'altra è onorata da tutti, mentre io, miserella, sono l'ultima fra le donne. E – poi, dì, perchè guardavi con tanta insistenza la vicina?; perchè ti sei indugiato con la serva?; venendo dal mercato, che cosa mi hai portato? – In verità, il povero marito non può più avere nè un amico nè un compagno. Ogni moglie suppone che amando altri, il marito odi lei. Ma non basta. Se la moglie sia povera, non è facile mantenerla; se sia ricca, sarà un tormento il sopportarla. Aggiungi che, in sostanza, non v'è scelta di moglie: una volta sposatala, occorre tenerla qual'è. Solo dopo le nozze si viene a conoscere se è iraconda, fatua, deforme, superba. Pensa un po': se devi comprare un cavallo, un asino, un bue, un cane, dei servi, delle vesti, un bacile, una sedia, un bicchiere, un vassoio, prima metti tutto a prova: sola la moglie non è fatta conoscere, affinchè non appaia sgradita prima che sia sposata. Devi stare sempre attento a lodare l'avvenenza del suo volto, affinchè essa non pensi che, contemplando altre, tu tieni in non cale la sua figura. Devi chiamarla signora; devi stare attento a commemorare solennemente il suo natalizio; devi giurare per la sua salute; devi desiderare che ti sopravviva. Devi prestare ossequio alla sua nutrice, alla sua portatrice, al servo, al favorito, al parassita formoso, al profumato amministratore, all'eunuco, mutilato con intenti inpunemente libidinosi: altrettanti camuffamenti dell'adulterio. Se affiderai il regime della casa intiera a tua moglie, diverrai null'altro che un servo. Se riserverai qualcosa alla tua sorveglianza, apriti cielo: dirà che non ti fidi di lei, ti odierà, e, se non vigilerai, ti appresterà sen'altro il veleno. Se introdurrai in casa vecchie ed aruspici, indovini e commercianti di mobili o di stoffe, la castità di tua moglie correrà serio rischio; mentre se vieterai ad essi di avvicinarsi alla soglia di casa tua, susciterai risentimenti per il tuo sospetto. Del resto, a che pro la sorveglianza, se la moglie non può essere impudica e non deve essere pudica? Oh, ben fragile custode della castità, la necessità: pudica veramente è soltanto colei cui fu lecito peccare, se volle. La moglie bella è vagheggiata da tutti: la brutta, soggiace essa facilmente alla concupiscenza. Non è compito semplice sorvegliare quel che molti desiderano, ed è molto seccante tenersi al fianco chi nessuno vorrebbe avere. Ad ogni modo minore pena nel tenersi una sposa deforme che nel mantenere illibata una sposa avvenente. Come supporre sicuro un tesoro su cui si appunta l'avida brama di tutti? L'uno si insinua con la bellezza fisica; l'altro si impone con l'ingegno; un terzo affascina con la spiritosità; un quarto stringe d'assedio con le sue elargizioni liberali. Una città d'ogni parte cinta, non deve alla fine capitolare? Ma forse dirai che conviene prender moglie per la cura della casa, per l'ora della malattia, per rompere la solitudine: ma allora servono molto meglio allo scopo dei buoni servi, docili all'autorità del padrone, che non la moglie, la quale scorge il segno della propria signoria sol nel fare il contrario di quel che vuole il marito. Al letto del malato poi stanno meglio gli amici e i beneficati che non la moglie, la quale rinfaccerà le sue lacrime, penserà all'eredità, e vantando le proprie attenzioni, turberà di più l'animo del paziente. Quando poi si ammali tua moglie, tu devi ammalarti con lei, e mai allontanarti dal suo letto. La moglie buona e dolce è tanto rara, che quasi può dirsi non esiste.... Il saggio non ha paura di star solo: del resto egli non è mai solo. Ha per compagni quanti saggi furono al mondo, e vola e spazia con lo spirito libero nell'infinito. Il suo pensiero abbraccia una vastità cui non giunge il corpo. E se non troverà uomini con cui parlare, rivolgerà la parola a Dio e non sarà mai meno solo, di quando sarà materialmente solo. È da stolti prender moglie per procreare figliuoli onde il nostro nome sopravviva nel mondo, abbia sostegni la nostra vecchiaia, ed eredi la nostra ben accumulata ricchezza. Ma che cosa può avere un interesse per me, quando io sia uscito dal mondo? O quale sussidio per la vecchiaia in figli che possono premorire e possono riuscire degli scavezzacolli? Eredi migliori e più sicuri sono gli amici scelti di tuo arbitrio, che non quelli che tu, volente o nolente, sei costretto a tenere. Quantunque in fondo la maggior sicurezza dell'eredità stia nel ben usare della tua sostanza finchè vivi, anzichè lasciare ad un uso problematico il denaro faticosamente raccolto.»

Così dall'eremo di Betlem Girolamo continuava con fervore crescente la sua campagna per il celibato. I suoi amici romani furono sbigottiti al leggere pagine così recise e così categoriche. Stabilendo una identificazione pressochè assoluta fra professione cristiana e continenza, non si annullava la legittimità del matrimonio cristiano e non si aprivano le porte alle concezioni manichee? Pammachio e Domnione specialmente si diedero un gran da fare per neutralizzare e disperdere la spiacevole impressione che l'opuscolo aveva prodotto nei gruppi cristiani di Roma. Cercarono di toglierne dalla circolazione quanti più esemplari fosse possibile e scrissero a Girolamo informandolo dei commenti che alcuni male intenzionati facevano alle sue sconcertanti asserzioni, e chiedendo spiegazioni rassicuratrici. Girolamo rispose senza indugio e abbondantemente. Mise innanzi tutto in rilievo l'impossibilità di isolare e togliere dalla circolazione i suoi scritti: «non a pena io componga qualcosa, subito i miei amici come i miei avversari vi si gettano su famelici e ne curano la diffusione; nequit vox missa reverti.» Si diffuse poi a reclamare contro coloro che avevano fatto scempio del suo buon nome nei salotti romani: «non è cosa onorevole andare sparlando per gli angiporti e per le farmacie, trinciando sentenze a destra e a manca: – il tale ha detto bene, il tal'altro male; questi conosce la Scrittura, quegli sogna ad occhi aperti; costui ha la parola scorrevole, quell'altro non sa spiccicar due vocaboli. – Di grazia: chi ha dato a costui la potestà di giudicare l'universo? Sbraitare per le piazze e inveire contro tutti, racimolando calunnie invece che imputazioni serie, è opera di buffoni e di attaccabrighe. Se il monaco di cui mi parla Domnione ha qualcosa da eccepire sul conto mio, scriva e mi offra il modo di ribattere le sue asserzioni. Sappiamo di lettere anche noi, la Dio mercè! Costui vuol farsi bello, attaccando me: scriva, alla buon'ora, e gli farò vedere quanto spazio separi il foro dal triclinio e come non sia la stessa cosa discutere di verità divina tra i fusi delle donzelle o in mezzo ad uomini dotti. Costui va strepitando in mezzo al pubblico: – ha condannato le nozze, Girolamo. – Capisco: tutto il giorno in mezzo a donne incinte, pianti di infanti e letti di mariti, egli ha dimenticato, per colpir me, quel che l'Apostolo ha enunciato. Ad ogni modo, se proprio non vuole scrivere, e reputa più igienico per lui continuare ad adoperare la sola lingua contro di me, ebbene ascolti al di là di mari, terre, popoli, l'eco della mia voce proclamante: – non condanno le nozze, non riprovo il connubio. – Anzi, perchè possa prender meglio nota delle mie opinioni in proposito, gli dirò che io voglio perentoriamente che quanti non riescono a dormir soli a causa dei timori notturni, prendano subito moglie!....»

Con questo motto sarcastico Girolamo terminava la sua difesa dell'adversus Jovinianum. Per parecchio tempo egli non ebbe più bisogno di tornare sull'argomento. Le idee del resto che egli difendeva a proposito di celibato e di matrimonio trovavano rispondenze profonde in quel tragico tramonto del IV secolo in cui l'impero veniva lentamente disfacendosi sotto l'urto barbarico, e la società, nel vasto rimescolio di uomini e di istituzioni, sentiva il bisogno di tesaurizzare tutte le sue capacità per la preparazione del domani. I popoli, come gli individui, sentono in certe ore istintivamente il bisogno, dopo periodi di sfrenata e folle dilapidazione delle proprie energie fisiche e psichiche, di riacquistare, nella contemplazione e nel riposo, l'integrità delle riserve del proprio organismo depauperato.

Un avversario di ben diverso genere fu per Girolamo, Agostino. I due più grandi rappresentanti del pensiero cristiano occidentale fra il IV e V secolo, in quel periodo cioè in cui alla depressione spaventosa di tutti i valori materiali e politici corrispose la più straordinaria sublimazione dei valori religiosi, e da Costantinopoli a Barcellona e ad Avila fu nella chiesa tutto un pullulare di ingegni magnifici, si trovarono di fronte nel modo di giudicare problemi di critica biblica: e il solitario di Betlem ebbe, in sostanza, ragione delle apprensioni e dei timori del vescovo ipponese. Nel suo commentario alla lettera ai Galati, Girolamo, attingendo secondo il solito da Origene, aveva sostenuto che il conflitto famoso scoppiato ad Antiochia fra Pietro e Paolo a proposito dei pasti giudaici, era stato una semplice finta, abilmente congegnata, per soddisfare simultaneamente gentili e giudaizzanti. Fin dal 394, ancora prete, Agostino rilevava in una lettera, che non fu però recapitata a Girolamo, i pericoli che si celavano in simili interpretazioni. Con abilissimo argomento ad hominem, Agostino domandava fra l'altro: «Ammesso il tuo principio, a noi che invochiamo la testimonianza di Paolo per sostenere contro i manichei la legittimità del matrimonio, non si potrà obbiettare che Paolo si acconciò ad autorizzarlo per condiscendenza agli uomini carnali, anzichè per intima convinzione?» Tre anni dopo, ormai vescovo, Agostino, che non aveva ricevuto risposta alla sua prima lettera, tornava alla carica con una nuova lunga missiva, che anch'essa non trovò subito la via dell'Oriente, bensì circolò in Italia e specialmente a Roma, nuocendo un poco alla già tanto discussa riputazione dell'asceta lontano. Al quale giunse invece vagamente la voce che Agostino aveva redatto un forte opuscolo contro di lui e aveva lasciato che circolasse, anche prima che il legittimo destinatario ne prendesse visione. In verità il tono della lettera agostiniana non era privo di vivacità. Riportandosi alla leggenda di Stesicoro, costretto a intessere le lodi di Elena dopo averla bistrattata, per riacquistare la vista perduta, il vescovo ipponese soggiungeva: «io ti scongiuro di prendere a due mani la tua semplicità e prontezza cristiana e di correggere il tuo commento ai Galati. Intona dunque la tua palinodia. Non è forse più bella la verità dei cristiani che l'Elena dei greci? Non dico questo quasi tu avessi perduto la vista del cuore, ohibò! Voglio soltanto dire che avendo tu occhi lincei, li hai per una improvvisa amnesia distolti dalla realtà, non calcolando le irreparabili conseguenze dell'ammettere che una sola menzogna si riscontri nel testo sacro.»

Anche questa volta, et pour cause, nessuna risposta. Agostino ne fu impensierito e poichè giunse anche a lui di rimbalzo la voce che le lettere precedenti erano apparse, nel parlare che n'era stato fatto, più gravi e impertinenti di quel che in realtà non fossero, nel 402 si rivolse per una terza volta a Girolamo, chiarendo e attenuando le sue precedenti osservazioni. Questa volta la missiva giunse direttamente a Betlem, e Girolamo, che aveva finalmente avuto sotto gli occhi il testo delle prime lettere agostiniane, ma aveva qualche dubbio sulla loro autenticità, rispose, con visibile dispetto, in termini non privi di una certa insolenza: «la tua accortezza deve ben sapere che a ciascuno è lecito avere idee proprie, e che è indizio di puerile iattanza mendicar fama attaccando uomini in vista. Nè sono così sciocco da sentirmi offeso perchè tu interpreti diversamente da me dei passi biblici, come tu non ti inalbererai se noi continuiamo a pensare col nostro cervello. Una cosa sola è veramente riprovevole tra amici: che si esplori la bisaccia altrui e non si pensi alla propria... Sul terreno della indagine biblica, tu, giovincello, non ti misurare con un vecchio. Oh, noi abbiamo già avuto i nostri bei tempi e corremmo con quanto fiato avemmo in corpo. Ora è la volta tua e una ben lunga strada si apre dinanzi a te. Noi abbiamo diritto al riposo... Ricorda il proverbio: il bue stanco pianta con maggior forza il suo piede sul suolo». Sebbene fra Girolamo e Agostino corressero a pena una dozzina d'anni di differenza, conveniva al sessantenne solitario in Betlem darsi aria di veterano dinanzi al vescovo numida, la cui gloria era ancora un sole elevantesi verso il meriggio.

Frattanto Agostino, privo ancora di risposta, redigeva nel 403 una quarta        lettera a Girolamo, deplorando questa volta che la nuova versione del Vecchio Testamento, iniziata da Girolamo, e ricavata direttamente dall'originale ebraico, venisse profondamente a turbare le consuetudini liturgiche e le conoscenze scritturali della Chiesa Cristiana. Simultaneamente Agostino mandava copia delle sue precedenti rimostranze, sicchè Girolamo potè toccare la certezza sull'insistente pressione che l'africano aveva spiegato per indurlo a cambiare opinione sull'incidente antiocheno. Il suo sdegno straripò allora impetuoso: «l'amicizia deve essere monda da ogni sospetto e l'amico deve parlare con l'amico come con un altro sè stesso. Alcuni miei conoscenti e devoti al Cristo, che sono molto numerosi a Gerusalemme e in genere nei luoghi santi, hanno discretamente insinuato che tu abbia scritto le lettere contro di me, non con semplicità di intenzioni: ma per accattare la lode e il plauso del pubblico, quasi tu volessi farti largo a mie spese, apparendo tu eccitatore alla polemica ed io timoroso di accettare la sfida. Così altri avrebbe potuto osservare che è sorto finalmente chi è in grado di imporre silenzio alla mia garrulità. Io invece sarei molto lieto di discutere: ma posso rispondere da pari a pari ad un vescovo, senza incorrere nell'accusa di sfrontatezza, dovendo specialmente rilevare nelle tue lettere asserzioni che paiono ereticali? Ti dirò più tosto: lascia stare in pace un povero vecchio, sepolto nella sua cella solitaria. Che se tu vuoi fare sfoggio della tua dottrina, cerca qualcuno dei giovani nobili ed istruiti, di cui si dice Roma abbia dovizia, che possano contrastare con te e non rifuggano, in fatto di discussioni critiche, dal porsi a tu per tu con un vescovo.... Ad ogni modo, se proprio insisti a che io ti risponda, ricorda, te ne prego, che Annibale giovanilmente petulante, fu abbattuto dalla lenta pazienza di Massimo.»

Agostino diede in questa occasione una prova luminosa della profonda bontà dell'animo suo. Rispose in tono dimesso, sì da calmare le suscettibilità del vecchio monaco, e la loro corrispondenza potè svolgersi successivamente con una tranquilla serenità che nulla più turbò.

Ma la polemica più aspra e più lunga che Girolamo sostenne fu quella con Rufino e i suoi amici, che occupa, può dirsi, tutto l'ultimo trentennio di vita del solitario di Betlem e sopravvive pure alla morte del suo avversario. La professione monastica aveva portato a ritrovarsi in Palestina Rufino di Aquileia e Girolamo di Stridone, che, compagni di scuola da giovani a Roma, si erano poi per lunghi anni perduti di vista. Preso anch'egli dall'ideale della solitudine ascetica, Rufino aveva preceduto di parecchi anni Girolamo, nel chiedere ai luoghi santi l'ospizio che la sua anima cristiana bramava. E fin dal 374 egli, con l'illustre Melania, appartenente a quella nobilissima famiglia dei Valeri che possedeva sul Celio una della più suntuose ville romane, aveva fissato la sua dimora sul colle degli olivi, alle porte di Gerusalemme. I due vecchi amici ritrovatisi sul medesimo sentiero della perfezione cristiana, ripresero le loro cordiali relazioni. Quando improvvisamente divampò fra loro un duello teologico a dirittura mortale. Pomo della discordia, il pensiero di Origene: causa immediata dei dissidio, Epifanio di Salamina.

Strano invero il destino del grandissimo e sfortunato prete alessandrino, che nella prima metà del terzo secolo aveva creata la prima poderosa enciclopedia cristiana e aveva compilato intorno alla scrittura il primo grandioso saggio di critica testuale! Dopo aver illustrato col suo affascinante insegnamento il didascaleion cristiano della sua città natale, già insigne per la memoria di Clemente; dopo aver dato alla società cristiana mirabili saggi esegetici e inesauribili arsenali di argomenti apologetici; Origene doveva oscurar la sua fama con quelle dottrine che furono argomento di aspra controversia fra i teologi e infine di riprovazione per parte della chiesa e per le quali i suoi postumi avversari gli rimproverarono di avere offerto lo spunto a tutti gli errori trinitari e cristologici del IV e del V secolo. E senza dubbio, Origene, schiettamente subordinazianista: profondamente gnostico nella concezione della materia e della sua genesi nello sviluppo della vita cosmica, e quindi nella sua escatologia, concepita come una «apocatastasi» generale di tutte le realtà nella beata amicizia di Dio: aprì largo campo ad applicazioni anche più ardite dei suoi postulati: è riconosciuto però come non gli fece difetto l'animo pronto ad obbedire alla Chiesa.

Nel 393 un tal monaco Aterbio compiva, si direbbe, una laboriosa inchiesta per scoprire quanto origenismo covasse in Palestina, specialmente nell'ambito giurisdizionale del vescovo Giovanni di Gerusalemme. Avendone intuiti i propositi, Rufino gli chiuse la porta sul viso e poco mancò non facesse sentire alle sue spalle il sapore del bastone col quale soleva cacciare i cani dal suo rifugio. Girolamo e Paola invece fecero ad Aterbio le più calorose accoglienze. Chi sa anzi se la missione di Aterbio in Palestina non fosse un cavallo di ritorno!

Sta di fatto che dopo questa inchiesta, Epifanio, il vecchio e ardente paladino dell'ortodossia si convinse della necessità del suo pronto intervento e, senza frapporre indugio, nella Pasqua del 394, passava il mare e si presentava a Gerusalemme, chiedendo ospitalità a Giovanni. E un giorno, in un sermone pronunciato nella chiesa del Santo Sepolcro, alla presenza del vescovo e del suo clero, cominciò a levare la sua fiera e indomita rampogna contro Origene e il suo pensiero. Povero vecchio! Di indiscussa dottrina e di molte cognizioni, lunghi viaggi gli avevano dato la conoscenza di cinque lingue (greco, ebraico, siriaco, copto, oltre un po' di latino, onde l'appellativo di cui si vantava di πεντάγλωττος) non era forse però l'uomo più atto a dissertare sugli alti voli della speculazione origenistica. Il clero presente cominciò a mormorare sfavorevolmente e avrebbe forse cominciato a levare vivaci proteste, se Giovanni non avesse mandato un diacono ad imporre silenzio al mal capitato conferenziere.

La prima avvisaglia era tale da far prevedere grossa burrasca. Pochi giorni dopo, pronunciando un altro sermone nella chiesa della Risurrezione, Epifanio tornò a parlare con gran forza di Origene «padre di Ario e radice di tutte le altre eresie.» Giovanni questa volta prese la controffensiva e in un sermone tenuto a pochi giorni di distanza, caricò a fondo contro gli antropomorfiti, includendo sotto questo appellativo quanti non si piegavano all'acceso spiritualismo origeniano. E quando alla fine del discorso Epifanio tremante si levò per dichiarare che condannava l'antropomorfismo, ma che ciò non significava approvare Origene, l'adunanza scoppiò in una sardonica risata, quasi volesse sentenziare: toccato!

La guerra era ornai dichiarata, i gruppi prendevano posizione: Rufino origeniano fino al midollo per quanto circospetto nelle comunicazioni pubbliche del suo pensiero, si schierò con Giovanni; Girolamo con Epifanio, il quale anzi minacciato di busse da qualche fanatico a Gerusalemme, chiese ospitalità all'eremo di Betlem. E fu grave iattura per Girolamo, perchè avendo la ferrea intransigenza di Epifanio imposto di rompere ogni rapporto ecclesiastico con la curia e il clero di Gerusalemme, e astenendosi tenacemente, per un sentimento di umiltà, tanto Girolamo che Vincenzo dall'esercitare, sia pure nel rito, il loro sacerdozio, la ormai numerosa comunità di Betlem si trovò priva della partecipazione liturgica, volontariamente scomunicata. E quando Epifanio, contro le prescrizioni canoniche al dire di Giovanni e non senza dolce violenza, ordinò prete Paoliniano, il fratello minore di Girolamo, affinchè provvedesse al servizio religioso tra gli asceti di Betlem, la situazione si aggravò, invece di risanarsi. Perchè all'ostilità teorica di Giovanni per la comunità di Girolamo sembrò si offrisse un argomento solidissimo di fronte alla chiesa universale. Non era un principio fondamentale della organizzazione gerarchica cristiana che nessun vescovo si attentasse a ordinar preti nel territorio altrui?

Del resto Girolamo non sembrava darsi sul principio gran pensiero della polemica origenistica.

Poichè il conflitto era circoscritto a Cipro e alla Palestina, e le rimaneva estranea quell'opinione pubblica cristiana di Roma che stava a cuore al vecchio segretario di Damaso, questi poteva continuare a nutrire la sua propaganda indefessa per la nobiltà della vita ecclesiastica, rimettendosi per il resto agli avvenimenti. Appartiene al 394 quella lettera a Nepoziano, nipote dell'antico amico Eliodoro, in cui sono le pagine più forti che siano state scritte mai sulla dignità e gli oneri del sacerdozio evangelico: «Quando ancora giovanissimo, ricorda nel preambolo Girolamo, mi diedi a domare con le asprezze dell'eremo gl'impeti dell'età lussuriosa, scrissi ad Eliodoro una lettera esortatoria, grave di lacrime e di lamenti, che gli scoprisse l'affetto accorato dell'abbandonato amico lontano. Ora, col capo canuto e la fronte solcata di rughe, scrivo su altro tono. L'età adulta di coloro che alimentarono la loro adolescenza nelle oneste discipline e concentrarono la loro diurna e notturna meditazione nella legge del Signore, si fa col processo degli anni più dotta, nella prassi della vita più mansueta, nel decorso del tempo più saggia, e raccoglie saporosi frutti del lungo studio. Non avrai dunque da me declamazioni infantili, fiori retorici, frasi aggraziate, nè, alla fine dei singoli capitoli, quegli incisi rapidi e risonanti che eccitano l'applauso degli ascoltatori.... Ti raccomando di non considerare la carriera ecclesiastica come una specie di milizia lucrosa. Evita al contrario come un lebbroso, l'ecclesiastico intento agli affari, bramoso di accumulare mediante il sacerdozio ricchezze ed onori. Altri cerchi avidamente l'oro: tu lo disprezzerai; altri ciarliero ed impudente, ami la piazza, il mercato, la farmacia: tu ama il silenzio, la pace, il segreto. Mai piede femmineo calchi il pavimento del tuo modesto domicilio. O tutte ugualmente ama, o tutte ugualmente ignora le vergini di Cristo. Ricordati sempre che il colono del paradiso fu espulso dal suo domicilio a causa della donna. Non ti troverai mai con una donna sola. Mi vien rossore a pensarlo! I sacerdoti degli idoli, gli attori, i cocchieri del circo, le cortigiane possono ereditare: solo agli ecclesiastici e ai monaci ciò è vietato da una costituzione di Valentiniano, che non è un persecutore, ma un esemplare principe cristiano. Nè mi lamento della legge: ma mi rattrista il pensare che abbiamo meritato una simile legge, che del resto non basta ancora a reprimere la nostra ingordigia di denaro. Eludiamo la legge con testamenti fittizi, per mezzo di interposte persone e quasi che le sentenze imperiali avessero maggior valore che quelle di Cristo, temiamo la legge civile e oltraggiamo il vangelo. So di molti ecclesiastici che si prestano a turpi servizi presso vecchi e vecchie senza famiglia. Trasaliscono al sopraggiungere del medico e con le labbra tremanti chiedono se al paziente rimane ancora molto tempo di vita. Se il morituro accenna a riprendere un po' le forze, si sentono perduti. Temono di perdere l'agognata mercede e paragonano il vecchio che resiste, a Matusalemme... Sia costante la tua lettura delle Scritture. Le tue azioni mai si trovino in conflitto con le tue parole, affinchè, parlando tu nella comunità, qualcuno non t'interpelli: oh, perchè non agisci secondo quel che consigli? È in verità, un bel tipo di maestro quegli che ragiona di digiuno a ventre pieno. Nel sacerdote di Cristo, bocca, mente, mano devono essere solidali. Quando tu sermoneggi, scoppi, non già l'applauso della folla, bensì il pianto, e il tuo vanto sia nelle lacrime degli ascoltatori. Evita i banchetti e il tuo alito non sappia mai di vino, onde non ti si debba applicare il motto del filosofo: questo non si chiama presentare la bocca al bacio, ma propinar del vino... Come già tessendo per la mia Eustochio il panegirico della verginità, anche queste mie parole, che suonano ammonimento, saranno intese come invettiva. No: non alludo a persone e non formulo odiosi pettegolezzi. Se altri si vedrà dipinto nelle mie parole, vuol dire che ha la coda di paglia.»

Frattanto la polemica origenistica si andava acuendo. Avendo Epifanio scritto a Giovanni di Gerusalemme una grave lettera a spiegare e difendere il suo operato nell'ordinazione di Paoliniano, Girolamo, sotto lo stimolo di Eusebio di Cremona, allora suo ospite, la volgeva in latino, postillandola a suo modo. Un esemplare di queste postille, trafugato a Betlem, giungeva nelle mani del vescovo gerosolimitano, inasprendone ancora più lo spirito già tanto irritato. Girolamo doveva pensare qualche volta che gli avvenimenti politici eran tali, che avrebbero dovuto stornare l'attenzione da quelle sottili dispute teologiche. Nello stesso anno 395 in cui il conflitto si faceva più aspro, improvvisamente «torme di lupi sguinzagliati dalle rocce del Caucaso, devastavano in breve tempo intiere provincie. Quanti mai furono i monasteri abbattuti, quanti i fiumi che videro arrossate le loro acque dal sangue? È stretta d'assedio Antiochia e la medesima sorte incoglie le città traversate dall'Alis, dal Cidno, dall'Eufrate, dall'Oronte. Le orde degli Unni correndo all'impazzata sui loro infaticabili destrieri portavano ovunque lo spavento e la strage. Comparivano inattesi; vincevano in celerità la voce stessa della rovina che apportavano. Non avevano riguardo a dignità, a professione religiosa, ad età. L'infanzia stessa non era risparmiata.» Si vociferava che mirassero a Gerusalemme, e i solitari di Betlem furono sul punto di imbarcarsi, per sfuggire la catastrofe imminente. Poi l'orizzonte si rasserenò, e Girolamo e tutta la comunità potè riprendere la vita serena della contemplazione religiosa. Ma in verità l'odio teologico era più tenace e irriducibile del pericolo barbarico.

Agli inizi del 397 un inatteso e a prima vista inesplicabile colpo di scena impresse alla campagna pro e contro Origene una nuova piega. Rufino e Melania decisero improvvisamente di far ritorno a Roma, dopo più che un ventennio di vita solitaria sul colle degli Ulivi. In vista di un distacco che sarebbe forse stato definitivo, i due avversari, Girolamo e Rufino, si riconciliarono e si strinsero cordialmente la destra. Ma quale il motivo della grave decisione? Rufino accampava ragioni d'affari: ma vent'anni di solitudine non lasciano sopravvivere affari e interessi nel mondo. Io ho l'impressione che nell'atto stesso di stringere la mano al vecchio amico di Epifanio, all'antioregenista degli ultimi anni, Rufino avesse già pienamente maturato nell'animo l'astutissimo piano, che si riprometteva di svolgere in Occidente ai suoi danni. La causa dell'origenismo pericolava in Oriente: occorreva rialzarne le sorti col favore dell'Occidente. Girolamo vi era noto e i suoi scritti giovanili, in cui erano state così frequenti le allusioni e le lodi di Origene, costituivano un'ottima base per tentare di strappare a Roma il riconoscimento dell'ortodossia del grande maestro alessandrino, che lo zelo di Epifanio voleva condannare alla geenna. Pure ammessa simile intenzione in Rufino, non ne segue per necessità che la sua riconciliazione con Girolamo fosse una abbietta finzione. I due lottavano per un alto programma di cultura religiosa, e il desiderio di non offendere le leggi della carità cristiana poteva essere verace in loro, pur proponendosi ciascuno di fare il possibile per il trionfo delle rispettive idee.

Sta di fatto che qualcosa di artificioso e di predisposto trapela dagli avvenimenti. Giunto a pena in Italia, Rufino si fa incontrare da un tal Macario, monaco e polemista, il quale lo invita senz'altro a far conoscere in Occidente l'opera di Origene. E Rufino si pone senz'altro di buon grado all'opera, traducendo prima dal greco in latino una parte dell'Apologia di Origene redatta da Panfilo e poi affrontando la versione del più ardito scritto origeniano, i Principi (πεϱὶ ἀϱχῶν), che tra parentesi, solo attraverso questo rifacimento rufiniano sono giunti fino a noi. Ho detto: rifacimento. Rufino era troppo accorto per non comprendere che a dare, a Roma, il testo integrale dello spiritualista alessandrino, si correva rischio di suscitare uno scandalo immenso e di dar fin dall'inizio partita vinta a chi sospettava in Origene il vero capostipite dell'eresie del IV secolo. Quindi traducendo, corresse e soppresse. Nella prefazione del resto scoprì schiettamento il suo metodo, ma lasciò anche andare alcuni periodi sul lavoro già compiuto da Girolamo per la divulgazione di Origene, che furono un abilissimo e magistrale colpo contro l'avversario di Betlem: «so quanto grande numero di fratelli, animati da un vivissimo desiderio di progredire nella scienza scritturale, ha chiesto ad alcuni uomini dotti e periti nel greco di dare veste latina ad Origene: tra gli altri un fratello e collega nostro (leggi Girolamo), per insistente invito del vescovo Damaso, avendo volto dal greco due sue omelie intorno al Cantico dei Cantici, premise all'opera un'introduzione così magistrale e così eloquente, da suscitare in tutti un desiderio accesissimo di conoscere meglio lo scrittore Alessandrino. Ma ormai quel mio confratello, tratto dalle proprie attitudini di scrittore, attende a cose che danno maggior gloria. Noi ci mettiamo sulle sue orme non certamente con le medesime forze intellettuali. Onde temo forte che Origene, già definito dal mio amico – vero maestro delle chiese dopo gli apostoli, per virtù di dottrina – non appaia inferiore a sè stesso, a causa della mia povertà di espressione. Sono stato per questo a lungo esitante: cedo alfine, uniformandomi all'esempio di coloro che mi hanno preceduto in questo arringo. E principalmente di quel fratello a cui ho già alluso (sempre Girolamo), il quale, avendo tradotto più che 70 operette di Origene, omiletiche, essendosi imbattuto in passi scabrosi, li acconciò in modo che il lettore latino nulla vi trovasse di sconcertante per la fede. Noi seguiremo il medesimo sistema nel tradurre i difficilissimi libri πεϱὶ ἀϱχῶν, in cui Origene tratta di argomenti, a proposito dei quali i filosofi, dopo aver consumato l'esistenza nello studiarli, nulla conclusero di definitivo. In sostanza il nostro autore volle, per quanto gli fu possibile, trarre una apologia della fede da quelle stesse speculazioni sul creato e sulle essenze create che quelli volsero a razionalismo.

Gli amici fedeli di Roma informarono senza indugio Girolamo dal diabolico colpo che Rufino gli aveva menato alle spalle. Non era piccante vedere dipinto come origenista l'amico di Epifanio, l'avversario di Giovanni di Gerusalemme? Girolamo corse sollecitamente ai ripari e in brevissimo tempo, lavorando giorno e notte, scrisse un'aspra lettera a Rufino, rassicurò Pammachio, diede una letterale versione di Origene, perchè si sapesse a Roma che cosa c'era esattamente nella sua opera capitale. Nella prima prendeva direttamente a partito l'untuoso e falso avversario: «Mi è stata trasmessa una prefazioncella ai libri πεϱὶ ἀϱχῶν, in cui io sono subdolamente, che dico? apertamente tratto in causa. Con quale intenzione tu l'abbia scritta, tu lo sai: ma quale intenzione vi traspaia, pure gli sciocchi lo veggono. Oh, potrei magnificamente, io che tante volte ho declamato polemiche fittizie, far ricorso agli usati artifici retorici, e lodare te a tuo modo. Ma Dio mi guardi dall'imitarti in quel che riprendo. Al contrario, ho smussato le mie frasi in modo da non colpire l'amico. Di una cosa ti prego: volendoti mettere al seguito di qualcuno, contentati del tuo parere. Pensa infatti: quel che vogliamo o è male o è bene: se è bene, a che pro il concorso altrui? E se è male, la molteplicità degli aberranti costituisce forse una scusante? Ti ho voluto dire amichevolmente tutto ciò, senza entrare in pubblico dibattito, per mostrarti che io son fedele alle amicizie riconciliate e non sono capace di tenere, secondo il motto plautino, il sasso con una mano, e offrire il pane con l'altra».

Nella lettera a Pammachio riconosceva d'aver lodato altra volta Origene, ma come esegeta, mai come maestro di speculazione religiosa: «ho lodato l'interprete della Bibbia, non il teologo; l'erudizione, non la fede sua. Che se vogliono conoscere la mia genuina opinione intorno ad Origene, leggano i miei commentari all'Ecclesiaste e i tre tomi sulle lettere ai Galati e agli Efesini e vedranno come sempre io ho preso posizione contro le sue asserzioni dogmatiche. Mi rimproverano di aver raccolto i suoi codici più di qualunque altro. Oh, Dio volesse che io possedessi copie di tutti i trattati, onde compensare la accidia dell'ingegno con l'abbondanza delle letture. Lo riconosco: ho fatto una insigne raccolta dei suoi libri, ma perchè conosco quanto egli ha scritto, non vuol dire che io segua i suoi errori. Credete pure a chi lo conosce: parlo da cristiano a cristiani: son fonti avvelenate le sue asserzioni, aliene dalla verità biblica, cui fanno costantemente violenza. Ho letto molto Origene: e se nella lettura fu delitto, si, l'ho commesso: i codici dell'alessandrino mi hanno ripetute volte vuotato il borsellino. Ma credetemi: non sono stato mai origenista; non mi credete? Ebbene, sappiate allora che non lo sono più».

Non contento però di difendersi, Girolamo passa all'attacco, e si arresta alle opinioni degli origenisti sul dogma così controverso della risurrezione dei corpi. Erede diretto dello gnosticismo, Origene non ammetteva più mai alcuna vita corporea al di là della tomba. Piegandosi un po' alle credenze della massa cristiana, i seguaci suoi avevano accettato invece una certa risurrezione della carne, ma intendendola come una trasfigurazione sottile ed eterea dell'attuale nostro involucro materiale. Girolamo li stringe da presso: «Dicono costoro: crediamo alla futura risurrezione dei corpi. Se una proposizione di questo genere è pronunciata sinceramente, è la pura confessione della verità. Ma vi sono corpi celesti e corpi terrestri: anzi l'aria e il vento, per la loro natura, sono corpi, e costoro parlano di corpi e non di carne, affinchè l'ortodosso che ode la parola – corpo – creda che si parli di carne, mentre l'eretico capisce a volo di che si tratta. Questo il primo loro tranello: scoperto, ricorrono ad altri sotterfugi e fingono di essere ingenui e noi chiamano maliziosi, ostentando una sincerità che non hanno. – Crediamo, sì, alla risurrezione della carne. – Al sentir ciò, la massa, che ricorda la medesima frase del simbolo, si contenta. Ma se persisti nell'interrogare, l'adunanza strepita e i fautori discreti dell'origenismo, gridano: non hai inteso le parole, risurrezione della carne?

Di grazia, che cosa vuoi di più? - Ma se tu giustamente ti incaponisci, e li assedi, indicando con la mano il corpo autentico, perchè dicano se veramente credono che questo che si vede e parla e cammina, è destinato alla risurrezione, prima scoppiano in una risata, poi annuiscono. E chiedendo ostinatamente noi se il corpo risorto avrà peli capelli e denti, petto e ventre, mani e piedi e tutte le altre membra, allora sì che la costoro ilarità non ha più freni e sganasciandosi dal ridere, – oh, ma dunque – dicono – avremo anche lassù bisogno di barbiere e di medici, e ci sarà la distinzione dei sessi?» –

Con la sua naturale e veristica crudezza, Girolamo toccava così il punto più delicato del dissenso fra seguaci e oppositori di Origene, il destino cioè della carne al di là della morte. Poichè ormai l'opinione cristiana era tutta definitivamente orientata verso la concezione della risurrezione integrale e propria del corpo, i primi erano destinati ad aver la peggio. Il vescovo di Roma Anastasio, pure dichiarando di capir ben poco di così astruse polemiche, chiedeva a Rufino una dichiarazione di fede, che si fece più tosto attendere e non fu molto chiara.

Ma ciò non vuol dire che nella polemica con Girolamo, Rufino stesso non potesse trionfalmente far constatare come l'antiorigenista di oggi era stato l'origenista appassionato della vigilia. Con decisa franchezza Girolamo aveva rimandato chi desiderava di conoscere il suo pensiero intorno ad Origene, al suo commento sulla lettera agli Efesini. Rufino lo prende in parola, proprio a proposito di quella dottrina della risurrezione, che suggeriva all'asceta di Betlem così originali interpretazioni San Paolo dice in quella lettera (v. 28): «Chi ama la propria moglie, ama sè stesso, perchè nessuno odiò mai la propria carne.» E Girolamo aveva commentato: «amino i mariti, le mogli, e le anime nostre, i corpi, affinchè le spose siano cambiate in uomini, e i corpi in anime, onde non vi sia più alcuna differenza di sessi, ma come fra gli angeli non vi sono maschi nè femmine, così noi, che dobbiamo divenire simili ad angeli, cominciamo fin d'ora ad essere quel che ci è promesso nel Regno dei cieli.» Rufino poteva chiedere maliziosamente: «sapendo bene di avere scritto parole come queste, come hai richiamato altri all'esempio della tua fede nella risurrezione corporea? Se i corpi si trasformeranno in anime, dunque, secondo te, la carne non risorge.... Se le mogli saranno trasformate in uomini, sì che non vi sia più diversità di sessi, ma il sesso femminile sia trasformato in maschile, come potrai dire che sussista il sesso maschile, là dove non ci sarà più il femminile? In verità non capisco come tu possa chiedere agli altri un'opinione intorno alla diversità dei sessi nel mondo dei risorti, quando tu stesso, volendo parlar di ciò, ti perdi in un dedalo di contradizioni.

Ma c'è di più. Girolamo aveva asserito di aver lodato due sole volte Origene, e sempre come esegeta. Rufino trova una diecina di passi di sue opere in cui di Origene è intessuto l'encomio più caloroso. Classico fra gli altri e inoppugnabile il tratto di una vecchia lettera del 384 a Paola, in cui Girolamo, dopo aver detto che Origene era stato scrittore più prolifico di Varrone – ed era tutto dire – continuava: «e pure, quale compenso ricevette per il suo diuturno lavoro? Fu condannato dal suo vescovo Demetrio e alla condanna si associò Roma e tutto il suo senato ecclesiastico, non tanto perchè l'insegnamento di Origene costituisse novità; non tanto perchè vi si appiattasse l'eresia, come ora van latrando contro di lui cani arrabbiati, ma perchè non potevano tollerare la gloria radiosa della sua scienza e della sua eloquenza, per cui, lui parlando, tutti sembravano muti.» Messo sulla via di rinfacciare a Girolamo il suo passato, Rufino scendeva dalle accuse teoriche alle insidiose insinuazioni personali. Gli rimproverava l'equivoca fuga da Roma nel 385 dopo un processo scandaloso; accennava con aria di mistero alla dimestichezza sua con Paola e la sua famiglia; rilevava i suoi grossolani attacchi contro la chiesa di Roma (chiamata «Babilonia» e «porporata cortigiana») e contro personaggi illustri e venerandi come Ambrogio (detto una volta «la deforme cornacchia»). L'invettiva di Rufino suscitò a Roma che assisteva, giudice, al tremendo duello dei due vecchi ecclesiastici, un'eco profonda. Sopravvivevano molti di coloro che erano stati staffilati, meno di vent'anni prima, nella lettera ad Eustochio? Se sì, dovettero scorgere in Rufino il loro tardo, ma eloquente vendicatore.

Gli amici romani di Girolamo, Pammachio e Marcella sopra tutto, erano costernati. Ma sapevano come Girolamo fosse polemista irresistibile, e inviarono a Betlem lo scritto rufiniano. La risposta non si fece attendere e fu, anch'essa, violentissima. Girolamo si difese spiegando il vero senso del suo commento sulla lettera agli Efesini e scese pure a contrastare col suo rivale, insistendo sopra tutto sulla mancanza di lealtà di quegli che, congedatosi dall'Oriente dandogli e stringendogli la destra, aveva organizzato a Roma così proditorio attacco alla sua correttezza teologica. La rottura fra i due antichi amici fu questa volta insanabile. Girolamo non perdette più un'occasione di inveire contro Rufino, che coprì dei più risibili epiteti, di Grunnio, di Calpurnio, di idria, di scorpione; che vide rinato in Pelagio; cui non perdonò nè pure quando, fuggito da Roma all'avvicinarsi dei Goti nel 410, Rufino fu colto in Sicilia dalla morte in esilio. Immemore in pari tempo del suo vecchio debito di riconoscenza per Origene, che lo aveva formato alla esegesi e alla speculazione teologica, Girolamo lo chiama invariabilmente nei suoi ultimi scritti «il matto».

Ma ormai erano questi gli ultimi bagliori polemici di un fuoco che si spegneva. Gli anni e i dolori calavano sempre più gravi e cocenti sull'anima del vecchio combattente. I rovesci politici dovevano anch'essi affliggere il contemplatore di Betlem. Ma sopra tutto inconsolabile gli parve la scomparsa delle persone più care. Paola era morta nel 404; il disastro del 410 portò la morte o la dispersione dei più affezionati amici di Roma; Eustochio stessa precedeva nel 419 Girolamo nel sepolcro, e questo fu l'ultimo e più tragico strazio per l'anima sua. Poichè l'implacabile deprezzatone sotto un certo aspetto, del matrimonio; l'apologista caloroso della vita continente; aveva posto la donna su un piedistallo altissimo, e aveva esaltato come nessun altro la sua capacità di elevazione spirituale. Come tutti i grandi mistici cristiani, Girolamo aveva trovato infatti in anime femminili lo specchio più terso dei suoi ideali spiritualistici e le interpreti più sagaci e più ricche di abnegazione, del suo alto programma contemplativo. "Οσα ἐϰ συζυγίας πϱοέϱχεται πληϱώματά ἐστιν...."

Unico superstite ormai di un cenacolo che la morte aveva disciolto, Girolamo non potè sopravvivere a lungo. Ottantenne, nel 420, seguiva le amiche nella tomba, lasciando dall'Oriente in retaggio alla chiesa latina un patrimonio spirituale, che per lungo ciclo di secoli non avrebbe smarrito un apice del suo immenso valore religioso e sociale: un testo ufficiale cioè della tradizione biblica e il ravvivato ideale celibatario.

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