I.

«Vi faccio (nuovamente) noto, o fratelli, il lieto annuncio che vi evangelizzai, che voi riceveste, in cui pure siete stati saldi, in virtù del quale siete salvati, se l'adesione alla parola evangelizzatavi è decisa, e a meno che non abbiate creduto a cuor leggero. Vi ho innanzi tutto infatti comunicato quel che a mia volta ricevetti: che cioè Cristo morì a causa dei nostri peccati, secondo le Scritture, e che fu sepolto e che è poi risorto il terzo dì, sempre secondo le Scritture. E che apparve a Cefa, e poi ai dodici; quindi apparve a più che cinquanta fratelli, contemporaneamente, dei quali molti sopravvivono fino ad oggi, alcuni si addormentarono. Quindi apparve a Giacomo e poi a tutti gli apostoli. All'ultimo posto, come ad un aborto, apparve anche a me.»

Così Paolo di Tarso, scrivendo da Efeso ai suoi fedeli di Corinto verso l'autunno del 55 e saldando strettamente la fede nella sopravvivenza del Cristo alla certezza della immortalità dei credenti in Lui, adduceva a prova dell'avvenuta risurrezione del Signore, fra le altre, l'apparizione sua a lui stesso, nel dì della sua improvvisa palingenesi spirituale. E successivamente, tessendo ad ammaestramento e a rimbrotto delle volubili comunità della Galazia l'apologia del proprio messaggio antilegalistico, aveva di nuovo occasione di accennare discretamente all'avvenimento straordinario che aveva di colpo capovolto le sue aspirazioni e i suoi ideali: «vi assicuro, fratelli: il vangelo da me evangelizzato non è a modo umano. Poichè non l'ho ricevuto nè imparato da uomo, bensì attraverso una rivelazione di Gesù Cristo. Poichè voi avete udito della mia condotta allorchè ero nel giudaismo, come oltre ogni misura perseguitavo la chiesa di Dio e la sovvertivo, avanzando nel giudaismo molti miei coetanei della mia razza, costituendomi paladino ben più zelante di loro delle tradizioni avite. Ma quando si compiacque Colui che mi aveva messo a parte fin dal grembo della madre mia e destinato alla chiamata in virtù della sua grazia, di rivelare in me il Figlio suo, onde ne sparga l'annuncio fra i gentili, immediatamente non mi rivolsi per consiglio a carne o a sangue.»

Qualche anno più tardi, infine, ricapitolando in quella lettera ai cari amici di Filippi che ha gli accenti di un testamento, il programma della sua laboriosa esistenza, Paolo definiva la sua conversione come una presa di possesso della sua anima da parte del Cristo (I. 12).

Il redattore degli Atti ha dato con particolari infinitamente più drammatici la versione stilizzata dell'evento, destinato a ripercussioni così imponenti nello sviluppo della primitiva propaganda cristiana. Per ben tre volte egli ha modo di inserire nel suo testo il racconto uniforme della conversione. Sulla via di Damasco, in procinto di perseguire e reprimere fin là, sotto l'investitura del Sinedrio, le ramificazioni della nascente chiesa, Paolo è abbattuto da un improvviso sfolgorare di luce dal cielo. Una voce lo ammonisce, invocando per l'occasione un vecchio adagio, non ignoto alla letteratura greca: «ardua cosa è dar di calci contro il pungolo», e lo dirige a un personaggio eminente della comunità damascena, il quale dovrà iniziare ai riti della nuova fede l'eccezionale adepto, banditore predestinato del lieto annuncio al mondo greco-romano (Atti, IX. 3-19; XXII. 6-16; XXIII. 12-19).

Ogni insigne conversione religiosa è la manifestazione prodigiosa di una virtù divina, i cui metodi di procedimento e di azione sfuggono inesorabilmente ad ogni controllo empirico e ad ogni segnalazione sensibile. Come l'analisi chimica della cellula vivente non è la spiegazione adeguata del mistero sorprendente che è in ogni più tenue e sottile espressione di semovenza, così l'esplorazione documentaria, diretta a segnalare le tappe successive e i coefficienti esteriori di quelle radicali metamorfosi psichiche che sono provocate dal tocco inafferrabile della grazia, non riuscirà mai a strappare ai grandi convertiti il segreto della loro gestazione interiore. L'analisi critica deve limitarsi a ricostruire gli elementi, e a tratteggiare la configurazione ideale delle due posizioni, attraverso le quali si è collocato l'attimo drammatico della loro palingenesi.

La fede e l'insegnamento cristiani di S. Paolo ci sono esaurientemente noti attraverso le pagine così dense e così robuste del suo epistolario. Le sue esperienze e le sue aspirazioni prima del subito capovolgimento nei pressi di Damasco occorre ricostruirle di su gli accenni scheletrici e fugaci delle sue polemiche e delle sue apologie, a cui la testimonianza degli Atti aggiunge complementi della validità salda dei quali riesce a volte malagevole offrire una dimostrazione perentoria, e di su i dati ricavati da altre fonti, circa le tendenze dei circoli e degli ambienti al cui contatto dovette temprarsi l'irrequieta giovinezza del futuro apostolo.

La famiglia di Saulo era stata probabilmente una di quelle di cui Antioco Epifane aveva in ogni modo favorito la sistemazione, nella Tarso, della quale egli era stato il munifico restauratore. L'eccezionale situazione della città, – nella vasta e varia pianura cilicia, una trentina di metri sopra il livello del mare, a quindici chilometri circa dalla costa, a cui era collegata dalle navigabili acque del Cidno, con in fondo a settentrione, a quarantacinque chilometri di distanza, le imponenti vette del Tauro, fra le cui gole si aprivano il varco le famose «porte», via sovrana di comunicazione verso l'altipiano centrale dell'Anatolia, una delle grandi arterie che hanno determinata la storia del mondo mediterraneo, – ne aveva fatto un centro commerciale, politico, culturale di primo ordine. Il diritto di cittadinanza romana doveva essere stato conferito alla famiglia di colui, che avrebbe un giorno contrapposto al Signore del Palatino il Signore della vita e della morte, all'epoca di Pompeo. Più tardi Tarso era stata teatro di notevole parte degli avvenimenti che dovevano condurre alla costituzione imperiale. Nell'estate incipiente del 47 Cesare vi entrava, nella sua marcia contro il re del Ponto. Sei anni precisi più tardi Cleopatra vi approdava con un corteggio regale, dopo aver risalito il corso del Cidno, attraverso lo spiegamento di una pompa allettatrice, di cui Plutarco descrive tutto il fantasmagorico apparato, per incontrarsi con Antonio. Quel giorno, fra gli spettatori, assiepati lungo le sponde del fiume per assistere all'arrivo inconsueto, non vi sarà stato, fanciullo, il futuro genitore dell'Apostolo, e non si sarà egli sentito ardere in cuore, nella sua fiammante anima di semita iracondo, lo sdegno contro «l'uomo dell'empietà», così recisamente maledetto nella lettera ai Tessalonicesi?

Quel crogiuolo di correnti, di esperienze, di aspirazioni, che era stata per secoli l'Anatolia, aveva deposto in Tarso i relitti di tutte le sue elaborazioni e di tutte le sue molteplici combinazioni spirituali. Il dominio assiro come l'egemonia persiana vi avevano lasciato la loro orma. Il vecchio culto locale, attestato ancora dalle leggende aramaiche nelle monete del primitivo periodo seleucida, aveva subito l'azione contaminatrice di culti d'importazione. Le religioni di mistero vi si erano sollecitamente insinuate, con le loro acri esaltazioni emozionali, con la loro grossolana soteriologia, con la loro orgiastica liturgia.

La vita culturale di Tarso aveva toccato l'apice massimo della sua intensa effervescenza, quando Saulo vi nasceva agli inizi stessi della nostra era. Atenodoro, vecchissimo, vi impartiva forse ancora quell'elevatissimo insegnamento morale, che Cicerone e Seneca lodano con parole così ammirate. Tra poco, Eutidemo vi avrebbe richiamato quanti aspiravano ad una raffinata formazione retorica.

Ma gli agi del prospero commercio, il pulsare della gioconda vita universitaria, avevano impresso alla Tarso dell'epoca paolina un eccezionale carattere di mondana sfrenatezza. Un giorno vi doveva giungere Apollonio di Tiana, a completare la sua educazione. Ma il giovanetto, austero e precoce, non sarebbe stato in grado di acconciarsi alla dissipazione della città, null'affatto confacente ai suoi gusti, decisamente sfavorevole al raccoglimento di un cosciente tirocinio filosofico.

Sebbene, per quanto le rare informazioni permettano un'opinione, sembri che a Tarso gli ebrei siano stati considerati meno che altrove come un elemento cittadino estraneo ed isolato, non è da pensarsi che l'adolescenza di Saulo si sia sottratta all'efficacia formatrice delle più rigide tradizioni e delle più ardenti speranze della sua razza e della sua terra d'origine. Ancora all'epilogo drammatico della sua turbinosa carriera, in quel suo commiato spirituale che è la lettera ai Filippesi, l'apostolo ricorderà, con legittimo compiacimento, che invano si sarebbe accampata, contro la nobiltà della sua propaganda antilegalistica, una inferiorità della sua iniziazione israelitica: contro chi, come lui, era stato circonciso l'ottavo giorno, e per zelo nella tutela della legge era apparso irreprensibile. Egli accenna in quella occasione ad una sua adesione esplicita alle concezioni del fariseismo, che, assorbite sollecitamente nell'ambito della vita familiare a Tarso, debbono aver poi, a Gerusalemme, trovato il loro corroboramento autorevole e la loro dilucidazione sicura.

Se, come ha scritto una volta Filone, la speranza è il primo germe gettato nel solco della coscienza ragionevole; se, come ha sentenziato sant'Agostino, la patria spirituale cui l'uomo appartiene, è designata dalla natura e dalla finalità delle sue aspirazioni; non si possono fissare le attitudini di una grande anima, non si possono individuare le tappe salienti del suo pellegrinaggio e del suo apostolato, se non a patto di scandagliare e circoscrivere gli spostamenti successivi delle sue visuali e dei suoi ideali. Le genuine conversioni non sono altro che la polarizzazione dei desideri e di tutte le aspettative della vita, fuori dal cerchio fascinatore degli interessi terreni, verso le luci dell'eternità nella pace e nel riposo.

Nonostante le palmari deformazioni a cui la sua malcelata preoccupazione di riuscir grato a lettori greci e romani espone ed induce Giuseppe Flavio, costituitosi testimone delle idee religiose e delle aspirazioni del suo popolo, pure, attraverso i racconti drammatici delle Antichità giudaiche e della Guerra giudaica, appare trionfalmente l'efficacia preponderante che l'aspettativa messianica esercitò sugli avvenimenti dell'epoca asmonaica come in quella degli erodiani. La letteratura apocalittica popolare come le elaborate visioni della sapienza rabbinica e della pietà farisaica riboccano di questi sentimenti di attesa impaziente e di fiducia ottimistica, che sembrarono rendere meno aspra ed angosciata la servitù politica d'Israele nel periodo del suo tormentato tramonto e, a distanza di secoli, appaiono come il prodromo provvidenziale dell'annuncio della genuina liberazione dalle ombre contaminanti della colpa e dell'abbiezione.

Le miserie esteriori, la precarietà delle condizioni politiche ed economiche, le angoscie inenarrabili della dispersione etnica e della disgregazione spirituale, non avevano fatto altro, nell'anima d'Israele, che rinfocolare di rimbalzo le ansie dell'attesa ed erano state, alla fine, interpretate come l'avviamento indeprecabile alla manifestazione gloriosa e gioiosa del giorno del Signore. «Prima della venuta del Messia, – annunciava un vecchio scolio rabbinico – l'audacia criminale aumenterà, le difficoltà materiali dell'esistenza raggiungeranno il loro colmo, la vigna darà abbondante il suo frutto e ciononostante il vino salirà a prezzi altissimi. Nessun miglioramento sarà possibile: la scuola servirà alla prostituzione. Gli abitanti di frontiera se ne andranno di città in città, senza che nessuno abbia compassione di loro; la sapienza degli scribi sarà tenuta in poco conto; coloro che hanno orrore del peccato saranno disprezzati e la verità bistrattata. I giovani faranno impallidire i vegliardi, e i vegliardi dovranno tenersi ritti alla presenza dei fanciulli: un figlio si ribellerà al proprio padre, una figlia contro la propria madre. Un uomo avrà per nemici i propri parenti: la faccia di questa generazione sarà il volto di un cane. Su chi porre allora fiducia? Sul Padre dei cieli, soltanto.»

Ma la speranza della pietà religiosa sapeva dove appuntare lo sguardo, nell'attesa della liberazione. «Rimira, o Signore, – aveva cantato l'anonimo poeta dei salmi dei farisei – e suscita il Re figlio di Davide, nel tempo da te determinato, perchè regni su Israele tuo servo. Ricingilo di potenza, onde debelli i condottieri ingiusti e purifichi Gerusalemme dalle nazioni infedeli che la devastano. Giusto e sapiente, ch'egli scacci i peccatori dall'eredità; che spezzi l'insolenza dei peccatori, come si infrange un vaso d'argilla; con una verga ferrea ch'egli faccia a pezzi la loro spavalda baldanza; che annienti, con la parola della sua bocca, tutte le nazioni immorali; che le sole sue minacce volgano in fuga dinanzi ai suoi passi le nazioni infedeli; ch'egli smascheri i peccatori mediante i propositi stessi del loro cuore. Ed egli raggrupperà un popolo santo, guidandolo nella giustizia; giudicherà le tribù del popolo santificato dal Signore suo Dio; non permetterà all'ingiustizia di assidersi più in mezzo ad esse. Nessun uomo disposto al male dimorerà con esse: in tutti i loro membri riconoscerà i figli di Dio. E li distribuirà sul paese nelle rispettive tribù: nè colono, nè straniero risiederà più fra loro. Giudicherà i popoli e le nazioni nella propria sapiente giustizia. E manterrà i popoli delle nazioni sotto il suo giogo perchè lo servano. Renderà gloria al Signore al cospetto di tutta la terra e purificherà Gerusalemme, divenuta nuovamente santa come al principio. Dagli estremi confini del mondo le nazioni verranno per ammirare la sua gloria, e scopriranno lo splendore del Signore, con cui Dio l'avrà glorificata.»

Saulo deve avere alimentato la sua anima giovanile dei medesimi sogni e dei medesimi miraggi che avevano consolato le avide aspettative dell'anonimo cantore. Onde si comprende agevolmente quanto spontaneo dovesse essere il suo iracondo sdegno quando giunse, vagamente, al suo spirito il sentore che, proprio a Gerusalemme, un piccolo stuolo di ignoranti e di esaltati si era posto in capo che il Messia ardentemente atteso fosse un oscuro predicatore galileo, che nella settimana pasquale del 27 aveva subito, alle porte della città santa, l'ignominioso supplizio della croce, e che il Regno di Dio sarebbe stato sollecitamente inaugurato dal suo ritorno glorioso. Insulto più atroce e più beffardo a tutte le aspettative di Israele, gemente nei ceppi della servitù politica, non si sarebbe mai e poi mai potuto immaginare.

Saulo volle più direttamente conoscere l'insegnamento del Galileo. Gli aforistici detti che i suoi seguaci conservavano e si tramandavano gelosamente, dovettero dare al suo spirito, tutto nutrito di pietà farisaica e tutto preso dal miraggio di una prodigiosa rivendicazione etnica e politica, una strana impressione di stupore e di impaziente insofferenza. La terminologia che quegli ammonimenti e quelle previsioni adoperavano, le concezioni di cui si intessevano, non apparivano a prima vista sensibilmente differenti da quelle che ricorrevano nella letteratura, sui cui motivi si erano dai primi anni venute foggiando la sua esperienza e le sue speranze. Ma lo spirito che vi circolava per entro era tutt'altra cosa dalle tradizioni del suo popolo e dai programmi dei ceti spiritualmente dominanti in Israele. Il Regno di Dio che il galileo Gesù aveva bandito e descritto, di cui anzi egli, il Figliuolo dell'Uomo, si era costituito araldo divinamente investito e promesso inauguratore, nulla aveva di comune con quello la cui visuale luminosa confortava da secoli, ma ora con più pungente vivezza, l'aspettativa amarreggiata dei «giusti» e dei «poveri». «Date fiato, in Sionne, alla tromba che annuncia la festa. Bandite, in Gerusalemme, la parola del messaggero di gioia. Chè ebbe pietà Dio d'Israele, nell'ora della visita a lui. Lévati, Sion, in alto e contempla i tuoi figli, adunati dal Signore d'ogni angolo dell'orizzonte. Eccoli venire dal settentrione, ricolmi della gioia di Dio; Dio li raccolse insieme dalle isole lontane. Livellò gli alti monti onde spianare loro il cammino: i colli scomparvero all'approssimarsi dei loro passi. La loro traversata fu ombreggiata dai boschi: fece crescere per loro Iddio ogni albero odorifero, onde Israele marciasse sotto la tutela della gloria sua. Indossa, Gerusalemme, le vesti del tuo fulgore: appresta la divisa della tua santificazione. Chè Iddio parlò cose buone a Israele, per l'eternità... Tu, Signore, tu hai scelto David come re su Israele, e tu gli hai giurato, per quanto riguarda la sua prosapia nei secoli, che la sua dinastia mai si sarebbe spenta al tuo cospetto. Ma a cagione dei nostri peccati, i malvagi si son levati contro di noi, ci hanno assalito, ci hanno mandato raminghi. Costoro, cui nulla avevi promesso, tutto han preso con la violenza, senza rendere onore al nome tuo benedetto. Essi hanno costituito nel fasto il loro potere, come corrispettivo della loro elevazione. Hanno reso squallido il trono di David, lusingandosi di soppiantarlo. Ma tu, o Dio, li rovescerai e disperderai il loro seme dalla terra.... Il Signore è ben fedele in tutti i verdetti che pronuncia sul mondo.... (Insigne) è la maestà del Re d'Israele che Dio conobbe da quando decise di costituirlo sulla casa di Israele, onde correggerla. Le sue parole temprate al fuoco, meglio dell'oro più puro. Nelle adunanze egli giudicherà le tribù del popolo santificato. I suoi sermoni simili ai discorsi dei santi, in mezzo ai popoli santificati. Beati i viventi in quei giorni, chiamati a contemplare il trionfo d'Israele nella adunanza delle tribù. Dio affretti quel giorno! Dio anticipi la sua misericordia su Israele! Dio ci riscatti dall'immondità di nemici spregevoli! Il Signore, egli solo, è il nostro sovrano in eterno!»

Come nei canti ispirati che l'anonimo poeta popolare dell'epoca di Pompeo aveva posto audacemente sotto il nome di Salomone, anche nella predicazione di Gesù il galileo il Regno era retaggio dei poveri e dei diseredati, che attendono, nella rassegnata letizia, solo dal Signore, la reintegrazione della giustizia violata e della legge conculcata. Ma come diverso il panorama dell'immancabile riscatto! Gesù aveva abbandonato completamente le effimere e fallaci prospettive di una reintegrazione davidica, che avrebbe riportato in auge, dopo la profanazione e l'usurpazione dello straniero, il destino di Israele. Che cosa contavano mai, di fronte alla manifestazione gloriosa di Dio, gli angusti interessi e i caduchi valori del mondo? Le vicende dei suoi poteri, il fluttuare instabile dei suoi programmi, il ciclo delle sue aspirazioni, tradiscono sempre qualcosa di così irrimediabilmente transitorio, di così funzionalmente fragile, che è indegno dell'anima recante in sè l'effigie del Padre e la brama di contribuire all'attuazione del suo vero bene, perdersi dietro le inquietudini astiose delle competizioni quotidiane e prefiggersi uno scopo di terrena reintegrazione. L'uomo non ha nel mondo che un compito da assolvere: riguardare a Dio come alla provvidenza vigile ed immancabile, studiare di operare nei rapporti con i fratelli quella bontà longanime e indiscriminata che Dio esercita su malvagi e su pii, e implorare dal cielo, che ne è l'unica sede, la discesa della perfetta, integrale giustizia. Un giorno che l'insidia dei dominatori del momento si era fatta più subdola e più esperta e nell'attesa di una risposta compromettente aveva cercato di porre Gesù nell'imbarazzo fra Cesare e Jahvè, chiedendogli se fosse consentito all'israelita docile alle prescrizioni della legge versare il balzello alla contaminante cassa di Roma pagana, il Maestro aveva finissimamente risposto che si restituisse pure a Cesare la moneta che questi s'era coniato e aveva messo in circolazione per i suoi usi e il suo vantaggio, ma si badasse bene a riservare a Dio tutto quello che era di sua esclusiva e incontrastabile spettanza: l'anima e il tesoro della sua speranza, del suo disinteresse, della sua fiducia. Israele, attraverso secoli di inenarrabili iatture si era consumato dietro il miraggio di una restaurazione politica, che ogni qual volta si era più da vicino approssimata, si era tradotta in delusioni scoraggianti e avvilienti. No: non era quella la via della genuina liberazione. Occorre chiedere a Dio che ci affranchi dal vero «maligno» e dal vero contaminatore: quegli che, dopo aver malmenato la nostra natura corporea, può portare al naufragio la nostra anima, fatta per il riposo nella pace del Padre. È questo «maligno» che ha creato le molteplici e ammorbanti cure della vita quotidiana, per tendere altrettanti trabocchetti alla libera fiducia dei figli di Dio. Che essi se ne liberino, abbandonandosi, come i piccoli fiori dei campi e i liberi, canori abitatori dell'aria, all'assistenza di Colui, che manderà, quando che sia, il suo Signore, a soddisfare l'ansia della loro aspettativa. Un solo messaggio di riscatto il Padre ha da comunicare ai suoi fedeli: quello che annuncia la definitiva sconfitta della tirannia che ogni anima ha nei suoi istinti dell'egoismo, della sopraffazione e dell'inganno.

Le anime inclinate da natura all'entusiasmo per il bene, al possesso della libertà, alla realizzazione della giustizia, cominciano invariabilmente, negli anni dei loro fervori giovanili, con il collocare la meta delle loro aspirazioni e il culmine dei loro sogni nel vagheggiare il compimento delle migliori speranze di benessere che trovano coltivate dalla massa che vive, dolorando e aspettando, intorno a loro. Con il suo lento, edace, implacabile trascorrere la vita logora, di solito, i loro puri sogni altruistici, e dissipa l'iride dei loro alti ideali. Solo negli spiriti più saldamente temprati al fuoco divoratore delle delusioni, perchè dotati di maggiori riserve e di una superiore pinguedine interiore, riesce a sopravvivere, al disfacimento fatale del disinganno, il miraggio del bene e il programma della individuale abnegazione. Ma l'uno e l'altro escono invariabilmente dalla prova trasformati e sublimati, a norma delle speciali direzioni e dei peculiari orientamenti che la spiritualità collettiva suggerisce, nei cicli successivi del suo sconfinato sviluppo.

Saulo cominciò a saturarsi dei sogni e delle aspettative, cari ai ceti più pii e più intransigenti del suo popolo bistrattato. La stessa sua inesperienza di israelita della dispersione deve avergli fatto ritenere più agevole l'ideale dell'affrancamento e del riscatto politico e religioso di cui si nutriva, nell'aspettativa, la razza di Abramo. Ma adagio adagio la maggiore esperienza della vita, la conoscenza diretta della reale situazione in Giudea, la constatazione della immorale perversione di tanta parte dei poteri costituiti del culto israelitico e della vergognosa acquiescenza loro al dominio dell'invasore e del profanatore, debbono avere inavvertitamente consunto e corroso le radici stesse della sua fede luminosa. Avrebbe potuto mai Jahvè intervenire prodigiosamente a soccorso e a salvezza di un popolo che aveva, con ripugnante improntitudine, abbandonato la sua legge e aveva ignominiosamente trescato con l'oppressore e il peccatore? Oh, sì, la pittura che i Salmi facevano della corruzione mondana, valeva, alla lettera, per i tempi in cui gli era capitato di vivere! «Non v'è sulla terra più nè pure un giusto: non v'è più chi comprenda qualcosa, chi cerchi Iddio. Tutti deviarono dal retto sentiero, tutti, in blocco, sono stati vuotati di ogni capacità di bene. Non si trova più chi operi la bontà: di buoni s'è perduto lo stampo. Sepolcro spalancato la loro gola, pronte le loro lingue a ordire inganni, veleno di serpenti sotto le loro labbra. La loro bocca è ricolma di imprecazioni e di amarezza. Ratti i loro piedi nell'effonder sangue, rovina e desolazione nelle loro vie. Sperdettero irrimediabilmente il sentiero della pace: il timor di Dio è dileguato dalle loro pupille!» Come lusingarsi seriamente, in questo disperato disfacimento della rettitudine e della dignità morale, che Jahvè si sarebbe potuto ricordare del suo traviato popolo?

Saulo doveva già essere in preda ad una crisi di scoramento e di tristezza quando per la prima volta gli giunsero allo spirito i sentori della predicazione del Galileo, con la sua concezione del Regno puramente spirituale, con la prospettiva del bene collocata sulla linea dell'abnegazione, della generosità, dell'umiltà, del perdono. Quel capovolgimento brusco e radicale di tutte le consuete valutazioni d'Israele, quel rovesciamento coerente e rettilineo di tutte le canonizzate convenzioni etiche e sociali, dovette, in sulle prime, destare in lui una ribellione violenta. L'anima umana non si acconcia agevolmente a subiti spostamenti d'ideali, e la possibilità delle metamorfosi interiori è legata all'inconsapevole sforzo di conguagliare le vecchie attitudini alle nuove visuali e ai rinnovati propositi. Saulo fu, per un tempo di cui è impossibile circoscrivere la durata, come il bue che dà inanemente di calci contro la sferzante puntura dello stimolo. Cercò anzi di soffocare il turbamento che gli ingeneravano in cuore i concisi frammenti pervenutigli della strana «novella», tuffandosi, più caparbiamente che mai, nella campagna contro i nuovi profanatori della veneranda aspettativa messianica.

Ma negli strati più profondi del suo subcosciente, già pervaso dallo scoramento e dall'inquietitudine, il messaggio del Galileo suppliziato lavorava oscuramente. Anche lassù, nella sua Tarso tumultuosa e raffinata, il giovanetto Saulo aveva sentito vagamente parlare di iniziazioni misteriose, che garantivano la vera liberazione e l'imperituro riscatto, mercè l'incorporazione in favolose figure, che già avevano realizzato in sè, con uno sconfinato potere normativo, il dramma dell'annullamento e della rinascita, della morte e della vita. Quelle strane dottrine, maculate da liturgie grossolane e da torbide mitologie, non avrebbero potuto racchiudere un nucleo sostanziale di verità nella loro preliminare tesi del collegamento fra la morte e la vita, l'abbiezione e il riscatto? Anche il «servo di Jahvè» non era stato dipinto dai profeti come il ricettacolo predestinato di tutte le umiliazioni e di tutte le sofferenze, e per questo stesso come lo strumento fatale dell'universale perdono? E non sarebbe stato per caso il compito provvidenziale di Israele quello di innestare sulle amorali credenze dei misteri l'assillo dei valori morali, nella cui celebrazione era il vanto di tutta la legislazione mosaica? Il galileo che aveva espiato, sulla croce, il delitto della sua predicazione iconoclastica, e della cui risurrezione si dicevano così sicuri i suoi fedeli, non avrebbe per caso realizzato in sè, nella pienezza della controllabilità storica e in una forma specialissima di attuazione del profetismo e del messianismo, il mito di cui vivevano le più alte esperienze del mondo ellenistico contemporaneo? E nel suo messaggio di liberazione etica, sostituito a quello della circoscritta ed effimera liberazione politica, suscettibile pertanto d'applicazione universale a tutto il genere umano, non si conservava, trasfigurato, il privilegio di Israele nella economia religiosa del mondo?

Saulo, il fariseo, dovette inorridire quando la prima volta questi sconcertanti quesiti si affacciarono sui margini della sua anima tormentata. Ma le idee che ci si presentano a volte come le più paradossali son quelle che sollecitano più tenacemente le nostre insoddisfazioni e le nostre ansie. Saulo aveva ormai le sue vecchie attitudini e le sue familiari aspirazioni profondamente incrinate. Cercò di resistere ancora all'invasione del nuovo ideale. Era la resistenza del disperato. Un dì, nei pressi di Damasco, la luce del Risorto lo investì in pieno, e lo diede trasformato alla comunità dei nuovi credenti.

Un trentennio circa più tardi, nelle comunità della Palestina e più della Siria, si raccontava che quel giorno stesso un fedele di Damasco era stato ammonito in visione di andarlo a cercare nella via detta la Diritta, in casa di Giuda, per imporgli le mani, chè egli «sarebbe stato un vaso eletto, chiamato da Dio a portare il nome del Signore all'orecchio del gentili, dei re, dei figli tutti di Israele.»

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