II.

Alle scaturagini stesse della organizzazione ecclesiastica cristiana è dato cogliere una diversità di sfumature nella fede del Risorto, e nella determinazione della sua personalità, su cui pure poggiava la comune solidarietà carismatica e la ragione prima del proselitismo. Mentre la primitiva comunità gerosolimitana, meno accessibile alla comprensione integrale del contenuto innovatore del messaggio ricevuto, vedeva in Gesù risorto, l'essere assunto, attraverso la vita di abnegazione e il sacrificio cruento, alla qualità messianica, destinato quindi alla non lontana inaugurazione del regno glorioso, e pertanto riteneva compatibile la professione di fiducia in Lui con la pratica rituale della legge, nelle comunità invece reclutate nelle città ellenizzanti, dove i proseliti provenienti dal gentilesimo erano numerosi e potevano agevolmente aderire alla «buona novella» senza alcun impaccio di pregiudiziali legalistiche, Gesù era annunciato come il Signore, la cui opera e la cui morte racchiudono il mistero di un radicale riscatto. Per comunità di questo tipo il «vangelo» non poteva costituire il retaggio geloso ed esclusivo di una razza: aveva in sè la capacità di assurgere a patrimonio universale degli uomini, tragicamente oscillanti fra il dolore e la morte, e a base etica e mistica di una loro solidarietà fino allora inavvertita. L'esperienza religiosa di Paolo non era fatta per armonizzarsi con le visuali anguste e permalose di Gerusalemme: era fatta invece per trovarsi compiutamente a suo agio tra i fedeli di Damasco e di Antiochia.

I primi passi nell'apostolato furono singolarmente malagevoli. Salito a Gerusalemme tre anni dopo la conversione, ebbe bisogno dei buoni uffici di Barnaba per essere senza rischi presentato agli «apostoli» per eccellenza. Ma vi rimase a pena quindici giorni e si allontanò di là, accompagnato, evidentemente con un certo senso di soddisfazione, sulla via della sua Cilicia. E là Barnaba fu nuovamente quegli che l'andò a cercare, quando l'esigenze della comunità antiochena, numerosa, varia, esuberante di vitalità e di entusiasmo, sembrarono richiedere un chiarificatore ed un esegeta esperto nella conoscenza delle correnti spirituali, alle quali il messaggio del Salvatore risorto poteva essere più proficuamente presentato. Fu quella, precisamente, l'iniziazione ufficiale di Paolo alla sua meravigliosa carriera. Ben presto la pienezza di vita della comunità fu tale che sorse spontaneo e irresistibile il proposito della propaganda esterna. I rapporti fra le comunità israelitiche della dispersione erano frequenti ed intense: non è da escludersi che fossero alimentati da un personale viaggiante, che manteneva ininterrottamente i contatti fra la città madre e i figli disseminati nei centri più pulsanti del bacino del Mediterraneo. La nuova concezione del Regno, e la acuita attesa del suo inauguratore glorioso, dovevano portare automaticamente alla idea della missione. Lo Spirito aleggiante sulla comunità antiochena suggerì un giorno che Barnaba e Paolo fossero delegati all'opera del proselitismo. Ed essi salparono da Seleucia per l'isola di Cipro, patria del primo, predicarono nelle sinagoghe di Salamina e di Pafos, si imbarcarono per Attalia, sulle coste meridionali dell'Anatolia, donde raggiunsero Perge nella Panfilia. La permanenza colà fu più breve di quanto le circostanze non avrebbero potuto consigliare. Uno dei frequenti attacchi del male, per cui Paolo aveva quasi la sensazione che un penoso aculeo fosse infitto nelle sue carni, lo costrinse a cercare aria migliore nei luoghi elevati della Pisidia e della Licaonia. Annunciò così il Cristo nelle sinagoghe di Antiochia, di Listri, di Derbe. I gentili erano invitati in pari tempo che gli Israeliti ad aderire alla nuova fede, il cui messaggio e la cui speranza, universali, trascendevano decisamente ogni barriera etnica e ogni tradizione confessionale. La stessa novità di questo annuncio affratellatore, se era causa di rapidi successi, era fonte di violente rappresaglie. L'apostolato degli inviati antiocheni desta reazioni rumorose di folle ed essi debbono sollecitamente prendere la via del ritorno, ben felici in cuor loro di portare in sè la certezza di una solidarietà spirituale, cementata ormai attraverso le distanze e le secolari divergenze di popoli e di simboli.

Il ritorno ad Antiochia di Siria aprì l'adito all'acutizzarsi improvviso e alla esplosione dell'intimo dissenso che le due visioni della figura e dell'opera del Cristo, fra cui si polarizzavano le comunità della prima ora, portavano in grembo. Le due visioni implicavano due apprezzamenti nitidamente antitetici dell'ampiezza di reclutamento del Regno promesso dal Cristo e quindi di rimbalzo due contradittorie maniere di valutare l'efficacia delle pratiche legalistico-mosaiche per il conseguimento del Regno stesso. Se la salvezza operata dal Cristo consisteva genuinamente in un affrancamento radicale dai vincoli mortificanti della carne, e quindi della morte, e pertanto nel conferimento di particolari e inviolabili titoli al possesso dell'eredità, in passato assegnato ad un popolo di privilegiati, l'adesione alla Legge e la pratica delle prescrizioni giudaiche erano divenute completamente superflue: l'iniziazione battesimale, l'incorporazione mistica cioè nell'organismo vivente del Cristo, che è il corpo del Signore proiettato nella storia, era la tessera necessaria e sufficiente per il riconoscimento del diritto all'ammissione nel Regno, per il prossimo dì dell'epifania prodigiosa. La conquista dello Spirito e dei suoi doni ne rappresentava la caparra rassicurante. Fra due visuali così contrastanti, che investendo la linea consueta di condotta, impegnavano l'esistenza di ogni giorno, l'equivoco non poteva durare. Una soluzione apparve improrogabile, quando i due propagandisti tornarono dall'Anatolia, e nelle comunità siro-palestinesi si propagò la voce che essi avevano aggregato al novero dei «santi», predestinati al Regno, gruppi di convertiti provenienti dal paganesimo, senza pur anco sottoporli alle prescrizioni centrali della Legge d'Israele.

Il problema se simile procedimento di propaganda potesse menarsi per buono fu esaminato e discusso in un convegno di notabili della comunità madre di Gerusalemme. Paolo e Barnaba difesero a spada tratta i criteri a cui si erano ispirati nella loro opera missionaria, ed ebbero, sostanzialmente, partita vinta. Il convegno infatti approvò un ordine del giorno in cui, lasciando ai loro futuri giri di propaganda la maggior larghezza di scelta e di destinazione, si fissavano tassativamente solo alcune insignificanti pratiche alimentari e qualche limitazione matrimoniale, a cui i convertiti avrebbero dovuto sottostare per il riconoscimento e la sanzione della loro conversione. Le loro oblazioni a favore della comunità madre, esposta continuamente agli imbarazzi di una congenita precarietà finanziaria, sarebbero state l'espressione tangibile della loro solidale fraternità.

San Paolo poteva ritenersene soddisfatto. Egli non aveva chiesto il sigillo gerosolimitano al suo apostolato. L'investitura egli l'aveva ricevuta direttamente dall'alto e il suo procedere era di chi si lasciava quotidianamente guidare dalla voce ispiratrice di Dio. Comunque, la decisione ufficiale del convegno imprimeva alla solidità del suo messaggio una sanzione, che avrebbe agevolato ormai al suo ardore i più liberi voli. Tornato ad Antiochia, più avido che mai di guadagnare spiriti all'annuncio di rigenerazione e di immortalità che aveva trasfigurato le sue esperienze e le sue aspettative, Paolo decise di rivisitare le comunità disseminate lungo l'itinerario del suo primo viaggio missionario. Dalla provincia della Siro-Cilicia egli, accompagnato da Sila (uno screzio lo separa questa volta da Barnaba), passa in quella della Galazia. I due missionari valicarono il Tauro alle famose «porte cilicie», che Ciro il giovane ed Alessandro avevano già traversato nelle loro spedizioni verso l'Oriente, e di là raggiunsero la Licaonia galatica. Così Paolo rivide, percorrendo l'itinerario in senso inverso, le comunità costituite durante il primo viaggio: Derbe, Listri, quasi certamente anche Iconio e Antiochia di Pisidia. A Listri Paolo prese con sè un giovane rampollo di una famiglia ch'egli aveva precedentemente iniziato alla sua fede, Timoteo, compagno d'ora in poi delle sue fatiche apostoliche. Da Antochia la logica naturale del suo viaggio di ricognizione avrebbe dovuto riportarlo verso il porto di Attalia, e al di là verso la Siria. Paolo non prese la via del ritorno. Egli si sentiva ormai padrone del suo pensiero e docile strumento di una causa più forte e più imperiosa della sua stessa volontà. L'istinto del propagandista lo portava irresistibilmente verso nuovi pericoli e verso nuovi successi. Dopo una momentanea incertezza sulla direzione da prendere, si decise risolutamente per la Misia, che traversò diagonalmente raggiungendo il mare a Troade. Fu un giorno decisivo nella storia dei destini spirituali dell'umanità occidentale quello in cui egli, salpando dal continente asiatico, fece vela verso il porto europeo di Neapoli, sulla costa macedone. Di qui, incamminandosi per la via Egnazia, raggiunse, a quindici chilometri di distanza, Filippi. Quella che gli Atti (XII.12) chiamano, con frase ambigua, «la prima città del distretto», era stata insignita di recente della dignità di colonia romana, col nome di «Augusta Julia Philippensium» e aveva ricevuto lo «jus italicum». Anche in una città macedone, dove pure la popolazione era in strabocchevole maggioranza greca, ma rivestita della cittadinanza romana, san Paolo non si discostò dalla sua costante consuetitudine di presentarsi da prima alla sinagoga. In giorno di sabato egli andò a ricercare gli israeliti nel luogo del loro settimanale convegno. La prima convertita fu una mercantessa di porpora, nativa di Tiatira, Lidia, la quale ospitò senz'altro sotto il suo tetto i predicatori del nuovo annuncio. Paolo doveva conservare fino al tragico crepuscolo della sua vita un soave ricordo della sua prima permanenza a Filippi e il suo testamento spirituale, dalla «Babilonia» dei sette colli, sarà indirizzato alla comunità che, prima, l'aveva accolto in territorio europeo e, ultima, mandò l'espressione tangibile del suo amore e della sua riconoscenza all'apostolo imprigionato. Ma anche nel nuovo ambito d'azione il messaggio paolino suscita opposizioni violente. La folla composita di tendenze e di predilezioni, scorge nella predicazione dell'israelita di Tarso motivi di preoccupante sovversivismo. Dopo aver subito una flagellazione, che fu un grave insulto alla sua dignità di cittadino romano, Paolo riesce misteriosamente a porsi in salvo raggiungendo, sempre sulla Egnazia, Anfipoli, Apollonia e finalmente il grosso e pulsante centro di Tessalonica. Qui l'opera proselitistica di Paolo, che si protrae per un periodo di tempo di una ampiezza indeterminabile, ma certamente sensibile, ci si rivela nella integrità dei suoi elementi e dei suoi presupposti, perchè il ricordo non ne è più affidato unicamente alla testimonianza elaborata degli Atti, la quale soggiace a visibili preoccupazioni apologetiche e letterarie, bensì anche alle allusioni e ai riferimenti personali dell'apostolo, il cui epistolario superstite viene d'ora in poi a segnare le tappe salienti del suo zelo e del suo lavoro. Le sorti esteriori della predicazione di Paolo non furono a Tessalonica più felici che altrove. Ben presto una folla di sfaccendati del Foro, sapientemente aizzata dai giudei, ai quali la predicazione universalistica di Paolo toglieva il privilegio della predestinazione al felice Regno di Dio per ampiarlo a quanti riponessero fede nel Cristo risorto, mette a soqquadro la città, investendolo e circuendolo. E poichè non riesce a catturare il predicatore sedizioso, nè i suoi compagni di peregrinazione, Sila e Timoteo, si sfoga contro colui che li aveva ospitati, Giasone. Le accuse formulate contro gli importuni stranieri al cospetto dei politarchi furono di tale natura che, per quanto la città di Tessalonica avesse conservato i suoi diritti di città libera, anzi forse appunto per questo, nessun magistrato della città avrebbe potuto lasciarle cadere inosservate, senza provocare qualche misura di rigore da parte del proconsole romano. L'accusa pubblica infatti denunciava Paolo e i suoi amici di macchinazione contro i decreti di Cesare, per avere apertamente proclamato che si doveva rispettare e temere un altro re: Gesù. Paolo avvertì il pericolo imminente, e di notte – era probabilmente l'autunno del 48 – fuggì da Tessalonica, verso Berea. Ma la distanza intercedente fra le due città, una trentina di chilometri a pena, non era tale da porre Paolo pienamente al sicuro dalle ripercussioni del subbuglio ch'egli si era lasciato alle spalle. Non era male, onde evitare il ripetersi della dolorosa esperienza di Filippi, d'interporre fra sè e coloro che spiavano le sue parole, un più largo tratto di spazio; e lasciati temporaneamente i suoi amici a Berea, salpava per il Pireo. Ad Atene il suo insuccesso fu deciso, ma non ne rimase sgomento. Paolo si trasferiva sollecitamente a Corinto, dove rimaneva un anno e mezzo, fondando una comunità che fu fonte di cocenti preoccupazioni al suo animo di apostolo geloso ed esigente. Già durante la breve permanenza ad Atene, sui primi giorni del 50, Paolo era stato raggiunto dal diletto Timoteo, e, impaziente di conoscere lo stato d'animo della piccola schiera di seguaci, rimasti a Tessalonica ad affrontare l'ira e lo sdegno che non avevano avuto modo di sfogarsi contro di lui, lo aveva rinviato colà ad accertarsi prudentemente della loro costanza e della loro saldezza nella fiducia. Ora, a Corinto, il giovane discepolo, sbrigatosi con sagace sollecitudine della missione ricevuta, gli aveva recato nuove in complesso soddisfacenti e gli aveva comunicato le incertezze dei fedeli tessalonicesi su alcuni punti delle speranze loro inculcate. Era morto nel frattempo qualche fratello della comunità, e i superstiti si domandavano, non senza apprensione, quale ne sarebbe stata la sorte, in rapporto alla venuta del Signore, non ancora verificatasi durante la loro esistenza corporea. Urgeva dunque rassicurare i credenti di Tessalonica sul destino, ugualmente glorioso, degli scomparsi, che erano forse congiunti per sangue ad alcuni di loro. La lettera che Paolo spedì senza indugio ai tessalonicesi è appunto un fervido ammonimento alla piena sicurezza e alla serena fiducia. Non si debbono nutrire ansie per i fratelli che si sono frattanto addormentati. Il cristiano non è, come il gentile, privo di speranza: spentosi in Cristo, sarà innalzato da Dio al trionfo con Cristo. Il giorno non prevedibile in cui il Signore, al suono della tromba, scenderà dal cielo, i morti risorgeranno prima, e i superstiti li seguiranno sulla via delle nubi. Il momento della grande palingenesi è ignoto: ma nessuno, per questo, deve abbandonarsi a trepidazioni. L'umanità è ormai divisa nettamente in due schiere: i figli delle tenebre, coloro cioè che hanno perdutamente chiuso gli occhi alla verità, e i figli della luce, i credenti. Il trionfo finale di questi è determinato da un decreto infallibile di Dio, che non ammette revoca. Le perentorie dichiarazioni di Paolo rassicurarono i corrispondenti di Tessalonica sulla sorte dei fratelli addormetantisi nel frattempo; ma provocarono inconvenienti di altro genere. Se Iddio chiamava infallibilmente i credenti non già all'ira, bensì al raggiungimento della salvezza, sì che, dormendo o vegliando, essi erano sempre misteriosamente vivi, nel Cristo risorto, prossimo ormai a raccogliere i suoi di tra i figli delle tenebre, a che pro darsi da fare per le cure della stessa esistenza materiale? Non restava che abbandonarsi inerti alla aspettativa fiduciosa dello svolgimento del dramma cosmico, il cui epilogo doveva trovare superstiti parecchi dei convertiti da Paolo. La seconda lettera ai Tessalonicesi fu pertanto un consiglio di pazienza e nel medesimo tempo di operosità. Lo spiegamento della catastrofe parusiaca non è avvenimento tanto sommario ed immediato, quanto i semplicisti fedeli di Tessalonica amerebbero credere. Esso implica parecchi atti successivi, qualcuno dei quali anzi dipende dallo sforzo stesso dei credenti nella palingenesi. Con parole caute, con circonlocuzioni misteriose, imposte dalla delicatezza dell'argomento e dalla necessità di non esporre il latore ed i lettori della missiva a crudeli rappresaglie, Paolo accenna in essa, pertanto, agli eventi preparatori e premonitori del grande giorno del Signore. Innanzi tutto doveva scoppiare l'apostasia, una specie cioè di sollevazione in massa contro l'impero dei Cesari, mostruosi profanatori, specialmente con la loro blasfema pretesa di onori divini, di quanto v'è di sacro nello spirito dell'uomo e della vita associata. Allora avrebbe avuto modo di manifestarsi, senza freni e senza riguardi, l'uomo della empietà, quegli che è funzionalmente fuori della legge, il figlio perduto, il nemico per antonomasia, colui il quale vuole innalzarsi al di sopra di quanto è ritenuto divino ed è oggetto di culto, sì da presumere di poter prendere il posto del vero Dio nel suo tempio e di proclamare sè, Dio: vale a dire, il sovrano imperiale, nella cui persona e nelle cui temerarie prerogative Roma pagana aveva sintetizzato tutte le capacità malefiche della sua politica sopraffattrice. Attualmente c'è qualcosa che trattiene costui dallo spiegare tutta l'azione funesta e perversa che è potenzialmente nei suoi poteri e nelle sue tiranniche attribuzioni. Tale forza raffrenatrice è rappresentata dai legati e dai proconsoli: gente che vive a contatto con le popolazioni soggette, che ne sa quindi i bisogni e ne rispetta le aspirazioni. Costoro tengono a bada, per quanto è in loro, l'oscura forza di male che è nel potere centrale e, per ciò stesso, scongiurano e ritardano lo scoppio liberatore della generale apostasia. Il ritardo è provvidenziale: l'empio deve manifestarsi al momento assegnato, non un istante prima. Se il mistero della iniquità è già in opera, la pienezza del suo malvagio influsso subisce freni provvisori. Solo l'apostasia costringerà l'empio a fare obbrobrioso sfoggio delle sue brutali risorse, a cercar di rafforzare il suo trono traballante con tutti i mezzi che Satana porrà a sua disposizione. Invano! Allora il Signore Gesù apparirà, per annientarlo col semplice alito della sua bocca, per polverizzarlo col balenante fulgore della sua apparizione. Se questa la certezza dei credenti, le male e subdole arti dell'empio possono, sì, sedurre i ricercatori della ingiustizia e gli sprezzatori della verità, già destinati all'eterna perdizione, ma sono spoglie di qualsiasi fascino agli occhi di coloro che amano tenacemente il vero e recano nel proprio grembo la predestinazione alla salvezza.

Con questi incitamenti fieri e consolanti Paolo chiude la sua «apocalissi». Ma mentre egli provvedeva così a rafforzare la fede e a stimolare l'operosità dei lontani, non toglieva un lembo della sua anima ai vicini. Corinto si era offerta come una materia facilmente infiammabile al fuoco del suo proselitismo. Città composita sotto ogni punto di vista, presentava un terreno quanto mai propizio ad ogni genere di seminagioni e ambiente adatto alla più variata gamma di esperienze. Adagiata su uno stretto istmo che l'apriva ai due più nutriti orientamenti commerciali del mondo antico nel Mediterraneo orientale, pulsava di traffici e offriva quelle mille possibilità di agi che sembrano racchiudere la più paradossale virtù di inclinare alle forme nuove della vita spirituale e di sollecitare le più pungenti inquietitudini. I suoi giuochi famosi ne facevano un centro dei più eterogenei incontri di razze e di culture. Il suo popolare culto di Afrodite sanzionava la più sfrenata licenziosità, creando una atmosfera di rilassatezza e di stanchezza che, per una di quelle eccentriche contradizioni di cui si alimenta la vita dello spirito, è probabilmente la meglio acconcia a favorire le subite e ardenti aspirazioni alla purezza e alla perfezione. Per affinità di mestiere Paolo scelse la sua dimora presso due amici israeliti, facitori di tende, originari del Ponto, ma provenienti da Roma, donde eran dovuti fuggire di recente, in seguito ad un provvedimento antisemita di Claudio. Secondo il suo consueto metodo, Paolo iniziò la sua opera missionaria a Corinto in seno alla sinagoga. La sua predicazione era semplice e disadorna. Tema: il Cristo e il significato della sua crocifissione; prospettiva: il suo ritorno glorioso e l'immortalità dei suoi adepti; disciplina associata: i riti dell'iniziazione e del pasto fraterno. Più tardi, in una delle loro frequenti crisi di raffreddamento e di infedeltà, i convertiti di Corinto si andavano sussurrando a vicenda che Paolo era altrettanto severo e veemente nelle lettere, che pavido ed esitante nel suo discorrere. Ma Paolo potrà in coscienza rispondere di non essersi sentito mai difforme da sè stesso e che il suo vangelo egli l'aveva annunciato, sopra tutto, attraverso l'esplosione dello spirito e dei suoi segni prodigiosi. Ma il suo aperto rinnegamento dei loro privilegi etnici e confessionali; la sua costituzionale incapacità di assumere arie di disdegno e di sussiego di fronte al più umile scaricatore pagano del porto di Cenere; la sua audace spregiudicatezza nel mescolarsi alla vita circostante, senza il benchè minimo scrupolo e senza la più lieve ripugnanza alle mille sottili impurità, che tale contatto esponeva fatalmente a contrarre; dovevano anche qui suscitargli l'astiosa e petulante avversione dei suoi fratelli di sangue. Paolo, senz'altro, li abbandonò al loro destino e si rivolse unicamente ai gentili. Sede di riunione fu allora la casa di un tal Tizio Giusto, non lontana dalla sinagoga. Può darsi che i dieciotto mesi trascorsi a Corinto siano stati i più ricchi di emozioni nella travagliata vita dell'apostolo. Assistere quotidianamente alla trasfusione della propria più cara esperienza in anime di solidali e di amici; vedere il proprio sogno e il proprio ideale assumere valore normativo per gruppi di aderenti, pronti ad accomunarsi, compagni, sul medesimo periglioso sentiero; cogliere intorno a sè il costituirsi ineffabile di un'atmosfera mistica, in cui la vita associata riesce a generare la disciplina per la comune elevazione nel bene; ecco indubbiamente il più squisito dono che l'esistenza possa concedere ad anime d'eccezione. Paolo lo ebbe abbondante. Ma all'inizio di un nuovo proconsolato, anche a Corinto l'opposizione giudaica, connivente l'autorità romana, assunse tal forma che Paolo, già desideroso del resto di riprendere contatto con le communità madri, affrettò il suo imbarco per la Siria. Approdò ad Efeso, sulla costa ionica, dove mai aveva svolto la sua propaganda. Di là riprese il mare per Cesarea, salì di qui a Gerusalemme, discese quindi alla sua fedele Antiochia. La situazione cristiana in Siria e in Palestina non era tale da richiedere una lunga permanenza dell'apostolo nei luoghi del suo primo tirocinio e delle sue prime battaglie. Ormai il periodico ritorno ai centri di irradiazione del messaggio cristiano non poteva avere per lui altra ragione che il bisogno di mantenere i contatti con i focolai più antichi e più autorevoli della fede, ripercossasi in breve su un perimetro incalcolabilmente più vasto e più promettente di quello che non avessero voluto ripromettersi i primi nuclei di credenti palestinesi. L'anima dell'apostolo gravitava con desiderio e preoccupazione sempre più ardenti e sempre più inquieti verso le comunità della nuova «diaspora», ch'egli aveva costituito attraverso difficoltà così spinose e sotto l'impulso di una audacia così gravida di incertezze e per ciò stesso così inebriante. Dopo aver trascorso un breve periodo di riprova e di ristoro ad Antiochia, Paolo, camminatore infaticabile, riprendeva l'itinerario del suo precedente viaggio di ricognizione, visitava per la terza volta le comunità galatiche, e poi piegava risolutamente verso occidente e si arrestava ad Efeso, dove sarebbe rimasto, con brevi parentesi, tre anni circa, quotidianamente impartendo le sue istruzioni e sostenendo contradittori vivaci nella casa di un maestro di filosofia, tal Tiranno. Efeso si prestava mirabilmente al programma dell'apostolo, che si appressava ormai al meriggio delle sue potenzialità di messaggero. Terreno nuovo e eccezionalmente proprio alla sua insaziabile avidità di proselitismo, Efeso costituiva anche un favorevole posto di osservazione per seguire da non troppa distanza gli sviluppi e le crisi delle comunità della Macedonia e dell'Acaia. D'altro canto il pensiero dell'originalissimo convertito toccava ormai la pienezza della sua organicità e della sua maturazione. Paolo avvertiva, senza anguste modestie, tutta l'eccezionale potenza del suo «vangelo» e ogni giorno più acutamente era sospinto dal bisogno di comunicarne la formulazione ad una cerchia di proseliti più numerosa e più scelta. La sua parola non sarebbe un giorno o l'altro pervenuta anche a Roma? Frattanto, fra una discussione e l'altra con gli elementi più disparati del mondo colto e religioso della città di Diana, l'apostolo cominciava a sperimentare le prime ansie per le sorti morali e disciplinari della comunità di Corinto. Le notizie che gliene giungevano non lo allietavano gran che. La vita morale dei singoli credenti colà non si era trasformata sotto l'impulso travolgente della nuova fede, com'egli aveva sognato, e le vecchie consuetudini licenziose non avevano abbandonato i convertiti. San Paolo scrisse a Corinto una prima lettera nella quale, ribadendo un suo fondamentale presupposto, che la nostra vita etica è quale la foggiano le nostre relazioni sociali e le nostre amicizie e che un'esigua porzione di frumento riesce a far lievitare tutta una massa, inculcava, severamente, ai suoi corrispondenti la tattica dell'allontanamento da quanti menassero vita sregolata. La prima missiva dell'apostolo destò a Corinto, come le successive, sebbene in un grado di minore intensità, una complessa impressione di sgomento e di irritazione. Fra san Paolo e la sua comunità preferita si delineò fin da allora quello strano tipo di relazioni, fra affezionate e permalose che costituisce l'accompagnamento abituale dei profondi sentimenti e che potremo osservare in tutto il periodo del quale l'epistolario superstite ci ha conservato la documentazione. O che cosa mai veniva in mente all'apostolo, di raccomandare l'allontanamento dai fornicatori, in una città come Corinto, il cui nome stesso aveva dato origine a un verbo, che era sinonimo del vivere licenziosamente? Imponeva, niente niente, che i suoi convertiti uscissero dalla vita e si sequestrassero nella solitudine? Pensarono di chiedergli delle spiegazioni e poichè altri quesiti, d'indole pratica e d'indole teoretica, si erano presentati nella maniera di interpretare e di applicare il messaggio ricevuto, li formularono tutti in una lettera che, con altri ragguagli pervenutigli attraverso gli schiavi di una tal Cloe, i quali, per ragioni probabilmente commerciali, facevano spesso la traversata fra Corinto ed Efeso, diede a Paolo un quadro esatto della situazione e una sensazione viva della necessità del suo intervento preciso e sollecito. Non è da escludersi che Apollo, un giudeo alessandrino molto esperto nella interpretazione della legge, che aveva aderito a Cristo, non disgiungendo però tale fede da una sua antecedente adesione alla iniziazione battesimale di Giovanni, e che da Efeso, ben provvisto di lettere commendatizie, si era trasferito a Corinto per svolgere la sua opera di propagandista in seno alla comunità, avesse soffiato subdolamente sul fuoco. Facendo sfoggio di tutte le sue rare capacità dialettiche ed oratorie, questo Apollo era di fatto riuscito a crearsi già un partito fra i fedeli corinzi, e tutto lascia supporre ch'egli cercasse di soppiantare colà il fascino e l'autorevolezza di Paolo. Nel momento in cui questi si accingeva ad intervenire, la situazione era estremamente delicata. Apollo, probabilmente preoccupato dalle problematiche e oscure ripercussioni del suo operato, era tornato ad Efeso e si trovava presso all'apostolo. San Paolo sapeva molto bene quale fosse stata l'insidia tesa da costui alla semplice e lineare sua linea di condotta fra i convertiti di Corinto. Non avrebbe potuto rispondere alle interpellanze dei suoi corrispondenti dell'Acaia senza levare alta la sua voce contro le discordie suscitate da vane rivalità concettuali. D'altro canto i corrispondenti di Corinto avevano osato nella loro missiva chiedere a Paolo che inviasse loro, nuovamente, l'amato parlatore alessandrino. Non era questa impertinente domanda un cavallo di ritorno? Paolo si cavò d'impaccio con abilità pari alla franchezza. In complesso, la sua risposta è una molteplice dilucidazione occasionale: essa mira a fronteggiare temporanee emergenze nella vita spirituale della comunità corinzia. Ma l'apostolo trasfonde nelle sentenze della sua chiaroveggente religiosità una così intima e traboccante consapevolezza della sublime nobiltà del Vangelo da lui bandito, che esse si sono fissate, come verdetti incancellabili, nel fluttuare millenario dell'etica cristiana. Paolo comincia col deplorare, con una forza sottile di allusioni, di giuochi di parole, di argomentazioni personali, della quale la parziale conoscenza delle reali circostanze di fatto non ci fa nè pur riconoscere la reale portata, lo scoppio delle discordie tra i fedeli dell'Acaia. L'apparizione di Apollo nella comunità che era sorta su dall'annuncio disadorno ma impetuoso e rovente di Paolo, aveva portato lo sconvolgimento in molti cervelli. Un nucleo di fedeli aveva senz'altro rinnegato il primo banditore della nuova fede che li aveva generati a Cristo, e si era nettamente schierato con il raffinato esegeta e l'affascinante oratore, esperto in tutte le risorse del simbolismo alessandrino. Di rimbalzo i fedeli dell'apostolo avevano inalberato il suo nome come un vessillo. Altri, non volendo, leggermente, passare armi e bagagli al novatore, ma in pari tempo avendo quasi vergogna di raccogliersi sotto l'insegna di Paolo, pensarono bene di assumere a distintivo un nome più autorevole che quello di entrambi: e si dissero di Cristo o di Pietro. San Paolo li riprende in blocco. Il Vangelo è la salvezza nel Cristo: che cosa contano dinanzi all'ineffabile mistero della sua croce riscattatrice i trasmettitori della sua parola? L'argomentazione di Paolo è serrata e precisa: «Ma dunque è diviso il Cristo? Forse è Paolo che fu crocefisso per voi o è al nome di Paolo che foste iniziati? Il Cristo mi mandò ad annunciare la buona novella, non già nel vano sfolgorio della parola, onde non sia paralizzata la efficacia della sua croce». E giuocando argutamente sulla rassomiglianza fra il nome del competitore e il participio del verbo greco «perdersi», Paolo continuava: «Il messaggio della croce infatti per quei che si perdono è stoltezza; per noi invece destinati alla salvazione è manifestazione della potenza prodigiosa di Dio. Poichè è scritto: renderò vana la sapienza dei sapienti e nulla la accortezza dei saggi. Dove è mai il sapiente ormai, dove lo scriba, dove il ragionatore di questo secolo? Non ha forse Iddio trionfalmente trasformato in insipienza la sapienza del mondo? Secondo le alte disposizioni della divina sapienza, il mondo non riuscì con la sua dialettica a riconoscere Dio. Per questo piacque al Signore di salvare i credenti mediante la stoltezza di una nuova predicazione. I giudei vanno alla caccia di segni prodigiosi e i greci ricercano ansiosamente la cultura: noi invece predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i gentili, sapienza e potenza di Dio per noi chiamati al grande destino». Polverizzata così, in sede teorica, la base di una qualsiasi preminenza delle qualità razionali e culturali nell'economia ineffabile del mistero e della religiosità, Paolo investe, in sede pratica, senza misericordia, i titoli accampati da Apollo sull'eredità contesa del suo lavoro missionario. «Che cosa crede di essere Apollo? Che cosa del resto è anche Paolo? L'uno e l'altro ministri, attraverso i quali voi perveniste alla fede, ciascuno con le capacità di cui Dio l'insignì. Io piantai: Apollo abbeverò la pianta: ma Dio solo diede lo sviluppo della vegetazione, e questo solo conta. Da coscienzioso architetto, gettai le fondamenta: altri si è accinto a costruirvi su. Badi però ciascuno come sovredifica. Perchè nessuno può scambiare un altro fondamento a quello giacente: e questo è, niente meno, Gesù Cristo. Gli elementi poi di cui si compone la sovredificazione, oro, argento, pietre preziose, legno, ferro, canna, non dubitate, appariranno attraverso il disvelamento dell'opera di ciascuno. Voi siete il tempio santo di Dio; guai a chi lo contamina!»

Sbarazzato così il terreno dalla questione pregiudiziale, che aveva determinato a Corinto la costituzione di raggruppamenti rivali fra loro, la solidità cioè dell'apostolato dotto e suasivo di Apollo, Paolo autorevolmente riprende la comunità per le indisciplinatezze di cui gli era giunto sentore (un caso d'incesto, appello ai tribunali profani per dirimere controversie sorte tra i «fratelli»). Quindi ritorna sull'esortazione alla morigeratezza, che era stato il tema della sua precedente lettera. Egli non aveva voluto dire che i «santi» dovessero recidere ogni rapporto con qualsiasi fosse maculato di fornicazione. Che cosa importava a Paolo dei fornicatori di questo mondo? Egli non aveva di mira che la purezza della sua comunità. E a questa aveva prescritto di condannare all'isolamento e all'ostracismo chiunque profanasse la sua esperienza con le opere fosche della concupiscenza carnale. La consapevolezza del vincolo che stringe ogni fedele alla massa dei fratelli nella fede e nella speranza, a quella massa in cui si perpetua la vita mistica del Signore, costituisce, nella pedagogia paolina, arditamente svincolata da ogni norma esteriore, la nuova radice della purità e della virtù inculcata ai credenti. Ormai il fedele non appartiene più a sè stesso. Entrato a far parte, attraverso l'iniziazione battesimale, di un organismo mistico, che è il proiettarsi del Signore nella storia e nella vita associata, egli non può cedere il suo corpo al dominio tenebroso della colpa e delle soddisfazioni carnali. Il fedele, membro della comunità, che è il Cristo e il tempio dello Spirito, non può, impunemente, manomettere la dignità del suo essere. Ogni compiacimento indebito, ricavato dalla propria sensibilità, rappresenta una sottrazione di ricchezze non proprie, una contaminazione di realtà extracarnali: «non sapete voi che i vostri corpi sono altrettante membra di Cristo? Come mai dunque mi attenterò di prendere le membra del Cristo e di costituirle membra di una cortigiana? O non sapete forse che chi avvicini una cortigiana, viene a costituire con essa un solo organismo? Chi invece si accoppia al Signore, un solo spirito diviene con lui. Fuggite dunque ogni forma di fornicazione. O non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo dimorante in voi, datovi da Dio, e che quindi voi non vi appartenete più?». Chiarita così la portata e la giustificazione del precetto della purezza, che egli aveva inculcato con tanta insistenza ai corinzi, Paolo prende in esame i singoli punti sottoposti al suo giudizio dai suoi corrispondenti (uso del matrimonio, destino delle ragazze da marito che il ritardo della parusia espone al rischio di oltrepassare l'età adatta alle nozze, consumazione delle carni offerte agli idoli, la distribuzione e la graduatoria dei carismi, la raccolta delle oblazioni per la comunità madre di Gerusalemme) e interviene energicamente per definire forme di culto e risolvere questioni a proposito delle quali sussistevano a Corinto, a quanto gli era stato riferito, disordini e controversie. Nella celebrazione eucaristica i fedeli di Corinto portavano abitudini e sregolatezze, che Paolo biasima con parole di fuoco: «chi mangi e beva (partecipando al pasto del Signore) senza tenere il debito conto della natura speciale del corpo, non fa altro che inghiottire la propria condanna». Sulle rivalità nascenti dalla emulazione fra i doni che lo Spirito effondeva generosamente fra i convertiti di Corinto, Paolo pronuncia un verdetto rigido insieme e luminoso. Per lui, la solidarietà fraterna è il valore della più inattaccabile eccellenza. Nè pure le manifestazioni prodigiose dei carismi sono autorizzate a violarne la indiscutibile sovranità. A che prò menare tanto vanto? La strada per il possesso assoluto dello Spirito è una sola: «Quand'anche pur parlassi le lingue tutte degli angeli e degli uomini, se non posseggo amore, son fatto simile ad un bronzo rimbombante o ad un cembalo che fa vano strepito. E quand'anche pure fossi insignito del più alto dono profetico, e conoscessi tutti i misteri, e tutta possedessi la cultura, e completa nutrissi la fede, sì da muovere le montagne, se non posseggo amore, non valgo nulla... Le capacità profetiche, saranno annullate. I doni delle lingue, cesseranno. La stessa conoscenza razionale, scomparirà. Poichè noi conosciamo soltanto in parte, e parzialmente siamo in grado di profetare. Quando però venga la perfezione, tutto ciò che è deficiente e parziale, sarà annullato... Siamo ora pencolati a guardare attraverso uno specchio, sull'orlo di un enigmatico abisso: allora vedremo faccia a faccia. Conosco fino ad oggi in parte: allora conoscerò come fui conosciuto. Tre grandi realtà sono, in una parola, al mondo: fede, speranza, amore. Ma più grande di tutte, l'amore!» La dottrina però sulla quale san Paolo dà ai corinzi l'assicurazione più solenne e la delucidazione più luminosa è la dottrina della risurrezione. Qualcuno, laggiù a Corinto, doveva porne in dubbio la possibilità. La predicazione spirituale e tutta allegoristica di Apollo era per qualcosa in questo sottile rifiuto di riconoscere alla carne un diritto qualsiasi ad una sopravvivenza nella gloria, che distruggeva alla radice l'escatologia cristiana? Saremmo quasi tentati di pensarlo. Sta di fatto che Paolo insorge vivacemente a dissipare il dubbio sollevato contro uno dei capisaldi del suo Vangelo e dopo avere asserito, con uno strano procedimento argomentativo, che se i morti non risorgono, nè pur Cristo è risorto e la fede diviene la più miserevole delle illusioni, scioglie alla prospettiva della prossima partecipazione integrale dei «santi» alla gloria del Cristo un inno che ha la grandiosità dei finale liberatore, il quale chiude la sinfonia beethoveniana del destino e dell'affrancamento: «Domanda qualcuno: come possono risorgere i morti, con qual mai corpo son capaci di tornare? Sciocco! Quel che tu semini, non è vivificato, se prima non muoia. E quel che semini non è già quell'organismo che verrà poi, ma un miserabile seme, vuoi di grano, vuoi di una qualsiasi altra pianta. È Dio che conferisce ad esso il corpo che volle, a ciascuno dei semi il proprio. Allo stesso modo non ogni carne è la medesima, perchè altra è la carne degli uomini, altra quella dei quadrupedi, altra quella degli uccelli, altra infine quella dei pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terreni: e lo splendore dei primi non ha nulla a vedere con quello dei secondi... Si applichi tutto ciò alla risurrezione dei morti. È seminato nella putredine, risorge nella incorruttibilità; è seminato nella ignominia, risorge nella gloria; è seminato nella impotenza, risorge nella forza; è seminato un corpo psichico, risorge corpo spirituale... Gran mistero invero! Non tutti ci addormenteremo, ma tutti ci trasformeremo, in un attimo, a un batter di ciglia, allo squillar dell'ultima tromba, suonando la quale i morti risorgeranno incorruttibili e noi ci trasformeremo. Poichè è pur necessario che questo nostro involucro corruttibile rivesta l'incorruttibilità e questo nostro elemento mortale si ricinga di immortalità. Chè quando cotesto corruttibile abbia indossato l'incorruttibilità e cotesto mortale abbia assunto l'immortalità, allora solo si sarà verificato il presagio: fu ingoiata la morte dalla vita.»

Con questa rivendicazione concitata ed accorata della sua realistica escatologia, Paolo poteva conchiudere il suo messaggio ai corinzi. Seguono infatti i convenevoli d'uso, con poche raccomandazioni d'occasione, che sarebbero trascurabili se un inciso non servisse a illuminare l'ulteriore svolgimento dei fatti. Dice Paolo: «Per quanto riguarda Apollo, il fratello, ho fatto del mio meglio perchè tornasse fra voi, insieme con i fratelli (che vi portano la mia lettera). Ma non aveva affatto l'intenzione di venire ora. Verrà quando se ne offra il destro». Probabilmente, quando Paolo, ingenuamente, scriveva queste parole, Apollo aveva già deciso in cuor suo di traversare al più presto il mare, per trovarsi a Corinto a neutralizzare di persona l'impressione profonda che la missiva di Paolo non avrebbe potuto mancare di suscitare ai suoi danni fra i fedeli, che pure avevano dischiuso un campo così facile al suo successo oratorio e dottrinale. Vi si recò difatti. Ma dovette accorgersi ben presto quanto incauto fosse stato nello scegliersi un competitore così formidabile e così risoluto. Potè in un primo momento creare una situazione che procurò a Paolo la più drammatica delle sue pene: ma uscì, dal contrasto, disfatto, e scomparve, senza traccia, dalla scena della primitiva vita cristiana. Informato, giorno per giorno può dirsi, degli avvenimenti di Corinto, Paolo seppe che il suo rivale, sornione ed insidioso, aveva trovato molto presto «l'occasione propizia» per riguadagnare la comunità dell'Acaia, e che aveva cominciato colà una vera opera di diffamazione e di demolizione contro di lui. Non solamente erano sottoposti a critica e a revisione i postulati della sua predicazione, bensì anche erano disconosciuti i suoi meriti, erano posti in dubbio i suoi doni, si giungeva perfino a rilevare con compiacimento i suoi difetti naturali, le sue imperfezioni fisiologiche. Paolo ne provò un dolore profondo. Il suo diuturno lavoro a Corinto stava per essere dissipato e disperso per l'opera di corrosione di un intrigante parolaio e presuntuoso, che credeva di sopraffare la forza bruciante del suo entusiasmo con la fosforescente ricchezza della propria fantasia e lo sfolgorio sottile del proprio sillogismo? Stette un momento in forse sul da farsi. E poi, bruscamente, decise di recarsi sul posto e di affrontare, a viso aperto, il suo emulo ed avversario. Fu un disastro. In un momento di generale smarrimento, la comunità sembrò volersi ribellare definitivamente a colui che, primo, l'aveva iniziata a Cristo e costituita sulle basi, per lasciarsi trascinare, anima e corpo, dalla seducente e accaparrante oratoria di Apollo. Paolo se ne tornò precipitosamente ad Efeso e spiccò, su due piedi, senza ombra di esitazione, un messaggio fulmineo ai corinzi, nel quale le allusioni contro Apollo erano vive e pungenti, quanto l'irritata amarezza dell'anima sua. Di questo iracondo messaggio la seconda lettera canonica ai corinzi ci ha conservato, stranamente incorporato, qualche frammento sporadico. San Paolo vi rivendicava, con accento concitato, la nobiltà del suo apostolato, e vi enunciava le sue fiere minacce: «Io, Paolo, vi esorto in nome della dolcezza e della longanimità del Cristo, io, che, si dice, appaio di persona tapinello in mezzo a voi, e pieno di baldanza quando sono lontano: vi scongiuro di non costringermi ad assumere, da lungi, arie di sussiego, con quella tal sicurezza con cui so di poter osare qualcosa contro coloro i quali si arrogano il diritto di giudicar noi, come se procedessimo secondo visuali umane. Sì, è vero, marciamo nella carne: ma, oh no, non combattiamo secondo i suoi dettami. Chè le armi della nostra quotidiana milizia non son davvero armi carnali, ma capaci, in Dio, della distruzione di ogni più agguerrito ostacolo. Sappiamo bene infatti scompaginare ogni sofisma e ogni presunzione che si levino contro la genuina conoscenza di Dio e sottoporre all'obbedienza del Cristo ogni raziocinio, e vendicare ogni insurrezione, proprio al fine di veder compiuta la vostra sottomissione. Riflettete a tutto ciò, ciascuno con le mani sulla coscienza. Se v'è chi renda testimonianza a sè stesso di essere di Cristo, ebbene, costui sappia bene anche un'altra cosa, che, s'egli è di Cristo, noi non lo siamo meno... Oh, se riusciste una buona volta a tollerare un grano della mia insipienza! Ma, su via, tolleratela. È vero: vi porto un amore geloso e puntiglioso. Ma pensate che vi ho preso in consegna, per conservarvi, come una fidanzata illibata al suo sposo, al Cristo. E temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, i vostri divisamenti siano fatti deviare dalla semplicità e dalla purità volute dal Cristo. Se colui il quale sopravviene fra voi predica un altro Gesù, quale noi mai predicammo o accogliate uno spirito quale non riceveste da noi, o aderite ad un Vangelo quale finora non avevate udito, oh, come vi fate belli ad aprire i vostri spiriti! E pure io non credo di essere da meno di cotali eccellentissimi apostoli. Posso essere povero e semplice nella parola: non lo sono davvero nella conoscenza. In ogni occasione ci manifestammo in pieno al vostro cospetto. O che forse commisi una colpa, abbassando me allo scopo di innalzare voi, annunciando a voi gratuitamente la buona novella?.. Ebbene: quel che faccio, lo farò ancora... Siate sicuri, costoro sono pseudo-apostoli, operai fraudolenti, che si camuffano da apostoli di Cristo. E che meraviglia per questo? Anche Satana sa a volte assumer sembianza di angelo di luce. È naturale che anche i suoi ministri assumano arie di ministri di giustizia. Ve lo assicuro: la loro fine sarà commisurata alle loro opere».

Il fratello incaricato di portare a Corinto l'espressione amarissima dell'angoscia e del disinganno dell'apostolo aveva a pena preso il largo, che questi si trovò in preda alla più pungente delle trepidazioni. Aveva veramente trovato il tono giusto per far comprendere ai suoi diletti convertiti d'oltre mare la piena della sua amarezza o non correva pericolo, con la sua irruenta schiettezza, di tagliare definitivamente i ponti e di perdere per sempre il loro amore, di cui pure sentiva di non poter fare a meno? Egli aveva veramente giuocato il tutto per il tutto: chè, in certe ore critiche di un rapporto sentimentale, la manifestazione brusca e completa di uno stato interno di irritazione e di gelosia in una delle parti, può portare nell'altra l'atto contrito della resipiscenza, ma può provocare anche la suprema rottura. Paolo dovè passare giornate d'inenarrabile incertezza. Quale mortificante umiliazione per il suo apostolato tanto insidiato e tanto bistrattato, se la comunità di Corinto, la più florida creazione del suo zelo apostolico, lo avesse rumorosamente abbandonato nell'ora più importante della sua carriera! Conoscere l'impressione che la sua lettera amara e tagliente aveva destato nella malfida comunità divenne per lui un pensiero ossessionante. Tornare di persona sul posto non gli era consentito dalla sua dignità. Preferì spedire a farsi una idea della situazione il suo fedele Tito. E perchè la sua visita non tradisse troppo apertamente il suo fine, gl'ingiunse di tornare ad Efeso non per mare, ma per terra, attraverso la Macedonia e lungo la costa asiatica. Tito partì. Il turbamento e l'inquietitudine di Paolo si acuirono. Ben presto cominciò a rammaricarsi di aver imposto al suo discepolo un itinerario così lungo, che ritardava di tanto la comunicazione delle nuove. E, non potendo più durare nell'attesa, gli andò incontro, sperando di ritrovarlo per via, presso una delle famiglie amiche, disseminate lungo il percorso già battuto dal suo apostolato, presso le quali dovevano esser fissati i loro convegni. Finalmente si raggiunsero in Macedonia, a Filippi o a Tessalonica. Paolo, finalmente libero dall'incubo che l'aveva fiaccato, dovette abbracciare Tito in una esplosione di gioia. Aveva vinto: le nuove erano trionfali. In un'adunanza plenaria, posta nettamente al bivio di una scelta fra Paolo e Apollo, la comunità di Corinto aveva mantenuto fede al suo primo amore. Apollo aveva ricevuto un severo voto di biasimo, e la fedeltà al primo disseminatore evangelico in Acaia era stata solennemente ribadita. Con il cuore esultante, Paolo scrisse in fretta una nuova lettera ai corinzi, effondendo la riboccante vena della sua gioia e della sua commossa gratitudine. Non mancavano nè pure a questo documento della sua passione religiosa e del suo amore di maestro, incisi sottili di ironia e frasi tardive di pena e di corruccio per la prova patita. Con mossa tagliente, ad esempio, san Paolo si compiace di contrapporre le lettere di presentazione con cui Apollo si era fatto accreditare agli inizi presso la comunità di Corinto, con la lettura a cui egli, Paolo, affida invece l'unica sua commendatizia per il giorno del Signore: il cuore dei suoi convertiti. Ma in pari tempo raccomanda generosamente, il perdono, e chiede, ai suoi amici, che d'ora in poi gli diano, piena, la fiducia e l'affezione. «Le nostre labbra, o Corinti, si sono dischiuse per voi; il nostro cuore si è spalancato. State pur sicuri: non troverete più angustia e freno in noi. L'unico freno potrà essere nella vostra capacità di riamare. Dateci dunque il contraccambio – parlo come ai figli – spalancateci anche voi i battenti del vostro cuore (II Cor. VI. 11)».

Poi, quasi a celebrare l'avvenuta riconciliazione e a cementare la rinnovata solidarietà, Paolo si affrettò a discendere a Corinto e a raggiungere i suoi figliuoli ravveduti. Il successo così faticosamente conquistato, maturato attraverso così aspre incertezze, deve aver avuto nella sua anima ripercussioni profonde. Paolo deve, per esso, aver conquistato una consapevolezza più nitida delle sue possibilità e del suo valore, un apprezzamento più corroborante della bontà della sua causa. Le ulteriori difficoltà l'avrebbero trovato più pronto, più fiducioso, più agguerrito. D'altro canto il suo pensiero aveva raggiunto ormai la sua perfetta organicità. Egli avrebbe potuto dargli la definitiva espressione.

Le occasioni se ne offrirono sollecitamente. A Corinto ebbe sentore dell'insidia e del sovvertimento che dei giudaizzanti piovuti da Gerusalemme, deformando i fatti ed equivocando sulle intenzioni, erano andati a tendere alla libertà e alla larghezza della fede delle sue comunità galatiche. E colà pure, al meriggio del suo trionfo, Paolo sentì nascere in sè più prepotente il bisogno di porsi in rapporto con i fedeli della comunità di Roma, di cui la sua grande anima intuiva gli eccezionali destini, nella traiettoria del cristianesimo, comunque circoscritta nei limiti di tempo che la caducità del mondo perituro poteva consentire.

Scrisse così le sue lettere ai Galati e ai Romani, che sono la fusione nel bronzo del suo formidabile pensiero e della sua vulcanica esperienza.

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