IV.

Ci sono, nella vita dei grandi maestri dell'umanità, fatti o scritti nella cui preparazione sembra essersi, in un'opera di quotidiana gestazione, consumata la loro esistenza. Una volta espresso dal loro spirito e dalla loro attività il fiore più magnifico dei loro desideri e delle loro capacità, sembrano declinare rapidamente verso l'occaso, come sotto il peso angoscioso di uno sforzo smisurato che li ha risoluti nella trasfigurazione spirituale e incancellabile della loro vocazione. La vita di Paolo, dopo aver dettato i documenti imperituri della sua superba e stupenda visione del mondo e dei suoi destini, la lettera ai fedeli della Galazia e quella ai fedeli di Roma, è come un affrettarsi ansioso verso la testimonianza del martirio, sigillo purpureo e indelebile sul suo messaggio alle generazioni future.

Rimasto tre mesi a Corinto ad assaporare la gioia della riconciliazione con i suoi convertiti dell'Acaia e a tradurre, nella serenità infusagli dall'insperato successo, in termini di teodicea e di filosofia della storia, la sua vibrante esperienza, decise alfine di risalire a Gerusalemme, per assolvere l'onere assuntosi nel convegno memorando: recare cioè ai «santi» della comunità madre l'obolo delle sue libere comunità. Rappresentanti di ciascuna di queste lo accompagnavano: Sopatro di Berea, Aristarco e Secondo di Tessalonica, due galati, Gaio di Derbe, Tichico e Trofimo asiatici. Riprese così la via della Macedonia. Si imbarcò a Neapoli, sbarcò a Troade. Di qui, raggiunse Asso per terra, mentre i suoi compagni facevano il viaggio per mare, con una linea di cabotaggio. Ad Asso si riunì loro, e costeggiando la riva asiatica, toccarono Mitilene, Chio, Samo, Mileto. Salutarono quindi fra le lacrime, presaghi dell'imminente catastrofe, i fedeli amici di Efeso, a cui avevan dato convegno colà, e proseguirono per Rodi e Patara. Imbarcatisi qui su un vascello di più grosso tonnellaggio, raggiunsero Tiro, Tolemaide e Cesarea. Quindi salirono a Gerusalemme.

Lungo il viaggio, i fedeli più affezionati non avevano mancato di prospettare all'apostolo i rischi che nascondeva un suo arrivo nella città santa proprio durante la festività della Pentecoste e di scongiurarlo di procrastinare se non di rinunciare al suo viaggio. Ma Paolo era stato irremovibile. Era proprio per la Pentecoste che egli voleva presentarsi a Gerusalemme, sia per accomunarsi, egli, il grande sovvertitore delle tradizioni legalistiche, alla massa dei pellegrini convenuti per la celebrazione annuale, sia per esporre al più ampio suffragio la originalità del suo ministero. L'accoglienza dei «fratelli» fu sufficientemente cordiale: Paolo recava un obolo non indifferente, e il dono costituiva una commendatizia di una certa efficacia. Ma egli era disposto a fare molto di più per mostrare in concreto quanto fedelmente egli vivesse nel fatto il precetto di essere tutto a tutti, in ogni evenienza e in ogni frangente della vita. Gli fecero intendere che sarebbe stato un gesto di grande significato e avrebbe dissipato una quantità di malintesi e di diffidenze, se egli, aggregandosi ad un esiguo manipolo di giudeo-cristiani, che avevano fatto voto di nazireato, e compievano il voto in quei giorni, e versando per essi la somma necessaria all'acquisto degli animali del sacrificio, si fosse sottoposto a una pratica rituale delle più appariscenti.

Paolo, che aveva scritto una volta di essere disposto a non mangiar più carne in eterno, se un fratello solo gli avesse, con anima timorata, mostrato i suoi dubbi sulla sua probabile contaminazione rituale, accettò con entusiasmo. Ma la prova volenterosa non gli valse. Un gruppo di giudei della diaspora asiatica, di Efeso quindi probabilmente, avendo scorto a Gerusalemme al suo seguito Trofimo, che essi sapevano pagano, si diedero a diffondere la voce che Paolo lo avesse introdotto nel tempio, ignominiosamente profanandolo. Suscitarono così una certa agitazione, che provocò l'intervento del chiliarca e della sua coorte. Paolo fu da questa sottratto alla furia della folla giudea e posto saldamente in catene. Cominciò allora per l'apostolo, che pure aveva conosciuto tante penose avventure e tanto aspre traversie, un'angosciosa odissea. Sottoposto da prima ad una spietata flagellazione, la interrompe denunciando la sua qualità di cittadino romano. Il tribuno, Claudio Lisia, convoca allora il sinedrio, per farsi un'idea più esatta delle accuse mosse dai giudei al prigioniero. Paolo astutamente rende impossibile qualsiasi suo chiaro verdetto, poichè, conoscendo la discordia esistente fra farisei e sadducei, porta la discussione sul tema scottante della resurrezione. Il tribuno finisce col saperne meno di prima. Per trarsi d'impaccio, posto sull'avviso di una congiura ordita ai danni del suo pericoloso prigioniero, pensa di disfarsene e lo invia, sotto buona scorta, di notte, al procuratore Felice, a Cesarea. Dinanzi al suo tribunale fu imbastito regolarmente il processo. Rappresentanti del Sinedrio, assistiti dal causidico Tertullo, deposero ufficialmente la loro denuncia contro Paolo, imputato di sovvertimento universale delle tradizioni giudaiche e di violazione della sacra maestà del tempio. Paolo replica esaurientemente. Felice, mal dissimulando il suo imbarazzo, rimanda la sentenza a quando sia stata ascoltata la testimonianza del tribuno di Gerusalemme. Così la prigionia dell'apostolo si prolunga per tutto il tempo del procuratorato di Felice. Festo, che gli succede, trova la questione insoluta. La prima volta che sale a Gerusalemme, le autorità giudaiche rinnovano le loro accuse iraconde contro Paolo e chiedono ch'egli sia riportato nella città, dove si lusingano di poter riuscire più agevolmente ad averlo nelle loro mani. Ma Festo si rifiuta: si sarebbe più tosto rinnovato il giudizio a Cesarea. Si ripete la scena già una volta svoltasi al cospetto di Felice. Festo, ritornando sulle sue decisioni, si domanda se il trasportare il prigioniero a Gerusalemme e il porlo a confronto con le autorità che più tenacemente lo investono, non avrebbe potuto costituire un mezzo non inefficace per accattivarsi la fiducia e la simpatia dell'ombrosa popolazione sottoposta alla sua tutela. San Paolo, comprende che non ha altra possibilità di scampo ormai che quella di tentare di uscire dalla Palestina, ed appella, nella sua qualità di cittadino romano, a Cesare. Festo è costretto a dar seguito al suo appello.

Con qualche altro prigioniero – probabilmente delinquenti comuni, destinati alle belve del circo – Paolo è affidato alla custodia del centurione Giulio della coorte augustana. Prende posto su una nave che tornava in Asia minore, e toccano terra a Sidone. Luca ed Aristarco si offrirono di accompagnare l'apostolo in qualità di suoi schiavi. Da Sidone, i venti li costringono a tenere il largo di Cipro, e raggiungono Mira sulla costa della Licia. Incontrata là una nave alessandrina che faceva vela direttamente per l'Italia, la piccola pattuglia di prigionieri vi fu trasportata. Il viaggio fu burrascosissimo. Luca ne ha narrato negli Atti le peripezie rischiosissime, finchè non fu dato ai naufraghi di prender terra a Malta, dove rimasero tre mesi. In un giorno di marzo essi riprendevano il mare in un'altra nave alessandrina e veleggiarono verso Siracusa. Di qui risalirono a Reggio e da Reggio a Pozzuoli. Da Pozzuoli la carovana prese, per terra, la via di Roma. I fedeli della capitale, che anni prima avevano letto con emozione lo stupendo messaggio di Paolo, mandarono ad incontrarlo una loro ambasceria, che attese il prigioniero a Foro Appio, risalendo poi con lui il tracciato della via che ancor oggi, dai colli Albani in poi, domina, alta e rettilinea, l'immensa distesa della campagna.

Che cosa sarà passato nell'animo dell'apostolo in quelle ultime giornate di viaggio verso la città del suo desiderio e del suo amore? Egli aveva ardentemente sognato di potere, quando che fosse, spiegare la sua opera apostolica in quella babelica capitale dell'impero neroniano, dove già altri aveva disseminato la buona novella. Ma come diverse, da quelle che aveva vagheggiato, erano ora le condizioni esteriori nelle quali egli vi perveniva! Prigioniero politico, denunciato dai suoi fratelli di sangue al tribunale di quel «figlio dell'empietà» contro cui non aveva cessato un giorno solo di levare la fiera sua condanna e l'implacabile sua minaccia, egli era ormai alla sua mercè. Paolo intuiva e valutava tutta la paradossale stranezza della sua situazione. La sua predicazione non era che il coronamento della speranza, che per secoli aveva commosso e temprato le idealità della sua razza. I suoi ceppi erano veramente una testimonianza resa alla speranza d'Israele. Ed era proprio Israele che lo trascinava al tribunale del violatore di Sion e del tiranno della Giudea, perchè egli fosse giudicato quale ribelle a Cesare, in realtà quale trasfiguratore e nobilitatore della tradizione messianica. Paolo non doveva nutrire alcuna illusione nel suo cuore. Come sarebbe mai riuscito a salvare la sua fiammante propaganda dalla cruenta rappresaglia, qui, nella sede stessa del dominatore sozzo e folle, che cercava di nascondere sotto l'orpello grossolano del fasto e della pubblica gazzarra l'intima impurità e la brutale iniquità del suo regime di sopraffazione e di inganno? Sì: Paolo aveva bramato di spargere un po' della sua virtù irrigatrice di apostolo e di maestro fra i convertiti della metropoli. Il messaggio di Cristo era l'instaurazione di una forza spirituale e di un miraggio ultraumano, che avrebbe irrimediabilmente corroso tutta l'impalcatura dell'Impero, fatta di menzogna e di usurpazione. Ma egli aveva sognato, qui, fra i sette colli, una propaganda libera e audace. Ora egli passava per la porta Capena accomunato ad un manipolo di volgari delinquenti. E la sede dell'«empio» era là dinanzi ai suoi occhi con tutta la malia fascinatrice della sua grandiosità luminosa e rumorosa. Su dalla sua anima di israelita irreconciliabile risalivano impetuosi lo sdegno e l'acredine, che dovevano, in un giorno lontano, aver invaso, sulle sponde del fiume che traversava la sua Tarso natale, il cuore del padre suo, al passaggio del corteggio immondo e sfacciato di una cortigiana coronata. Ebbene: anche prigioniero e votato al supplizio, Paolo avrebbe inciso, sul marmo di Roma, il suo messaggio erosivo.

Ormai in ceppi, Paolo mantenne fede alla sua vocazione. Profittando della relativa libertà concessagli, pur sotto la sorveglianza militare che non lo lasciava un istante, egli cominciò con l'avvicinare le individualità più eminenti della comunità israelitica, il cui intervento probabilmente poteva esercitare un certo peso sulla istruttoria, che si andava imbastendo a suo carico. Ad esse cercò di mostrare la continuità del suo insegnamento con la tradizione del Vecchio testamento. Anche con la comunità cristiana, verisimilmente, egli strinse vivi rapporti. Ma il suo pensiero volava incessantemente ai suoi amati seguaci, che aveva disseminato, così fecondamente, lungo tutte le grandi vie dell'Impero. Che cosa pensavano e facevano frattanto i primi amici di Antiochia, le infide comunità della Galazia, i prediletti fratelli della Macedonia, i riconquistati cristiani dell'Acaia, i tenaci aderenti della città di Diana sulla costa ionica? Un giorno Paolo ricevette una visita insperata. Il fratello Epafrodito, a nome di tutta la comunità di Filippi, era venuto dalla lontana Macedonia a constatare sul posto l'andamento del processo e a portare un buon soccorso in denaro. Paolo ne fu toccato fino alle più riposte radici del suo cuore. Un'onda di soavi ricordi venne ad addolcire le amarezze della preoccupante prigionia. Si rivedeva, più di un decennio prima, quando la prima volta, sotto l'impulso dello Spirito, era sbarcato in terra macedone. Gli si affollavano alla memoria i profili delle prime reclute del Vangelo, nei confini d'Europa. Ricordava commosso l'anima tenera e premurosa della ricca mercantessa di porpora, Lidia, che a lui e al suo compagno, messaggeri sconcertanti di un annuncio impreveduto, aveva offerto generosa ospitalità nella sua casa. E scrisse, per ringraziare la bene amata comunità, a cui Epafrodito stesso avrebbe portato la sua risposta, il testamento del suo cuore che, pur dinanzi alla morte, non era capace che di tenerezza e di amore per i suoi associati nell'ideale e nella speranza: «Rendo grazie al mio Dio per tutta la squisita memoria che voi conservate di me, sempre, in ogni mia preghiera rammemorandomi con gioia di tutti voi, per la solidarietà vostra nel Vangelo, dal primo giorno ad oggi, convinto come sono che colui il quale ha iniziato in voi l'opera santa, la compirà fino al giorno di Cristo Gesù. È ben giusto del resto che io così senta di tutti voi, dal momento che vi porto tutti in cuore, voi tutti, così nei ceppi miei come nella difesa e nel rassodamento del Vangelo, miei sodali nella grazia. Sa Iddio con quale animo, nel Cristo Gesù, io pensi con desiderio a voi. E questo a Lui chieggo, che l'amor vostro ogni giorno più si arricchisca in sottile conoscenza e in squisitezza, onde voi siate sempre meglio in grado di valutare e scernere i veri valori, sì che diveniate trasparenti e irreprensibili per il giorno del Signore, ricolmi dei frutti di giustizia, quali si conseguono attraverso Gesù Cristo, a gloria ed esaltazione a Dio.

Come sempre, anche adesso, nel mio corpo o nella vita o nella morte Cristo sarà glorificato. Chè per me il vivere è Cristo e il morire è un guadagno. Se il sopravvivere mi può dar frutto di lavoro, io non so proprio che cosa scegliere: messo alle strette da due parti, fra il desiderio pungente di dissolvermi e di essere con Cristo, meta tanto più preziosa per me, e quello di restare nella carne, cosa più utile per voi....

Orsù: se v'è consolazione in Cristo, se v'è una sicurezza d'amore, se v'è una comunione nello Spirito, se v'è tenerezza e compassione, colmate la mia gioia e abbiate tutti uno stesso sentimento, nutriate tutti il medesimo affetto, tutti concordi, unanimi. Nulla facciate sotto lo stimolo della rivalità e della vanagloria, ma in ispirito di umiltà ciascuno ritenga gli altri da più di sè stesso, ciascuno badando non più al proprio utile, bensì a quello degli altri. Sentite nella vostra vita associata quel che riscontrate nel Cristo Gesù, il quale, pure essendo nella forma di Dio, non reputò valore da custodirsi gelosamente l'essere uguale a Dio, al contrario si abbassò fino a prendere sembiante di schiavo, apparso simile agli uomini. Ed essendo comparso sotto aspetto di uomo, si umiliò, costituitosi in soggezione fino alla morte, e alla morte di croce. Onde Dio lo risollevò e gli elargì un nome che è sopra ogni nome, per cui nel nome di Gesù debba piegarsi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, sotto terra, e ogni lingua debba proclamare, a gloria del Padre: Signore è Cristo Gesù.

Perciò, miei diletti, sottomessi e docili come sempre foste, non solamente come si verificava quand'io ero presente, ma molto più ora nella mia assenza, attuate la vostra salvezza con timore e tremore. Poichè Dio è colui che opera in voi così il volere come l'agire a norma della sua benevolenza. Fate ogni cosa lungi da mormorazioni e da esitazioni, onde diveniate irreprensibili e immacolati, figli di Dio senza biasimo in mezzo ad una generazione perversa e traviata, in seno alla quale rilucete come astri nel mondo, recanti la parola di vita, affinchè siate mia gloria nel dì del Signore, riprova che non invano corsi e non invano mi affaticai. Sicchè, se anche il mio sangue debba essere effuso sul sacrificio liturgico della vostra fede, io possa goderne e trasalirne di gioia con tutti voi.

Tripudiate nel Signore sempre: lo ripeto, tripudiate. La vostra mite e dolce compostezza risalti al cospetto di tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Di nulla preoccupatevi, ma in ogni istante le vostre suppliche salgano a Dio nella preghiera e nella supplica, accompagnate da azioni di grazia. E la pace di Dio, quella pace che trascende ogni comprensione, custodisca gelosamente i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. Del resto, o fratelli, quanto v'è di vero, quanto di onorando, quanto di giusto, quanto di puro, quanto di amabile, quanto di commendevole, dovunque v'è verità e lode, tutto questo costituisca argomento della vostra riflessione. E quanto imparaste, riceveste, ascoltaste, vedeste, da me o in me, questo fate. E l'Iddio della pace sarà con voi.

Come vi dirò la gioia donde nel Signore trasalii, rivedendo così inaspettatamente rifiorire, come una primavera, i vostri sentimenti a mio riguardo? Veramente non avevate mai cessato di nutrirli: ma non si era offerta l'occasione per manifestarli. Non dico ciò a causa di un mio bisogno. Ho ben imparato a bastare a me stesso in qualunque circostanza mi ritrovi! So vivere nella povertà, so vivere nella abbondanza. In ogni istante, in qualsiasi frangente ho fatto tutte le esperienze, dell'essere satollo e dell'aver fame, del sovrabbondare e del trovarmi nelle strettezze. In realtà tutto posso in colui che mi dà forza. Ad ogni modo, gran merito il vostro nell'esservi, così amorevolmente, affratellati alle mie tribolazioni....

Ora tutto ho ricevuto e nuoto nell'abbondanza. Sono ricolmo, avendo ricevuto da Epafrodito quel che mi avete mandato, vero profumo soave, sacrificio accetto e gradito a Dio.»

Sono queste probabilmente le estreme dichiarazioni del grande interprete del Vangelo, conservatesi superstiti fino a noi. A pochi mesi di distanza, un paio di anni prima che sui giardini imperiali del Vaticano i corpi ardenti dei martiri romani, designati dalla bieca follia di Nerone come rei dell'incendio, spandessero la luce sinistra delle loro carni martoriate, Paolo era decapitato in una via suburbana. Saulo, Paolo, l'israelita di Tarso, il convertito di Damasco, l'apostolo del mondo romano, spargeva il suo sangue, come una libazione propiziatoria, sull'ara del sacrificio che la nuova fede, la sua fede, aveva apprestato alla nuova storia.

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