III.

Può darsi che il dato più originale e più denso di conseguenze cui sia giunta la speculazione religiosa di san Paolo consista nella scomposizione della storia prescristiana in un elemento mistico primordiale, di cui la disciplina rituale e legale non rappresenta che un surrogato e un derivato. Per lui, i cicli della economia religiosa sembrano avere la loro genesi e il loro primordiale impulso in un potente atto di fiducia e di speranza. Abramo, il capostipite della razza eletta, attinse le ragioni della sua giustizia dalla fede in Jahvè, che aveva garantito alla tarda vecchiezza sua e di Sara la sopravvivenza indefettibile della sua figliuolanza. I titoli del suo merito al cospetto di Dio non furono opere uniformi alla legge, la quale venne quattrocentotrenta anni dopo di lui, bensì la dedizione serena e fiduciosa in Lui, che sollecitò la grazia e il compiacimento dall'alto. La stessa circoncisione sopravvenne a suggellare la giustizia della fede, ch'egli aveva conseguito ancora incirconciso, onde apparisse realmente come il padre di tutti coloro che vivono di fede, pur attraverso l'incirconcisione. Perchè veramente quanti traversano il mondo nutrendo nell'anima sentimenti di fiducia nella bontà provvidente di un Padre, sono tutti figliuoli di Abramo. La Scrittura stessa lo attesta, là dove avendo previsto che Iddio avrebbe giustificato i Gentili in virtù della fede, diede in anticipo ad Abramo questo lieto annuncio: «in te saranno benedette tutte le genti». Per cui, quanti al mondo cavano dal loro cuore l'attitudine e il gesto della fiducia e dell'abbandono, tutti son misteriosamente benedetti insieme con Abramo, che credette.

Del resto, chi potrebbe seriamente sostenere che anche alle scaturigini della vita spirituale dei Gentili non sia stato un atto di implicita e poco avvertita fede? In realtà, la natura ineffabile di Dio, dal dì della costituzione del mondo, si lascia scorgere sotto forma intellegibile nelle realtà create. Gli uomini, dischiudendo il loro sguardo stupito allo spettacolo meraviglioso del cosmo, non poterono sottrarsi a un senso misterioso del divino, che fu la loro fede spontanea ed istintiva. Ma tutti sono venuti meno agli oneri della loro prima esperienza religiosa. I gentili, vaneggiando nei loro sillogismi, in modo così spaventoso da averne ottenebrato tutto il cuore, permutarono la gloria dell'incorruttibile Dio in immagini corruttibili di uomini, di uccelli, di quadrupedi, di rettili. Per questo li abbandonò Dio all'impulso sfrenato delle loro passioni, al disonore e alla vergogna dei loro vizi contro natura. Ma gli israeliti non furono da meno. «Tu che porti il nome di Giudeo e ti culli nella fiducia della legge, e trai vanto in Dio, e di Dio conosci il volere e sai sottoporre a cernita le diverse valutazioni, ammaestrato come sei dalla legge; tu che confidi di esser guida di ciechi, luce di chi è tuffato nelle tenebre, educatore di stolti, maestro di semplici, e reputi di possedere nella legge la forma assoluta della conoscenza e della verità; o tu che pretendi di insegnare agli altri, non sei incapace di insegnare efficacemente a te stesso? Tu che bandisci non doversi rubare, non rubi forse? Tu che predichi che non si commetta adulterio, non sei anche tu adultero? Tu che abbomini il contatto degli idoli, non saccheggi forse i loro templi? Tu, insomma, che ti pavoneggi della legge, non getti, trasgredendola, la più grave offesa in faccia a Dio? Oh, andate là: per vostra colpa, il nome di Dio è bestemmiato tra i gentili!»

Un medesimo destino, dunque, secondo san Paolo – destino di colpa e di abbiezione – accomuna ormai pagani e israeliti. Partiti tutti da un analogo atteggiamento di fiducia nel divino, son precipitati in un equivalente retaggio di miseria morale. Non si dirà per questo che i privilegi di Israele siano stati cosa di nessun conto. No. Essi furono, nella storia, i trasmettitori designati dei divini oracoli. Ma la legge assolse un compito ben circoscritto e assume una portata ben limitata, del cui valore storico occorre rendersi ben conto, affinchè essa, sopravvalutata, non finisca col costituire un imbarazzantissimo ostacolo alla realizzazione dei nuovi destini. La legge ebbe cioè un duplice scopo. Annebbiatasi la consapevolezza della originaria relazione mistica con Dio, fondata su una giustizia che fu per essenza il risultato dell'abbandono fiducioso in Lui, le leggi sorsero quali mezzi di registrazione e di intensificazione della congenita debolezza degli uomini, sottrattisi pervicacemente al senso diretto della sorveglianza e della assistenza divina. La legge fu la tavola della registrazione quotidiana della nostra alterazione febbrile. D'altro canto però essa ebbe anche una funzione benefica. «Prima che ricomparisse al mondo la fiducia, tutti fummo imprigionati sotto la custodia della legge, protesi verso la sopravveniente rivelazione della fede. Sicchè la legge rappresentò la nostra pedagogia verso il Cristo, nella cui fede dovevamo ritrovare la nostra integrale giustizia. Comparsa la fede, non siamo più, evidentemente, sotto la ferula del pedagogo. E tutti siamo ormai figli di Dio, in virtù della fede che è nel Cristo Gesù. Quanti fummo iniziati al nome di Cristo, Cristo rivestimmo. Onde non sussiste ormai più alcuna distinzione di giudeo o di greco, di schiavo o di libero, di uomo o di donna: tutti un solo essere siamo, nel Cristo Gesù.»

Questa, nella superba visione di san Paolo, la prodigiosa novità del messaggio cristiano. In Cristo, l'umanità, oltrepassando tutte le mortificanti barriere, sollevate dalle rivalità di cultura, di sangue, di grado sociale, della stessa natura, è reintegrata nella sua capacità primitiva di trarre dal proprio cuore, risanato e affrancato dalla lettera della legge ed al pungolo del peccato che è la morte, il suo sereno e gaudioso atto di fiducia nel Padre. Paolo descrive graficamente e drammaticamente l'inserirsi del riscatto operato da Cristo, nella economia desolata della millenaria colpevolezza dell'uomo. Mano mano che nella sua coscienza di credente e nella sua intelligenza di indagatore impareggiabile delle leggi che reggono e disciplinano la vita associata, la figura e l'opera del Cristo andavano assumendo il significato preciso e la collocazione adeguata, il convertito di Damasco vedeva sempre più netta delinearsi la antitetica contrapposizione del primo uomo peccatore e dell'ultimo uomo, vivificante riscattatore. Come attraverso un solo uomo il peccato si insinuò nel mondo, e, attraverso il peccato, la morte, così pure, attraverso un solo Uomo rientrò nel mondo la grazia, e, attraverso la grazia, la vita. «La morte aveva afferrato tutti gli uomini, perchè tutti avevano peccato. Fino alla legge infatti peccati erano al mondo, ma di fatto peccati non possono venire imputati, se non sussista la legge», che ne rende possibile la registrazione e l'attribuzione. E pure la morte signoreggiò indisturbata dai tempi di Adamo a quelli di Mosè, come indeprecabile retaggio di una caduta, che aveva inquinato e inesorabilmente attossicato le scaturigini stesse della vita. Sopravvenne poi la legge. La condizione degli uomini, sotto un certo punto di vista, ne risultò peggiorata. «Non conoscemmo infatti il peccato, se non attraverso la legge. In realtà non avremmo avuto sentore della concupiscenza, se la legge non avesse prescritto: – non nutrirai concupiscenza. – Ed ecco come, cogliendo a volo l'occasione che si presentava, il peccato, in virtù della legge stessa, scatenò nel nostro essere sconvolto ogni genere di torpida cupidigia. Sta di fatto che, senza la legge, il peccato è cosa morta. Vivevo ben io altra volta fuori della legge. Ma sopraggiunto il comandamento, irruppe nella vita il peccato, ed io ne morii. Si trovò così che un comandamento, il quale avrebbe dovuto condurre alla vita, finiva con lo sboccare nella morte. Il peccato infatti, afferrata l'occasione, mi trascinò, attraverso il precetto, in inganno e, in esso, mi uccise. Nessuno veramente si attenterebbe di negare che la legge è santa, e il comandamento santo, giusto e buono. Come dunque una realtà buona fu per me morte? Ecco. Il peccato, onde rivelarsi tale, attraverso il bene ha operato per me la morte, onde, in virtù del precetto, il peccato risulti peccaminoso fino all'eccesso». Tragica e paradossale situazione di ogni economia morale, che tenti di instaurarsi attraverso leggi positive e regolamentazioni puramente empiriche! È inutile. La colpa è allo stato latente e potenziale negli uomini, in virtù stessa della loro vita associata. Un'oscura e misteriosa colpa d'origine – squilibrio malsano fra le capacità e gli impulsi dell'individuo e le esigenze del vivere collettivo – insidia, irrimediabilmente, l'esplicazione dei loro reciproci rapporti. E la morte, che è conseguenza e risultato indeprecabile del peccato, è sovrana dispotica fra loro. Le leggi, di ogni genere e di ogni natura, vogliono arginare efficacemente le capacità operanti dell'uomo e foggiarne le potenzialità a vantaggio della disciplina associata. Miserevole illusione! Esse finiscono invece col dare la documentazione palmare e lacrimevole dell'umana debolezza e col conferire alle sconfinate potenzialità del male la loro completa realizzazione nella vita. Altrove dunque sarà la salvezza: e precisamente nel rivivere in Cristo, ch'è lo Spirito ed è quindi libertà, la condizione meravigliosa dell'uomo, prima che la morte e il peccato ne sconvolgessero e annebbiassero le capacità di bene.

Paolo annuncia, con solennità, ai fedeli della Galazia: «Io vi dico: per tutto il tempo nel quale l'erede è fanciullo, non si diversifica in nulla da uno schiavo, pur essendo padrone di tutto. Ma è costituito sotto tutori e amministratori, fino al giorno che il padre ha fissato. Ebbene: anche noi, finchè fummo fanciulli, fummo fatalmente sottoposti ai ciechi elementi del mondo. Ma sopraggiunta la pienezza dei tempi, inviò Iddio il suo figlio, nato di donna, costituitosi sotto il giogo della legge, onde affrancasse i giacenti sotto la legge, e tutti noi guadagnassimo l'adozione. E che voi siate figliuoli, appare dal fatto che Dio ha trasfuso nei vostri cuori lo Spirito del figlio suo, che grida: o Padre! Onde non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, anche erede, per virtù di Dio.»

Pertanto, l'economia religiosa che il Cristo ha inaugurato, è liberazione gioiosa dalle pastoie della legalità, dalla mortificazione della carne, dall'obbrobrio della morte, è conseguimento della grazia, della vita, della gioia, della luce, nella consapevolezza dello Spirito, e nell'eredità immancabile del Regno. Ma come vero e alto il prezzo pagato per il riscatto! La mistica esperienza della nuova promessa e della nuova fiducia è stata sottoposta alla condizione dell'avvento e della morte del Cristo, divenuto «maledizione per noi» il giorno in cui fu appeso al legno. Si è così riacceso fra gli uomini il miraggio di quella pura aspettativa di una reintegrazione universale, la cui brama inquieta strappa gemiti angosciosi all'intera creazione, nelle cui viscere il peccato dell'uomo ha inoculato il tormento di una schiavitù intollerata.

Il trapasso dell'uomo dalla sfera della sua materialità corporale a quella della sua spiritualità carismatica si effettua attraverso il rito della iniziazione battesimale, che tuffandolo nell'acqua e facendolo risortire trasfigurato, lo chiude nel sepolcro di Cristo e ne lo ricava risorto. Ma la trasfigurazione è, quaggiù, solamente potenziale e figurata. Il cristiano è salvato nella speranza: e se egli conseguisse di colpo quel che è il retaggio lontano della sua aspettativa insoddisfatta, l'atto della sua fiducia sarebbe puramente meccanico e mancherebbe di ogni merito. No. Anche il cristiano conserva nelle sue carni il martirio del suo dissidio non composto. Nessuno probabilmente ha mai tratteggiato più drammaticamente di Paolo la lotta che si combatte in ogni essere umano fra la legge del bene e quella del male, fra l'istinto dell'animalità e il limite della disciplina collettiva: «accingendomi a compiere il bene, trovo invece che il male è a mia portata di mano. L'uomo interiore può compiacersi nella legge di Dio. Ma in fondo alle mie membra, lo sento, freme un'altra legge, che si ribella furiosamente alla legge del mio spirito, e mi fa schiavo della legge della colpa, fermentante nel mio organismo. Me sciagurato, chi mi affrancherà dal corpo di questa incessante agonia? La grazia!...»

La grazia! L'etica di san Paolo è tutta impregnata di elementi soprannaturali. Il redento è, per lui, il sonnambulo della vita carismatica. Può apparire nel mondo come dimorante ancora nella carne, ma tutta la sua spiritualità è tuffata nello Spirito di Dio, che è il Cristo stesso sopravvivente nella comunità, e opera sotto l'azione immanente della sua giustizia. Il battesimo è il segno sensibile della impalpabile palingenesi. I fedeli furono con il Cristo sepolti attraverso il battesimo nella morte, affinchè, come il Cristo è risorto di tra i morti in virtù della gloria del Padre, così anche essi procedano in novità assoluta di vita. Se infatti i credenti furono innestati sulla raffigurazione simbolica della sua morte, saranno ugualmente innestati sulla realtà ineffabile della sua risurrezione. I fedeli debbono ben ricordare che il loro vecchio uomo, vergognoso amalgama di passioni mal domate dalla costrizione inefficace delle esteriori convenzioni e della meccanica disciplina, è stato crocifisso col Cristo, onde fosse annientato il corpo del peccato. E debbono nutrire una adamantina certezza che se morirono con Cristo, con lui anche vivranno, ben sapendo che il Cristo uscito dai morti non può più morire, inattaccabile ormai per sempre all'oscuro potere della morte.

Una concezione così alta e così potente della mirabile trasfigurazione che l'adesione al Vangelo implica nell'anima del convertito, si traduceva automaticamente in una precettistica morale elevata ed ardua. San Paolo ammonisce i fedeli di Roma: «Che il peccato non regni in questo nostro corpo mortale, sì da asservirvi alle sue torpide passioni. Nè costituite le vostre membra quali armi di ingiustizia al servizio della colpa. Al contrario, ponete voi stessi a disposizione di Dio, quasi riviventi da morte, e costituite le vostre membra armi di giustizia al servizio di Dio. Il peccato non dominerà più su di voi, dal momento che non siete più nell'economia della legge, bensì nell'economia della grazia.»

L'arditezza di simile morale è pari al calore con cui l'apostolo l'inculca. Egli non se ne dissimula la sconcertante gravità e non se ne nasconde i formidabili rischi. Anime neghittose ed accidiose non sarebbero state fatalmente tratte a farsene un comodo diversivo, per giustificare, nell'acquiescenza, ogni spontaneo stimolo della loro natura inferiore, scissa ormai dalla zona della loro cosciente responsabilità e del loro mistico orientamento? Paolo continua: «Potremo forse peccare, solo perchè non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia? Giammai. Non sapete che di colui al quale vi siete dati come schiavi in servizio, siete effettivamente schiavi, o del peccato, in vista della morte, o dell'obbedienza nel bene, in vista della giustizia? Ebbene: la grazia di Dio ha fatto sì che voi, già schiavi della colpa – e quindi destinati alla consumazione, all'annullamento e alla morte, – tratti dalla voce del vostro cuore, prestaste ascolto a quello schema di predicazione che vi fu trasmesso, onde, pienamente affrancati dalla colpa, vi siete costituiti schiavi della giustizia. Altra volta le vostre membra erano al servizio cieco e incontrollato della impurità e dell'iniquità, per la iniquità. Ora le medesime vostre membra siano al servizio della giustizia, per l'ideale della santità. Oh, voi ricordate molto bene quali frutti rampollavano dalle vostre membra, quando voi eravate strumenti designati della corruzione e della passione. Oggi ne arrossite. Loro sbocco, la morte. Oggi, affrancati dal peccato, schiavi di Dio, vedete moltiplicarsi i frutti della vostra vita nella santità, in vista dell'eterna pace. Perchè, ricordate: stipendio del peccato, la morte: dono di Dio, la vita eterna in Cristo Gesù Signor nostro.»

Nel suo fervore assillante per chiamare anime alla partecipazione del riscatto e della rinascita nel Cristo, Paolo non vede nè pure il problema del destino oltre la tomba dei ribelli e dei recalcitranti al messaggio della pace. La vita eterna è retaggio esclusivo dei credenti e una visuale oltre il sepolcro solo ad essi si dischiude. La caparra dell'immortalità è già nelle mani dei convertiti: è la presenza dello Spirito in loro. Ma lo spirito non è una ipostasi astratta della coscienza operante e non è una capacità di autocoscienza guadagnata attraverso l'esercizio faticoso delle virtù raziocinanti: è un vero frammento di quello Spirito che scruta in Dio le più intime ed abissali profondità della sua natura, trapiantato nel cuore dell'uomo. È questo Spirito che vivifica; è questo Spirito che dà alla creatura una nuova personalità e un nuovo principio di operazioni. Il cristiano deve portare nella pratica quotidiana la consapevolezza di questa realtà ineffabile, deposta nel suo grembo dal mistero della iniziazione battesimale. Procedere, rettamente, in questo spirito, significa sconfiggere ininterottamente gli stimoli turbolenti della carne. I desideri della quale contrastano irriducibilmente alle nobili aspirazioni, che lo Spirito di Dio desta e alimenta in noi. Onde i cristiani posseggono la prova apodittica della loro genuina rinascita nella fede, nel loro intimo rinnovamento nello spirito e nel loro palmare diversificarsi dai non credenti, nelle manifestazioni stesse della loro vita corporativa, in seno alla quale non è dato più cogliere quelle che sono le opere della carne, e si rivelano solamente le opere dello spirito. «Ora i frutti della carne sono ben manifesti: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, arti magiche, odii, discordie, gelosie, ire, contese, divisioni, sette, insidie, eccessi nel bere, orgie e sregolatezze simili, a proposito delle quali vi ripeto quel che vi ho sempre detto: che chi se ne renda reo, non erediterà il regno di Dio. I frutti invece dello spirito sono: l'amore, la gioia, la pace, la longanimità, la benevolenza, la bontà, la fede, la mitezza, la dignità morale. Contro simili opere non v'è legge che tenga» anche perchè «la sostanza di ogni legge è nella bontà e nell'amore, e chi è buono ed ama, ha automaticamente assolto ogni legge.»

Eteronoma in maniera quasi paradossale – chè infatti implica non solamente una superiore fonte di norme per la vita dello spirito, bensì anche un nuovo soggetto di connotazioni etiche, dopo la palingenesi – la morale di Paolo è squisitamente eudemonistica, nel più alto senso della parola. Il bene ha la sua beatificante sanzione nel Regno: l'escatologia viene a fiancheggiare l'etica e l'antropologia mistica. Ma la visuale del Regno, nella maturità della esperienza paolina, riesce ad assumere un'intimità di significato e una densità di elementi, così originali, da staccarsi definitivamente dalle raffigurazioni apocalittiche di tutta la tradizione messianica, e da divenire una pura elaborazione spirituale delle più eccelse idealità del sacrificio individuale nel bene. Nei momenti iniziali del suo entusiastico proselitismo, Paolo aveva potuto immaginare che il sogno della parusia dovesse sollecitamente tradursi in atto, attraverso una catastrofe cosmica, di cui oscuri e turbinosi avvenimenti politici avrebbero costituito il prodromo provvidenzialmente predestinato. Adagio adagio la prospettiva del trionfo imminente si è allontanata dal suo sguardo ansioso, educato dalle difficoltà quotidiane del suo ministero a interporre un lasso di tempo sempre maggiore fra la laboriosa seminagione dell'evangelo e la ricomparsa del Cristo Signore. Ora, nel meriggio della sua attività, il Regno di Dio, meta ultima della consumante speranza cristiana, gli appariva come un miraggio luminoso, che si perdeva nei confini indistinti di una lontananza problematica. Ma in pari tempo la dolcezza e la bellezza della vita etica patrocinata dalla buona novella, gli si rivelava sempre più come un'anticipazione gaudiosa del guiderdone vagheggiato: «il Regno di Dio è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo.»

In questo definitivo inquadramento delle visuali e delle prospettive scaturite dalla predicazione cristiana, Paolo inserisce anche una completa ed organica filosofia della storia. Egli sa di potere raccomandare la sua propaganda universalistica e la sua impugnazione vigorosa della solidità delle prescrizioni mosaiche e in genere di tutte le discipline positive, ad una spiegazione esauriente del mistero storico, il cui svolgimento drammatico si compie con lentezza fatale intorno a lui. Innegabilmente, il popolo d'Israele è stato insignito attraverso la sua vita nei secoli di particolari privilegi. Ad esso furono affidate le parole profetiche; su di lui furono riversate le ricchezze di particolari carismi e di eccezionali chiamate. Ma lo stesso cumulo dei privilegi passati pesa ormai come un fardello oneroso sulle spalle della razza vanagloriosa e si leva come un ostacolo sulla via della sua nuova salvezza. San Paolo pensa che quel «residuo» del popolo di Jahvè, il quale è riuscito a comprendere e ad abbracciare, in virtù dell'elezione della grazia, la fede nel Cristo morto e risorto, deve comunicare ai gentili l'annuncio dell'universale riscatto, mentre i figli di Abramo secondo la carne permangono nelle nebbie di un indurimento pervicace, che è anch'esso provvidenziale. I gentili, è vero, costituiscono una pianta selvatica di fronte alla pianta domestica di Israele: un olivastro di fronte all'olivo. Ma chiamandoli, così generosamente, alla giustizia e alla eredità, non più circoscritta e non più contesa, Iddio vuole suscitare e stimolare di rimbalzo l'emulazione del popolo che ha portato nei secoli il tesoro delle grandi promesse. Il pagano convertito non dovrà dimenticare che la radice onde è sostenuto nella sua gratuita elezione si sprofonda nella tradizione di Israele, e che la sua stessa chiamata ha ragione di mezzo, nello svolgimento prodigioso dei piani dell'Altissimo. Infatti, quando sia compiuta la conversione dei gentili, allora soltanto sarà la volta della salvezza per i giudei. Se il momentaneo recalcitrare di questi, dà la possibilità al mondo di riconciliarsi con Dio, la loro finale introduzione nella fede segnerà veramente l'avvento della risurrezione universale e del Regno. Così san Paolo ricongiunge la sua apparente apostasia dal privilegio dei suoi padri, ad una valutazione grandiosa del destino loro nel programma della Provvidenza.

Tutto commosso dalla vastità dell'orizzonte che la fede apre ai suoi occhi abbacinati, Paolo può sottolineare la grandezza della sua visione storica con parole di esultanza: «oh, profondità della ricchezza, della sapienza, delle intuizioni provenienti da Dio: come appaiono superiori ad ogni investigazione razionale le sue sentenze, e come risultano immuni da ogni pista che ne tradisca ad altri la traccia le sue vie! In virtù di Lui, attraverso Lui, verso di Lui, è ogni cosa. A Lui la gloria nei secoli. Amen.»

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