I.

«Navigavimus aliquando:
peregrinati sumus: alii ivimus,
alii redivimus».

(En. in Ps. 36: III, 19).

Ad autunno inoltrato del 383, dopo aver felicemente traversato il Mediterraneo con uno degli ultimi vascelli, che per quell’anno dovevano compiere il tra        gitto Cartagine-Ostia prima che la navigazione fosse sospesa a mezzo novembre, giungeva a Roma dalla via ostiense, ricolmo l’animo di aspirazioni indistinte e di sogni luminosi, un ventinovenne retore numida. Si chiamava: Aurelio Agostino.

Che cosa mai aveva indotto questo giovane insegnante ad abbandonare, nel mistero e con l’inganno, la sua già fiorente scuola di Cartagine, i suoi amici fedeli, i suoi protettori generosi, la vedova madre, rimasta a piangere sulla spiaggia africana il figlio esuberante e indisciplinato, per avventurarsi in un viaggio gravido di incognite, per andare a perdersi nel turbine vasto della capitale arcigna e livellatrice, dove sarebbe stato straordinariamente arduo guadagnare quella eminente posizione pubblica, che a Cartagine poteva dirsi ormai raggiunta?

Esponendo diciassette anni più tardi i motivi della traversata, foriera di così profondo rivolgimento nella sfera delle sue esperienze spirituali, Agostino, già vescovo di Ippona, annoverava al primo posto una nuova speciale manifestazione di quell’assistenza provvidenziale di Dio, che doveva manodurlo, dalle piccole bricconate commesse in unione agli eversores di Cartagine, alle lacrime salutari di Milano. Ma l’appello all’intervento divino, in virtù del quale la biografia delle Confessioni assume le forme di un racconto ininterrottamente miracoloso, costituisce, lo sappiamo ormai, il motivo obbligato fondamentale e la tesi originale di questo scritto famoso, nel quale il dottore della grazia ha concretato, con la evocazione della propria esistenza, una dimostrazione tipica delle sue teorie, circa l’opera di Dio nel governo e nella pedagogia dei suoi eletti. Negli scritti di Cassiciaco, il Contra Academicos cioè, il De ordine e il De beata vita, testimonianze indirette ma pressochè sincrone, noi dobbiamo cercare una indicazione meno mistica, ma più oggettiva, dei fini e delle cause che disciplinano l’evoluzione spirituale di Agostino, fra il momento in cui salpa dalla spiaggia di Cartagine, mentre Monica inconsapevole prega in una memoria vicina di Cipriano, e l’altro in cui, nella basilica milanese, scende nella vasca battesimale, per ricevere dalle mani di Ambrogio il desiderato carattere cristiano.

Roma imperiale costituiva anche allora la palestra naturale per quanti agognassero una carriera brillante nel mondo; il mercato più ambito e più promettente per quanti avessero da porre in valore doti personali esimie e idee proprie. La vecchia città, pur non esercitando più il fascino dei tempi di Augusto e degli Antonini, da quando un sovrano audacemente innovatore le aveva edificato una rivale sulle sponde del Bosforo, conservava sempre una maestà disdegnosa e fiera, che poteva permettersi di guardare con sprezzante sussiego il fasto provinciale della Bisanzio rinnovellata e di soggiogare ancora, con la sua mistica grandezza, gli eredi e i continuatori di Costantino. Più che il desiderio vago ed incerto di trovare una scolaresca più disciplinata di quella cartaginese, la brama di più lauti guadagni e di più clamorosi onori aveva tratto dal suo nido africano l’avventuroso oratore, nato a Tagaste. L’alloro che aveva coronato i successi letterari dei suoi conterranei Frontone ed Apuleio, non avrebbe riservato rinverdite fronde al suo capo, già redimito nelle modeste gare africane?

I manichei suoi correligionari di Cartagine lo avevano accompagnato con lettere di presentazione ad autorevoli personaggi della setta, che annoverava proseliti numerosi, per quanto nascosti, a Roma. Uno di essi gli offrì larga ospitalità. Possiamo imaginarci il domicilio di Agostino in una delle case del popoloso quartiere degli Africani, situato fra il Celio e l’Aventino, proprio là, dove anche oggi qualche nome di strada ricorda, con quella tenacia di consuetudini di cui Roma ha il monopolio, le vecchie denominazioni etniche e geografiche dei vici che l’intersecavano: Capitis Africae, Stabuli proconsulis, Syrtis, Byzacoenus, Capsensis.

La prima accoglienza di Roma al figliuolo di Monica e di Patricio, venuto a chiederle fama e ricchezza, non fu delle più lusinghiere. Fresco del viaggio, scosso l’organismo dal sensibile cambiamento di clima, Agostino cade seriamente infermo e trascorre in letto le prime settimane della sua permanenza in Roma. Ma le cure affettuose dell’ospite e la giovinezza ardente del malato hanno in breve ragione del male e, ancora convalescente, Agostino, aiutato efficacemente dall’abile e operoso favore degli amici africani e manichei, inaugura i suoi corsi liberi.

La prova fu tutt’altro che felice. Se gli scolari cartaginesi rappresentavano la personificazione della sfrenatezza e della indisciplina e usavano fare irruzione nelle scuole dei maestri non propri turbando la serenità delle aule e interrompendo bruscamente ad ogni minimo incidente il corso dell’insegnamento, gli scolari romani avevano il pessimo vezzo di frequentare per un po’ le lezioni di un insegnante nuovo e ben quotato, per abbandonarlo poi sul più bello, quando avrebbero dovuto sborsargli la loro pattuita quota di iscrizione. Agostino sentì mancarsi la terra sotto i piedi. Erano quelle le primizie dei lauti guadagni che le suadenti parole degli amici avevano fatto balenare al suo sguardo avido di maestro avventuroso?

La fortuna lo soccorse in buon punto. Un’occasione magnifica si presentava per trasformare il suo insegnamento libero in insegnamento di Stato ed egli mise in opera tutte le aderenze personali di cui godeva in seno alla comunità manichea di Roma, per conquistare la cattedra governativa di retorica a Milano, posta a concorso in quei giorni. Era prefetto della città nel 384 Quinto Aurelio Simmaco, l’oratore insigne che Macrobio doveva porre interlocutore forbito e ascoltato dei suoi Saturnali e che si era fatto volentieri, proprio in quel torno di tempo, il portatore discreto e insinuante delle ultime velleità paganeggianti del Senato romano, dinanzi al trono di Valentiniano II. Simmaco era stato proconsole a Cartagine e doveva aver conservato della sua diuturna permanenza d’oltre mare una certa benevolenza per i suoi antichi amministrati. Di più le sue convinzioni religiose dovevano portarlo ad una marcata condiscendenza verso tutti quei movimenti che, pur allontanandosi dalle tradizioni del paganesimo, contrastavano tenacemente il terreno all’avanzare trionfante della propaganda cristiana. Come il retore Libanio in Oriente, Simmaco nutriva vive simpatie per il manicheismo e fu quindi sollecito e alacre nel favorire il candidato che la setta gli raccomandava per l’ambita cattedra milanese. Superata brillantemente la prova prescritta, Agostino conseguì la nomina desiderata. Sul tramonto del 384 egli prendeva posto su uno dei veicoli del servizio postale imperiale e, per la Flaminia, muoveva verso la sua nuova residenza. Così, in virtù della protezione largamente offertagli da colui che per l’ultima volta aveva proclamato i destini indissolubili del culto pagano e della grandezza di Roma, si avviava alla città del suo battesimo il futuro autore del De Civitate Dei, intesa tutta a dimostrare l’incapacità insanabile de’ vecchi dèi e delle decrepite formule rituali a tutelare l’immortale gloria dell’urbe.

Noi saremmo naturalmente molto ansiosi di apprendere, su testimonianze dirette, quale traccia aveva segnato sullo spirito desto e pronto di Agostino il suo anno di vita romana. Ma i suoi scritti sono, purtroppo, di una sorprendente povertà di dati in proposito. Simmaco è nominato fugacemente a pena nelle Confessioni; il pontificato di Damaso, che aveva toccato verso il 382 l’apogeo del suo potere spirituale, è menzionato in tutta l’immensa produzione agostiniana una sola volta, a proposito di un’argomentazione antipelagiana, tutt’altro che logica e probativa; infine i fasti gloriosi degli imperatori Valentiniano e Teodosio offrono, sì e no, una dozzina di generici spunti alla polemica del sociologo cristiano. Tutto intento ad un’opera assidua e fervorosa di sistemazione dottrinale cristiana, Agostino è l’uomo meno adatto a disseminare di reminiscenze cronistoriche gli abbondanti suoi scritti teologici. D’altra parte le impressioni che foggiano in maniera più durevole la nostra psiche non sono sempre quelle che si fissano, lucide e consapevoli, sullo schermo della nostra memoria.

E pure la vita romana, sensibile alle ripercussioni più sottili degli avvenimenti che si svolgevano grandissimi in quello scorcio di secolo nell’ambito dell’immenso impero, doveva offrire argomenti copiosi di profonda meditazione, non sempre priva di sorpresa, al giovane professore, che aveva varcato il recinto delle mura aureliane con l’anima in crisi e tutte le facoltà dello spirito protese verso una nuova direzione mentale. Forse non furono la mole e la ricchezza dei monumenti romani che più colpirono il retore di Cartagine. Laggiù, oltre il mare nostrum, anche la Dea Celeste aveva, sul capitolium cartaginese, un tempio sontuoso che non doveva poi scapitar troppo al confronto col tempio romano di Giove Capitolino; e gli anfiteatri della vecchia rivale domata e ricostruita erano grandiosi abbastanza perchè il visitatore non dovesse poi trasecolare di meraviglia dinanzi all’anfiteatro Flavio. Ma erano più tosto la vita spirituale di Roma; le condizioni della coltura pubblica; le correnti di pensiero che l’alimentavano; il successo solenne del cristianesimo, fino ad allora forse non sufficientemente calcolato da Agostino; i dibattiti ardenti che si svolgevano sul miglior modo di interpretare il Vangelo di Cristo; i fatti i quali dovevano offrire maggior messe di considerazioni allo spirito inquieto dell’appassionato numida.

Chiamato da Graziano dopo la fatale disfatta di Adrianopoli nel 378, in cui era perito tutto un esercito romano col suo imperatore, a ristabilire la sicurezza, la pace e la concordia nell’impero di Oriente, Teodosio aveva posto a fondamento della sua politica risanatrice il trionfo assoluto dell’ortodossia romana. Dal canto suo, in Occidente, Graziano si abbandonava docilmente alla guida dello spirito più equilibrato che la burocrazia imperiale avesse dato fino allora all’episcopato, Ambrogio, assunto dalla dignità di prefetto a quella di vescovo di Milano. A quali criteri si ispirasse la pedagogia dell’ex-prefetto, rivestito di infule sacerdotali, verso l’imperiale pupillo, si comprende d’un subito non a pena si ricordi il postulato delle sue dottrine teologico-sociali: «imperator intra fines Ecclesiae est» e l’autorità che Dio gli ha conferito, non ha altro fine che quello di patrocinare il successo e la purezza dottrinale della comunità cristiana. Dopo la breve parentesi dell’usurpatore Massimo, che, del resto, per rafforzare il suo trono malfermo non esita a concedere alla petulante richiesta dei vescovi spagnuoli la testa del pallido asceta Priscilliano, più incauto che reo, Valentiniano II segue le orme di Graziano e si lascia manodurre anch’egli dal forte dominio spirituale di Ambrogio. Tenteranno gli ultimi residui del paganesimo morente una fugace parentesi di riscossa intorno all’ambigua figura del retore Eugenio, ma Teodosio avrà facilmente ragione delle sue truppe raccogliticce, fra le colline che accompagnano il corso sinuoso del Vippacco verso l’Isonzo.

Questo breve, ma instancabile manipolo di imperatori cristiani e ortodossi si sforza con una foga frettolosa di tradurre con ogni mezzo in pratica quel programma di rinnovamento religioso che, bandito dall’imperatore Costantino, aveva subito fino allora, fra le predilezioni eretiche di Costanzo e la brusca reazione di Giuliano, così strane vicende.

Per accennare solamente alle leggi le ripercussioni delle quali dovevano farsi più gagliardamente sentire intorno ad Agostino, basterà qui ricordare: l’editto emanato da Graziano a Milano il 3 agosto 379, con cui, modificando espressamente quello emesso l’anno precedente a Sirmio, il figlio spirituale di Ambrogio applicava alle sette che, mediante sofismi, sovvertono la retta concezione di Dio, il divieto di propaganda già sanzionato contro coloro che rinnovavano il battesimo e ne annullavano così il valore iniziale (i donatisti); e quella del 2 maggio del 382 con cui era stabilito che chiunque avesse abbandonato la legge cristiana per abbracciare sia l’idolatria sia il culto giudaico, sia il manicheismo, doveva essere immediatamente spogliato del diritto di far testamento, vale a dire del diritto civico per eccellenza, e le sue sostanze dovevano, alla sua morte, passare al fisco; i propagatori poi e gli incitatori all’apostasia dovevano essere sottoposti a pene corporali.

Ma l’atto imperiale che suscitò più rumoroso scalpore di polemiche, che gettò realmente lo sgomento nelle assottigliate file dei pagani e diede ai cristiani la prova tangibile e la coscienza piena del loro definitivo successo, fu la soppressione dell’ara della Vittoria nell’aula senatoriale e l’incameramento degli appannaggi e delle rendite delle Vestali e degli altri corpi sacerdotali di Roma, destinati a costituire un fondo di cui il prefetto del pretorio avrebbe usato per migliorare il servizio della posta imperiale. Cadeva così l’ultimo simbolo del paganesimo ufficiale romano. La vecchia statua d’arte ellenistica, trasportata a Roma da Taranto dopo la conquista della insubordinata città, e innalzata da Augusto, sopra un’ara, nell’aula senatoria, dopo Azio, presiedeva, venerata, da quattro secoli alle più solenni decisioni del supremo organo legislativo romano. I senatori le deponevano dinanzi un grano d’incenso, prima di prendere i loro posti, stendevano verso di essa la loro mano, pronunciando o rinnovando il giuramento di fedeltà all’imperatore. E l’imperatore osava ora abbattere il simulacro glorioso, osava proprio lui sopprimere le organizzazioni che presiedevano alle tradizionali liturgie, togliendo loro i viveri. L’impressione del gesto sovrano fu enorme, e il paganesimo di Roma, che poteva pur vantarsi di contare ancora fra i suoi seguaci i più fulgidi nomi dell’aristocrazia, come quelli di Nicomaco Flaviano, filosofo raffinato, e di Vezio Agorio Pretestato, incontentabile anima di mistico, corse ai ripari. Furono spedite ripetute ambascerie a Milano, con l’incarico di implorare la revoca dell’editto radicale. La missione più solenne fu quella spiccata nel 384, l’anno stesso in cui Agostino tentava le sorti del suo insegnamento romano. Simmaco in persona si recava nuovamente a Milano a perorare la causa del culto della Vittoria. La tragica fine di Graziano, trucidato a Lione l’anno primo dalla soldatesca ribelle; la carestia che aveva afflitto testè tutte le regioni di Italia lasciavano sperare che il nuovo imperatore, il giovanetto Valentiniano II, avrebbe reintegrato al suo posto la statua veneranda, la cui offesa sembrava avere scatenato sull’impero d’Occidente così lugubri e irreparabili sciagure. Ma per quanto Simmaco chiamasse in soccorso le più squisite grazie della sua consumata arte oratoria, per quanto si sforzasse, egli, interprete di quel paganesimo che per tre secoli aveva disprezzato e perseguitato il Vangelo, di addolcire la propria voce e di dissimulare il proprio programma pagano sotto i colori di un saggio e benevolo eclettismo religioso, affermante che il mistero della divinità è troppo alto perchè una sola via sia capace di menare a scoprirne tutti gl’ineffabili aspetti; per quanto cercasse di insinuarsi nel cuore dell’inesperto sovrano, introducendo a parlare la stessa figura maestosa di Roma, che chiede di continuare la sua vita di glorie e di trionfi con l’accompagnamento delle tradizionali forme del rito, la missione non ebbe migliore sorte delle precedenti e sulla arringa ricercata e sottile del praefectus urbi prevalse la schietta, vivace invettiva del vescovo Ambrogio. Simmaco aveva cercato di dimostrare come la gloria e l’incolumità di Roma non fossero dissociabili dal culto delle vecchie divinità. Ambrogio ricorda, con duro sarcasmo, gli insuccessi che gli dèi non avevano saputo risparmiare alla politica romana. Quella notte, domanda egli ironicamente, in cui la rocca del Campidoglio fu salvata dal grido delle oche, forse «in ansere, Jupiter locutus est?». All’appello di Roma che domanda di essere lasciata alle sue tradizioni secolari, Ambrogio contrappone la volontà di una Roma che chiede di procedere liberamente per le vie del progresso, non essendo mai troppo tardi, per andare più oltre: «non erubesco longaeva converti; nulla aetas ad perdiscendum sera est; nullus pudor est, ad meliora transire». All’agnosticismo argomentativo di Simmaco, il vescovo infine leva contro, l’affermazione chiara e fiduciosa della giovane novella fede, di cui presente la dilatazione vittoriosa nel mondo.

L’eco del dibattito dovette naturalmente giungere presto a Roma e suscitarvi una profonda impressione. I personaggi vi erano notissimi. Se Simmaco era prefetto della città, Ambrogio era suo parente ed aveva a Roma la famiglia, formata allora della madre e della sorella, di cui era stato ospite venerato due anni prima, quando Damaso si era deciso ad esaminare in Sinodo l’inestricabile controversia per la sede vescovile di Antiochia. Poi, la sconfitta di Simmaco non costituiva l’atto pubblico di decesso del paganesimo romano? Io penso che dovettero sentirsi indirettamente colpiti da quel clamoroso insuccesso anche i manichei nascosti nella città e che dai conversari, che dovettero tenersi in proposito nelle case africane del Celio, anche Agostino trasse materia a riflettere.

Tanto più che gli uomini preposti in quel momento al governo della società cristiana non erano davvero tali da rinunciare alle straordinarie possibilità dell’ora eccezionalmente propizia, o da trascurare la completa utilizzazione del successo che sembrava favorirli. Se Ambrogio faceva sentire a Milano tutto il peso del suo prestigio e dei suoi poteri, a Roma, un vescovo di schiettissimo temperamento romano, Damaso, mirava con accortezza pari all’energia a trarre buon pro da ogni circostanza per consolidare la disciplina ecclesiastica e per rafforzare e presidiare l’autonomia del governo episcopale in Roma, dilatandone progressivamente l’ambito di giurisdizione. Per quanto la sua nomina a pontefice nel settembre del 366 fosse stata accompagnata da lacrimevoli scene di cruenta discordia, e la petulanza del suo competitore Ursino, spalleggiato dall’abile e vasta propaganda dell’ebreo convertito Isacco, non lasciasse un istante di tregua e di pace al vecchio vescovo, contro cui instigava sedizioni e accumulava calunnie, egli non si rassegnava per questo a frenare l’esercizio del proprio potere e non provava imbarazzo nello stringere sempre più rigidamente i vincoli disciplinari del clero.

Ormai ritengo accertato che appartengano a lui quei Canones ad Gallos, che un sottile critico francese, precocemente rapitoci purtroppo sull’eroica fronte di Verdun, il Babut, ha definito come la più antica decretale, la più antica cioè, fra le ordinanze pontificie destinate ad imporre alle altre Chiese la disciplina della Chiesa romana, e che racchiudono la più antica formulazione canonica della legge celibataria per il clero. In favore di Damaso Valentiniano I emanava verso il 369 un editto con cui faceva sapere ai vescovi del suo impero che d’ora innanzi il Vescovo di Roma sarebbe stato il loro giudice e che nella sfera della vita religiosa, le sue decisioni avrebbero rivestito il valore pubblico di leggi. II medesimo imperatore, quattro anni più tardi, sottraeva con un nuovo editto le colpe degli ecclesiastici alla giurisdizione dei tribunali civili, per deferirle integralmente a quella dei vescovi. Infine verso il 379 una lettera di Graziano al vicario di Roma Aquilino ribadiva formalmente la prescrizione che i prefetti d’Italia e delle Gallie come tutti i proconsoli vigilassero scrupolosamente alla esecuzione delle decisioni prese dal vescovo di Roma contornato dal suo sinodo, circa questioni e controversie riguardanti qualsiasi vescovo o metropolitano dell’Occidente. Così la Chiesa romana andava sapientemente stringendo le fila del proprio potere e della propria disciplina gerarchica. Lo spirito tuttora incerto ed oscillante di Agostino non doveva restar colpito da un simile spettacolo di gagliarda giovinezza, in una istituzione da lui fino allora poco e male conosciuta?

Ma un’altra manifestazione della vitalità cristiana in Occidente doveva parlare alta al suo cuore: i diffusi fervori cioè dell’ascetismo e le polemiche che essi suscitavano. Un anno prima di Agostino era giunto a Roma, o meglio vi era tornato dopo una ventina di anni di assenza, completamente trasformato nell’apparenza esteriore come nelle aspirazioni dell’animo, un monaco oriundo della Dalmazia, che accompagnava l’astuto Paolino di Antiochia e il sospettoso Epifanio di Salamina al sinodo indetto da Damaso per vedere di liquidare l’annosa vertenza della Chiesa antiochena: Girolamo. Un’aureola luminosa di dottrina e di virtù ascetica circondava la figura strana del monaco, che pure aveva in altri tempi menato a Roma una esistenza gaia e spensierata, di cui ancora laggiù nella solitudine di Calcide lo avevano perseguitato i ricordi allettatori. L’autore delle biografie dei patriarchi del monachismo orientale, Paolo, Ilarione e Malco, aveva guadagnato rapida nomea negli ambienti più colti e più nobili della Roma cristiana. Damaso usava di lui come di un consigliere illuminato e di un segretario fedele. I salotti delle più elette famiglie cristiane si contendevano la sua conversazione, nutrita di una eccezionale erudizione biblica, di una larghissima esperienza di viaggi, condita, perchè no? di una impetuosa e tagliente ironia. Un cenacolo di pie matrone e giovanette si raccoglieva assiduamente intorno a lui, e lassù sull’Aventino, in quell’angolo suggestivo di Roma, che domina il Tevere e dinanzi a cui si svolge incantevole nelle ore dei fiammanti tramonti il panorama del Gianicolo, del Vaticano e di Monte Mario, egli, in casa della pia Marcella, teneva lezioni di esegesi biblica e di pedagogia monastica. Sebbene i chierici mondani di Roma, colpiti a sangue dalla sua sferza implacabile, andassero sussurrando che egli era un manicheo, un seduttore, un mago, un preparatore di sortilegi, non era ancora scoppiata sul suo capo, al momento dell’arrivo di Agostino, quella furibonda procella che si scatenò nel 385 alla morte di Blesilla, quando il popolo, aizzato e furibondo, facendolo responsabile della morte precoce della giovane vedova datasi ai rigori della penitenza, minacciò di gettarlo vivo nel Tevere. Per ora egli è il beniamino dell’aristocrazia cristiana e molti vanno prognosticando la sua successione a Damaso nel vescovato romano.

Io non so se nel suo anno di permanenza a Roma, Agostino incontrò mai per le vie il corteggio lussuoso da cui si faceva trasportare papa Damaso, secondo la descrizione, un po’ carica naturalmente, del pagano Ammiano Marcellino; o se mai, scendendo dall’Aventino per recarsi alla sua scuola, incontrò, gomito a gomito, Girolamo, che saliva frettoloso verso la dimora di Marcella, dove Paola, Eustochio, Blesilla, Asella l’attendevano, per la abituale spiegazione evangelica. Come ho detto, Agostino accenna una sola volta fugacemente a Damaso nei suoi non pochi scritti; Girolamo poi egli non dovette, se pure, conoscerlo di persona, perchè quando nel 394 inizierà la sua corrispondenza con lui, dirà nel preambolo di non aver visto mai il suo sguardo, sebbene ora potesse in certo modo dire di conoscerlo attraverso gli occhi dell’amico carissimo Alipio, che era andato a trovare l’illustre asceta in Terra Santa.

Comunque, io non so rinunciare a supporre che l’intensa vita del cristianesimo romano quale si svolgeva dinanzi alla conoscenza diretta o indiretta di Agostino nell’anno di sua permanenza nella capitale, dovette deporre nel suo spirito un germe destinato a una meravigliosa fermentazione.

E veramente la sua anima era in quei momenti come un solco aperto e irrorato, pronto a qualunque seminagione. Agostino stava per toccare i trenta anni, l’età in cui maturano le più profonde crisi spirituali e in cui si gettano le fondamenta dell’edificio che saprà innalzare una maturità saggia e operosa. La stessa avidità sensuale, che aveva fatto cogliere a questo ardente figlio del sud abbondanti i frutti della voluttà, sebbene non ancora soggiogata, aveva perduto il fuoco della precoce giovinezza, e lo spirito cogitabondo del manicheo insoddisfatto non era più irriducibilmente refrattario ad una elevazione spirituale, in cui le ebbrezze più eccelse fossero cercate nella contemplazione e nella propaganda del bene. L’iniziale educazione cristiana, ricevuta dalle pie labbra e dalla incancellabile seduzione materne, aveva subìto, è vero, una diuturna, preoccupante crisi. Non tanto a causa di sregolatezze così disonorevoli, che avessero lasciato l’anima, spoglia di speranza, in un abisso di abiezione. Confrontando il racconto delle Confessioni con i ricordi biografici deposti negli scritti di Cassiciaco, noi sappiamo ormai che cosa precisamente pensare dell’ininterrotto mea culpa che Agostino pronuncia in quell’opera famosa, che è nel medesimo tempo il frutto della sua raffinata formazione retorica e delle sue ben definite convinzioni teologiche. Come non sorridere quando il vescovo, che vede ormai nell’umanità intiera una miserabile e inguaribile massa peccati, va a rintracciare colpe riprovevoli nell’avidità dell’infante per la poppa che l’alimenta, o nella birichinata dell’adolescente, che carpisce una pera nel frutteto non proprio? E come non correggere la sfavorevole impressione che Agostino vorrebbe suscitare di sè stesso, deplorando con parole amarissime la propria unione con la madre del suo Adeodato, quando i canoni del sinodo di Toledo del 400 ci mostrano che l’unirsi stabilmente ad una concubina, ad una donna cioè di condizione inferiore, ma ad una concubina sola, non era colpa che escludesse dalla comunità cristiana?

In realtà la crisi religiosa di sant’Agostino era stata una crisi prevalentemente intellettuale. Sui dieciannove anni l’Ortensio di Cicerone gli aveva messo in dosso il fuoco sacro della ricerca speculativa ed egli si era sentito preso da un amore folle per la sapienza. Ma la sapienza ch’egli agogna è puramente razionale: gli deve cioè spiegare il mistero ineffabile dell’universo fuori di ogni rivelazione soprannaturale, secondo le semplici esigenze

dell’intelletto. Non già iubentibus, bensì docentibus gli pare che debba credersi. Ed è sedotto allora dalla lussureggiante cosmologia del manicheismo che, partendo da alcuni dati elementari dell’esperienza sensibile, scorgeva nel mondo la manifestazione drammatica di due opposte energie, benefica l’una, malefica l’altra; a cui assegnava rispettivamente i contrastanti dominî della luce e delle tenebre.

C’era, io penso, nella mentalità comune ai cristiani dell’Africa, qualcosa che doveva predisporre, non dirò già a cadere nel dualismo manicheo, ma a non scorgerne di primo acchito l’insanabile incompatibilità con una sana teodicea, e quindi a non contrapporre sufficiente resistenza al brillante miraggio delle sue fantasmagorie. Le dottrine teologiche infatti professate da alcuni insigni rappresentanti del cristianesimo africano anteriore ad Agostino appaiono stranamente pencolanti verso l’antropomorfismo. Le intelligenze africane, così ricche di fantasia, provavano difficoltà a concepire una sostanza non materiale e ritenevano pressochè assiomatico che al di fuori della materia, non v’è che il nulla. Sta di fatto che polemizzando con Prassea, Tertulliano aveva scritto sugli albori del terzo secolo: «Quis enim negabit Deum corpus esse, etsi Deus spiritus est? Spiritus enim corpus sui generis, in sua effigie». E nel De carne Christi, anche più energicamente, il grande apologista sentenziava: «nihil est incorporale, nisi quod non est». Agostino dal canto suo ritorna innumerevoli volte, nelle sue confidenze autobiografiche, sulla propria incapacità originaria a concepire Iddio come realtà incorporea, e insiste nel rilevare la tendenza ostinata della propria mente ad attribuire ad un potere malefico, diverso da Dio, il peccato ed il male che sono nel mondo. In realtà il manicheismo aveva trovato in Africa un terreno propizio, anche in quei centri dove la più larga penetrazione cristiana avrebbe dovuto più agevolmente ostacolarne il proselitismo. Tanto vero che noi raccogliamo dalle opere polemiche di Agostino convertito la notizia sorprendente che esistevano manichei perfino nel recinto delle comunità cristiane; ve n’erano pur nelle fila della gerarchia: uomini, evidentemente, che non ritenevano il dualismo materialistico del sistema manicheo inconciliabile con la teodicea e l’etica del cristianesimo. Non ci meraviglieremo, dopo ciò, troppo se l’intelletto avido e ardente del ventenne Agostino subì anch’esso l’insidioso fascino dell’esotica religione di Mani.

Ma una mente eletta, un’anima serena e fiduciosa, non possono non avvertire le contradizioni profonde che viziano ogni sistema dualistico e la incapacità che lo contrassegna a stimolare un individuo o una collettività ad azioni vigorose nella vita. Il lento e spontaneo maturare della propria riflessione; le delusioni scoraggianti provate nell’avvicinare i corifei della setta e nel proporre loro minute obbiezioni, avevano adagio adagio alienato Agostino dal sistema abbracciato con così vivo entusiasmo.

Quando egli sbarcava ad Ostia al cadere del 383, il suo manicheismo stava cedendo terreno a uno sconsolato, rassegnato agnosticismo. Sulle orme degli accademici, il retore numida si andava assuefacendo all’idea che è stolta pretesa cercare una soluzione logica e salda al problema formidabile dell’esistenza universale e che il sapiente ama sottoporre a un dubbio spietato tutte le affermazioni della povera metafisica umana. Due problemi gli sembravano particolarmente ardui: quello riguardante la natura del principio da cui il mondo ha tratto l’essere, e l’altro circa l’intima essenza del male, così fisico come etico. La testimonianza delle Confessioni starebbe a provare che l’anno di vita romana non fu, sul terreno filosofico, che un progresso sulla via del dubbio metodico.

Milano doveva riserbare all’ex-manicheo le orientazioni risolutive della sua anima in pena. Il giorno in cui un anonimo amico, verso il quale in verità Agostino ha conservato scarsa riconoscenza dal momento che lo dice gonfio di presunzione, gli pose nelle mani colà la versione latina degli scritti di Plotino, redatta da Mario Vittorino, il famoso retore convertito che aveva avuto ai suoi tempi l’onore di una statua nel Foro Romano, segna realmente una data saliente nella storia della teologia cristiana in Occidente. Poichè in quel giorno colui che doveva fornire al Medio Evo l’edificio teologico più organico che fosse stato elevato prima di san Tommaso, ebbe a sua disposizione i mezzi dialettici per divincolarsi dal dubbio accademico, per afferrare con sicurezza la verità metafisica, per foggiarsi una nozione adeguata delle realtà spirituali, infine per superare definitivamente i postulati materialistici, così del dualismo manicheo, come della teologia antropomorfistica, professata da Tertulliano. In quegli scritti Agostino doveva attingere una rappresentazione idealistica del fatto gnoseologico; una nozione alta e pura della divinità; infine un apprezzamento equilibrato del mondo, in cui il male è una negazione di esistenza o una parziale partecipazione dell’essere. Il grande mistico neoplatonico, che tanto séguito aveva avuto nella società romana sul declinare del terzo secolo, gli insegnava a risolvere il pauroso problema del male, additandogli nell’universo un magnifico quadro, che ha le sue ombre e i suoi chiaroscuri, ma in cui tutto misteriosamente dipende da una ineffabile realtà spirituale (τὸ αἴτιον πάντων) e ad essa fatalmente aspira: πάντα γὰρ ὀρέγεται ἐϰείνου ϰαὶ ἐφίεται αὐτοῦ, φύσεως ἀνάγϰῃ.

Ma altri coefficienti, e infinitamente più efficaci, entrarono in giuoco a Milano per riportare alla superficie dell’anima di Agostino quei filoni cristiani che le cure materne vi avevano deposto e il fatuo miraggio della predicazione manichea vi aveva ottenebrato. Sopra tutto efficaci a dare una impronta al suo pensiero in fermentazione riescono l’opera e l’esempio di Ambrogio, l’uomo insigne di dottrina e di governo, che gli discopre i profondi significati della Scrittura, là dove lo squisito uomo di lettere s’imbatteva in grossolanità di espressioni o il filosofo segnalava particolari a prima vista irriverenti per la maestà divina; gli mostra nella sua piena luce la ricca profondità della dottrina cristiana; gli addita nella folla, che ama e riverisce con tanta fedeltà l’illuminato pastore, la nuova società, plasmata dal Vangelo e così bisognosa di guida e di istruzione.

Monica, dal canto suo, che aveva raggiunto il figliuolo, pervenuto ad una brillante posizione sociale, continuava indefessa una di quelle disseminazioni di consigli e di rimbrotti che, accompagnate dal sorriso o dal corruccio di un volto venerato, esercitano così profondo fascino sulle anime docili all’amore filiale.

I due anni di vita milanese furono così trascorsi da Agostino in un indefesso travaglio di elaborazione spirituale. Aiutato dal neoplatonismo, egli si affranca dai vincoli tenaci del materialismo manicheo e naviga verso il porto di una filosofia, su cui Ambrogio addita il profilarsi del faro acceso dalla rivelazione cristiana. Quando nell’autunno del 386, oppresso da un penoso male di stomaco, lascia la scuola e si ritira con un tenue stuolo di parenti e di amici nella villa di Verecondo a Cassiciaco, in vista del Monte Rosa, egli non avrebbe in verità saputo dire con precisione fino a qual punto era un puro filosofo, e dove cominciava il suo cristianesimo. Se il neoplatonismo gli appariva ormai come l’unico sistema degno di uno spirito elevato, d’altra parte notava in esso delle lacune, che lo rendevano monco e inadatto alla educazione del genere umano. Solo la rivelazione cristiana poteva conferirgli i complementi necessari: il dogma del Dio incarnato e redentore; il fatto concreto della società visibile dei fedeli, direttamente partecipe alla vita soprannaturale. Le conversazioni di Cassiciaco; le meditazioni della solitudine campestre illuminano sempre meglio questo duplice fattore di una solida formazione intellettuale: il fattore filosofico e quello religioso.

Nella notte fra il 24 e il 25 aprile del 387 Agostino poteva scendere coscientemente nella piscina battesimale della basilica maggiore di Milano e ricevere dalle mani di Ambrogio, sul capo chino, l’acqua purificatrice. Poteva pure assumere la veste candida dell’illuminato, e intonare con i compagni, nella suggestiva processione notturna, il canto gioioso della risurrezione. Egli era un vero neofita pieno di promesse, e dall’embrione della sua fede stava per isbocciare un portento di apologetica cristiana. La tradizione attribuisce ai due insigni personaggi intenti al rito solenne la composizione del Te Deum. La critica ha oggi restituito l’inno al suo vero autore, un vescovo della Dacia. L’attribuzione ad ogni modo è simbolica. Era bene imaginare che il canto della riconoscenza e della lode cristiana fosse sbocciato nel momento in cui il cristianesimo del IV secolo guadagnava il suo più illustre dottore, per opera di uno dei suoi più saggi vescovi.

Il battesimo dava immediatamente ad Agostino il senso della sua nuova missione. Il suo posto adatto non era più a vendere vane parole di retorica, ma a spezzare in patria il pane della nuova sapienza. Abbandonata la scuola, prende la via del ritorno. Si ferma pochi giorni a Roma. Ma ad Ostia, nell’attesa dell’imbarco, dopo aver passato con la madre tripudiante giorni di intenso godimento spirituale, discorrendo cose religiose e toccando, in successive ascensioni, con uno slancio del cuore, oltre ogni possibilità dell’intelletto «quella regione della indefettibile fertilità, con cui tu, o Dio, nutri Israele in eterno col cibo della verità» e ad essa lasciando avvinta la primizia del loro spirito, Agostino è colpito da un irreparabile lutto. Monica si ammala improvvisamente e muore in brevissimo tempo. Agostino, sopraggiunta frattanto forse l’annuale sospensione della navigazione, torna a Roma a trascorrervi i mesi dell’attesa. E qui concepisce e scrive le prime opere della sua prodigiosa attività teologico-esegetica.

Così il retore numida che, traiecto mari, era venuto a compiere a Roma la maturazione del proprio spirito, doveva fermarsi nuovamente nella città caput orbis, prima di tornare in patria a fare della Chiesa africana, del suo pensiero, della sua prassi, il baluardo più resistente in difesa del cristianesimo romano.

Share on Twitter Share on Facebook