II.

«Maior liber noster, orbis terrarum est; in eo lego completum, quod in libro Dei lego promissum».

(Ep. 43).

Sant’Agostino non è, come san Tommaso, il teologo da tavolino che con tenace calma elabora il suo sistema, lo cesella finemente in ogni sua parte: è eminentemente uomo d’azione e di polemica. La sua teologia è la traduzione astratta della sua quotidiana opera cristiana, come la sua prassi di vescovo è pura filosofia religiosa in atto. Reduce a pena da Roma e chiusosi nel suo ritiro di Tagaste a menar vita contemplativa con pochissimi amici fedeli, egli ingaggia immediatamente la lotta con la dottrina avversaria del cristianesimo, dalle cui morse egli stesso si era testè svincolato, e i cui predicatori, secondo la stessa frase agostiniana, erano delle insidiosissime reti tese dal demonio per tutto.

Singolare sistema quello che il persiano Mani aveva annunciato e formulato nei suoi scritti nella seconda metà del terzo secolo! Tutte le vecchie correnti della mitologia astrale babilonese erano in esso confluite a rimpolpare il vecchio dualismo mazdeo, sotto l’orpello di superficiali assimilazioni di dottrine giudaiche e cristiane. Era veramente, secondo la definizione di un polemista cristiano, una πολυϰέφαλος αἴρεσις. E appunto per questo forse il suo successo era stato così grandioso. Da meno di un ventennio il profeta della nuova religione era stato crocifisso e la pelle del suo corpo, imbottita di paglia, era stata appesa, ad ammonimento, alla porta di Gundesapur, e già la sua dottrina aveva trasvolato in Siria, in Egitto, in Asia Minore, perfino nell’Africa proconsolare. Verso il 293 Diocleziano dirigeva da Alessandria una costituzione a Giuliano, bandendo la soppressione della setta che insidiava, con le dottrine della non resistenza al male e della malvagità della riproduzione umana, le fondamenta stesse della società. La persecuzione così inscenata non riesce a frapporre ostacoli insormontabili alla propaganda manichea. Per tutto il secolo quarto il manicheismo, strano miscuglio di metafisica e di poesia, che in un’epoca di nessun senso scientifico-sperimentale doveva esercitare con le sue intuizioni un singolare fascino, appare, insieme al neoplatonismo, come uno dei rivali più pericolosi che contendesse il terreno all’avanzata trionfale del cristianesimo.

Frammenti degli scritti di Mani rintracciati di recente in opere di vecchi polemisti cristiani e maomettani; documenti di propaganda venuti improvvisamente alla luce nell’Estremo Oriente, ci pongono oggi in grado di delineare nella sua interezza il profilo della cosmologia e dell’etica manichea, di assaporarne l’esotico sapore, che era sembrato così piacevole al giovane Agostino, partito alla ricerca di una spiegazione razionale dell’universo, da lasciarsene allettare per non meno di nove anni.

– Prima che l’universo visibile, insegnava Mani, avesse origine, sussistevano due supremi principi: l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del primo, del Padre della Grandezza, era nella regione della Luce. Egli si moltiplicava in cinque ipostasi: l’intelligenza, la ragione, il pensiero, la riflessione, la volontà. La dimora del sovrano delle tenebre era invece nella terra oscura e le sue ipostasi erano il fumo, il fuoco, il vento, l’acqua, l’abisso. Il sovrano delle Tenebre concepì vaghezza della terra luminosa. Le cinque ipostasi celestiali tremarono all’imminenza dell’assalto. Il Padre della Grandezza pensò: Dei miei cinque mondi, fatti per la gioia e per la pace, nessuno manderò alla guerra. Io stesso affronterò l’avversario. Evocò allora la Madre della Vita e questa a sua volta l’etereo Uomo primordiale. Il quale si coprì da prima con la soave brezza mattutina; si avviluppò di luce come in un mantello scintillante; gettò sulla luce la fluidità delle acque; impugnò il fuoco come una lancia, e si precipitò dall’alto della regione luminosa, alla difesa della sua minacciata frontiera. Lo precedeva un angelo, recante nella destra la corona della vittoria. L’Uomo primordiale proiettava dinanzi a sè la sua luce e, scorgendola, il sovrano delle Tenebre pensò: Ecco, quel che andavo cercando lontano, lo troverò presso di me. Si armò anch’egli dei suoi cinque elementi e affrontò l’Uomo primordiale. In procinto di essere sopraffatto, questi, simile a chi volendo sopprimere un nemico gli dona un dolce avvelenato, pensò di darsi, con i suoi cinque figli, in pasto al vincitore. Ma male glie ne incolse. Quando i figli delle Tenebre ne ebbero assaporato, i cinque dei luminosi che avevano combattuto con l’Uomo primordiale smarrirono l’intelligenza. L’Uomo primordiale però ricuperò presto la ragione e per sette volte levò al Padre della Grandezza un’accorata preghiera. Mosso a pietà, il Padre evoca lo Spirito Vivente e questi vola ad affrancare il prigioniero delle Tenebre. Lo chiama a nome, lo trae con la destra fuori della sua prigione, e si accinge poi a riscattare tutti gli elementi di luce che la vittoria del sovrano delle Tenebre aveva trascinato nell’abisso. A tal fine lo Spirito Vivente comanda a tre dei suoi figli che l’uno uccida, l’altro scuoi gli arconti figli delle Tenebre, il terzo li conduca alla Madre della Vita. La Madre della Vita distende il firmamento con le loro pelli, ne fa dodici cieli. Sono poi gettate le loro carcasse sulla dimora delle Tenebre: ne nascono otto terre. Non era così esaurita la quantità di luce che gli arconti tenevano ancora avvinta. Manifestando loro le sue forme raggianti, lo Spirito Vivente li costringe a restituirne una nuova porzione, per formarne due vascelli luminosi, il sole e la luna, destinati a traghettare la luce adagio adagio affrancata dai vincoli del sovrano tenebroso, e tutte le stelle. Dopo ciò un terzo essere redentore, il Messaggero, imprime a tutta la macchina cosmica così formata il suo ritmico movimento e l’automatico processo di purificazione della luce ha principio.

Quando il sovrano delle Tenebre vide l’immenso piano concepito ed attuato per strappargli gli elementi di luce che la vittoria sull’Uomo primordiale ed i cinque suoi elementi gli aveva procacciato, concepì profondi sentimenti di irritazione e di gelosia, i quali gli suggerirono di foggiare i corpi umani e in essi le forme dei due sessi, la maschile e la femminile, onde imitare i due grandi vascelli luminosi, che sono il sole e la luna. Affinchè, come questi nel processo di reintegrazione cosmica in cui è tutta la ragione dell’universo, servono al trasporto della luce affrancata verso la sua primitiva sede, così i sessi, vascelli nefandi di oscurità, servissero a tenere indefinitamente prigioniera la luce e a farla senza posa trasmigrare attraverso l’esistenza del male e del dolore. Come quando un gioielliere, ritraendo la forma di un elefante bianco, l’incide su di un cammeo; così il sovrano delle Tenebre ricapitolò nell’organismo umano le fattezze del cosmo. Imprigionò l’etere puro nella città delle ossa; suscitò il pensiero oscuro e vi piantò un albero di morte. Imprigionò poi il vento mirabile nella città dei nervi; suscitò il sentimento oscuro e vi piantò un albero di morte. Imprigionò la luce nella città delle vene; suscitò la riflessione oscura e vi piantò un albero di morte. Imprigionò l’acqua monda nella città della carne; suscitò l’intelligenza oscura e vi piantò un albero di morte. Imprigionò il fuoco celeste nella città della pelle; suscitò il ragionamento oscuro e vi piantò un albero di morte. I cinque alberi mortiferi piantati dal sovrano delle Tenebre si espandono nel misero organismo dell’uomo. L’albero del pensiero oscuro preme dentro la città delle vene: il suo frutto è l’odio. L’albero del sentimento oscuro spinge dentro la città dei nervi: il suo frutto è l’iracondia. L’albero della riflessione oscura stimola dentro la città delle vene: il suo frutto è la lussuria. L’albero dell’intelletto oscuro cresce nella città della carne: il suo frutto è la collera. L’albero del ragionamento oscuro sospinge la città della pelle: il suo frutto è la fatuità. L’uomo è così come stretto in un cesto, intessuto di serpenti, che con la testa verso di lui emettono il loro alito velenoso. Per questo la Madre della Vita, l’Uomo primordiale, lo Spirito Vivente, il Messaggero, vollero, continuando la loro opera misericordiosa, invocare per lui un nuovo salvatore. E questo fu Gesù. Gesù, il luminoso e il paziente, destò l’inconsapevole Adamo, e gli additò il lungo martirio della luce nel mondo, esposta agli artigli delle belve e ai denti dei ghiottoni, mescolata a quanto esiste, chiusa nel lezzo delle tenebre. Illuminato dalla grande rivelazione, Adamo si guarda intorno e scoppia in singhiozzi. Leva come belva ruggente la sua voce; si strappa i capelli; e grida: Maledizione a colui che ha formato il mio corpo, che ha così fatto schiava la mia anima di luce; agli arconti tenebrosi che l’hanno trascinata in ceppi! –

La fantastica e lussureggiante mitologia manichea, di cui questa sintesi non è che un pallido saggio, esposta da un predicatore religioso che era nel medesimo tempo un poeta, collegando intimamente la vita dell’uomo a tutta l’esistenza cosmica; introducendo un parallelismo minuto fra il macrocosmo visibile e il microcosmo dell’organismo umano; col pessimismo che era alla sua base e l’ascetismo artificioso cui conduceva; doveva, come ho detto, far facile presa sulla mentalità ascientifica del secolo IV. Era la teosofia del tempo, come la teosofia è il manicheismo dei nostri giorni.

Poichè l’esistenza mondiale non è altro che la continuazione drammatica di una lotta fra il bene e il male, fra la luce e le tenebre, iniziatasi all’origine delle cose con un insuccesso del principio buono; poichè tutte le manifestazioni fisiche della vita cosmica sono episodi di un processo di reintegrazione cui sottostà con lentezza fatale il contingente di luce che il sovrano delle Tenebre tiene tuttora prigioniero nella sua materia: il valore della vita umana sgorga unicamente dallo sforzo paziente che sia compiuto per facilitare la purificazione della luce e per impedire la continuazione della sua prigionia.

L’uomo pio farà di tutto quindi per rispettare la luce che geme e soffre in ogni essere vivo; si studierà di adottare ogni mezzo per agevolarne il riscatto, per sventare l’opera del sovrano tenebroso che cerca invece di perpetuarne la schiavitù. L’asceta, l’eletto, è in maniera particolare simile ad un filtro della luce, che egli inghiotte con gli alimenti. La sua vita dedita alla purità e alla propaganda della vera dottrina, lo rende strumento di reintegrazione degli elementi luminosi che vengono a contatto con lui. Egli inculcherà a tutti, propagandista di un malthusianismo teologico anzichè economico, non tanto l’astensione dall’atto sessuale, quanto l’avversione alla fecondazione riproduttrice, onde gli uomini non siano fino in fondo vittime del tranello teso loro dal demonio con la formazione dei sessi, vascelli infausti di perdizione.

Naturalmente, come tutti i grandi sistemi religiosi, anche il manicheismo, staccandosi dal suo ceppo iranico e trasmigrando nel mondo, cerca di adattarsi, con fenomeno naturale di mimetismo etico ed intellettuale, ai sistemi dominanti nei luoghi dove viene a tentare la sua propaganda. E come nell’Estremo Oriente assorbe appariscenti elementi buddistici, in Occidente si sforza di prendere a prestito dal cristianesimo quanto è compatibile con i propri postulati dualistici. Noi ne cogliamo le tracce nella Spagna del IV secolo cadente, nell’indecisa ascesi priscillianista; e lo incontriamo nell’Africa di Agostino, insinuatosi perfino su pei gradi della gerarchia ecclesiastica.

Di fronte a questa subdola tattica di penetrazione, più urgente appariva il bisogno di neutralizzarne e possibilmente arrestarne il proselitismo. Fresco ancora del bagno battesimale, sant’Agostino si accinge a commentare il racconto genesiaco della creazione, contro i miti di Mani; studia i costumi severi, ma senza ostentate aberrazioni della chiesa, e li pone a raffronto con l’ipocrita austerità dei manichei. Ordinato prete nel 391 conduce a viso aperto, in ogni occasione, una campagna diuturna contro il manicheismo, la cui efficacia dovette essere straordinariamente intensa. Nel De utilitate credendi ad Onorato esalta il merito della fede semplice e volenterosa nella economia della esperienza religiosa. La serie delle opere antimanichee, che si seguono ininterrotte per un quindicennio: (De duabus animabus, Contra Fortunatum, Contra Adimantum, Contra Epistolam Manichaei quam vocant fundamenti, Contra Faustum Manichaeum, De actis cum Felice Manichaeo, De natura boni, Contra Secundinum) esaminano tutti i principali punti di dissenso fra la mitologia e la psicologia del manicheismo e la concezione platonico-cristiana che Agostino si era venuto foggiando durante la sua permanenza in Italia.

Egli mostra così l’assurdità insanabile di ogni dualismo cosmico; pone in luce l’essenza spirituale di Dio, natura purissima, incapace di qualsiasi mescolanza o fusione con elementi inferiori; spiega il concetto negativo del male; difende con vigore di neofita l’esistenza immancabile del libero arbitrio; celebra i meriti della Chiesa cristiana, che offre alle masse un insieme di credenze religiose salde e coerenti.

In questo primo fervore di polemiche antimanichee, in cui il convertito porta tutta la veemenza del suo animo di disilluso, le affermazioni della libertà umana, della non esistenza del male, che non è una realtà, bensì una pura negazione o una parziale partecipazione di bene, appaiono in Agostino nette e precise. È avvenuto nella sua anima un completo capovolgimento di valori, e il suo sistema mentale rappresenta realmente l’antitesi della professione manichea.

Il prete e il vescovo di Ippona rimasero sempre in questa linea ideale, o non più tosto, sbollito l’ardore della polemica, qualcosa del vecchio pessimismo manicheo affiorò di nuovo alla superficie della sua coscienza, portandola a quella desolata concezione della predestinazione alla salvezza o alla rovina eterna, che traspare dalle ultime manifestazioni della sua attività teologica? E non aveva forse ragione Giuliano di Eclano di chiamare Agostino, dopo il 420, manicheo e di stabilire un irriducibile dissidio fra le prime opere del neoconvertito e gli scritti del vescovo, maturati negli anni tardivi del suo ministero pastorale e del suo fosco predestinazianismo? La risposta l’avremo esumando i tratti principali della polemica che Agostino ingaggiava verso il 412 contro il pelagianismo. Fu lotta aspra e perigliosa, che meritò nei secoli al grande teologo africano l’appellativo di «dottore della grazia».

Sui primi anni del secolo quinto viveva a Roma e vi godeva fama di singolare virtù un monaco scotto, di nome Pelagio. Era aitante della persona; simpatico all’aspetto; ricco di quelle doti di sottigliezza e di brio, di cui la sua razza ha avuto sempre a dovizia. La piacevolezza della sua conversazione; l’austerità dei suoi costumi; l’interesse curioso per la sua origine esotica, lo facevano ricercato nei salotti dell’aristocrazia romana. E poichè le nobili famiglie cristiane di Roma si piccavano in quel tempo di ostentare la loro predilezione per l’uno o per l’altro rappresentante esimio della cultura ecclesiastica, egli divenne rapidamente il beniamino della famiglia degli Anici Probi che l’ospitavano volentieri nella loro splendida casa sul Collis Hortorum, il Pincio, e di quella dei Valeri, che dimoravano al Celio. Un giorno, in un salotto romano, ad un vescovo capitò di pronunciare la frase su cui Agostino aveva intessuto tanta parte delle sue Confessioni, l’invocazione cioè a Dio: «da quod iubes et iube quod vis – concedi quel che comandi e comanda poi pure quel che vuoi». All’udirla, Pelagio, che era presente, si mostrò altamente scandalizzato, dicendo che gli sembrava indegno di Dio e offensivo per la natura umana chiedere a Lui che effettuasse in questa l’esecuzione dei comandi del bene. Pelagio concepiva la vita etica inculcata dal cristianesimo come una esplicazione, non propriamente agevole, ma nè pure impervia, delle facoltà e attitudini umane. Più tardi, scrivendo per la monacazione di Demetriade quella sua lettera-programma che è un capolavoro di perizia ed acume pedagogico, egli esponeva con discrezione consumata le linee fondamentali del suo pensiero. Vi mostrava così che le virtù proposte e inculcate dal cristianesimo non costituiscono idealità inaccessibili; che per attuarle non è necessaria una speciale assistenza divina, è bensì sufficiente quell’aiuto remoto e indiretto che Dio ci concede con la visione delle sue opere meravigliose nel mondo, con l’esempio mirabile dei suoi santi e in particolare di Gesù. Nella rocca della nostra coscienza, egli ammoniva, risiede un incorruttibile giudice, che, suscitando compiacimento intimo per le nostre opere buone, disgusto e rancore per le nostre opere malvagie, pone in noi stessi la legge del nostro merito. Senza dubbio la colpa fatale di Adamo, quelle di tanti nostri avi, pesano, funeste, sulle nostre capacità elettive e le spingono con rude impulso al male. Ma questo non vuol dire che ne sia rimasta debilitata la nostra capacità di ben fare: il nostro libero arbitrio, che è la gemma del nostro essere umano, è integro oggi come il giorno in cui Adamo uscì dalle mani creatrici di Dio. Si tratta semplicemente di un esempio perverso che essi ci hanno dato, e che esercita su noi un malefico fascino, cui però possiamo gagliardamente e vittoriosamente reagire. Occorre, s’intende, vigilare con assiduità, affinchè alla lampada dell’anima nostra non venga mai a mancare l’olio delle rette intenzioni e dei santi propositi. Ma con una sana pedagogia che inizi l’animo al bene operare fin dai primi anni – poichè «in cunctis fere rebus citius assuescitur omne quod tenerum est» – è possibile assurgere alle più eccelse vette della rettitudine cristiana.

Il vescovo che aveva per primo pronunciato la frase incriminata e che doveva essere amico di Agostino, gli fece giungere notizia del commento aspro del monaco, destandone così il legittimo allarme. Ma ben più da vicino doveva rivelarglisi l’avversario, pochi anni dopo.

All’addensarsi del temporale gotico sul cielo di Roma, molte famiglie nobili traversarono prudentemente il mare. Pelagio seguì, con l’amico Celestio, la famiglia di Anicia Faltonia Proba. Furono così a Cartagine. Agostino, tutto assorbito dalla campagna antidonatistica, non potè lì per lì prestare alle loro persone e alle loro idee soverchia attenzione. Ma quando, partito Pelagio per l’Oriente, Celestio cominciò, con la sua inesauribile facondia di avvocato, a insinuarsi nelle famiglie cristiane del gregge di Aurelio, per stendervi l’insidia del suo sistema naturalistico, Agostino corse rapidamente alla riscossa e inaugurò la lotta che doveva fruttargli i più contrastati, ma anche i più gloriosi allori.

Col suo rapido intuito fissò subito nettamente i capisaldi della controversia. Pelagio e i suoi rumorosi seguaci negavano in sostanza il peccato originale come colpa che abbia viziato la natura umana sì da trasmettersi con l’atto stesso della generazione; affermavano che già prima di Cristo, non diversamente da quel che è possibile dopo, l’uomo era naturalmente capace di operare tutta la virtù, senza bisogno di alcun soccorso straordinario. Il vescovo d’ Ippona intravide il pericolo cui era esposta la stabilità della organizzazione cristiana di fronte al superbo moralismo dei nuovi predicatori. Si trattava, in fondo, di sapere, puramente e semplicemente, se la redenzione effettuata da Cristo implica un ineffabile, ma reale, rinnovamento interiore, o si riduce più tosto ad un esempio profferto; se la vita cristiana implica una palingenesi completa della psiche e dei costumi o invece una mera continuazione della Legge; se, quindi, è necessaria la partecipazione ad una efficace grazia divina per l’adempimento dei precetti cristiani, mediante i sacramenti, che ne sono i veicoli, ed una chiesa, che ne è l’amministratrice, o pure la natura umana possiede tuttora incolumi le attitudini originarie dell’essere che uscì dalle mani di Dio, come coronamento della creazione universa.

Va detto subito che nel 411 la polemica pelagiana non trovava Agostino nel medesimo stato intellettuale che contrassegna i primi anni della sua lotta antimanichea. Io mi sono, dopo lunga indagine critica, persuaso – e di questa mia convinzione ho cercato di addurre altrove i più validi argomenti – che fra il 396 e il 397, in seguito all’attenta lettura del commento dell’Ambrosiastro su san Paolo, il pensiero di Agostino circa la potenzialità etica della natura umana e i nostri rapporti con Adamo peccatore, subì sensibili modificazioni. Mentre prima di quel tempo, saturo ancora di reminiscenze neoplatoniche e di esegesi ambrosiana, Agostino sembra ritenere che una colpa non personale è incapace di condannare un essere, altrimenti innocente, al supplizio eterno; che le nostre capacità spirituali non sono state sostanzialmente pervertite dalla colpa di Adamo; e che quindi ogni individuo umano reca ancora nelle proprie mani il destino d’oltre tomba, dopo quell’epoca invece il pensiero agostiniano sembra pencolare con sempre maggiore accentuazione verso un desolato pessimismo, circa l’umana natura e i suoi poteri etici: tutta l’umanità appare ormai ad Agostino come conglutinata in Adamo, peccatrice e condannata in lui (massa damnata). Il peccato d’origine è da quel momento descritto da lui come una infezione mortifera che si propaga inesorabile di padre in figlio mediante l’atto della riproduzione carnale. Poichè questa avviene in un attimo di parossismo organico che è conseguenza diretta della colpa, assume la figura etica di colpa essa stessa, e determina ipso facto la trasmissione del primo peccato nella nuova creatura. La quale recherà lo stigma originario così nel corpo, con il persistente e irriducibile pungolo della sensualità irragionevole, come nell’anima, in cui viene a prolungarsi la reità incorsa dal primo padre peccatore. Affinchè una simile nozione del peccato d’origine fosse in armonia con la dottrina circa l’origine dell’anima, Agostino fu logicamente indotto a patrocinare, non il sistema creazianistico, non potendosi ammettere che Dio crei un’anima maculata, bensì quello traducianistico, che sostiene la simultaneità della trasmissione dell’anima e del corpo, mediante la generazione. In complesso, l’umanità appare ad Agostino come un conglomerato inizialmente indistinto di dannati, che nulla possono a rigore meritare da Dio e a cui è solo concesso sperare possibilità di perdono e di riscatto dalla benevola grazia del Padre e dal decreto infallibile della sua predestinazione.

Pelagio era ancora lontano, a predicare la sua ascesi stoica nei salotti romani, quando Agostino veniva spontaneamente maturando il suo embrionale sistema circa il peccato e la grazia. Quando egli fra il 396 e il 397 dava l’ultima mano al De diversis quaestionibus ad Simplicianum e al De octoginta tribus quaestionibus, brillavano già chiare e nette nella sua intelligenza, le due idee fondamentali intorno a cui, come intorno ai due fochi di un’ellissi, verrà svolgendosi la polemica antipelagiana, e l’altra intorno alla predestinazione nei suoi rapporti con il libero arbitrio: la nozione cioè di una umanità dannata, le cui viscere sono corrose implacabilmente dal cancro del peccato originale, e quella della completa gratuità dell’impulso iniziale con cui Dio ci solleva allo stato di grazia.

Naturalmente, come suole accadere, la discussione animata trae Agostino a calcare le linee del suo sistema, a svilupparne le più paradossali conseguenze. Non meno di quindici sono le opere che dal 412 fino all’anno della morte (430) Agostino consacra alla confutazione delle tesi pelagiane e dei loro corollari. Nel corso della esposizione del sistema ch’egli contrappone al moralismo del monaco scotto, egli formula asserzioni di un pessimismo feroce, che la tradizione cristiana dovette più tardi esplicitamente ripudiare. Agostino definisce così la concupiscenza sessuale come un vero peccato, anche quando porta alla conservazione della specie nello stato legittimo e normale del matrimonio: un peccato vero e proprio, reatu et actu, sebbene in virtù del battesimo possa non essere imputato più, a chi sperimenta e segue l’istinto carnale. Egli, inoltre, forte di una erronea versione latina di un passo paolino (Rom. V, 12), afferma rudemente la natura completa e personale della colpa d’origine, per cui i fanciulli morti prima del battesimo gli appaiono senz’altro destinati alla perdizione. Infine tratteggia con colori sì neri le conseguenze della colpa d’origine da giungere a sopprimere implicitamente ogni libertà dell’umano arbitrio, divenuto a causa della colpa originale, un miserabile schiavo del male. E poichè il concetto della libertà campeggia evidente nei documenti della rivelazione cristiana, Agostino finisce con il formulare, nell’Enchiridion del 420 una strana e lambiccata definizione della libertà. Asserisce cioè che libero non è già colui il quale possiede la capacità di valutare due azioni eticamente diverse e di scegliere, bensì colui che compie con diletto la volontà del proprio padrone. Sicchè è pur libero lo schiavo del peccato e del demonio, prima che la virtù rigeneratrice del battesimo l’abbia riscattato, dal momento che compie con diletto la volontà del suo tirannico padrone. Libero è parimenti colui che mediante il battesimo è assurto a dignità di servo della giustizia, perchè in virtù della grazia rinnovatrice compie con diletto l’infallibile volontà del suo nuovo sovrano e padrone. Infine, avendo presupposto l’essere spirituale dell’uomo così devastato dall’opera letale della colpa, Agostino deve logicamente dipingerlo come incapace di muovere il più lieve passo sul sentiero del risorgimento spirituale. La grazia, quindi, il sostegno cioè divino, necessario perchè questo paralitico spirituale sciolga le sue membra rattrappite, è un dono pienamente gratuito e la salvezza è il frutto di un decreto infallibile della divina bontà. Si salvano o si dannano coloro che Dio vuole misteriosamente salvati o dannati.

Simili fosche teorie, che annullavano in sostanza, nonostante le sottili distinzioni dell’Ipponese, il valore personale di ogni azione umana, suscitarono una straordinaria impressione, che diede luogo anche a comici episodi. I monaci di Adrumeto (Susa) gridarono, ad esempio, allo scandalo e cominciarono a ribellarsi ai loro abbati, proclamando che, dipendendo ogni nostro buon operare dal soccorso divino, non comandi dovevano impartire i superiori religiosi; ma dovevano solamente sollevare preghiere a Dio, onde volesse concedere ai loro sudditi capacità di ben fare. In Gallia, numerosi gruppi di asceti protestarono contro questo spietato annichilamento del valore etico degli sforzi personali, compiuti per addestrarsi nel bene. Giuliano, il dotto e facondo vescovo di Mirabella Eclano, scende in lizza contro Agostino, accusandolo di introdurre, più o meno consapevolmente, il manicheismo nella dottrina cristiana. Infine la chiesa di Roma, col suo tradizionale buon senso, esita prima di sanzionare le esagerazioni agostiniane, e la condanna di Pelagio, emanata nel 418 da papa Zosimo, è preceduta da una sentenza di riprovazione e di ostracismo, strappata dai vescovi africani alla corte di Ravenna.

Un recente illustratore di Giuliano di Eclano, Alberto Bruckner, ha avuto modo di osservare che nella dottrina agostiniana intorno al peccato si sono insinuate parecchie reminiscenze manichee, quali la nozione del male ipostatizzato e contrapposto quasi, con un dualismo di nuovo genere, al principio creatore; quella di una natura essenzialmente viziata, infine quella della origine diabolica dell’istinto sessuale. A me, in verità, non pare che tale specifiche nozioni tradiscano direttamente un influsso manicheo. Non nego però in linea generale, che qualcosa di esageratamente pessimistico è rimasto nell’antropologia dell’ipponese. Volendo assolutamente indicare dei punti di contatto fra il sistema che aveva sedotto l’intelligenza del giovane Agostino e la teologia del vescovo antipelagiano, io segnalerei più tosto la trasparente affinità tra la concezione agostiniana dell’uomo schiavo del bene o del male, secondo che è stato o no affrancato in virtù della grazia, e la concezione manichea degli elementi di luce o di tenebre che ogni uomo reca o assorbe in sè, e che imprimono l’orientamento fatale al corso della sua esistenza. Sta di fatto che c’è in quella concezione agostiniana più di un elemento lesivo di una equilibrata rappresentazione delle reali capacità umane nell’opera della interiore salvezza e che la tradizione del cristianesimo latino ha dovuto ripudiarla. Non è azzardato asserire che la parentesi manichea aveva lasciato un sedimento pessimistico nell’animo di Agostino e che il calore della polemica antipelagiana lo mise nuovamente allo scoperto.

E pure le esagerazioni agostiniane, inevitabili in un’aspra controversia ventennale, hanno esercitato una altissima funzione storica nel processo del pensiero cristiano. A distanza di secoli, noi possiamo facilmente riconoscere che se avesse prevalso il pelagianismo, l’organismo ecclesiastico, quale mezzo e strumento di distribuzione di quei carismi onde si alimenta la vita soprannaturale dei fedeli, sarebbe stato reciso alla radice, poichè il cristianesimo non è per esso che l’espressione più alta delle naturali aspirazioni dello spirito, e il Vangelo nulla di essenzialmente nuovo ha introdotto nel mondo. Agostino, deprimendo, sia pure esageratamente, le potenzialità dell’umana natura lasciata a sè stessa, ha garantito il fatto della individuale redenzione e ha assicurato alla Chiesa nei secoli la sua insurrogabile funzione di risanatrice e di corroboratrice.

Nè la sua apologia mira alla difesa di una chiesa astratta ed eterea. Se noi consideriamo nel suo mirabile insieme il pensiero agostiniano, che si completa e si illumina nella totalità delle sue manifestazioni, troviamo che la teoria generica del peccato e della grazia trova il suo complemento concreto nella ecclesiologia già formulata durante la polemica antidonatistica. La Chiesa storica che Agostino addita quale depositaria dei carismi cristiani, è la Chiesa di Roma, verso cui deve convergere lo sguardo del mondo credente.

Quando nel 396, dopo le brevi esitazioni di Megalio, Agostino era consacrato vescovo coadiutore di Ippona, la Chiesa africana era da circa un secolo travagliata da un penoso scisma, che dal nome del suo più insigne corifeo, Donato di Case Nere, aveva appunto preso la denominazione di donatismo. Si trattava in sostanza di un nazionalismo africano, nutrito da coefficienti economici e politici, tenacemente ribelle alla penetrazione romana, il quale si ammantava di colori religiosi.

Il primitivo cristianesimo africano aveva nettamente assunto un carattere di protesta al dominio di Roma e alla sua penetrazione culturale. In esso si erano condensati e disciplinati i sentimenti di rancore che il governo straniero suscitava nelle razze e nei ceti non assimilati. Il più rumoroso portavoce del cristianesimo africano nei primi secoli, il prete cartaginese Tertulliano, aveva con un dilemma famoso, sentenziato che fra cristianesimo e impero corre un antagonismo irriducibile. L’imperatore Costantino, elevando il cristianesimo nel novero delle religioni ufficiali e spiegando poi durante il suo diuturno governo un’azione sempre più favorevole verso la società sorta dal Vangelo, turbò profondamente le prospettive consuetudinarie dei cristiani dell’Africa. Il cristianesimo non poteva apparire più come il baluardo dietro cui si concentravano per la difesa contro l’invadenza romana le aspirazioni autonomistiche dell’anima africana, dal momento che l’Impero si faceva esso cristiano e fautore di cristianesimo nel mondo. Nello stato d’animo di smarrimento e di delusione che il grande rinnovamento politico-religioso effettuato da Costantino dovette determinare nell’Africa cristiana, io trovo le ragioni psicologiche del movimento donatista, il quale, traendo pretesto da alcuni incerti episodi di debolezza vescovile durante la persecuzione dioclezianea, che aveva cercato di strappare alle comunità cristiane i suoi libri sacri e la suppellettile liturgica, credè di poter continuare la funzione di resistenza al romanesimo, abbandonata dalla Chiesa cristiana il giorno in cui aveva accettato la tutela di un imperatore, convertitosi per calcolo di opportunismo. Non è qui il caso di tessere l’agitata storia del donatismo, dal giorno in cui un gruppo di ribelli contrapponeva a Cartagine, al vescovo Ceciliano, un vescovo scismatico, Maggiorino, fino al momento in cui si leva, a debellarlo, la propaganda instancabile di Agostino. Non è nè pure il caso di esaminare partitamente i dodici scritti agostiniani che fra il 393 e il 420 raccolgono il succo della sua pertinace polemica. A noi sarà sufficiente circoscrivere i motivi sostanziali del dissidio e porre in luce il valore permanente che l’atteggiamento dell’Ipponese ha assunto nella teologia e nella disciplina del cristianesimo latino.

I donatisti sostenevano, in sostanza, che la Chiesa è una società di perfetti; che quanti in essa vengono meno ai rigidi precetti della comunità, quanti sopra tutto si abbandonano a transazioni col mondo esterno e i suoi poteri politici, eterni avversari del Vangelo per definizione, smarriscono il diritto di appartenervi, e perdono automaticamente ogni potere carismatico, se costituiti in dignità religiosa. Quindi quei vescovi che consegnarono libri e indumenti sacri ai rappresentanti dell’imperatore durante la terribile persecuzione dioclezianea, o comunque non mantennero quel contegno fieramente disdegnoso che si conviene a ministri del Cristo, e tutti coloro che si rendono loro complici con l’acquiescenza e il silenzio, debbono essere ormai ritenuti estranei alla vera Chiesa, felloni e traditori. E poichè i sacramenti producono la grazia e la vita soprannaturale solo a patto che chi li amministra sia in intima unione con Dio e ricco egli stesso di carismi divini, quanti hanno ricevuto il battesimo da traditores e loro colleghi, debbono nuovamente rituffarsi nel bagno purificatore e debbono riavere nuova imposizione delle mani. La comunità dei perfetti si guarderà dopo ciò da qualsiasi contatto coll’autorità civile, dalla quale il Vangelo non può ricevere che affronti e coercizioni. Nulla di comune v’è fra lo Stato e la Chiesa, fra i decreti imperiali e il Vangelo. Si appelli chi vuole a quelli: il vero cristiano non conosce altra legge, fuori di questo.

Le conseguenze concrete dei postulati donatistici si intuiscono agevolmente. Essi tagliavano i tendini di ogni organizzazione ecclesiastica, e riducevano la Chiesa cristiana ad una conventicola di esaltati. Se ad ogni fedele compete il diritto di esaminare i titoli del suo superiore gerarchico, di scandagliare nel fondo della sua coscienza; di valutarne la dignità etica e giudicarne le intenzioni; non subirà mai i veicoli della disciplina e potrà sollevare accuse e rampogne ad ogni proprio capriccio. Se i vincoli dei benefici carismatici, i sacramenti, posseggono una validità strettamente collegata e dipendente dalla purezza del ministro, la vita soprannaturale dei fedeli sarà esposta alla perenne e penosa oscillazione del dubbio. Se infine la Chiesa dovrà in eterno guardare in cagnesco lo Stato, come il suo nemico naturale, dovrà rinunciare per sempre a qualsiasi proficua funzione sociale.

Col suo fine intuito di uomo pratico e avveduto, che l’esperienza romana e milanese aveva educato all’apprezzamento sereno della missione storica della Chiesa, Agostino intravide d’un sùbito le conseguenze funeste della intransigenza donatistica. La sua campagna, menata per ammansirla e domarla, è fatta tutta di buon senso e di praticità. Parlando ai donatisti egli non ha più da fare con le classi colte, su cui ha fatto maggior presa l’orgogliosa e saccente erudizione manichea: egli si rivolge al popolo minuto, sulle miserie e i patimenti del quale la cricca di Donato e di Parmeniano ha fatto assegnamento, per aizzarlo contro Roma affamatrice e contro la Chiesa ortodossa che se ne è fatta strumento docile e complice vergognosa. E al popolo parla con accenti patetici, che raggiungono talora un grado di altissimo lirismo.

Agostino non si dissimula le lacune e le imperfezioni che deturpano l’organismo ecclesiastico. La Chiesa è un’aia, su cui giacciono ancora mescolati il frumento e la paglia: il ventilabro della morte e del giudizio non li ha ancora sceverati. Ma che per ciò? Chi opera nel ministro e conferisce la valida efficacia al gesto del rito, è Cristo direttamente e alla virtù sua non può fare ostacolo l’indegnità dello strumento. Nessun dubbio quindi sulla effettiva operazione sacramentale, da chiunque compiuta. «Christus invisibiliter mundat». Che se la Chiesa, col maturare dei tempi, è venuta a contatto con lo stato romano, che ne ha assunto la vigile tutela, noi non diremo che essa abbia abbandonato il suo trono, per ridursi in uno stato di obbrobriosa servitù. La chiesa può esclamare:

iussit me apostolus pro regibus mundi orare;
vos invidetis, quod reges iam sunt in christiana fide:
si filii estis, quid invidetis, quia auditae sunt preces meae?

Lo Stato, è vero, ha preso un po’ troppo sul serio il suo compito di tutore, e ha cominciato ad esercitare un feroce potere di repressione contro coloro che hanno il torto di non pensare come la Chiesa romana. Ma - e qui Agostino ha gettato le basi teoriche della sacra Inquisizione - è volontà di Dio che lo Stato ponga a disposizione della Chiesa i suoi poteri, poichè può essere provvidenziale l’intervento dell’autorità per manodurre nel recinto degli eletti i recalcitranti e gli ostinati. Del resto i donatisti debbono persuadersi che le ragioni della vita e del successo non sono davvero nel piccolo àmbito della loro setta astiosa e tumultuaria. La società cristiana ha le ragioni della sua validità e della sua legittimità nello stesso suo carattere universale: nella vastità dei suoi confini, coincidenti con i confini del mondo romano; nella fermezza dei suoi vincoli disciplinari, onde è costretta alla veneranda sede di Pietro. «Non vengano a porci dinanzi agli occhi costoro vecchie pergamene e dimenticati atti pubblici, onde asserire l’indegnità di un vescovo cartaginese, morto cent’anni indietro. Il nostro libro mastro è un altro: è il mondo. In esso io veggo effettuate le promesse delle sacre carte. Nessuno può annullare nel cosmo l’ordine fissato da Dio: nessuno può cancellare dalla terra la realtà della Chiesa... Non dir mai, o eretico, che il tuo piccolo pensiero risponda meglio all’insegnamento del Cristo, o alla tradizione dei Padri. Guardati intorno. L’eredità del Redentore non può essere ristretta al tuo gruppo sparuto: il sangue di Cristo fu prezzo per l’universo, non per una minoranza. Solo la Chiesa, che ha levato le sue tende dovunque è vita civile, dà, con la sua stessa esistenza, testimonianza alla vitalità del Vangelo nel mondo. E quella Chiesa, è la chiesa di Roma».

Così all’alta esperienza spirituale di Agostino, la partecipazione ad una società religiosa disseminata nel mondo appare di per sè argomento sufficiente per la propria giustificazione. L’ecclesiologia di Agostino assume per questo un significato veramente eccezionale. Dichiarando che ogni separazione dal grande organismo ecclesiastico implica un impoverimento spirituale, che la comunione intima e insieme esteriore col mondo credente costituisce un vincolo non impunemente frangibile; egli ha innalzato la categoria morale della Chiesa su un piedistallo unico; ha fatto dei valori ecclesiastici, dei valori assoluti. Anche gli gnostici, è vero, avevano riserbato un posto alla Chiesa nella tavola dei loro eoni: ma si trattava di nebulose concezioni cosmogoniche, prive di ogni collegamento con la vita e con la storia. Agostino sta con i piedi sulla terra e mentre l’unità politica del mondo romano si va disfacendo, egli trae gli auspici per una più vasta unità: l’unità cristiana.

A sei secoli di distanza dalla battaglia di Zama, l’Africa domata dava a Roma il più robusto assertore del suo primato spirituale nel mondo.

Share on Twitter Share on Facebook