L'arianesimo aveva scavato una profonda scissura fra l'Oriente e l'Occidente. L'Occidente cristiano in verità aveva stentato parecchio a comprendere i termini del problema trinitario e a fissare le sottili nozioni teologiche che potevano servire a formulare il mistero, in maniera saldamente aderente alle esigenze profonde, cosí della pietà come della riflessione cristiane. Si potrebbe anzi dire che l'Occidente vide soprattutto il lato politico della controversia, anziché il lato teoretico e dottrinale. I vescovi occidentali videro soprattutto l'ingerenza dell'autorità politica in materia religiosa e l'asservimento di tanta parte dell'episcopato orientale alla volontà del sovrano. La momentanea reazione pagana con Giuliano l'Apostata dovette apparire ai vescovi ortodossi dell'Occidente come una rappresaglia divina e una espiazione cruenta di questa condiscendenza passiva e infingarda del magistero religioso al potere politico. In Occidente era stata sempre viva ed apparve piú doverosa che mai la difesa della coscienza religiosa al cospetto degli inquinamenti e delle manomissioni dei governi terreni nel dominio della religiosità cristiana. Ad ogni modo l'unità imperiale ricostituita da Costanzo portò automaticamente l'episcopato occidentale ad una piú diretta e addestrata conoscenza dei problemi religiosi e teologali coinvolti nella polemica ariana. I vescovi occidentali esiliati da Costanzo in Oriente, piú eminente fra tutti Ilario di Poitiers, divennero ben presto maestri in fatto di teologia trinitaria. Ma quel che la loro coscienza religiosa avvertí di piú delicato ed essenziale nelle interminabili discussioni e nelle rinnovate formule di fede fu la necessità di stabilire chiaramente i rapporti fra la religiosità cristiana e l'autorità politica, fra la Chiesa, società di Dio, e l'Impero, società del mondo. Se l'Oriente cristiano, mercè soprattutto l'opera dei padri cappadoci Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, si adagiò in una dottrina trinitaria che rappresentò alla fine in pari tempo una chiarificazione terminologica e un accomodamento di posizioni antitetiche, in pratica si mescolò sempre piú alla vita politica imperiale orientale. L'Occidente non si contentò di adottare formule di fede che lasciassero intatta la misteriosità ineffabile della vita divina, ma si accinse soprattutto alla costituzione di una filosofia della storia e di una dottrina politica che mentre garantiva la originalità del fatto cristiano dal punto di vista sociale, in pari tempo creava un tipo nuovo di società, quella che sarà la società medioevale.
Ilario di Poitiers non è cosí soltanto un insigne rappresentante della ortodossia trinitaria, ma è anche, per questo stesso e con questo, il teorico mirabile dei rapporti instaurati dal cristianesimo tra politica e religione. Sul tramonto del 364 egli scriveva: «È veramente il caso di compassionare lacrimando la illusione del nostro tempo, secondo la quale ci si immagina che i valori umani e terreni possano comunque servire di patrocinio ai valori di Dio. È illusorio pensare che attraverso il successo del secolo possa avvantaggiarsi la causa della Chiesa di Cristo. O vescovi che ispirate la vostra condotta a criteri di questo genere, a quali mai favori politici fecero ricorso gli Apostoli nel predicare l'Evangelo? Andarono essi forse a mendicare dignità alle corti o non preferirono sciogliere nelle carceri, tra i flagelli e le catene, i loro inni a Dio? Procacciandosi il sostentamento con il duro lavoro delle mani, convocando le loro adunanze nel segreto delle clandestine dimore, non toccarono essi forse ogni gente e ogni terra, sfidando decisioni senatoriali ed editti sovrani, essi che sapevano di essere padroni delle chiavi del Regno dei cieli? Oggi invece i favori terreni servono di commendatizia alla fede divina e per il fatto stesso che si va cercando fasto al nome di Cristo, lo si presuppone sprovvisto di virtú propria. E la Chiesa che ebbe la sua consacrazione sotto la ferula delle persecuzioni è oggi invece alla mercè del grado sociale dei suoi associati. E si gloria e si pavoneggia di essere prediletta dal mondo, essa che per essere veramente di Cristo dovette accettare di essere dal mondo odiata. Bisogna pur dire che noi siamo giunti all'epoca dell'anticristo, se i suoi ministri camuffatisi in angeli di luce cercano di cancellare dalle coscienze la vera nozione di quel che il Cristo è. Si affannano infatti a sostenere che il loro Cristo non è della medesima divinità del Padre: che è bensí creatura superiore per eccellenza e potenza a tutte le altre, ma sempre ad ogni modo creatura tratta dal nulla. Alla quale tributano appellativi divini, quasi per poterli poi tributare impunemente ad ogni essere santo. Elargiscono a Cristo il nome di Dio, onde possano poi assegnarlo anche agli uomini. Ma il popolo non incappa negli equivoci dei suoi pastori. Ode definito Dio, il Cristo, e reputa che sia realmente quel che è appellato. Le orecchie della massa son piú sante che i cuori dei suoi pastori: i quali attribuiscono con le labbra al Cristo qualificativi divini, ma ne fanno in realtà svanire ogni contenuto».
La diagnosi del forte vescovo della Gallia cristiana era una diagnosi dura; e la rampogna che egli sollevava all'indirizzo dei vescovi orientali responsabili di tutte le acquiescenze e di tutte le dedizioni era una rampogna tagliente. Ma non solamente egli aveva il diritto di parlare come parlava per la dignitosa resistenza dimostrata di fronte al violento potere di Costanzo, ma tale diritto nasceva in lui dalla chiara visione della dialettica che deve reggere nella storia i rapporti fra potere politico e potere religioso, a norma del Vangelo.
La conversione di Costantino, con tutte le conseguenze che essa aveva generato, poneva il problema di tali rapporti allo scoperto, e la crisi ariana aveva posto il mondo occidentale di fronte al bivio: con Cesare o contro Cesare?
All'indomani di Rimini, secondo una frase memorabile di San Girolamo, il mondo aveva dovuto rompere in gemiti al suo improvviso ridestarsi ariano. Ma quale mole imponente di avvenimenti politici nel breve ciclo di anni che aveva veduto, dopo quel sinodo, la fine miseranda del piú accorto e del piú fortunato insieme figlio di Costantino; il passaggio rapido di quella eccentrica meteora che era stata il programma imperiale di Giuliano, l'effimera apparizione di Gioviano e infine la nuova divisione dell'Impero con Valentiniano!
Ma sarebbe stato fatuo e infantile pascersi di illusioni. L'arianesimo era ancora forte in agguato e la sua forza era legata a quel programma totalitario imperiale che la cosiddetta conversione di Costantino non aveva affatto distrutto in radice.
Ilario è il teorico della assoluta ed invulnerabile autonomia del potere ecclesiastico dell'episcopato, al cospetto dell'autorità politica. Ambrogio è l'uomo di governo che ai principi teorici dà concretezza ed applicazione vivente.
Quando all'indomani della morte di Costante nel 350 Costanzo si accinse ad attuare in pieno il programma della riconquista progressiva dell'Occidente, i suoi occhi si fissarono innanzi tutto su quelle sedi vescovili la efficienza morale delle quali appariva piú cospicua. Milano era tra le prime di queste. Il sinodo milanese del 355, organizzato sotto i suoi auspici, cacciava in esilio il vescovo ortodosso della città, Dionigi, e lo sostituiva con uno di quegli avventurieri che seguivano senza volontà e senza fede le fortune imperiali: Aussenzio. Ad un primo momento di reazione popolare subentrò un periodo di rassegnata apatia. Ma quando nel 374 Aussenzio moriva, la coscienza cristiana gelosa della sua inviolabile autonomia insorgeva e nei giorni burrascosi in cui la comunità cristiana milanese doveva provvedere alla successione, un improvviso intuito della folla fece comprendere che per amministrare veramente l'autorità vescovile occorreva portare nell'esercizio di quella mansione lo spirito di governo di quella vecchia Roma, che la creazione di Bisanzio designava a divenire amministratrice unicamente di carismi. Ed Ambrogio fu proclamato vescovo. Era il consolare della città: un funzionario trentaquattrenne, che in un anno appena di esercizio delle sue funzioni di governatore delle provincie della Liguria e dell'Emilia si era guadagnata sicura fama di uomo equanime e misurato e insieme fermo e risoluto.
Usciva da una famiglia in cui era tradizionale l'arte romana del governo e che in pari tempo annoverava commendevoli consuetudini cristiane.
Ambrogio dovette trasalire di stupore e di sgomento alla inattesa designazione. Ma c'erano una vocazione e una preparazione latenti in lui: la vocazione e la preparazione di quegli accorti e sagaci amministratori romani che la decapitazione politica di Roma faceva istintivamente gestori di una società di sacramenti e di mistero. Possedeva del resto tutte le attitudini per appropriarsi rapidamente quell'apologetica e quel pensiero del cristianesimo che erano indispensabili all'esercizio del governo episcopale.
Se Ambrogio, divenuto vescovo dopo essere stato consolare, è in certo modo il seppellitore ufficiale del paganesimo in Occidente, è in pari tempo il primo rappresentante completo delle nuove mansioni vescovili nella società imperiale ricoperta da Costantino con una etichetta cristiana.
Il suo piú strepitoso successo fu indubbiamente quello riportato contro il Senato romano, che invocava dall'imperatore il ripristinamento di uno dei simulacri piú venerati dal paganesimo ufficiale.
L'indirizzo filo-cristiano impresso da Graziano alla sua politica raggiungeva nel 382 la sua espressione piú marcata. In quell'anno un suo editto imperiale sopprimeva definitivamente l'ara della Vittoria nell'aula senatoriale, e incamerava i patrimoni immobili delle Vestali e degli altri corpi sacerdotali di Roma, destinandoli a costituire un fondo di riserva, di cui il prefetto del pretorio doveva usare per migliorare il servizio della posta imperiale. La vecchia statua d'arte ellenistica, trasportata da Taranto a Roma dopo la conquista di quella insubordinata città, e innalzata da Augusto, dopo la vittoria di Azio, nella Curia senatoriale, presiedeva da quattro secoli alle piú solenni decisioni del supremo corpo legislativo romano. Il contraccolpo delle vicissitudini politiche e religiose attraversate dall'Impero nell'agitato periodo post-costantiniano s'era fatto sentire anche nell'aula senatoriale. La statua era stata già allontanata una volta all'epoca di Costanzo; era stata poi ripristinata da Giuliano. Valentiniano primo l'aveva passivamente tollerata. Ora era definitivamente e solennemente rimossa dal suo posto d'onore e con essa sembrava che dovessero dileguarsi per sempre le persistenti speranze e le tenaci velleità del paganesimo morituro.
Il Senato, per bocca di Simmaco, cercò di rivendicare il suo venerando simulacro, in nome delle tradizioni di Roma, delle glorie passate dell'Urbe, che erano accampate come indissolubilmente legate alle fortune del paganesimo. La parola di Ambrogio è la celebrazione della rinascita continua e del progresso. «Il progresso – proclama Ambrogio – è la legge dell'universo. Il mondo fisico stesso, che fu agli inizi un caotico conglomerato di germi in fermento, orrendo nelle caligini del suo incompiuto sviluppo, acquistò adagio adagio, nella delimitata distinzione e cernita degli elementi, le forme concrete che costituiscono la sua meravigliosa bellezza. La terra, libratasi al di sopra delle opache tenebre, trasalì di stupore alla contemplazione del sole. Nulla al mondo è perfetto fin dagli inizi. Chi oserebbe mai sostenere che l'universa natura si sarebbe dovuta arrestare alle origini? E allora, non è forse còmpito infinitamente piú nobile respingere e oltrepassare le tenebre pesanti dell'anima? Non è forse infinitamente piú inebriante della luce del sole, il fulgore della fede? Quegli che vuole contrastare il passo a piú alte forme di vita spirituale dovrà cominciare con l'arrestare lo sviluppo delle messi, che tardi biondeggiano, della vendemmia, che matura al declinare dell'anno, dell'ulivo, che per ultimo dà frutto. La fede è la messe delle anime. I meriti della Chiesa costituiscono la nostra opima vendemmia, che se fu alle origini circoscritta all'àmbito esiguo dei Santi, oggi si è moltiplicata nei popoli».
In Ambrogio è la coscienza della giovinezza cristiana che parla. Una nuova società si viene formando sulle basi dei principi cristiani. La vecchia organizzazione pagana non ha piú ragione di sussistere. La vita non vi circola piú per entro. Intransigente di fronte alle rivendicazioni del petulante paganesimo, che stenta a morire, Ambrogio è altrettanto intransigente di fronte alla penetrazione ariana in Occidente. Ma anche qui si direbbe che quel che sta soprattutto a cuore al vescovo Ambrogio è l'incolumità autonoma del potere religioso, piú che la sostanza della disquisizione teologale. Il vescovo si costituisce ormai mentore, guida e maestro dei poteri politici e la Chiesa con lui assume solennemente nel mondo la funzione di tutelatrice incorrotta e vigile della spiritualità e della giustizia.
Ne fece bene l'esperienza Teodosio quel giorno che il vescovo Ambrogio gli impedí idealmente l'ingresso nel tempio sol perché si era lasciato andare ad una iraconda e mostruosa manifestazione di potere.
Dovevano essere i primi giorni della primavera del 390. Teodosio si era momentaneamente allontanato da Milano. Un cupo senso di trepidazione e di angoscia serpeggiava per la città. Non erano molte settimane che a Tessalonica, in séguito ad una di quelle improvvise esaltazioni della folla, destate dalla passione per il circo, per i suoi spettacoli e per i suoi eroi, era scoppiata una furente sommossa, nella quale erano periti insieme col governatore della città Boterico alcuni alti funzionari. E si sapeva che la notizia giunta a Milano aveva gettato l'imperatore in un'ira forsennata. La rappresaglia di Teodosio fu feroce. Per volontà sua la popolazione di Tessalonica fu trascinata in un cinico e barbaro agguato. Mentre s'era assiepata per assistere ad un eccezionale spettacolo, nuclei di soldati, con la spada sguainata, si erano gettati nel recinto del Circo, e mentre un panico folle si impadroniva della massa, si erano dati ferocemente a sgozzare gli inermi. Tre ore di inaudito carnaio. Ambrogio ne fu ferito nell'anima. Si allontanò dalla città nel momento in cui l'imperatore stava per entrarvi e da lungi gli spiccò il suo messaggio. «Se io Ambrogio – egli diceva – all'indomani di cosí atroce strage avessi consentito a mantenerti nella mia comunione religiosa, questo non avrebbe voluto dire in nessuna maniera che tu avevi ricevuto l'assoluzione per il tuo reato?... No, no: alla tua presenza io non vorrei piú offrire il santo sacrificio! Sarebbe mai lecito celebrarlo, dopo l'uccisione di tanti innocenti, dal momento che è vietato il farlo alla presenza di un reo di un solo omicidio? Il cielo sembra aver dato già conferma a questa mia decisione. Nella incertezza della notte che precedette la mia partenza, sognai che tu venivi in chiesa, ma che a me non era possibile celebrare i misteri. Non vi potrai piú dunque partecipare, finché la tua ablazione non sarà tale da poter essere nuovamente accetta a Dio».
Il vescovo poneva le sue condizioni al sovrano. Il potere imperiale, che Costantino aveva bandito cristiano, sentiva per la prima volta che il Vangelo non era un facile strumento di imperio, era piuttosto un tremendo e ineliminabile giogo spirituale.
Ma questa celebrazione della superiorità del magistero religioso di fronte ai poteri empirici e ai governi terreni doveva abbinarsi logicamente in Ambrogio ad una insigne celebrazione della organizzazione ascetica e ad una profonda consapevolezza degli oneri sociali della proprietà e del privilegio. Dopo San Girolamo, Sant'Ambrogio è lo scrittore latino cristiano del quarto secolo cadente che ha tessuto l'apologia piú aperta e piú insistente dello stato verginale. E in pari tempo egli è uno degli scrittori ecclesiastici antichi che ha formulato intorno al problema della proprietà e della ripartizione delle ricchezze le opinioni piú audaci. In uno dei suoi piú eloquenti sermoni, quello ispirato dalla biblica figura del povero Naboth, angariato da un re avido e rapace, Achab, Ambrogio lancia coraggiosamente, contro ogni manifestazione di lusso, il suo aspro rimbrotto: «Per tutti è stato creato, o ricchi, questo universo che a dispetto del vostro esiguo numero vi ostinate a rivendicare per voi. Ecco: voi vi costruite delle dimore fastose e lasciate nudi degli esseri umani. Spoglio di ogni indumento, il miserabile grida nella via e voi invece non avete in cuore altra preoccupazione che quella di sapere quali marmi adoprerete per i vostri mosaici. Il pezzente vi chiede di che sfamarsi: e il vostro cavallo ha in bocca un morso d'oro. Tutto un popolo geme nella sofferenza e voi fate balenare i vostri gioielli. Disgraziati che siete! Una pietra preziosa dei vostri anelli potrebbe alleviare tante miserie e voi non ve ne accorgete!».
Si comprende come intorno ad un vescovo cosí ardimentosamente schierato col popolo e per il popolo, la massa degli indigenti e dei diseredati si stringesse pronta ad ogni difesa. E questo spettacolo di fedeltà, dato da tutto un popolo al suo pastore spirituale, doveva un giorno far trasalire di sorpresa un maestro di retorica, capitato a Milano dalla sua Africa lontana: Aurelio Agostino.
Sta di fatto che nelle memorie autobiografiche di Agostino, Ambrogio occupa una posizione preminente, mentre il vescovo di Roma, Damaso, di cui Agostino deve aver sentito certamente parlare nel suo anno di permanenza romana, quel vescovo Damaso la cui vita fastosa e pomposa stimolava la vena sarcastica di Vezio Agorio Pretestato, non vi figura affatto. Ambrogio ed Agostino non sono collegati nella storia cristiana del IV secolo declinante, solamente per il fatto che Agostino ha subìto il fascino del vescovo milanese nell'ora del suo fecondo trapasso spirituale, ma soprattutto per il fatto che hanno contribuito in pari misura, l'uno praticamente l'altro soprattutto teoricamente, alla costituzione della politica e della sociologia cristiane. Senza dubbio sono due temperamenti profondamente difformi l'uno dall'altro, e l'ambiente rispettivo dei due è ambiente che rispecchia esigenze e aspirazioni non coincidenti. Ma in quel vasto processo di elaborazione concettuale e disciplinare che s'impose alla Cristianità all'indomani della trasformazione imperiale operata da Costantino, c'è nell'azione dell'uno e dell'altro qualcosa di complementare, per cui veramente le due figure possono legittimamente essere associate da chi cerchi di cogliere la genesi di quella che sarà la funzione ecclesiastica nella società ambivalente del Medioevo.
Sant'Agostino è in realtà una strepitosa dimostrazione storica della paradossale forma in cui il principio evangelico domina e regge la storia. È uomo ricco fino allo scandalo di contraddizioni e di contrasti. Nato ed educato da una madre cristiana piissima, si entusiasma per la filosofia alla lettura dell'Ortensio. Crede di scoprire un sistema razionale nella meno razionale interpretazione del mondo, il sistema cioè manicheo, ed apprende soltanto a Milano, dal neoplatonismo, una concezione spirituale di Dio, che egli scambia per cristianesimo. Riceve il battesimo quando la sua esperienza è semplicemente neoplatonica e si converte di fatto al cristianesimo quando, circa un quindicennio piú tardi, riafferra, sotto l'influsso di Paolo e del suo piú fedele interprete del IV secolo, l'Ambrosiastro, una esperienza religiosa dualistica, perché il cristianesimo genuino è nel suo midollo tremendamente dualista e il cristianesimo storico, come grande fatto sociale, morirà il giorno in cui, poco piú di dieci secoli piú tardi, la rinascita umanistica fiorentina crederà di poter interpretare il cristianesimo alla luce dell'Agostino neoplatonico, anziché a quella dell'Agostino manicheiggiante della polemica antipelagiana.
La grande efficienza storica di Sant'Agostino è nata appunto dalla intrinseca contraddittorietà delle sue posizioni spirituali e dall'abissale profondità della sua sensazione dualistica del mondo. Di piú, Sant'Agostino non è come San Tommaso il teologo da tavolino che con tenace calma elabora il suo sistema, lo cesella finemente in ogni sua parte. Al suo tempo il pensiero normativa acconcio ai bisogni spirituali della massa credente non poteva essere freddamente distillato attraverso la riflessione razionale. Doveva piuttosto sprizzare dal cimento e dai contrasti della realtà vissuta e Agostino è eminentemente uomo di azione e di polemica. La sua teologia è la traduzione astratta della sua quotidiana opera cristiana, come la sua illuminata e solerte pratica di vescovo è pura filosofia religiosa in atto. È questa interdipendenza tra la vita vissuta e il pensiero astratto che dà a tutta l'opera di Agostino una risonanza cosí patetica e una virtú pedagogica cosí vasta. Egli stesso non scorge chiaramente gli elementi della sua progressiva formazione spirituale e non sa delimitarne i caratteri. C'è cosa piú difforme dalla realtà e piú antistorica che aver creduto di seguire un'interpretazione razionale del mondo, accettando, come Agostino aveva fatto nella sua prima giovinezza, il sistema manicheo?
Singolare sistema invero quello che il persiano Mani aveva annunciato e formulato nei suoi scritti, nella seconda metà del III secolo! Tutte le vecchie correnti della mitologia astrale babilonese erano in esso confluite a rivestire il vecchio dualismo mazdeo con copioso accompagnamento di assimilazioni di dottrine giudaiche e cristiane. Epifanio di Salamina lo definiva, nel medesimo torno di tempo in cui Agostino ne faceva il suo alimento spirituale, «l'eresia dalle mille teste». Non era in realtà un'eresia: era una ripresa integrale di una vecchia drammatica visione del mondo, che già aveva offerto alla religiosità del giudaismo post-esiliaco e alla Cristianità primitiva i suoi non dissimulati coefficienti e non aveva che un caposaldo centrale, la sensazione della sofferenza permanente di Dio, nel dramma e nella sofferenza del mondo. Il successo del manicheismo era stato grandioso. Da meno di un ventennio il profeta Mani era stato crocifisso e la pelle del suo corpo imbottita di paglia era stata appesa a pubblico ammonimento alla porta di Gundesapur e già la sua dottrina aveva trasvolato in Siria, in Egitto, in Asia Minore, perfino nell'Africa proconsolare. Verso il 293 infatti Diocleziano dirigeva da Alessandria una costituzione con la quale prescriveva la soppressione della setta, che insidiava con le sue dottrine della non resistenza al male e con la sua visione pessimistica dell'umana generazione, le basi stesse della società. La persecuzione inscenata cosí su grande scala non riusciva ad arrestare la propaganda manichea. Per tutto il secolo IV il manicheismo s'insinua nella società cristiana, sicché riesce a volte difficile vedere in quale misura manicheismo e cristianesimo s'incontrano o divergono. Quello che noi possiamo ad ogni modo dire è che il manicheismo non ha nulla di un sistema razionale volto all'interpretazione del mondo. Se nell'antichità, come è stato detto, Platone e Zarathustra rappresentano i due punti focali della ellissi, su cui si svolge la concezione del mondo, nell'età cristiana i due punti focali della medesima ellissi sono Aristotele e Mani. Da una parte la visione orizzontale del mondo, disciplinata dal concetto di causa e di movimento: dall'altra una visione verticale, in cui il processo dell'esistenza è una permanente lotta di morte e di vita, in vista del trionfo finale della giustizia e del bene.
Il sistema manicheo non si esprime in termini di concezione meccanicistica e causale del mondo: è un poema che fa ricorso all'immaginazione e ai fantasmi per raffigurare il dramma permanente dell'esistenza.
Mani insegnava che ben prima che l'universo sensibile avesse origine e fosse stato portato all'esistenza, sussistevano due principi supremi, l'uno buono, l'altro perverso. La dimora del principio buono, che era il Padre della Grandezza, era nella regione della Luce. Questo Padre si moltiplica in cinque ipostasi: l'intelligenza, la ragione, il pensiero, la riflessione, la volontà.
Queste cinque ipostasi sono una trasformazione concettualizzata delle ipostasi in cui nel sistema di Zarathustra si rifrangeva la personalità santa di Ahura Mazda.
Al polo opposto, la dimora sovrana delle tenebre è nella terra oscura. Anche il Sovrano delle tenebre ha le sue ipostasi (equivalenti alle ipostasi di Angramainyu), e sono: il fumo, il fuoco, il vento, l'acqua, l'abisso. Il Sovrano delle tenebre fu stimolato a cercare e a conquistare la terra lucente. E le cinque ipostasi celestiali ebbero un tremore alla imminenza dell'assalto. Il Padre della Grandezza pensò: – Delle mie cinque ipostasi fatte unicamente per la gioia e per la pace nessuna io manderò alla guerra! Io stesso dovrò affrontare il mio avversario. – E suscitò allora la Madre della Vita, e questa a sua volta suscitò l'Uomo primordiale. Il quale si coprí da prima con la brezza mattutina. Si avvolse di luce come in un mantello scintillante. Gettò sulla luce la fluidità delle acque. Impugnò il fuoco come una lancia e si precipitò dall'alto della regione luminosa alla difesa della sua minacciata frontiera. Lo precedeva un angelo, recante nella destra la corona della vittoria. L'Uomo primordiale proiettava dinanzi a sé la sua luce sfolgorante. Scorgendola, il Sovrano delle tenebre pensò: – Ecco: quel che io andavo cercando lontano, lo troverò presso di me! – Anch'egli si armò dei suoi cinque elementi e affrontò audacemente l'Uomo primordiale. Questi fu per essere sopraffatto. E allora, simile a chi volendo sopprimere un nemico gli dona un dolce avvelenato, pensò di darsi, con i suoi cinque figli, in pasto al vincitore. Ma le conseguenze furono tragiche. Quando i figli delle tenebre ne ebbero assaporato, i cinque dèi luminosi che avevano combattuto con l'Uomo primordiale smarrirono l'intelligenza. L'Uomo primordiale però recuperò ben presto la ragione. E allora, per sette volte innalzò una accorata preghiera al Padre della Grandezza. Il quale, mosso a pietà, suscitò lo Spirito Vivente. Questi vola ad affrancare quegli ch'era rimasto prigioniero delle tenebre. Lo chiama a nome, lo trae con la destra fuori della sua prigione, e si accinge poi a riscattare tutti gli elementi di luce che la vittoria del Sovrano delle tenebre aveva miseramente trascinato nell'abisso. A tal fine lo Spirito Vivente comanda a tre dei suoi figli che l'uno uccida, l'altro scuoi gli arconti figli delle tenebre, il terzo li conduca alla Madre della Vita. La Madre della Vita distende allora il firmamento con le loro pelli e ne fa dodici cieli. Le loro carcasse poi sono gettate sulla dimora delle tenebre. E ne nascono otto terre. Non era cosí esaurita la quantità di luce che gli arconti figli delle tenebre tenevano ancora avvinta. Manifestando loro le sue forme raggianti, lo Spirito Vivente li costringe a restituirne una nuova porzione, per formarne due vascelli luminosi, il sole e la luna, destinati a traghettare la luce adagio adagio affrancata dai vincoli del Sovrano tenebroso, e tutte le stelle. Dopo ciò un terzo essere redentore, il Messaggero, imprime a tutta la macchina cosmica cosí formata il suo ritmico movimento. L'automatico processo di purificazione della luce, rimasta ancora prigioniera dei figli delle tenebre, ha principio.
Ma quando il Sovrano delle tenebre vide l'immenso piano concepito ed attuato per strappargli gli elementi di luce che la vittoria sull'Uomo primordiale e i cinque suoi elementi gli aveva procacciato, concepí profondi sentimenti di irritazione e di gelosia. Questi gli suggerirono di foggiare i corpi umani e i sessi, onde imitare i due grandi vascelli luminosi, il sole e la luna, affinché come il sole e la luna nel processo di reintegrazione cosmica in cui è tutta la ragione dell'universo servono al trasporto della luce affrancata verso la sua primitiva sede, cosí i corpi umani, vascelli di oscurità, servissero a tenere indefinitamente prigioniera la luce catturata e a farla trasmigrare senza posa attraverso il ciclo del male e del dolore. Come quando un gioielliere, ritraendo la forma di un elefante bianco, la incide su di un cammeo, cosí il Sovrano delle tenebre ricapitolò nell'organismo umano le fattezze del cosmo. Imprigionò l'etere puro nella città delle ossa, suscitando il pensiero oscuro e piantandovi un albero di morte. Imprigionò poi il vento mirabile nella città dei nervi, suscitando il sentimento oscuro e piantandovi un albero di morte. Imprigionò la luce nella città delle vene, suscitando la riflessione oscura e piantandovi un albero di morte. Imprigionò l'acqua casta nella città della carne, suscitando l'intelligenza oscura e piantandovi un albero di morte. Imprigionò il fuoco celeste nella città della pelle, suscitando il ragionamento oscuro e piantandovi un albero di morte. I cinque alberi mortiferi piantati dal Sovrano delle tenebre, si espandono nel misero organismo dell'uomo. L'albero del pensiero oscuro freme dentro la città delle vene. Il suo frutto è l'odio. L'albero del sentimento oscuro spinge dentro la città dei nervi. Il suo frutto è l'iracondia. L'albero della riflessione oscura stimola dentro la città delle vene. Il suo frutto è la lussuria. L'albero dell'intelletto oscuro cresce nella città della carne. Il suo frutto è la collera. L'albero del ragionamento oscuro sospinge la città della pelle. Il suo frutto è la fatuità.
L'uomo è cosí come chiuso in un cesto, tessuto di serpenti i quali, con la testa rivolta verso di lui, emettono il loro alito velenoso. Per questo la Madre della Vita, l'Uomo primordiale, lo Spirito Vivente, il Messaggero, vollero, continuando la loro opera misericordiosa, invocare per lui un nuovo salvatore. E questo fu Gesù. Gesù il luminoso e il paziente, destò l'inconsapevole Adamo e gli rivelò il lungo martirio della luce del mondo, esposta agli artigli delle belve e ai denti dei ghiottoni, mescolata a quanto esiste, chiusa nel lezzo delle tenebre. Illuminato dalla grande rivelazione Adamo si guarda intorno e scoppia in singhiozzi. Leva come belva ruggente la sua voce e strappandosi i capelli grida: maledizione a colui che ha formato il mio corpo, che ha cosí fatta schiava la mia anima di luce, maledizione agli arconti delle tenebre che l'hanno trascinata in ceppi.
Questa per sommi capi la fantastica e lussureggiante mitologia manichea. Il predicatore che l'aveva annunciata era soprattutto un immaginifico e un poeta. Ragionando per fantasmi, anziché per concetti, Mani, non diversamente dal suo lontano progenitore Zarathustra, scorgeva nel mondo il mistero di una lotta permanente fra due principi nettamente antitetici. Il mondo non è la manifestazione di un Dio buono e il bene e il male non hanno avuto principio con la creazione. I due termini contrastanti preesistono all'universo sensibile, anzi l'universo sensibile è soltanto la conseguenza di una lotta primordiale fra bene e male, in cui il bene è stato vinto, sopraffatto e assorbito dal male. Il mondo e l'uomo sono lo scenario di una lotta che si perpetua e si perpetuerà fino al giorno in cui tutti gli elementi di bene sepolti nelle viscere del principio del male, e affidati da questi alla secolare trasmigrazione delle generazioni, saranno riportati alla loro sede e alla loro fonte primigenie.
Un parallelismo minuto esiste fra il macrocosmo visibile e il microcosmo che è l'uomo. Del mondo non si può avere che una visione drammaticamente pessimistica e l'ascesi è l'unica consegna dei soldati del bene. Poiché l'esistenza mondiale non è altro che la continuazione drammatica di una lotta fra la luce e le tenebre, iniziatasi prima della origine delle cose, con un insuccesso del principio buono, e poiché tutte le manifestazioni fisiche della vita cosmica sono episodi di un processo di purificazione cui sottostà con lentezza fatale il contingente di luce che il Sovrano delle tenebre tiene tuttora prigioniero nella sua materia, il valore della vita umana può nascere unicamente dallo sforzo paziente che sia sostenuto per facilitare la evasione della luce e per rompere i ceppi della sua prigionia.
L'uomo pio farà di tutto quindi per rispettare la luce che geme e soffre in ogni essere vivo. Si studierà di adottare ogni mezzo capace di agevolarne il riscatto, onde sventare cosí l'opera del Sovrano tenebroso, che cerca ininterrottamente di perpetuarne la schiavitú. L'asceta, l'eletto, è in maniera particolare simile ad un filtro della luce. La sua vita dedita alla purità e alla propaganda della vera dottrina lo rende strumento di reintegrazione degli elementi luminosi che vengono a contatto con lui.
Come tutti i grandi sistemi religiosi, anche il manicheismo, come già altra volta la predicazione di Zarathustra, staccandosi dal suo ceppo iranico, e trasmigrando nel mondo, cercò di adattarsi, con fenomeno naturale di mimetismo etico ed intellettuale, ai sistemi predominanti nei luoghi dove venne di volta in volta a tentare la sua propaganda. E come nell'Estremo Oriente assorbí evidenti elementi buddistici, in Occidente ampliò ancor piú i suoi elementi cristiani.
Questo sistema grandioso, scambiato per una spiegazione razionale dell'universo mentre non era che una visione mitica del contrasto fra bene e male nel mondo, soggiogò per un periodo non breve di anni la fantasia e il cuore di Agostino. Fu il neo-platonismo a trarlo fuori da questa concezione fantastica e immaginifica dell'universo e nel primo fervore della sua reazione, uscito appena dal bagno battesimale di Milano, Agostino scaglia contro il manicheismo la sua polemica infuocata.
Cerca di mostrare cosí l'assurdità insanabile di ogni dottrina dualistica. Si sforza di porre in luce l'essenza spirituale di Dio, natura purissima, incapace di qualsiasi mescolanza e di una qualsiasi fusione con elementi inferiori. Insiste sul valore negativo del male. Difende con fervore di neofita il libero arbitrio dell'uomo. Celebra i meriti della comunità cristiana, che offre alle masse un insieme di credenze religiose, salde, coerenti, proporzionate alle esigenze dello spirito e appropriate alla sua pedagogia.
In questo primo fervore di polemiche antimanichee la celebrazione della libertà umana, la tesi della non esistenza del male, concepito invece come una pura negazione o una parziale partecipazione di bene, appaiono in Agostino nette e precise. Ma non fu sempre cosí. Nella polemica contro il monaco scoto Pelagio, che vedeva stoicamente nell'uomo la capacità di operare il bene per virtú propria e nella redenzione un semplice esempio anziché un riscatto, il vecchio fondo pessimistico, che il manicheismo aveva deposto nell'anima di Agostino, riaffiorò impetuosamente e determinò quella dottrina della grazia destinata a rimanere normativa nella tradizione del cristianesimo fino all'epoca della scolastica.
Noi possiamo cogliere nettamente il momento di transizione tra l'Agostino anti-manicheo e l'Agostino neo-manicheo. È fra il 396 e il 397 che il pensiero antropologico di Sant'Agostino ha subìto un passaggio brusco e una metamorfosi radicale: il neo-platonico ridiventa manicheo e questa volta il suo neo-manicheismo sarà incorporato in una visione grandiosa del dramma individuale e collettivo, che è nella spiritualità del singolo, come nella spiritualità della vita associata.
Noi lasciamo nel 394 il Sant'Agostino del De libero arbitrio che immagina gli organismi di Adamo e di Eva nel paradiso terrestre come sostanze eteree, trasformate dalla disobbedienza fatale in corpi carnali; che enumera quali conseguenze della colpa, la mortalità, l'ignoranza, il rivestimento corporeo; che dichiara l'uomo divenuto per quella colpa soggetto alla carne; che non attribuisce al sistema traducianista alcuna prevalenza sulle altre teorie circa l'origine dell'anima. Ed ecco che dopo quella data, in séguito allo studio profondo di San Paolo e del suo commentatore, l'Ambrosiastro, Agostino pencola decisamente verso un desolato pessimismo circa l'umana natura e i suoi poteri etici. Da quel momento tutta l'umanità appare ad Agostino come conglutinata in Adamo e quindi peccatrice e condannata in lui (massa damnata). Da quel momento il peccato d'origine è descritto da Agostino come una infezione mortifera, che si propaga inesorabile di padre in figlio. Gli uomini, per Agostino, da quel momento in poi, costituiscono una collettività indistinta di dannati, i quali nulla possono, a rigore, meritare da Dio e ai quali è solamente concesso sperare possibilità di perdono e di riscatto dalla benevola grazia del Padre e dal decreto infallibile della sua predestinazione. La polemica con Pelagio offrí ad Agostino il destro di spiegare e di enucleare in tutte le sue possibili ripercussioni questa visione pessimistica della vita, che egli non applica soltanto alla vita dell'individuo bensí anche alla collettività storica. Che cos'è mai il De Civitate Dei se non l'applicazione alla storia del dualismo manicheo?
Il 24 agosto del 410 i Goti ariani di Alarico entravano dalla Salaria nell'Urbe e si abbandonavano ad un saccheggio rimasto tristemente scolpito nelle memorie di Roma. Il tragico evento destò un senso di raccapriccio e di sbigottimento dovunque. Nel suo ritiro di Betlem, il vecchio Girolamo, il cui animo sanguinava ancora per la morte recente della sua fedele Paola, risentí piú amaramente il contraccolpo della immane sciagura, perché la nuova gliene giunse insieme a quella della morte di Marcella, abbattuta dagli affronti subìti insieme alla figliola. «Ed ecco improvvisamente apprendo la scomparsa di Pammachio e di Marcella, la cattura della romana città, l'addormentarsi eterno di molti fratelli e sorelle. Caddi nel piú costernato stupore. Giorno e notte mi ha assediato il pensiero degli amici lontani. Ora che è stata violentemente spenta la piú fulgida luce dell'universo; ora che è stato troncato il capo stesso dell'Impero; ora che con la caduta di una città tutto il mondo civile è precipitato nella rovina tacqui e mi prostrai nella polvere. Mi sovvenne l'adagio: nel lutto, la musica è la piú inopportuna delle cicalate».
Numerose famiglie nobili romane non avevano atteso che l'uragano scoppiasse vicino per prendere il largo. E poiché molte fra esse possedevano vasti tenimenti terrieri nell'Africa proconsolare, fu sulle sponde meridionali del Mediterraneo che ripararono in gran copia a spandere le loro recriminazioni di profughi esasperati. I pagani erano ancora in notevole quantità fra essi, e poiché i rovesci piú terrificanti si erano abbattuti sulla vecchia capitale dell'Impero d'Occidente proprio mentre gli imperatori facevano aperta pompa della loro fede cristiana, questi pagani non mancarono di riprendere e portare in giro i vecchi motivi già invocati da Simmaco sulla impossibilità di scindere la grandezza di Roma dal mantenimento del paganesimo. Agostino dovette sentirsi infastidito da questo vano piagnucolio di profughi disturbati nelle loro consuetudini, che attribuivano al cristianesimo la responsabilità delle romane sciagure.
Il momento era eccezionalmente propizio ad un'opera la quale cercasse di individuare alla luce del Vangelo i coefficienti che regolano lo sviluppo dei popoli e i valori assoluti sulla base dei quali può apprezzarsi la loro vita. Il rivolgimento spirituale iniziato da un secolo preciso con l'editto costantiniano, aveva ormai raggiunto il vertice della sua maturità, e il disastro politico in cui era piombato il grande organismo statale di Roma imponeva bene a un cristiano, che ne avesse avuto la possa, l'obbligo di tracciare i principi di una nuova filosofia sociale la quale insegnasse a valutare senza scoraggiamento gli eventi e a trarne gli auspici per l'avvenire. Fra il 412 e il 426 Agostino scrisse cosí i suoi ventidue libri del De Civitate Dei.
L'hanno definito «il Vangelo della Chiesa nel suo apostolato civile». E tale è stato difatti. Il Medio Evo è vissuto tutto, teoricamente e praticamente, delle idee che vengono lanciate ed elaborate in questo libro. E pure com'è strana, fragile, si direbbe precaria, contraddittoria la sua struttura! O che forse perché le idee siano efficienti e salutari debbono essere intrinsecamente e insanabilmente contraddittorie? Lo si direbbe.
Le contraddizioni del De Civitate Dei si possono cogliere a iosa. Eccone una, ad esempio, sorprendente. Agostino aveva appena in uno degli ultimi capitoli del libro XVIII prospettato di volo la dialettica squisitamente pacifica che regge lo sviluppo della Chiesa, in modo da consentirle perfino il riassorbimento provvidenziale degli errori e delle eresie, ed ecco che subito dopo egli dichiara illusoria qualsiasi ricerca della pace nel mondo.
Altra volta, agli inizi della sua attività di scrittore cristiano, e poi nello spiegamento del suo ministero sacerdotale, egli aveva fatto suo e celebrato l'ideale pacifista di Varrone. Ora, accingendosi a dettare il libro XIX di quella che è la sua filosofia della storia, discutendo per lungo e per largo i concetti di pax e di ordo nel ricordare quelle vecchie celebrazioni idilliache, doveva provare un senso di fastidio e di pena. Il suo ottimismo se ne è andato. La polemica antipelagiana ha condotto il vescovo di Ippona a dare un risalto rude e incisivo alle posizioni pessimistiche della sua antropologia. L'ideale dell'atarassia è scomparso per sempre dal suo orizzonte. Il suo verdetto definitivo è un desolato riconoscimento della impotenza e della miseria dell'uomo. «Il primo malanno che affligge la collettività umana è l'allontanamento dell'uomo dall'uomo, a causa della diversità delle lingue. Se due individui parlanti due lingue diverse si incontrino per via, e siano costretti da qualche bisogno a trattenersi insieme, essi, uomini, riusciranno a familiarizzarsi meno ancora di due animali muti, anche se questi appartengono a specie diverse. È talmente inutile la affinità di natura a federare vicendevolmente gli uomini tra i quali la comunicazione dei sentimenti sia resa impossibile dalla diversità delle lingue, che un uomo, in tal caso, preferisce stare col proprio cane, anziché con chi parli una lingua diversa. Per cui Roma, la città sovrana, non solamente il giogo, ma anche la propria lingua volle imporre alle popolazioni domate. Ma quanta effusione di sangue fu necessaria per raggiungere l'intento! E alla fine, non si chiuse con questo la serie dei malanni. Pur non essendo mai mancate e non mancando mai le ostilità con le nazioni straniere, contro cui furono sempre, e sono condotte tuttora guerre, la stessa vastità dell'Impero generò con la sua mastodontica costituzione guerre ancora peggiori, guerre sociali e civili. Ma a giustificare la guerra si dirà che il sapiente accetterà di essere impegnato solamente in guerre giuste. Quasi che il sapiente, se sarà capace di ricordarsi di essere uomo, non dovesse precisamente dolersi del fatto che possano esistere guerre giuste. Perché se non fossero giuste, il sapiente non le ingaggerebbe e quindi non ne ingaggerebbe mai nessuna. Poiché se la iniquità della parte avversa provoca guerre che il sapiente deve combattere, una tale iniquità, essendo iniquità umana, dovrebbe essere compianta da ogni uomo, prima che debba essere considerata come l'eventuale giustificazione della guerra. Sicché, chiunque si faccia a considerare nelle lacrime questa squallida e orrenda e feroce eredità di secoli cruenti, non può non riconoscere e non confessare la condizione di inaudita miseria in cui versa la massa dannata degli uomini. E se vi è al mondo chi sia capace di riguardarla e di subirla senza sentirsi stringere l'anima di commiserazione e di pena, costui potrà pur vantarsi di avere raggiunto l'atarassia, ma a prezzo di una spaventosa mutilazione, la mutilazione del senso umano».
Il pessimismo antropologico che Agostino aveva profuso a piene mani nelle opere anti-pelagiane, il De natura et gratia e il De perfectione iustitiae hominis, ricompare sempre piú dominante nel De Civitate Dei, man mano che Agostino passa dalla parte strettamente apologetico-politica del suo lavoro, dedicata ai piagnucolosi che iscrivevano a carico del cristianesimo il sacco di Roma del 410, a quella piú largamente umana e sociale. Ma questo pessimismo si direbbe che al cospetto della rovina politica dell'Impero si reintegra e si sublima in una visione del destino provvidenzialmente grandioso degli elementi di bene che soffrono e agonizzano nel mondo. Il pessimismo del De Civitate Dei è attenuato e rotto da improvvise dichiarazioni di fiducia nelle possibilità etiche dello spirito umano, quasi cooperatore ed espressione del divino operante nel mondo. Proprio nell'anno stesso in cui dettava il suo Enchiridion, nel 420 cioè, quell'Enchiridion in cui non voleva riconoscere all'uomo altra libertà che quella di scegliersi il suo servaggio, Agostino enunciava nel De Civitate Dei definizioni del senso morale umano e delle sue possibilità che sembrano arieggiare da presso le nozioni della dignità umana e della nobiltà dell'arbitrio, che noi troviamo nella lettera di Pelagio a Demetriade.
Non son queste le sole contraddizioni del De Civitate Dei. Di ben piú appariscenti ve ne troviamo, sul terreno della morale strettamente individuale e in special modo della morale sessuale.
Cosí, ad esempio, nel libro XIV, Agostino sostiene che nell'attuale conformazione dell'organismo fisico e della natura psichica dell'uomo, qual è uscita dalla colpa d'origine, la libido è retaggio immancabile della trasmissione della vita. E poi, nel libro XVI, a proposito del connubio di Abramo con Agar dice invece, con adorabile ingenuità, che in quel caso «non ci fu alcuna cupidigia lasciva e nessuna disdicevole malizia»!
È vero che a giustificazione di questa benevola esegesi potrebbe soccorrere un'altra teoria di straordinaria importanza, che il medesimo Agostino formulava all'incirca nello stesso torno di tempo nell'opera antipelagiana De nuptiis et concupiscentia. Si tratta di una singolare teoria demografica, che si ricollega a tutta la visione agostiniana della vita e a tutta la precettistica ascetica del cristianesimo del tempo. «La propagazione dei figli, convenientissima al tempo dei santi padri del Vecchio Testamento, onde propagare e conservare quel popolo di Dio, attraverso il quale doveva trasmettersi la profezia del Cristo, non riveste oggi il medesimo carattere di necessità. Si offre già infatti dalla universalità delle genti l'abbondanza dei figli spiritualmente rigenerandi, qualunque sia la loro nascita carnale. E quel che è scritto: – C'è il tempo per la generazione e c'è il tempo per la continenza – vale proprio per queste due età storiche. La prima, quella del Vecchio Testamento, fu l'epoca del connubio. Questa, l'epoca del Nuovo Testamento, è invece l'epoca della continenza». Ma temiamo molto che un diversivo di questo genere, anziché risolvere, renda piú cruda e stringente la contraddizione.
Ma sul terreno della morale associata c'è qualcos'altro di ben piú rilevante entità. Sant'Agostino mira a dimostrare al cospetto di quei profughi che van portando per il territorio dell'Impero le geremiadi interessate del loro benessere schiantato, che il cristianesimo è completamente innocente delle presenti iatture, e che il paganesimo ha anch'esso conosciuto una quantità di inenarrabili rovesci. La sua dimostrazione però tradisce uno strano sentore di insolubile illogicità. La vera polemica di qualche controversista pagano ne avrebbe potuto trarre eccellenti spunti, se il paganesimo ormai non fosse stato una disanimata carcassa, e se Agostino avesse avuto altro còmpito che quello di dettarvi su disinvoltamente l'epicedio.
Anche Sant'Ambrogio aveva voluto dimostrare contro Simmaco che il collegamento fra prosperità romana e culto degli idoli era nient'altro che un ingenuo e fragile mito.
Ma ormai in Africa, sotto l'assillo della ecclesiologia donatistica, la quale aveva portato alla esasperazione la coscienza del divario incolmabile fra valori politici e valori religiosi, fra la società cioè dei santi e la società degli interessi empirici, Sant'Agostino non poteva arrestarsi alla posizione di Sant'Ambrogio. Non poteva contentarsi cioè di dimostrare che il paganesimo aveva conosciuto disastri politici altrettanto gravi, che quelli verificatisi nella età cristiana.
Ora Agostino va molto piú in là. Egli addita i veri ideali della vita, non già nei successi effimeri e crudeli della politica realistica, bensí nel conseguimento di quei meriti che possono assicurare la immortalità beata. Ma una tesi di questo genere distrugge in radice e annulla il valore dimostrativo della precedente argomentazione antipagana. Infatti, se la vita ha un valore unicamente per la luce in cui l'avvolge la speranza della beatitudine ultra-terrena, il cristiano, come Ivan, l'imbecille della novella di Tolstoi, dovrebbe essere assolutamente insensibile e indifferente a quelle che la politica realistica reputa vergognose iatture. E a chi gli facesse addebito di provocare col suo assenteismo e col suo allontanamento da ogni culto idolatrico le comuni «sventure», potrebbe pure rispondere col piú disinvolto candore che tutto ciò non lo riguarda affatto e anzi intimamente gli può dare qualche soddisfazione, e lo può aiutare nel suo unico interesse, che è quello del beato regno di Dio.
A questo modo però l'apologia agostiniana sarebbe stata del tutto sterile e non avrebbe deposto nel grembo della società in dissoluzione il fermento delle future reincarnazioni. Ed ecco che il vescovo ipponese, molto piú sensibile alle esigenze della pietà edificativa che a quelle della logica, si fa ad esaltare le insignì virtú che meritarono ai Romani la loro strepitosa potenza. E di questa stessa potenza, altra volta definita come un «immenso latrocinio», egli fa il guiderdone di queste virtú, le quali debbono essere anche per i cristiani uno stimolo ed un esempio. Si potrebbe immaginare contraddizione piu palmare?
E pure un'altra ve n'è piú grave e piú significativa, perché pervade sottilmente tutte le copiose pagine del De Civitate Dei. Ed è la contraddizione in cui Agostino, tratto inconsapevolmente a lasciare in un ondeggiamento provvidenziale l'idea base della sua filosofia politica, si avvolge, a proposito della nozione stessa di «civitas Dei». Nel suo concetto primordiale e nella sua costituzione essenziale la «civitas Dei» è anteriore e superiore alla Chiesa: è prima di essa e al di là di essa. La «civitas Dei» è nata potenzialmente, in contrasto con la «civitas terrena», il giorno stesso in cui, nel primo uomo, si delineò la polarizzazione dei due «amores»: l'amore di sé al di sopra dell'amore di Dio, l'amore di Dio al di sopra dell'amore di sé. Il reclutamento e l'anagrafe definitivi e infallibili della «civitas Dei» sono retaggio misterioso del cielo, sono affidati alla disciplina e alla economia della speranza. Unica tessera di riconoscimento quaggiú per i cittadini della «civitas Dei», l'umiltà e il servizio reciproco. Preparata prima dell'avvento del Cristo in grembo al popolo d'Israele, la «civitas Dei» vive oscuramente e misteriosamente dovunque un conglomerato di esseri umani realizzi nei carismi e nell'abnegazione il destino impalpabile dell'eterna salvezza. La visuale è del tutto mistica e non è vincolata ad alcuna discriminazione confessionale e disciplinare. Ma poi la visuale di Agostino si circoscrive. Essa si fa precisa. La città di Dio è la Chiesa. Essa sola è in diritto di gridare alto al cospetto del mondo l'encomio che, prefigurandola, pronunciò la madre di Samuele: «Il mio cuore trasalisce di gioia in Jahvè, il mio corpo è stato esaltato da Jahvè». Questo non vuol dire che poi, cadendo di nuovo in contraddizione, Agostino non torni ad inserire nel cuore stesso della sua ecclesiologia la visione drammatica della lotta fra le due città e fra i due amori. In proposito l'Agostino sermoneggiatore è piú forte e piú incisivo che l'Agostino delle grandi opere apologetiche e polemiche. Quale esposizione ad esempio piú lucida della visione delle due città, di quella che noi troviamo in uno dei suoi commenti oratori al salmo LXI? «Le due città sono frattanto mescolate insieme. Il grano e la paglia stanno mescolati sull'aia. Attendiamo il ventilabro del giudizio che li scevererà. Le due città lottano a gara, l'una in favore dell'iniquità, l'altra in favore della giustizia. L'una cerca il soddisfacimento della propria vanità, l'altra milita in favore della verità. E la mescolanza nel tempo è cosí sostanziale e cosí profonda, che può capitare a volte che i cittadini di Babilonia amministrino le cose appartenenti a Gerusalemme e che gli apparenti cittadini di Gerusalemme amministrino le cose appartenenti effettivamente a Babilonia!». Evidentemente, al Concilio del Vaticano Sant'Agostino non avrebbe mai sottoscritto al dogma della infallibilità pontificale!
In complesso, dal principio alla fine, il De Civitate Dei agostiniano, manifestazione sovrana dell'apologetica cristiana, si rivela come un tessuto sorprendente di contraddizioni. Non ne trarremo motivo di scandalo. Solo i cuori pusillanimi possono trarre motivo di scandalo da simile carattere contraddittorio delle grandi opere religiose. Colui che aveva tuffato Agostino nelle acque rinnovatrici del battesimo, aveva proclamato una volta che la logica astratta e la dialettica pura non figurano affatto fra gli strumenti salviferi di cui si serve il Signore. Agostino non ha fatto altro che tradurre in pratica il pregnante aforisma. E ha offerto cosí un valido esempio e un preciso monito. Guai ai fedeli del Vangelo e alla Chiesa del Cristo il giorno in cui, per la coerenza astratta o per il successo empirico, si lascino andare a porre a repentaglio l'irresolubile paradossalità della superiore giustizia!
Alla veniente società cristiana Agostino offriva la sua interpretazione del Vangelo. Era una interpretazione mirabilmente fedele, perché paradossalmente dualistica e insanabilmente contraddittoria. L'antropologia come l'ecclesiologia, la soteriologia come la filosofia della storia, elaborate da Sant'Agostino, erano una proclamazione paradossale di termini antitetici. Solo per questo Agostino è il padre della Cristianità medioevale.