XIV L'ARIANESIMO DEI REGNI BARBARICI

Il sistema di trasmissione del potere che Costantino aveva escogitato apparve immediatamente vulnerato dalla tragedia scatenatasi a Costantinopoli all'indomani della sua scomparsa. Dopo essere stati proclamati Augusti nel settembre del 337, i tre figli di Costantino ritennero conveniente darsi convegno a Sirmio, la metropoli della Pannonia, oggi Mitrovitza, per una nuova divisione dell'Impero (la Tracia e Costantinopoli, che un anno prima erano state assegnate a Costantino II, passarono a Costanzo) e per adottare misure uniformi di politica religiosa. Fu deciso fra l'altro di richiamare dall'esilio tutti i vescovi vittime delle recenti polemiche. Atanasio poté cosí tornare alla sua sede e lo fece seguendo un itinerario che doveva destare piú tardi i sospetti e le recriminazioni dei suoi implacabili avversari: attraverso cioè la Pannonia, la Mesia e l'Anatolia.

Ma fu breve il trionfo. Le ragioni etnico-politiche che avevano alimentato le lotte ariane nella unità del governo Costantiniano, ebbero agio di manifestarsi con violenza anche maggiore, ora che l'Impero era suddiviso in tre parti. L'Occidente intiero, cosí quello soggetto a Costantino II come quello soggetto a Costante, apparve fedele all'omoousios. Probabilmente l'Occidente non comprendeva neppure bene le basi delle discordie teologiche che laceravano l'Oriente. Qui gli Eusebiani avevano ormai nettamente il sopravvento. L'Egitto, che una cosí lunga tradizione legava a Roma, recalcitrava al giogo che l'episcopato partigiano della nuova Roma voleva imporgli e guardava con simpatia e con fedeltà all'Occidente. Di qui stesso le gelosie e le ire del potere centrale di Costantinopoli.

Le ragioni del dissidio si fecero ancora piú acute, quando nel 340, scoppiata la lotta tra Costantino e Costante, il primo fu colpito a morte in una imboscata presso Aquileia, e tutto l'Impero si trovò diviso fra due soli Augusti.

Erano appena rientrati dal loro esilio i vescovi ortodossi che gli Eusebiani ripresero alacremente i loro intrighi. Cominciarono col deporre in un sinodo costantinopolitano il vescovo della capitale, Paolo, per innalzare al suo posto l'instancabile corifeo del partito, Eusebio di Nicomedia. E poiché in quel torno di tempo moriva lo storico, Eusebio di Cesarea, riuscirono a fargli dare per successore un fautore sicuro dell'arianesimo, un suo discepolo, Acacio. Dopo di che ripresero la loro campagna di denigrazioni contro Atanasio e, per passare efficacemente dalle parole agli atti, si arrogarono da Costantinopoli il diritto di dare un vescovo al partito ariano di Alessandria, scegliendo a tale dignità un tal prete Pista. E qui essi si videro costretti, per rassodare la posizione ecclesiastica del loro protetto, a muovere un passo di un valore straordinario, che pesò poi piú tardi sulla loro attività e in genere su tutto l'atteggiamento della gerarchia ecclesiastica orientale: chiesero cioè il riconoscimento di Roma per il vescovo intruso di Alessandria. Una deputazione degli Eusebiani, formata di un prete a nome Macario e di due diaconi, Martirio ed Esichio, prese la via dell'Occidente, recando con sé i documenti relativi ai supposti crimini di Atanasio. Giulio, vescovo di Roma dal febbraio 337, non fece altro che trasmettere l'incartamento all'imputato perché ne prendesse visione e formulasse le sue discolpe. A distanza di poche settimane giungevano a Roma rappresentanti di Atanasio i quali portavano con loro una dichiarazione collettiva d'un centinaio di vescovi egiziani nella quale erano minutamente confutate le accuse mosse al loro metropolita. Con procedimento di corretta imparzialità Giulio sul tramonto del 338 convocava ad un sinodo romano le due parti.

Atanasio accoglieva l'invito prontamente e nella primavera del 339 era a Roma con un manipolo di monaci egiziani che dovettero destare la sorpresa e l'ammirazione della comunità cristiana di Roma, spargendo in mezzo ad essa i semi di una propaganda ascetica destinata a frutti rigogliosi.

Oltre al desiderio di ottenere da Roma il riconoscimento dei propri diritti, Atanasio si era dovuto affrettare ad abbandonare l'Egitto in seguito all'insediamento violento d'un nuovo vescovo, mandato ad Alessandria dall'imperatore al posto dell'inetto e insignificante Pisto. Questa volta il prescelto era un cappadoce, tal Gregorio, la cui presa di possesso ad Alessandria, nella Chiesa di Cirino, diede luogo a scene d'inaudita violenza. Prevedendo i tragici avvenimenti e per nulla fidando nella protezione del prefetto Filagrio, Atanasio aveva ritenuto prudente prendere a tempo il mare.

Messi d'altro canto al corrente dai loro emissari degli umori prevalenti a Roma i vescovi orientali non si affrettarono affatto ad accettare l'invito di Giulio. Trattennero invece per parecchi mesi ad Antiochia i suoi delegati, Elpidio e Filosseno, e dopo essersi concertati con l'episcopato simpatizzante dell'Impero orientale li rimandarono con una lettera dura ed insolente, per comprendere il valore della quale occorre pure tener presente dinanzi agli occhi la singolare situazione politica del momento, specialmente nel bacino danubiano.

Da quando, con le sue conquiste, Augusto aveva portato al corso stesso del Danubio la frontiera militare, si può dire che ogni crisi della civiltà imperiale romana, il che è quanto dire della civiltà europea, si era fatta immediatamente e potentemente risentire in quel bacino danubiano che sembra aver costituito sempre, ieri come oggi, uno dei cardini centrali della costituzione civile unitaria del continente.

La zona di occupazione non si confuse subito con quella di annessione su tutta la linea percorsa dal fiume. Nella attuazione del chiaro e lungimirante piano augusteo, i mezzi variano a norma delle esigenze militari e delle possibilità locali. Occupazione e annessione s'identificarono subito nell'alto e nel basso Danubio. Nell'alto Danubio il letto stesso del fiume segnò dal primo momento la frontiera romana, dal lago di Costanza al monte Cezio, nelle provincie della Rezia e del Norico. Lo stesso fu nel basso Danubio, dalla confluenza della Sava, al Mar Nero, nella provincia della Mesia.

La situazione fu completamente diversa lungo il medio Danubio, nella Pannonia. Qui la difesa permanente non oltrepassò al principio la linea della Drava, piú breve e piú prossima alla Dalmazia, cui per qualche tempo fu necessario ancora badare con attenta vigilanza. L'esercito danubiano incaricato di difendere quel lungo settore di duemila e settecento chilometri comprese sotto Augusto cinque legioni, vale a dire, tenendo conto anche dei corpi ausiliari, un complesso che oscillava fra i settantamila e gli ottantamila uomini. Tre delle legioni erano raggruppate nella Pannonia e precisamente nel campo di Petovio. Le altre due occupavano la parte superiore della provincia della Mesia, e probabilmente fin dai tempi di Augusto si trovavano riunite a Singidunum, l'attuale Belgrado, punto strategico di straordinaria importanza, alla confluenza del Danubio e della Sava. L'alto Danubio invece era protetto solamente da truppe ausiliarie, coorti di fanteria e ali di cavalleria.

La difesa del basso Danubio nell'epoca augustea era stata garantita dal regno vassallo della Tracia, che disponeva di eccellenti elementi militari indigeni.

La conquista, l'annessione, la fortificazione del territorio, la distribuzione delle truppe confinarie, non erano state che il prologo della penetrazione civile della romanità in quelle regioni. Ma la penetrazione pacifica non era riuscita a sopraffare ed a cancellare il carattere e la funzione militareschi di tutta la regione. Si trattò sempre di provincie di frontiera e di provincie di una determinata frontiera.

L'elemento militare pertanto occupa nella loro configurazione demografica un posto dei piú cospicui. E d'altro canto esso elemento militare, lungo il Danubio, ha una sua configurazione completamente diversa da quella dell'elemento militare disseminato, ad esempio, lungo la frontiera del Reno, o lungo la frontiera che lambiva il deserto africano. È in mezzo a questo elemento militare della frontiera danubiana che noi troviamo diffuse soprattutto religioni orientali come quella di Mitra o quella di Giove Dolicheno.

Provincie di frontiera sensibilmente distanti da quella zona mediterranea centrale dell'Impero, che rappresentò sull'inizio il principale focolare d'irradiazione del messaggio cristiano, esse non furono raggiunte che tardi dalla disseminazione del Vangelo. La persecuzione che sotto Diocleziano e Galerio imperversò lungo questa linea confinale, in mezzo alle file delle legioni, dimostra il successo del proselitismo cristiano colà. Gli atti dei martiri che ci hanno conservato, per quanto deformato dalla leggenda, il ricordo dei martiri, lungo le provincie del Norico, della Pannonia e dalla Mesia, tradiscono una certa aria di famiglia, che ha il suo posto nella esuberante fioritura della letteratura agiografica. Queste provincie, situate tra il mondo orientale e il mondo occidentale, assumono improvvisamente una funzione considerevole nell'ora delicatissima del trapasso dall'Impero pagano del IV secolo incipiente alla trasformazione religiosa bandita ed instaurata da Costantino. Se l'arianesimo è sostanzialmente anatolico nel momento del suo successo, è illirico nel momento del suo sforzo per penetrare in Occidente. E come nel III secolo i culti orientali avevano guadagnato nell'Illirico una propagazione tanto piú ragguardevole in quanto avevano riscosso la adesione di una serie di imperatori originari della regione, cosí l'arianesimo trae nel IV secolo la sua piú vistosa potenza dalla adesione di un episcopato cortigiano, disseminato lungo la linea di quei territori danubiani di frontiera, che rappresentano la zona piú sensibile della organizzazione politica e religiosa romana. Noi vediamo cosí vescovi di modestissima taglia morale e di embrionale formazione teologica assumere improvvisamente funzioni di corifei e di arbitri nelle polemiche religiose, cui è mescolato il governo imperiale.

Ed è là sulla linea del Danubio da Vienna a Belgrado (Singidunum) e a Sofia (Serdica) che si decidono a mezzo il secolo IV le sorti spirituali della romanità. E d'altro canto è sempre in virtú della loro posizione geografica che le provincie rivierasche del medio e del basso Danubio possono spiegare un'azione straordinariamente cospicua nella diffusione ulteriore della civiltà cristiana. In contatto piú diretto con quelle popolazioni barbariche d'oltre Danubio la cui pressione comincia ad essere avvertita allora sulla penisola balcanica, queste provincie rivierasche riescono attraverso la loro costituzione gerarchico-episcopale a lanciare il messaggio cristiano verso gli invasori che sopraggiungono. Su questo programma di ministero missionario esse portano e segnano l'impronta del loro particolare temperamento e della loro particolare accezione del cristianesimo. Le ripercussioni di questo fatto si faranno sentire a lungo nei secoli.

Annesso da Augusto nel 16 avanti Cristo, il Norico fu da principio governato da procuratori. Dall'epoca di Marc'Aurelio tale governo passò nelle mani del legato della Legio II Italica. Vi si distinguevano due regioni: la prima propinqua all'Inn e al Danubio; l'altra interna, corrispondente press'a poco alle attuali Stiria e Carinzia, le vallate superiori cioè della Mur e della Drava. Diocleziano distinse le due regioni in due provincie: il Noricum ripense e il Noricum mediterraneum, o interiore.

La conquista della Dacia ai tempi di Traiano portò alla distinzione di due provincie pannoniche, la Pannonia superiore ad ovest e la Pannonia inferiore a est. Diocleziano suddivise a sua volta le due provincie e alla Pannonia prima e alla Pannonia seconda furono aggiunte la Savia e la Valeria. Anche la Mesia conquistata da Augusto fu divisa da Domiziano in due provincie: Moesia superior e Moesia inferior. La nomenclatura fu cambiata sotto Aureliano, e poi sotto Diocleziano, quando la Mesia inferiore fu sensibilmente ridotta e si costituí una Scizia alle bocche del Danubio.

Tutta la regione una volta annessa all'Impero fu sottoposta ad una intensa pressione romana. Si può dire che la lingua latina riuscí a regnare lungo tutto il corso del Danubio, fin quasi alla sua foce. Soltanto nella Mesia inferiore la lingua greca mantenne un inviolabile sopravvento.

Etnicamente, il territorio intiero non smarrí il suo carattere originario. La razza illirica e la razza tracica vi si ramificarono, ma non vi si confusero. E poiché il reclutamento vi era regionale, il cospicuo elemento militare fu esso stesso ragione di inalterabile conformità etnica.

Se prescindiamo da tarde leggende agiografiche, che anche per quanto riguarda la penetrazione del cristianesimo in territorio danubiano si sono compiaciute di riportare le principali sedi vescovili ad origine apostolica, noi dobbiamo oggi riconoscere che per tutto il corso del secondo secolo e per la prima metà del terzo non troviamo in questa provincia alcuna Chiesa organizzata.

L'accenno generico contenuto al principio del terzo libro della Storia ecclesiastica di Eusebio ad una propaganda cristiana dell'Apostolo Andrea nella Scizia, che noi non sappiamo se sia attinta a qualche fonte agiografica apocrifa o a una testimonianza di Origene, non ha in verità maggior valore storico di quel che ne possa avere la testimonianza dell'apologista Giustino, in quel passo generico del dialogo con Trifone (117) nel quale dice che il cristianesimo è già penetrato ai suoi tempi fra i popoli piú diversi, tra cui designa quelli che trascorrono la loro vita sui carri, il che costituisce una indiscutibile segnalazione degli Sciti. Altrettanto generica e vaga è la testimonianza di Tertulliano nell'Adversus Judaeos, 7, dove passa in rassegna anche lui i popoli già convertiti a Cristo e nomina Getuli, Sarmati, Daci, Germani, Sciti. Anche San Paolo dice nella sua lettera ai Romani che la sua opera di evangelizzazione l'ha portato fino ai paesi dell'Illirico (XV, 19). Ma la frase dell'Apostolo non vuol dire altro che questo: che i suoi viaggi missionari attraverso la Macedonia l'avevano portato a toccar quasi, senza oltrepassarle, le frontiere della Dalmazia e della Pannonia.

Una prima menzione sicura di penetrazione cristiana sulle rive del Danubio noi la incontriamo alla fine del secondo secolo, all'epoca di Marco Aurelio. Accenniamo al famoso miracolo della Legio XII Fulminata. Sono ben noti i dati della tradizione. Durante la campagna di Marco Aurelio contro i Quadi nel 174, l'esercito imperiale corse rischio, un giorno, di morir di sete in una regione desolata, nel momento stesso in cui i nemici si accingevano ad attaccarlo. I soldati cristiani che facevan parte di un distaccamento della Legio mandato in Pannonia, si misero allora a pregare il loro Dio di intervenire provvidenzialmente a salvare le truppe dal pericolo imminente. Ed ecco che un uragano improvviso diede ai Romani l'acqua desiderata e ai Barbari un tal pànico che la vittoria fu per le truppe imperiali cosa agevole ed insperata. Questo il racconto della tradizione cristiana, attestatoci da Eusebio di Cesarea (H. E.V, 5) e da Tertulliano ( Apol. 5, Ad Scapulam, 4), che attingono da Apollinare di Gerapoli, per noi perduto. Ma quel che rende esitante lo storico di fronte a questa testimonianza è il fatto che dell'episodio prodigioso esistono parallelamente al racconto cristiano due altre versioni entrambe pagane. L'una, ufficiale, che noi troviamo nella Historia Augusta e in Claudiano (Hist. Aug. M. Aur. XXIV; Claudiano, De VI Consulatu Honorii,340-350), attribuiva il prodigio alle preghiere dello stesso imperatore Marco Aurelio. L'altra versione pagana, trasmessaci da Diane Cassio (naturalmente spogliato dalle aggiunte di Xifilino LXXI, 8-10) attribuisce il miracolo all'intervento del mago egiziano Arnufide. Del resto la colonna Antonina, destinata a celebrare le vittorie dell'imperatore, ha consacrato il ricordo dell'evento strepitoso. Ma naturalmente chi fa cadere qui la pioggia miracolosa sull'esercito romano è Jupiter Pluvius. La versione cristiana che noi troviamo in Tertulliano è vulnerata dal fatto che l'apologista latino la contamina con un grosso abbaglio, allegando cioè un presunto messaggio di Marco Aurelio al Senato per annunciare la cosa ed un presunto editto di tolleranza del medesimo imperatore filosofo, che non sono mai esistiti. D'altro canto ci consta che l'appellativo di Fulminata era portato dalla legione XII prima del fatto prodigioso, che secondo Eusebio e Apollinare lo avrebbe a lei meritato.

Il carattere per lo meno parzialmente leggendario dell'episodio trapela da ogni parte. Si può benissimo pensare che alla base delle contrastanti versioni di esso sia un nucleo centrale di verità: una pioggia lungamente e ansiosamente attesa, che viene a salvare le truppe da un immancabile disastro. Naturalmente il fatto assume diverse colorazioni, secondo le varie disposizioni religiose di coloro che hanno assistito al suo accadimento e che ne hanno risentito i benefici effetti. Nelle file di quelle truppe non dovevano mancare già dei cristiani. Chi essi fossero, donde essi venissero, noi possiamo semplicemente arguirlo dallo sviluppo piú tardo della disseminazione cristiana nel bacino danubiano. E precisamente dallo scoppiare della persecuzione dioclezianea, che, nelle regioni illiriche, ebbe le prime sue vittime appunto nelle file dell'esercito.

Il cristianesimo illirico ci appare pertanto un cristianesimo militare. Il primo editto di persecuzione promulgato da Diocleziano e dai suoi colleghi nel 303 fu, come noi sappiamo molto bene da Eusebio, preceduto da provvedimenti contro i soldati cristiani.

Non occorre qui registrare i nomi dei veterani e dei soldati, periti nella persecuzione, iscritti nel martirologio danubiano. C'è tra questi martiri una figura eminente, non soldato, ma vescovo, che evidentemente reggeva una comunità composita in una città sulla Drava, Petovia, che fu di volta in volta città del Norico, e città della Pannonia. È Vittorino, commentatore della Apocalissi, mediocre scrittore latino, eccellente conoscitore di Origene, che appare uno dei rappresentanti piú avanzati, parlando dal punto di vista geografico, di una propaganda cristiana di origine orientale, che dalla Macedonia e dalla Tracia portava il Vangelo, attraverso le provincie del basso e del medio Danubio, fino ai limiti occidentali dell'Illirico. Nella disseminazione evangelica lungo la linea danubiana l'elemento militare in tanto doveva avere rappresentato un elemento e un coefficiente di primo ordine, in quanto qualcuna delle legioni scaglionate in tempo di pericolo sulla linea del Danubio era reclutata fra elementi orientali, provenienti cioè da regioni dove la propaganda cristiana si era piú fruttuosamente impiantata durante il II secolo. La Legio XII Fulminata, ad esempio, che sarebbe stata la testimone privilegiata del miracolo cui abbiamo accennato, era accantonata in tempo di pace a Melitene, vale a dire in una regione dove una grande parte della popolazione era già cristiana al tramonto del II secolo, regione vicina ad Edessa, il cui re, nel medesimo torno di tempo, faceva professione di cristianesimo.

Si capisce perfettamente come questi elementi cristiani sulla piú sensibile linea di confine dell'Impero dovessero traversare giorni burrascosi quando la tetrarchia Dioclezianea volle instaurare il totalitarismo politico e religioso nelle zone confinali, dove i conflitti di idee potevano rappresentare un elemento vulnerabilissimo. Ma si capisce altrettanto bene come in regime costantiniano questi stessi elementi cristiani confinali dovessero immediatamente assurgere ad una posizione di privilegio, quando, rompendo bruscamente l'equilibrio etnico-spirituale sul quale l'imperatore dalmata ed i suoi colleghi avevano cercato di costituire la solida unità dell'immenso Impero, il vincitore ad Saxa Rubra fece dell'Oriente cristiano il fulcro e la chiave di volta della rifusione statale romana.

La conversione di Costantino era venuta a trasformare radicalmente a vantaggio della Chiesa cristiana il rapporto reciproco dei vari strati etnici e religiosi sulla linea danubiana. Anche Costantino era originario della regione dove i culti orientali, cristianesimo compreso, avevano guadagnato maggior terreno. Nativo della Dardania, Costantino, come suo padre Costanzo Cloro, aveva già pencolato verso quel monoteismo solare che era cosí largamente diffuso nelle provincie dell'Illirico. Non è senza significato il fatto che proprio nell'Illiria compare la prima manifestazione materiale della trasformazione dei sentimenti di Costantino.

Nella grande crisi ariana i vescovi danubiani furono strumenti ciechi e docili nelle mani del potere politico. Questi vescovi seguono di volta in volta, dal sinodo di Tiro a quello di Antiochia e da quello di Antiochia a quello di Serdica, le vicende e gli spostamenti dei sovrani. Essi sono fermi in una sola cosa, nel tentare cioè di contrapporre all'episcopato occidentale, difensore di Atanasio, una costituzione gerarchica ecclesiastica pronta a seguire l'ispirazione della corte e a mettere a servizio della corte la propria fede e la fede delle comunità amministrate.

Si direbbe che un Concilio permanente, ora piú numeroso ora meno, sia costantemente adunato a portata del palazzo imperiale. Se il sovrano crede utile di mettere questo sinodo di vescovi cortigiani in rapporto diretto con i vescovi occidentali, come capitò ad esempio per il grande sinodo di Serdica, lo fa partire in massa per il luogo della riunione, in un lungo convoglio di vetture postali, protetto da un ufficiale di corte. Se l'imperatore si sposta, il suo episcopato cortigiano si muove con lui. E noi lo vediamo radunarsi anche molto lontano dall'Oriente, a Sirmio, ad Arles, a Milano, sol che l'azione politica si sposti dall'Oriente, ormai tutto infeudato all'arianesimo, verso l'Occidente.

Sarebbe difficile immaginare un corpo episcopale meglio organizzato, piú agevolmente trasportabile, piú cedevole ad ogni imposizione dall'alto. Ma la solidarietà di questi vescovi non è basata su una sensazione vivente della grande comunione carismatica nel Cristo. Essa sgorga unicamente dalla protezione imperiale e dal risalto che ciascuna sede ha nel piano di espansione della politica ufficiale.

Valente di Mursa e Ursacio di Singidunum non sono figure che spicchino per elevatezza di dottrina, per purezza di vita, per entusiasmo divorante della causa del Cristo. Sono dei docilissimi strumenti di governo che si prostrano passivamente dinanzi alla forza politica del momento, pronti a ripiegare le stesse loro vantate convinzioni teologiche, non appena il vento suoni sfavorevole. Ma sono consumati nel raggiro politico e sfrontati nelle piaggerie cortigianesche. E non indietreggiano dinanzi alle risoluzioni piú estreme, pronti a scindere la veste inconsutile del Cristo sol che i piani politici dei padroni di cui sono i mandatari e i manutengoli, impongano una scissione e un allontanamento dai confratelli nell'episcopato, decisi a porre invece la parola del Cristo molto al disopra della volontà del sovrano.

E i giorni in cui a Serdica si trattò veramente di passare in rassegna il duplice episcopato, l'orientale e l'occidentale, e di sapere se questo episcopato fosse tutto unito nella fedele lealtà al Vangelo, l'Oriente e l'Occidente apparvero cosí nettamente divisi che fu impossibile tenere riunioni unitarie e gli orientali, invece di stendere la mano agli occidentali, li condannarono in blocco.

Il passo di Succa fra Serdica e Filippopoli, vale a dire il limite amministrativo tra l'Illirico e la Tracia, formò da allora in poi, secondo la frase rimarchevole dello storico Socrate, la frontiera religiosa fra le due comunioni, l'orientale e l'occidentale. Per la prima volta, i cristiani si dividevano su due vaste fronti.

Convocando i vescovi ariani d'Oriente ad un sinodo romano, Giulio di Roma dové credere opportuno di appellarsi alla autorità e all'esempio dei grandi Apostoli Pietro e Paolo. Già altra volta, al tramonto del I secolo, il rappresentante della comunità cristiana di Roma, Clemente, scrivendo alla comunità di Corinto per raccomandare la pace e l'unione, aveva fatto appello all'esempio offerto dagli Apostoli Pietro e Paolo, vittime della discordia e dell'invidia. Ora piú che mai era il caso di invocare quegli illustri esempi.

Noi non sappiamo se al tramonto del primo secolo la comunità di Corinto rispose alle sollecitazioni e alle ammonizioni di Clemente. Ora, a mezzo il secolo quarto, noi sappiamo molto bene che i vescovi orientali, sollecitati e ammoniti da Giulio, risposero sdegnosamente. Essi avevano ormai alle spalle la tutela imperiale e potevano permettersi delle arie di sussiego. Non possediamo il testo preciso della loro risposta, ma possiamo però esaurientemente arguirlo dal racconto dello storico Sozomeno e dalla controreplica di Giulio, conservataci testualmente da Atanasio. I vescovi arianeggianti di Oriente unanimemente declinavano l'invito del vescovo di Roma, dicendo di non poter fare il viaggio dato lo stato di guerra con la Persia. In realtà si capisce molto bene che essi non avevano ricevuto l'autorizzazione imperiale a muoversi. Non può capitare in tutti i tempi che vescovi di punti nevralgici, lungo le grandi linee confinali europee, siano piú disposti a dare ascolto alle chiamate di corte che alle chiamate della Curia?

Oltre ciò, avendo Giulio parlato come vescovo della sede di Roma evocando le figure degli Apostoli Pietro e Paolo, gli orientali rintuzzarono, domandando sarcasticamente se non era l'Oriente che aveva portato a Roma la fede cristiana. Dovette essere questo uno dei motivi insidiosamente accampati nella loro altezzosa risposta. Sta di fatto che, nella sua replica, Giulio denuncia nettamente il contegno di questi vescovi orientali, definendolo radicalmente difforme dall'esempio e dall'ammaestramento degli Apostoli.

Polemiche di questo genere dovettero suscitare vivissima impressione a Roma, dove Atanasio rimase a lungo, circa tre anni. Ci si potrebbe domandare se un'eco singolare di queste polemiche non trapela nella iscrizione che poco piú d'un venticinquennio piú tardi Papa Damaso faceva incidere nel cimitero ad Catacumbas sulla via Appia: «Chiunque tu sia che vai alla ricerca dei nomi di Pietro e di Paolo devi sapere che qui abitarono quei Santi altra volta. Si tratta, lo riconosciamo apertamente, di discepoli mandati dall'Oriente. Ma per il merito del sangue che permise loro di seguire il Cristo attraverso gli astri e di raggiungere i porti eterni e il Regno dei pii, Roma ha meritato di poterli difendere piuttosto come i cittadini suoi». Damaso rivendicava allora poeticamente la romanità degli Apostoli che l'Oriente aveva mandato e che il martirio aveva fatto romani. Quando egli scriveva, le vecchie polemiche del 340 si erano sopite. Sulla Cristianità era passato l'uragano di Giuliano l'Apostata, e altri interessi, piú pressanti e piú concreti, si erano sovrapposti alle polemiche ariane. I grandi padri cappadoci del resto stavano introducendo in quel momento nel linguaggio teologico, relativo al dogma trinitario, una precisione e in pari tempo una ricchezza di sfumature che permettevano ormai l'uso del consubstantialis senza pericolo di cadere nel sabellianesimo.

Nonostante il rifiuto degli orientali, il sinodo convocato da Giulio a Roma si tenne ugualmente al tramonto del 340 e procedette all'esame dei capi di accusa sollevati dagli Eusebiani contro Atanasio, contro Marcello di Ancira e contro Paolo di Costantinopoli, tutti e tre presenti a Roma in attesa del verdetto. Il quale fu a tutti favorevole. Tutti i proscritti di Tiro e di Costantinopoli avrebbero dovuto essere reintegrati nella manomessa dignità. Dopo di che Giulio, col consenso dell'assemblea, diramava agli orientali la lettera comunicando l'esito del sinodo e rispondendo alle impertinenze della loro lettera di ripudio.

L'eloquente documento romano non valse a ristabilire l'accordo nelle dissenzienti comunità dell'Oriente e dell'Egitto. Roma aveva convocato vescovi in sinodo e aveva adottato decisioni senza l'intervento degli orientali: questi fecero altrettanto. Nel 341 novantasette vescovi della Anatolia, della Siria, della Palestina, della Tracia, della Pannonia, si radunavano ad Antiochia in occasione della consacrazione solenne della grande Chiesa di cui Costantino aveva gettato le fondamenta e che Costanzo aveva compiuto. I venticinque canoni superstiti di questo sinodo e le formule di fede da esso emanate godettero in Oriente grandissima autorità. La molteplicità di tali formule di fede può sorprendere a prima vista, tanto piú che non siamo in grado di ricostruire le circostanze in cui esse vennero presentate e approvate dal sinodo. Dal carattere ambiguo ed anodino di queste formule, come in genere da tutte le decisioni del sinodo, principale la conferma della deposizione di Atanasio, come dal tenore stesso dei canoni che appaiono evidente risposta all'atteggiamento di Roma, risulta che la fazione eusebiana predominò nell'assemblea. La prima formula di fede tendeva a scindere la responsabilità dei Padri radunati ad Antiochia da quella di Ario. La memoria del prete alessandrino appariva ingombrante e i suoi opportunistici seguaci preferivano conservarne l'eredità teologica, sia pure con beneficio d'inventario, sconfessandone però pubblicamente il nome. Ma il documento è capzioso. La mancanza di ogni accenno al Concilio di Nicea; l'assenza del vocabolo tecnico ufficiale,omoousios; l'ostentata separazione da Ario, di cui però non si ripudia una certa propinquità ideale; sono particolari piú che sufficienti per metterei in sospetto contro la buona fede degli astuti compilatori della formula.

La seconda formula di fede, se è piú ricca di immagini e di comparazioni, non è davvero piú perspicua di contenuto o piú felice nella espressione. Riportandola, lo storico Sozomeno aggiunge che nel formularla i vescovi radunati ad Antiochia confessarono di averla ereditata come scritta di suo pugno dal prete Luciano di Antiochia. L'indicazione può essere esatta. Può essere stato questo un diversivo accorto dei vescovi eusebiani per farsi immuni da qualsiasi corresponsabilità con Ario, riannodandosi invece al martire illustre, alla cui scuola tutti avevano sorbito i principi della dottrina subordinaziana. Nulla di straordinario che al momento di esprimere in un simbolo le loro dottrine trinitarie, gli Eusebiani abbiano esumato una professione di fede lucianea, e ne abbiano fatto la tessera della loro rivincita. Ma probabilmente non lo fecero senza introdurre nella formula incisi e frasi, che agli inizi del IV secolo, all'epoca cioè di Luciano, e prima di Nicea, sarebbe stato impossibile escogitare.

La terza formula di fede proposta e approvata dal sinodo sarebbe stata, secondo la testimonianza di Atanasio, compilata da Teofronio di Tiana, e avrebbe anch'essa riscosso l'unanime riconoscimento dei convenuti. È anch'essa l'espressione di un diplomatico proposito di scambievole accomodamento.

Infine, sempre secondo la testimonianza Atanasiana, a poche settimane di distanza i vescovi raccolti ad Antiochia formularono un quarto simbolo, in cui vollero condensare definitivamente le loro opinioni teologiche: «Crediamo in un Dio Padre onnipotente, creatore e fattore dell'universo, da cui riceve nome ogni paternità, cosí in cielo come in terra. Crediamo nel Figlio suo unigenito nostro signore Gesù Cristo, generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, per cui tutto fu fatto, le realtà celesti come le terrestri, le invisibili come le visibili, Verbo, sapienza e potenza e vita e luce vera. Il quale negli ultimi giorni per noi si fece uomo, e nacque dalla Santa Vergine e fu crocifisso, morí, fu sepolto e risorse dai morti il terzo giorno, e salí al cielo dove siede alla destra del Padre. E ne verrà alla consumazione del tempo a giudicare i vivi e i morti e a compensare ciascuno in base alle sue azioni. Il suo Regno indefettibile rimarrà e perdurerà nei secoli sconfinati. E crediamo nello Spirito Santo, vale a dire nel consolatore il quale, promesso agli Apostoli dopo l'ascensione di Lui al cielo fu inviato onde li istruisse e ispirasse loro tutto quel che occorreva; mediante il quale saranno santificate pure le anime di coloro che crederanno schiettamente in Lui. Quanti poi dicono che il Figlio è dal nulla o da un' altra sostanza e non da Dio e che c'era un tempo od un secolo in cui non era, la Chiesa Santa e cattolica li ripudia come estranei». Piú importanti delle formule alcuni dei canoni emanati dal sinodo, i quali costituiscono una risposta diretta alle pretese primaziali di Giulio e mirano a rendere definitive le sentenze emanate contro i singoli vescovi dall'assemblea episcopale della provincia cui essi appartengono e a sopprimere ogni potere di appello all'imperatore e ad altri che non sia l'assemblea dei vescovi provinciali. Questi canoni opportunamente poi corretti da quelli di Serdica e in questa forma corretta destinati a tanta fortuna, si rivelano concepiti e promulgati con l'esclusivo intento di colpire definitivamente Atanasio e di sanzionare per sempre la sentenza di deposizione lanciata contro di lui dal sinodo di Tiro del 335. Eusebio di Nicomedia, che dal 339 era riuscito ad insediarsi, mercè intrighi non immuni da violenza, sull'agognata cattedra vescovile della «Nuova Roma», dovette essere per gran parte nella compilazione di questi canoni, che costituirono una diretta e irriverente risposta all'azione autorevolmente conciliatrice del vescovo Giulio della vecchia Roma. Furono le ultime gesta di Eusebio che moriva prima della fine del medesimo anno.

Le lotte vivacissime che si svolsero a Costantinopoli per la sua successione favorirono la rivincita che l'episcopato romano poté prendersi a Serdica, nel sinodo colà convocato.

Sui precedenti e la genesi di questo sinodo, di una straordinaria importanza nella storia dell'autorità primaziale romana, le versioni, e se ne capisce perfettamente il perché, non sono affatto concordi. Atanasio, il quale ha tutto l'interesse di far credere che i vescovi orientali caddero in un tranello da essi stessi architettato, si sforza di riconnettere il sinodo serdicense ad alcune mosse dei convenuti ad Antiochia nel 341. Secondo lui, cioè, una deputazione di vescovi sarebbe stata incaricata di portare personalmente a Treviri all'imperatore d'Occidente Costante la quarta formula antiochena. E solo in séguito a tale ambasceria l'imperatore Costante avrebbe cercato di porsi d'accordo col fratello Costanzo per la convocazione di un Concilio plenario, a sede del quale fu designata Serdica, capitale della Dacia mediterranea, ultima città dell'Impero d'Occidente verso la Tracia, la quale invece ricadeva sotto la giurisdizione dell'Impero d'Oriente. Secondo invece l'opera frammentaria di Ilario di Poitiers, pubblicata per la prima volta dal Le Fèvre e dal Pithou sotto il titolo Fragmenta ex opere historico, lo svolgimento dei fatti sarebbe stato alquanto diverso. Secondo questo testo cioè sarebbero stati dei vescovi occidentali e precisamente Giulio, Osio, Massimino di Treviri, a chiedere a Costante, d'accordo con Atanasio, di adoperarsi per una riunione plenaria dell'episcopato, in seno alla quale l'Occidente potesse dettar legge alla discorde e sconvolta Chiesa d'Oriente. Costante, al quale non doveva spiacere l'idea di ingerirsi negli affari del fratello – Oriente ed Occidente si trovavano da decenni nella strana situazione di non poter vivere insieme né separati – volle prima veder chiaro personalmente nella questione e al tramonto del 342 chiamava presso di sé Atanasio da Roma a Milano, incaricandolo di fissare, di intesa con gli altri piú eminenti vescovi occidentali, il piano del prossimo Concilio. Dopo di che stringeva accordi col fratello Costanzo per la convocazione del sinodo a Serdica nei primi mesi del 343. Vi convennero ottanta vescovi orientali e novanta vescovi occidentali. L'inferiorità numerica in cui vennero a trovarsi eccitò immediatamente il malumore degli orientali. Il constatare poi come gli occidentali tenessero in non cale le precedenti deliberazioni di Tiro, di Costantinopoli e di Antiochia, e fraternizzassero senza scrupolo con Atanasio e con Marcello, finí con l'esasperarli e dopo aver chiesto invano che simile cordialità fosse evitata, tennero le loro adunanze a parte, emanando una lettera collettiva. In questa, ricostruendo a loro modo la cronaca degli avvenimenti, formulavano le proprie accuse contro il vescovo Giulio e i suoi amici, pronunciando sentenza di scomunica contro quanti si erano rifiutati di accogliere per valide le condanne orientali contro Atanasio.

Dal canto loro gli occidentali, continuando a tenere regolarmente le loro adunanze ed esaminando ancora una volta la posizione ecclesiastica di Atanasio e di Marcello di Ancira, proclamavano l'innocenza di costoro e deponevano non senza solennità gli avversari piú accaniti del metropolita egiziano. Dopo di che trasmettevano lettere agli imperatori, a Giulio e a tutte le Chiese comunicando le loro decisioni. Nella lettera in particolare al vescovo di Roma si muovono fiere accuse a due fra i piú in vista dei partigiani dell'arianesimo, quell'Ursacio e quel Valente che erano stati fra i piú caldi fautori del proselitismo ariano lungo la linea di confine del Danubio. La lettera li denunciava come fatui ed ambiziosi, che speculavano sulle lotte teologiche per dilatare un loro sconfinamento di poteri religiosi e politici verso l'Occidente.

Ma l'importanza veramente eccezionale del sinodo di Serdica è tutta in alcuni canoni che gli occidentali emanarono a correzione e confutazione dei canoni antiocheni. Vietavano il trapasso vescovile da sede a sede e si proclamava la necessità e la legittimità dell'appello a Roma nelle controversie e nelle contestazioni possibili. La Chiesa romana vi era riconosciuta come arbitra in tutte le discussioni ecclesiastiche e disciplinari.

Veramente, se si tengono presenti i motivi per i quali il sinodo di Serdica era stato convocato e se ne considerano i risultati, bisognerà pur riconoscere che esso fallí al suo precipuo scopo. Avrebbe dovuto ristabilire la pace e la concordia fra l'episcopato d'Oriente e l'episcopato d'Occidente a proposito della ortodossia e della posizione ecclesiastica di Atanasio. Di fatto non fece che rendere piú aspra l'inimicizia e piú profondo il dissenso. Separatisi recisamente a Serdica, all'indomani stesso del loro primo incontro, i due episcopati rimasero poi separati per piú di un cinquantennio, fino cioè all'epoca di Giovanni Crisostomo.

Ma se si tiene conto unicamente dello sviluppo della disciplina unitaria nella Chiesa cristiana si deve riconoscere che in questo sviluppo il sinodo di Serdica segna una tappa delle piú salienti. Chiamato in causa dal metropolita egiziano in una controversia acutissima con l'episcopato orientale ed anatolico, l'episcopato occidentale afferma a Serdica in una maniera solenne, per quanto unicamente determinata dalle circostanze dell'ora, il diritto di appello a Roma e conseguentemente afferma la potestà che Roma possiede di rivedere le sentenze ecclesiastiche locali. Mentre la nuova capitale imperiale costruita sul Bosforo da Costantino cercava di strappare alla vecchia Roma tutti i suoi privilegi economici e politici, Roma, la vecchia Roma, consolidava e proclamava al cospetto del mondo il suo primato spirituale.

La Chiesa greca ignorò per lungo tempo la legislazione di Serdica e anche quando nel sinodo di Trullo (692) l'accolse nelle proprie collezioni canoniche, sembrò volerle assegnare un valore geograficamente circoscritto all'Occidente. Comunque i canoni erano acquisiti alla disciplina cattolica. E noi possiamo dire che il sinodo di Serdica segna realmente la epifania pubblica, giuridica, formale del primato romano.

Frattanto quel serpeggiare dell'eresia ariana lungo la linea confinale del Danubio, che aveva avuto come condottieri Ursacio e Valente, doveva sortire tragiche conseguenze. L'arianesimo disseminato per volontà di vescovi cortigiani lungo la linea confinale doveva arrivare al di là e guadagnare quelle popolazioni gotiche che tra qualche decennio avrebbero tentato, come maree irresistibili, cosí le vie di Bisanzio come le vie di Roma. E poiché le vie di Bisanzio erano militarmente meglio presidiate, esse si gettarono poi di preferenza contro il punto di minore resistenza, e Roma conobbe il sacco di Alarico.

Politica realistica ed esperienza cristiana sono dunque destinate a seguire linee fatalmente divergenti? Può darsi. Roma fu devastata dai Goti. Ma l'autonomia del magistero religioso che essa aveva difeso al cospetto dei vescovi arianeggianti del Danubio, le permise di sopravvivere come città di Dio, quando fu distrutta Roma città del mondo.

Agostino dirà: «Roma non muore se i romani non muoiono!».

Gli anni che seguirono immediatamente Serdica furono contrassegnati da una serie di tentativi di pacificazione, che sembrarono in un primo momento giungere a felici risultati. Fin dal 344 gli occidentali cercarono di ottenere dall'imperatore Costanzo il permesso per Atanasio di rientrare nella sua sede. Un nuovo sinodo antiocheno escogitò una nuova formula di fede, anch'essa, come quelle del precedente sinodo tenuto nella stessa Antiochia, molto diplomatica e molto evasiva. Tutto il suo interesse è nel fatto che volendo colpire le dottrine sabelliane, imputate già a Marcello di Ancira, quelle dottrine sabelliane che erano un po' l'incubo di questi vescovi orientali, nominava per la prima volta Fatino, allora vescovo di Sirmio, nel quale evidentemente il partito atanasiano aveva uno dei suoi rappresentanti di avanguardia.

Dopo Serdica Atanasio non aveva piú abbandonato l'Illirico e si era fermato a Naisso, il cui vescovo Gaudenzio era uno dei suoi amici piú devoti. Veramente le opinioni di Fatino sembravano andare anche al di là del consustanzialismo di Marcello di Ancira, e prenderne ufficialmente la tutela poteva sembrare impresa alquanto rischiosa. Atanasio si affrettò a scindere la propria responsabilità da quella del discepolo di Marcello. Un sinodo di Milano, al quale erano presenti anche rappre­sentanti dell'episcopato orientale, si decise a condannare Fotino. Gli occidentali chiesero in cambio che fossero colpite di anatema dagli orientali le dottrine di Ario, ma gli orientali si rifiutarono. Ad ogni modo contatti tra i due campi ce n'erano stati e i risultati si annunciarono eccellenti. Nel 346 Atanasio tornava ad Alessandria e nell'anno successivo il secondo sinodo milanese rinnovava la condanna di Fotino. Questo appariscente predominio della politica di Costante su quella di Costanzo indusse i vescovi di Singidunum e di Mursa a mostrarsi piú condiscendenti per i fautori di Nicea. Ma l'intesa fu di breve durata. La fine di Costante nel 350 e l'unificazione quindi dell'Impero nelle mani di Costanzo e la conseguente necessità per lui di restare il piú regolarmente possibile nei pressi della frontiera pannonica, riconducono l'episcopato arianeggiante al suo fastigio e questa volta Fotino fu la vittima designata. Deposto, era sostituito da un asiatico, Germinio, proveniente da Cizico, guadagnato del tutto alle idee degli Eusebiani. La metropoli illirica era di nuovo in mani orientali e la campagna anti-atanasiana ricominciava in pieno. Il nuovo vescovo di Roma, Liberio, succeduto il 17 maggio 352 al vescovo Giulio, fu costretto anche lui a ricominciare la lunga vicenda del suo predecessore. Chiese innanzi tutto all'imperatore la convocazione di un grande sinodo e Costanzo accondiscese. Ma mentre il vescovo di Roma avrebbe voluto che esso si tenesse ad Aquileia, Costanzo invece lo convocò ad Arles, dove allora egli si trovava. E non appena i vescovi si trovarono convocati insieme egli sottopose senza preambolo alla loro firma un decreto già pronto di condanna per Atanasio, che, lo si può facilmente intuire, era stato compilato da Ursacio e da Valente. Fu giocoforza cedere alla volontà imperiale, ma attraverso la volontà imperiale era tutto l'episcopato orientale che veniva a sovrapporsi alle idee e alle visuali dell'episcopato occidentale, ancora in grandissima parte ignaro e maldestro in fatto di competizioni teologiche e di discussioni trinitarie.

Due anni dopo l'episcopato danubiano riportava una nuova e piú importante vittoria. Liberia, amareggiato dall'esito del sinodo di Arles, aveva chiesto all'imperatore la convocazione di una nuova assemblea episcopale e questa si radunò a Milano nel 355. A questa adunanza i piú energici dei vescovi occidentali, fedelissimi al sinodo di Nicea e alla persona di Atanasio, quali Eusebio di Vercelli, Dionigi di Milano, Lucifero di Cagliari, contrapposero l'obbligo preliminare di un'accettazione del simbolo niceno, alla richiesta imperiale di una condanna ad Atanasio. E poiché la loro proposta fu naturalmente respinta dal partito imperiale ed essi si rifiutarono di condannare Atanasio, furono mandati in esilio. Liberio ne seguí poco piú tardi la sorte. Egli fu deportato in Tracia. Anche il vecchio Osio fu confinato a Sirmio e Atanasio era ancora una volta cacciato da Alessandria. Il trionfo ariano era completo. L'episcopato danubiano, arbitro della situazione, aveva servito da strumento docile e fattivo per la propagazione dello spirito cortigianesco orientale nella Chiesa d'Occidente. Ma la vittoria era effimera e precaria. Fu innanzi tutto accompagnata da una divisione profonda nello stesso partito arianeggiante. Tutto concorde nella condanna del consubstantialis come imbevuto di sabellianesimo, il partito ariano non era concorde nel decidere se il Figlio lo si dovesse definire del tutto dissimile dal Padre (anomoios) o simile a lui per qualche rispetto (omoios). Naturalmente la prima opinione fu quella degli ariani rigidi, interpreti fedeli, sebbene usassero una terminologia diversa, del vero pensiero di Ario. E furono chiamati Anomei. Il secondo gruppo fu quello degli Omei che rappresentavano la linea di pensiero precedentemente seguìta da Eusebio di Nicomedia e dai suoi discepoli. Gli Omei stessi si divisero in due sottogruppi. Alcuni professavano il Figlio simile al Padre, ma solamente nella volontà e nelle opere, patrocinando una dottrina nettamente subordinaziana. Ursacio e Valente appartenevano a questo gruppo. Un secondo gruppo invece volle riconoscere al Figlio una natura simile a quella del padre, accogliendo invece del vocabolo omoousios l'altro omoiousios. Attraverso queste sottili e aride disquisizioni teologiche non erano forse gruppi etnici e tradizioni culturali che perpetuavano le loro rivalità e i loro dissensi?

Tra questi gruppi e sottogruppi quello che piú da presso e piú apertamente godeva il patrocinio dell'imperatore volle stabilizzare il proprio evidente successo. E per le mene di Valente e di Ursacio un nuovo sinodo era convocato nel 357 a Sirmio. Fu escogitata una nuova formula di fede in cui, condannandosi in pari tempo le posizioni estreme dell'omoousios e dell'omoiousios, si subordinava puramente e semplicemente il Figlio al Padre. E le pressioni furono tante che alla formula ambigua e in fondo antinicena fu assicurata la firma di Osio e forse anche quella di Liberio.

L'anno successivo 358 vide un subitaneo capovolgimento di parti, dovuto a quelle oscillanti fortune e a quelle variabili esigenze della politica, a cui era fatalmente e logicamente costretto un imperatore condannato a tacitare di volta in volta i molteplici partiti e le eterogenee correnti dei suoi amministrati. Se l'episcopato danubiano in combutta con l'episcopato siriaco aveva fino a questo momento potuto malmenare a suo libito la fede nicena, usando ed abusando della imperizia occidentale, ora era l'Oriente stesso che si ribellava, sotto l'influenza di Basilio di Ancira e degli omoiousiani che seguivano la sua guida. Un sinodo andrano del 358 pronunciò condanna formale contro l'arianesimo, dopo di che delegati del sinodo, con a capo Basilio stesso, si recarono a corte a Sirmio per comunicare la decisione presa. L'imperatore dovette capitolare. Un quarto sinodo si radunava a Sirmio e una nuova formula fu sostituita a quella dell'anno precedente. Non vi figurava l'omoousios, ma il documento poteva pure essere ritenuto ortodosso e fu sottoscritto universalmente. Liberio anche vi appose il suo nome, finendo anch'egli col condannare per lo meno col silenzio il vocabolo ufficiale di Nicea, l'omoousios. Poté cosí tornare a Roma. Non si era ancora alla fine di queste interminabili polemiche. La corte di Sirmio assisteva ad un andirivieni di vescovi da tutte le parti dell'Impero, ciascuno cercante di fare approdare e di portare al successo la rispettiva tendenza teologica. La conversione dell'Impero al cristianesimo non aveva fatto altro che scatenare nel seno dell'episcopato cristiano il prurito scandaloso per un predominio apparente, che in realtà non era altro che un asservimento nettamente antievangelico ai poteri politici e alle loro finalità. Se vinceva Alessandria, era l'Oriente che si ribellava. Se vinceva la corrente teologica orientale, erano gli anatolici che si risentivano. I vescovi danubiani che cercavano di approfittare di questo tramestio per assicurarsi piú pingui privilegi a corte, cercavano di acquistare posizioni di predominio sul propinquo episcopato occidentale. Questo, maldestro e non iniziato nelle polemiche teologali, si raccomandava soprattutto al fascino delle vecchie memorie. Ma tutta questa complessa compagine di vescovi non riusciva a mantenere un accordo che il favore imperiale aveva avvelenato e corrotto. Non era ormai giunto il momento di guardare in faccia alla realtà e di lasciare agire indipendentemente l'uno dall'altro i due episcopati, l'occidentale e l'orientale, entrambi apertamente e radicalmente divisi? L'episcopato danubiano suggerí all'imperatore la convocazione di due sinodi definitivi, uno per gli orientali e l'altro per gli occidentali, e furono designate come sedi Seleucia nella Isauria sulla costa cilicia per gli orientali, e Rimini per gli occidentali. Fu deciso di preparare in anticipo il formulario che i due sinodi avrebbero dovuto approvare e sanzionare. Il gruppo dei vescovi cortigiani, in cui naturalmente Ursacio e Valente spiccavano, fissò la redazione di un testo che costituisce probabilmente il piú rimarchevole saggio di compromesso teologico nel corso di questa lunga crisi. In questa formula il Figlio è proclamato «simile al Padre secondo le Scritture». Per quanto riguarda il termine essenza che i padri hanno adoperato nella loro semplicità di spirito, ma che suscita scandalo tra i fedeli che lo ignorano, non essendo esso usato dalle Scritture, è parso conveniente di sopprimerlo e quindi di non parlare piú di essenza a proposito di Dio, poiché le Scritture non parlano mai di essenza a proposito del Padre e del Figlio. «Noi crediamo – dice la formula – che il Figlio sia simile al Padre in tutto, come dicono e insegnano le Scritture». Quell'in tutto fu un mezzo astuto per coprire alla meno peggio, mercè una quantità di possibili sottintesi e una quantità di capziose interpretazioni, i dissensi profondi che dividevano i vari gruppi dell'episcopato dell'unico Impero di Costanzo.

Pur cosí astutamente compilata, la formula non riuscí ad avere facilmente l'adesione né dei convenuti di Seleucia né dei convenuti di Rimini e fu soltanto dopo lunghe tergiversazioni e dopo laboriose mene politiche, guidate soprattutto da Ursacio e da Valente, che si addivenne ad un accordo sulla formula puramente omoena, cioè della semplice simiglianza tra Padre e Figlio, che Costanzo si era assolutamente messo in animo di imporre a tutti.

In un nuovo sinodo costantinopolitano, che dovette avere il valore simbolico di riunione plenaria di tutto l'episcopato dell'Impero romano, la formula fu definitivamente approvata e dovette costituire la tessera di fede ufficiale nell'Impero. In fondo era sempre l'episcopato danubiano che vinceva, tratto d'unione delle due grandi zone della Chiesa cristiana nell'Impero: la orientale e la occidentale.

Tra i firmatari di Costantinopoli figurava un personaggio che occupava una posizione di primo ordine nella storia dell'arianesimo, come in quella del cristianesimo danubiano: il vescovo nazionale di una parte dei Goti, Ulfila.

Nonostante il suo nome germanico, Ulfila discendeva da una famiglia di schiavi cappadoci, tratti sul Danubio all'epoca della terribile invasione gotica che aveva devastato l'Asia Minore sotto Valeriano. Probabilmente era un cristiano dalla nascita, che calcoli attendibili fan collocare nel 311. Apostolo cristiano tra i Goti, Ulfila avvertí la necessità primordiale di porre i libri santi a loro disposizione. Le versioni orali e parziali che egli nella sua qualità di lettore era stato costretto a compiere, furono il preambolo all'opera di lunga lena che egli concepí il proposito di attuare: la versione gotica della Bibbia. Per condurla a termine, Ulfila creò un alfabeto che sostituí i vecchi caratteri runici, gli unici fino allora adoperati dai Goti. Questi caratteri, che si incidevano sul legno o sul metallo, partecipavano ancora della natura dei geroglifici. Ulfila elargí ai Goti un alfabeto piú ricco, derivante nel medesimo tempo dai caratteri runici, dal greco e dal latino. Il valore storico di un tal fatto, che segnò con la traduzione biblica la prima comparsa di un'opera in lingua tedesca, non ha bisogno di essere rilevato.

Perseguitato dai Goti sulla sinistra del Danubio, Ulfila passò sull'altra sponda con i suoi proseliti e ricevette le migliori accoglienze dai funzionari di Costanzo. Rice­vette come sede la città di Nicopoli nella Mesia. Intimamente mescolato alle sorti e alle preoccupazioni teologiche dell'episcopato danubiano, Ulfila fu tutto guadagnato all'arianesimo che professò fino all'estremo lembo della sua vita. Di questo arianesimo egli personalmente o mercè gli ecclesiastici formati da lui fu l'apostolo fra i Goti dell'altra sponda danubiana.

Recatosi nel 383 a Costantinopoli, in séguito alla convocazione di un sinodo, Ulfila moriva colà. E a lui furono tributate, secondo la testimonianza di un altro vescovo ariano danubiano, Aussenzio, solennissime esequie. E queste esequie, tributate dagli ariani della capitale orientale al vescovo barbaro che vi era morto per caso, assumono un valore quasi simbolico se si considerano le sorti successive dell'arianesimo gotico nell'Impero d'Oriente. In questo momento, dalle regioni rivierasche del Danubio, il centro della vita religiosa dei Goti ariani che rimangono fissati in questa metà dell'Impero, sembra spostarsi verso Bisanzio. Se l'Occidente era destinato ad essere conquistato dai barbari, l'Oriente fu per lungo tempo il terreno di un'invasione lenta, ma continua. Le antiche provincie situate fra il Danubio e i Balcani divengono il soggiorno passeggero dei Germani. Di là partivano per trasferirsi a Costantinopoli tutti quei mercenari che sotto il nome di federati erano ormai incaricati della difesa del suolo romano. La loro esistenza associata venne cosí prendendo un aspetto composito, mezzo barbaro e mezzo romano, mezzo militare e mezzo cittadino. Iniziati all'arianesimo, essi furono dell'arianesimo una particolare e caratteristica realizzazione politica.

Dai Visigoti, l'arianesimo passò agli Ostrogoti, i quali, emigrando poi dalla Pannonia verso l'Italia, lo portarono con sé, trasmettendolo a loro volta ad altre popolazioni barbariche, con le quali vennero a contatto, i Gepidi e i Vandali.

E allora la grande lotta politica che si svolge per entro i confini dell'immenso Impero fra il potere centrale bizantino, le popolazioni barbariche prementi sui vari confini, e, dall'altro canto, tutte le vecchie e venerande tradizioni romane che cercano di coagularsi per resistere cosí alla manomissione bizantina come all'invadenza barbarica, assume colorazioni religiose che sono lo spontaneo e logico rivestimento dei profondi conflitti etnici e istituzionali.

Se l'arianesimo è nelle mani di Bisanzio uno strumento di dominio politico, la necessità di mantenere i contatti e le possibili intese col mondo occidentale, mentre la pressione barbarica si fa piú violenta e penetrante, costringe l'Impero d'Oriente ad attenuare le sue intransigenze dottrinali e a ripiegare su posizioni teologiche meno ostiche al pensiero occidentale. Tutte le polemiche del quarto secolo cadente e del quinto secolo non sono forse altrettanti stadi di ripiegamento dalla posizione ariana?

E in questa lotta sorda e tenace tra una politica che fa della religione il suo preferito strumento di governo e una religione che cerca di trasformarsi anche in disciplina empirica della massa dei propri fedeli, le popolazioni barbariche, forza greggia suscettibile di tutti gli influssi e di tutte le formazioni, pencolano fra l'uno e l'altro centro d'azione, con oscillazioni temporanee che imprimono a tutta la storia del quinto e del sesto secolo occidentale e mediterraneo un'andatura piena di drammaticità.

Sebbene ancora lontana nel quinto e nel sesto secolo dalla centralizzazione che guadagnerà soltanto piú tardi, la Chiesa cattolica possiede ad ogni modo una gerarchia che ne regge in maniera analoga se non identica tutte le parti e che mette capo ad un esiguo numero di autorità e a un capo supremo. Le Chiese ariane, al contrario, costituitesi ai confini dell'Impero e, attraverso le invasioni, penetrate nel suo piú intimo corpo, sono molteplici e difformi l'una dall'altra. Sono vere Chiese nazionali che hanno i loro vescovi, preposti non a circoscrizioni territoriali fisse, ma a tribú in perenne movimento e costantemente alla ricerca di nuove sedi migliori. Ulfila, Selena, guidano spiritualmente i Goti della Mesia; Massimino segue un contingente gotico passato dalla regione danubiana in Africa; Sigisario è la guida spirituale dei Visigoti emigrati in Occidente; Trasalico è il maestro spirituale dei Gepidi. Ulfila e Selena si considerano alle dipendenze del vescovo ariano di Costantinopoli, ma solo i Goti della Tracia e della Mesia si sentono legati ad una gerarchia, il cui pastore immediato non occupa il vertice del potere spirituale. I barbari che si spostano incessantemente da un angolo all'altro dell'Impero non conoscono altro clero che il loro clero particolare. Una volta acquistate dimore stabili nelle loro nuove conquiste, si ritrovano a capo delle loro Chiese capi nazionali, come il patriarca dei Vandali, il quale non è altro che il cappellano della corte, innalzato ad un grado superiore.

Già a quest'epoca la scissione che il grande scisma avrebbe parecchi secoli piú tardi consumato tra l'Oriente e l'Occidente si è delineata e la linea di demarcazione dei due gruppi religiosi ostili, l'uno in comunione con Roma, l'altro in comunione con Costantinopoli, è apparsa al momento del Concilio di Serdica lungo quell'Illirico, che tanto contribuí alla rottura delle due parti cristiane. Un secolo dopo la fine della crisi, un'altra scissione, prolungamento della prima, si può constatare tra i cristiani di questa regione, come in piú della metà del mondo occidentale. Sudditi o antichi sudditi dell'Impero, di nuovo quasi tutti fedeli all'ortodossia, membri della Chiesa il cui centro è a Roma, e barbari stranieri di professione religiosa ariana, costituiti in altrettante Chiese differenti e separate quanti sono i gruppi etnico-nazionali, rimangono gli uni di fronte agli altri refrattari a qualsiasi tentativo di fusione.

E di questo stato di cose la genesi è ancora nel passato della Chiesa illirica, poiché il passaggio della maggioranza dei popoli transdanubiani all'arianesimo dal quarto al sesto secolo ha il suo punto di partenza in questa Chiesa illirica.

L'Italia e la Spagna non meno dell'Illirico hanno risentito le conseguenze letali di questa lacrimevole divisione religiosa che ha reso piú dure le conseguenze dello sconfinamento e piú funeste le ripercussioni della lotta politica. Goti e Rugi, Eruli e Gepidi, Vandali e Longobardi, si sono avvicendati sui territori di conquista portando nella loro stessa fede separatista, vulnerata in origine dalla mancanza di un vero senso dell'autonomia religiosa a causa della professione ariana, un ostacolo insormontabile ad una fusione con le popolazioni conquistate che avrebbe potuto rendere meno penoso e arduo il passaggio verso le nuove forme di civiltà.

Roma, dal canto suo, spogliata del potere centrale politico, chiamata a riguadagnare sul terreno religioso quel che aveva perduto col trasporto della capitale a Bisanzio, era impegnata a fare del suo magistero religioso il fondamento e la costruzione di un'autorità spirituale che avrebbe creato tutta una nuova visione della vita associata, quella visione della vita associata che, praticata da Ambrogio, teorizzata da Agostino, avrebbe permesso al cristianesimo di creare la sua forma specifica di vita sociale, la forma medioevale.

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