È stato detto che la dinastia papale è la piú antica dinastia del mondo. Ma è una dinastia il Papato? Ha anch'essa la sua successione, ma non conosce altre ereditarietà che la ereditarietà di un retaggio appartenente unicamente allo spirito. È il retaggio dei carismi ecclesiastici che il Papato amministra. Si potrebbe dire pertanto che la sua forza originaria e inconfondibile è in ragione diretta del mantenimento vigile e scrupoloso della propria eterogeneità al cospetto di qualsiasi potere monarchico terreno, e di qualsiasi trasmissione dinastica umana. Noi abbiamo veduto questo governo accentratore romano che è il Pontificato delinearsi progressivamente durante le controversie ecclesiastiche del secondo secolo ed assumere una sagoma sempre piú marcata e un potere sempre piú vasto durante quel quarto secolo che vide l'allontanamento del potere imperiale da Roma verso Bisanzio, e lo spostamento di tutto l'asse politico del mondo mediterraneo.
Roma, politicamente depauperata, riprendeva le sue mansioni di guida in grembo alla civiltà occidentale, sul puro terreno della spiritualità e dell'esperienza religiosa. Roma era stata vinta culturalmente dall'Oriente, ma si prendeva la sua rivincita facendo del patrimonio spirituale ricevuto dall'Oriente la materia della propria disciplina e del proprio magistero. C'è stata una Europa latina e c'è un'Europa latinizzata. L'Europa latina ha rappresentato la conquista militare di Roma, l'Europa latinizzata ha rappresentato la conquista di Roma cristiana e papale. L'Europa latina ha obbedito a Cesare. L'Europa latinizzata ha obbedito al Pontefice. L'Impero è sopravvissuto, sotto le piú strane e imprevedibili reincarnazioni, a Cesare, per diciotto secoli. Pietro sopravvive tuttora.
Romana nel 29 a. Cristo, la figura imperiale si è ellenizzata a metà nel 330, diviene completamente greca nel 476, è franca nel nono secolo, germanica nel 962, fiamminga nel 1519, francese nel 1804. Le piú singolari vicende hanno accompagnato nella storia europea la trasmissione e la reviviscenza della dignità imperiale. Anche il Papato ha subìto le sue profonde metamorfosi e l'aumento del suo potere si attua di pari passo con una elaborazione sempre piú complessa della dogmatica teologale e con un irrigidimento sempre piú meccanico e sempre piú legalistico e burocratico della sua disciplina.
Il IV secolo segna da questo punto di vista un periodo di importanza capitale. Noi l'abbiamo già visto nello svolgimento delle polemiche teologiche nella prima metà del IV secolo e nei primi lustri della seconda metà. Sono le polemiche trinitarie, inserite sul piano di sviluppo della politica imperiale romana dopo Costantino e fuse con le competizioni economico-sociali scaturite dal trasporto della capitale imperiale a Bisanzio, che portano automaticamente la Sede Romana ad una affermazione sempre piú vasta e calcolata dei suoi poteri e ad una costituzione sempre piú accentrata dell'episcopato cristiano.
Come manifestazione conclusiva di questa ascensione del potere ecclesiastico romano in tutta la zona della vita ecclesiastica, particolarmente dell'Occidente, noi possiamo registrare il pontificato di Papa Damaso tra il 366 e il 384. All'epilogo della sua grande opera storica Res gestae lo storico pagano Ammiano Marcellino, suo contemporaneo, parla della sede vescovile romana in questi termini: «Quando si scorge il fasto mondano che circonda questa dignità, non c'è da restare meravigliati constatando l'asprezza delle lotte in cui la conquista di tale insigne potere è la posta. Coloro che la desiderano sanno molto bene che, pervenuti alla meta delle loro aspirazioni, saranno ricolmati di doni dalle matrone romane, che saranno trascinati su veicoli pomposi, che potranno essere rivestiti con la piú sfarzosa magnificenza, e che la loro tavola non la cederà di certo a quella degli imperatori. Eppure essi sarebbero ben piú felici se invece di cercare nella grandezza della città il pretesto alle loro lussuose esorbitanze, prendessero a modello la vita di quei vescovi provinciali che seguono un regime austero, indossano vesti grossolane e disadorne, e marciano con gli occhi umili, piegati sulla terra. Quelli sí che sono resi, dalla purezza dei costumi, dalla semplicità della vita, gradevoli al Dio eterno e rispettabili al cospetto di tutti i suoi veri servitori».
Quando Ammiano Marcellino scriveva cosí doveva essere ben vivo a Roma il ricordo delle scene cruente che vi si erano svolte al momento di nominare il successore al vescovo Liberio. Il popolo si divise nettamente in due partiti che rispecchiavano probabilmente classi sociali e orientamenti politici divergenti nella Chiesa romana. Un partito si pronunciò in favore di Damaso, figlio di un prete aggregato alla chiesa di San Lorenzo, l'altro prese le parti del diacono Ursino. I partigiani di Damaso ebbero il sopravvento, non rifuggendo da grossolane violenze. Asceso al potere con mezzi cosí poco cristiani, Damaso lo esercitò con mano ferma e propositi risoluti. La disciplina da lui instaurata doveva pesar decisivamente nella evoluzione posteriore e nella determinazione canonica del regime ecclesiastico. Damaso sa cogliere tutte le occasioni per affermare sempre piú risolutamente il potere pontificale romano e imporre a tutte le comunità cristiane d'Occidente i principî e i costumi invalsi nella vecchia capitale dell'Impero, la cui atmosfera era tutta impregnata della cultura teologica e della ascesi morale, propagate e inculcate da scrittori come Girolamo.
Verso il 375 i vescovi della Gallia consultavano la Sede apostolica su differenti punti di disciplina ecclesiastica riguardanti il clero, il celibato ecclesiastico, le condizioni prerequisite per essere ammessi agli Ordini sacri, alla amministrazione battesimale. Damaso rispondeva indirizzando ai vescovi galli una serie di istruzioni che può effettivamente essere considerata come la epifania del diritto ecclesiastico.
«Non siamo noi solamente – sentenzia Damaso – ma è la stessa Scrittura divina che ordina ai vescovi, ai preti e ai diaconi di essere castissimi. Anche i vecchi padri ecclesiastici hanno cosí prescritto di conservare la continenza corporale... Ripetute volte di già noi abbiamo avuto occasione di corrispondere con varie Chiese a proposito del celibato ecclesiastico, particolarmente per quanto riguarda i vescovi che debbono offrire ai loro popoli l'esempio delle buone opere. La Chiesa romana segue il principio di ammettere al proprio clero soltanto coloro che, dopo avere ricevuto da fanciulli il battesimo, hanno conservato la integrità del loro corpo, o coloro che battezzati in età matura hanno condotto, dopo il loro battesimo, una vita onesta. Bisognerà pur dare la ragione di questa pratica. Con quale autorità il vescovo e il prete potranno raccomandare la castità alla vergine, la continenza alla vedova, se essi stessi pensano piú a generare figli per il mondo che a farne nascere a Dio? I preti che generano figliuoli non sono degni del sacerdozio. Bisogna bene che i vescovi, i preti e i diaconi sappiano che la loro vita non deve essere quella dei pubblicani. Vi avverto dunque, miei carissimi, in nome del rispetto dovuto alla religione, che non bisogna affidare il ministero di Dio ad uomini che maculano il loro corpo nel fango della incontinenza. L'Apostolo ha detto che la carne ed il sangue non entreranno nel Regno dei Cieli e che la corruzione non raggiungerà mai la incorruttibilità. Dopo aver letto queste parole, un prete o un diacono come potranno pretendere di vivere a modo delle bestie? Se vi è una sola fede, vi deve essere ugualmente una sola tradizione e se vi è una sola tradizione, vi deve essere una sola disciplina in tutte le Chiese. Chi agisca altrimenti dovrà ritenersi separato dalla società dei cattolici e tagliato fuori dalla comunione della Sede apostolica».
Cosí, nel momento in cui l'unità spirituale dell'Impero si veniva logorando in séguito alla instaurazione della capitale bizantina e a tutti i rivolgimenti che questo fatto capitale portava con sé, la Roma ecclesiastica e curiale imponeva all'Occidente le supreme direttive del suo magistero e dei suoi ordinamenti, avvalorando e consacrando un potere chiamato a cosí vasti destini. Nella zona strettamente dottrinale il potere di Damaso si faceva sentire non meno energicamente.
Un sinodo radunato a Roma nel 369 intorno al vescovo Damaso riaffermava solennemente, sotto l'ispirazione del Pontefice, la fede nicena contro le titubanze e le defezioni dell'episcopato illirico. D'altro canto la persistenza delle correnti contrarie al proprio potere nella Chiesa di Roma stimolava il vescovo Damaso a chiedere ai sovrani d'Occidente un appoggio politico che non poteva essere dato senza corrispettivo.
Questo amalgamarsi sempre piú stretto della autorità religiosa in Occidente con i poteri politici occidentali non vietava all'energico e lungimirante vescovo romano di intervenire autorevolmente nelle persistenti polemiche teologali orientali. Un altro sinodo romano del 377 condannava, sempre sotto lo stimolo e la ispirazione di Damaso, le dottrine religiose di Apollinare di Laodicea il quale, restaurando vecchie concezioni gnostiche, vulnerava la realtà della divina incarnazione nel Cristo, e le altre dottrine orientali neganti la divinità dello Spirito Santo e la permanente esistenza del Figlio.
L'Impero d'Occidente spiegava sempre piú apertamente e ampiamente il proprio potere in favore dell'autorità disciplinare e religiosa del vescovato romano. Con un editto del 28 febbraio 380 Teodosio si impegnava ad intervenire civilmente e rigorosamente contro tutti coloro che non conformassero la loro fede a quella del vescovo romano e all'annuncio generico seguivano i fatti.
La solidarietà del potere politico e del potere religioso in Occidente ebbe modo di manifestarsi in una maniera tragica e clamorosa in occasione del movimento priscillianista in Spagna, movimento le cui connotazioni teologiche sono piuttosto incerte e discutibili, ma che forse non era altro nella sua sostanza che una interpretazione rigida e dualistica del cristianesimo, che lo poneva in simultaneo contrasto cosí con le autorità politiche come con quelle gerarchiche ecclesiastiche. Il corifeo del movimento, Priscilliano, era contemporaneamente condannato dalla autorità ecclesiastica e dall'imperatore, e segnava col suo supplizio l'inizio di una lunga categoria di vittime religiose della intransigenza dogmatico-ufficiale, fiancheggiata e sorretta dai poteri politici. L'Inquisizione era nata.
Si iniziava cosí quel patetico dramma che avrebbe, attraverso i secoli, accompagnato lo sviluppo e l'espansione della Cristianità mediterranea. Il Vangelo era nato come rivendicazione assoluta ed intransigente dei valori religiosi di fronte a tutte le categorie degli altri valori umani, economici, politici, sociali. Realizzando una meravigliosa dialettica attraverso e in virtú delle antitesi, il cristianesimo si era insinuato nel mondo come uno sforzo stupendamente audace di aiutare e favorire lo sviluppo della civiltà, contrapponendo ai valori empirici un insieme di valori trascendenti, che il Nuovo Testamento riassume sotto il miraggio del «Regno di Dio» e di «giustizia del Regno di Dio». Col cristianesimo la società umana si atteggiava a volere innalzare sempre piú il proprio livello, mercè la contrapposizione di una superiore giustizia di Dio alla effimera e precaria giustizia degli uomini. Visuale ardua e consegna lacerante, che affidavano l'equilibrio della umana convivenza allo squilibrio dei valori e delle aspirazioni. La Cristianità si annunciava pertanto nel mondo come lotta, lotta però di spiriti e di ideali, e come tale capace veramente di far fermentare, senza interruzione, la massa umana, destinata ad essere in pari tempo il dominio delle forze politiche e il corpo mistico ed impalpabile del Cristo ascendente e trionfante nella storia.
La conversione dell'Impero al cristianesimo, il riconoscimento del cristianesimo come religione legale, accompagnati dallo spostamento della capitale del grande Impero a Bisanzio, erano venuti ad imporre al dramma intimo che il cristianesimo porta nel proprio grembo per il fatto stesso che esso è nella vita empirica degli uomini, una diversa polarizzazione in Oriente e in Occidente.
In Occidente sarebbe stata l'autorità religiosa, sbarazzata dalla vicinanza insidiosa del proprio rivale, il potere politico, a cercare di captare a proprio servigio e a proprio vantaggio, nella difesa della propria ortodossia e della propria disciplina, le autorità politiche che si sarebbero venute successivamente costituendo.
In Oriente fu l'autorità politica che cercò di captare e asservire l'autorità gerarchica della Chiesa, che d'altro canto non disponeva qui di un centro di raccolta cosí venerando e cosí insigne di tradizioni e di fascino come era la sede vescovile della vecchia capitale dell'Impero in Occidente.
D'altra parte la conversione ufficiale dell'Impero, la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato, le nuove mansioni piovute sulle spalle della visibile autorità ecclesiastica per il fatto stesso della trasformazione politico-territoriale dell'Impero, imponevano alla coscienza cristiana un problema intimo, veramente tormentoso. In quale misura il cristianesimo avrebbe conservato quella sua visione dualisticamente polarizzata del messaggio evangelico, per cui tutto nell'universo sta a testimoniare la lotta permanente ed irresolubile fino al giorno della inaugurazione del Regno di Dio, fra Dio, il Padre, e Satana, l'antico nemico ed avversario?
Il manicheismo, il cui carattere fondamentale cristiano appare sempre piú chiaro attraverso i rinvenimenti documentari degli ultimi lustri, aveva in qualche modo riacutizzato la consapevolezza dualistica del cristianesimo primitivo, generando quelle aspre polemiche teologali e disciplinari, che caratterizzano il quarto secolo e che possono tutte in qualche modo riportarsi, come a comune denominatore, alla inquietante ricerca della equilibrata economia fra il bene e il male nel mondo.
Sostanzialmente il priscillianesimo era un tentativo di ravvivare nella morale e nella organizzazione della società cristiana i principi dualistici, quei principî dualistici che sono, per definizione, si direbbe, ascetici, antidemografici, sovversivi. L'alleanza del potere politico e del potere religioso in Gallia e in Spagna fece di Priscilliano la prima vittima dell'Inquisizione. Ma quanti altri non erano, da vicino o da lontano, nell'indirizzo priscillianista? San Girolamo, anche lui, non era stato aspramente accusato di manicheismo?
Egli traversò una dura prova quando, nella prima quindicina del dicembre del 384, Damaso moriva e gli succedeva nel vescovato romano un uomo pio e mite, Siricio.
Intorno al nuovo vescovo avevano cominciato subito i maldicenti, che da tempo mal tolleravano l'ascendente che Girolamo si era conquistato nella piú alta società cristiana di Roma, a spargere i loro sussurri e le loro mormorazioni. Parve giunto il momento per trar vendetta di tutti gli strati che Girolamo aveva scagliato contro il sacerdozio trafficante e mondano della metropoli.
Ci si incominciò a domandare se la sua predicazione ascetica, spinta a conclusioni teoriche estreme, non racchiudesse pericolose infiltrazioni manichee.
Un improvviso luttuoso avvenimento era venuto ad accreditare in certo modo i sospetti e le insinuazioni degli avversari di Girolamo e a dare definitivamente il tracollo alla sua posizione. Il vescovo Siricio era salito da poche settimane sulla cattedra romana quando la giovane Blesilla, che Girolamo aveva strappato alla vita mondana e aveva convertito alla piú dura vita ascetica, ammalava repentinamente e in pochi giorni moriva. Il lutto improvviso della nobilissima famiglia, sulla quale convergevano gli sguardi di tutti, cosí cristiani come pagani, fu in città un lutto pubblico. Il giorno dei funerali una fitta calca di popolo si assiepava nelle vie per cui doveva passare il corteggio mortuario. Improvvisamente un bisbiglio commosso percorreva la folla. Che cosa era accaduto? Una matrona, che seguiva con altre il feretro, era caduta priva di sentimenti. Chi era essa? Lo si seppe ben presto: era la madre della morta: Paola. Allora l'ira e il raccapriccio del popolo non furono piú contenuti. Si mormorava: «Non lo dicevamo noi? la madre si strugge per la perdita della figlia consumata dai digiuni. Fino a quando tollereremo noi che questa miserabile progenie di monaci turbi la serenità e la felicità delle famiglie? Perché non li gettiamo tutti a fiume o non li lapidiamo o quanto meno non li cacciamo dalle mura? Costoro hanno sedotto Paola e l'hanno tratta, nolente, ai loro disegni. O come può essersi spontaneamente data a rigida vita ascetica una donna che piange la sua figliuola come nessuna pagana mai ha pianto i suoi morti?».
Se Girolamo si fosse quel giorno avventurato per le vie della città avrebbe corso un serio rischio. Rifugiato invece in casa di Marcella egli si sottrasse alla raffica che investiva la sua propaganda ascetica. Se i poteri politici avessero avuto a Roma libertà d'azione pari a quella che Massimo aveva in Gallia, probabilmente anche Girolamo avrebbe potuto essere sottoposto a un procedimento criminale analogo a quello che fece di Priscilliano la prima vittima dell'alleanza fra autorità ecclesiastica ed autorità civile. Girolamo ad ogni modo comprese la precarietà della sua posizione e si allontanò da Roma per l'Oriente. La Chiesa da quel momento sarebbe stata costantemente incerta fra le esigenze ascetiche delle sue idealità e le esigenze pratiche e concrete del suo quotidiano ministero fra gli uomini. Tutta la storia del Medioevo è nello spiegamento di questo contrasto.
Da una parte la Chiesa era irresistibilmente sospinta dai principî dualistici che avevano formato le basi costruttive del messaggio evangelico e che avevano costituito la giustificazione teorica del suo atteggiamento di fronte ai valori tutti della vita empirica nei suoi vari gradi gerarchici, a indulgere alla morale ascetica, che il manicheismo aveva ripristinato soprattutto sul terreno delle relazioni sessuali. Ma d'altro canto la Chiesa, chiamata ormai ad assolvere una delicatissima funzione di concreta pedagogia costruttiva in una società che i rivolgimenti politici e lo spostamento dell'asse imperiale verso Oriente avevano pericolosamente esposto ad un processo di caotica dissoluzione, si premuniva dalle possibili capacità disgregatrici e dissolvitrici di un ascetismo che, preso alla lettera, avrebbe inaridito alle radici le fonti della vita e gli elementi stessi primitivi della organizzazione sociale.
Il problema che il cristianesimo primitivo aveva dovuto risolvere nel momento stesso di uscire dall'àmbito circoscritto ed angusto della Palestina, àmbito adatto e commisurato alla aspettativa dell'imminente Regno di Dio, il problema cioè dei rapporti e delle possibili forme di contemperanza tra la visione del secolo futuro e i doveri verso il secolo presente, si ripresentava ora, nel quarto secolo, ingigantito nelle sue efficienze positive, per il fatto che il cristianesimo, divenuto religione di maggioranza, aveva piú che mai, gravoso e tassativo, l'onere di provvedere alla costituzione della nuova società mediterranea. Sorgeva infatti, in quel quarto secolo cadente, la nuova forma cristiana che la civiltà del Mediterraneo avrebbe mantenuto per tutti i secoli del Medioevo. Per questo ogni singolo atto dei Pontefici del quarto secolo ha in sé un'importanza superiore all'episodio che lo determina.
I vescovi dell'Occidente latino cominciano spontaneamente a gravitare verso la Sede di Roma da cui attendono la guida, la norma, l'istruzione. Mentre sull'episcopato orientale si fa pesantemente sentire la pressione dei poteri politici bizantini che dall'epoca di Nicea in poi pretendono di poter dire la loro decisiva parola in tutte le questioni religiose, in Occidente l'episcopato romano, riflettendo in sé le superstiti luci del prestigio e della potenza spirituale che avevano sempre accompagnato la metropoli dell'Occidente, riesce veramente a costituirsi centro di raccolta e punto di riferimento di tutta la disciplina ecclesiastica e di tutta l'organizzazione episcopale. Siricio era appena stato insediato nella sua funzione di vescovo romano che si vedeva giungere richiesta di istruzioni dal vescovo Irnerio di Tarragona. I punti della disciplina su cui il vescovo chiedeva direttive alla Sede romana riguardavano il battesimo, la valutabilità delle colpe, le forme della vita del clero. A ciascun quesito Siricio risponde, in tono autoritativo, enunciando decisioni che non tollerano repliche o deviazioni.
Uguale tono autorevole noi troviamo nelle corrispondenze scambiate tra Siricio e i vescovi italiani. In una di queste un decreto interdice di procedere ad una qualsiasi consacrazione vescovile senza l'autorizzazione della Sede apostolica romana. In un'altra noi troviamo esplicitamente affermato il principio che al vescovo di Roma incombono la cura e la vigilanza su tutte le chiese.
Contemporaneamente, mentre Siricio condannava Gioviniano, reo di professare dottrine eterodosse e deprezzative sullo stato verginale, lo denunciava alle autorità politiche come reo di manicheismo. Secondo una testimonianza del Liber Pontificalis sarebbe stato proprio il vescovo Siricio ad indurre l'imperatore a promulgare un decreto (17 giugno 389) che condannava all'esilio i manichei. Il vescovo Siricio moriva negli ultimi giorni dell'anno 398. Gli succedeva il romano Anastasio il cui pontificato durò tre anni. Ma in questo breve periodo di tempo una grossa questione fu sottoposta alla sua sentenza giudicatrice: la questione dell'origenismo. Noi l'abbiamo veduta già trattata, parlando di San Girolamo, che scese in campo, dal suo ritiro betlemita, contro lo scrittore alessandrino, reo di avere introdotto nell'apologetica cristiana una visione ultra-spiritualistica, incapace di tutelare idealmente quella concezione burocratica ed empirica della Chiesa, del suo magistero, della sua disciplina carismatica, della sua amministrazione sacramentale, di cui ormai la Chiesa occidentale non avrebbe potuto fare a meno.
Non si può dire, in verità, che nella questione dell'origenismo il pontificato di Anastasio abbia esercitato una parte cospicua ed una efficacia rilevante. La polemica è condotta soprattutto da Teofilo con l'assistenza di San Girolamo e di Sant'Epifanio. È Teofilo di Alessandria che ottiene un editto imperiale, proscrivente la lettura delle opere origeniane. Ad ogni modo, Anastasio si schierò dalla parte di Teofilo, condannando l'origenismo.
Questa solidarietà della Sede romana con l'episcopato alessandrino e con le tendenze prevalenti della Cristianità orientale non deve darci illusioni sulle vere e profonde relazioni reciproche fra l'Oriente e l'Occidente cristiani. Lo spostamento della capitale a Bisanzio ha alterato in maniera sensibilissima tutti i caratteri primitivi della propaganda evangelica nel mondo mediterraneo. Le esigenze della esperienza religiosa, foggiata ormai da quattro secoli di proselitismo cristiano, reagiscono fatalmente in maniera diversa in Oriente e in Occidente alla situazione generale cosí profondamente e sostanzialmente trasformata. L'Occidente deve dare un'impalcatura politico-sociale alla professione cristiana. L'Oriente deve scegliere il suo atteggiamento pratico di fronte a tutta una burocrazia statale, che gli è venuta incontro con tutte le forme accaparratrici della politica che chiede alla religione un baluardo ed un sostegno.
L'Occidente, tratto dalle imperiose esigenze della sua nuova e vasta funzione storica, potrà concedere al dualismo agostiniano quanto basta perché il magistero ecclesiastico abbia nelle direttive dualistiche la salvaguardia del suo magistero e del suo ministero.
In Oriente i piú intimi collegamenti con le forme politiche statali vigenti imporranno automaticamente una divisione piú visibile fra il ministero sociale dell'episcopato e la missione spiritualistica dell'ascetismo, il cui dualismo intransigente porterà piú tardi alla grande lotta iconoclastica. Risultato piú visibile e piú appariscente di questa difformità di situazioni e di orientamenti, sarà la costituzione del Pontificato romano, intorno a cui verrà per secoli a raccogliersi tutta la spiritualità religiosa e culturale del Mediterraneo, su cui Roma aveva già da secoli segnato la sua impronta unitaria e la sua solidarietà ideale.
La figura nella quale questo organarsi in forme di disciplina unitaria della civiltà cristiana occidentale si concretizza in maniera di piú palpitante rilievo è la figura del Pontefice Leone il Grande, Santo e dottore della Chiesa. Successo a Sisto III nel settembre del 440, Leone si trovò mescolato al maturare degli eventi decisivi per l'Impero romano d'Occidente. La pressione dei barbari, scendenti dal Nord, si faceva ogni giorno piú urgente e irresistibile. Quando nel 452 Attila, con i suoi Unni, scende verso Roma, Valentiniano III, esautorato ed imbelle, non sa fare altro che ricorrere ai buoni uffici del vescovo di Roma. La leggenda ha voluto l'intervento del Pontefice, a salvezza della minacciata incolumità imperiale, nell'alone di luce di una meravigliosa leggenda. Il primo testimone di questa leggenda è, agli inizi del secolo nono, Paolo Diacono. Egli ci addita il Pontefice in atto di arrestare, alla confluenza del Po e del Mincio, le orde unne, in marcia verso Roma. Comunque, sta di fatto che è in séguito a quell'intervento pontificale che Attila prende la via del ritorno. Meno fortunato fu il medesimo intervento, quando si trattò di arrestare, a tre anni di distanza, i Vandali di Genserico. Ma lo spiegamento di questo potere politico-diplomatico del vescovo romano non è che la manifestazione esteriore e politica di una funzione morale di magistero e di guida, che Leone spiega con tutto il grandioso fascino di una personalità di eccezione.
Leone Magno, questa volta erede di tutta la veneranda tradizione che da tre secoli si era accumulata intorno ai poteri spirituali della Chiesa romana, non considera piú la Chiesa come una federazione di vescovi, ciascuno dei quali nella propria circoscrizione diocesana esercita poteri sovrani ed incontrollati, bensí come un esercito di vescovi, ciascuno distaccato nella propria provincia, per essere tutti idealmente riuniti e ugualmente dipendenti dal vescovo di Roma, che unico possiede in sé la pienezza delle mansioni e dei carismi, sulla vita e l'operosità della Chiesa universale. Leone Magno definisce esplicitamente il vescovo romano primate di tutti i vescovi, duce di tutta la Chiesa, perché, secondo le argomentazioni che Callisto aveva adoperato la prima volta nei primi decenni del terzo secolo, la dignità, il potere, l'autorità, concessi da Cristo a Pietro su tutta la Chiesa, si sono ininterrottamente trasmessi nei suoi successori sulla Sede romana.
Sia che si rivolga ai vescovi delle diocesi suburbicarie dipendenti direttamente da Roma; sia che si rivolga ai vescovi delle diocesi non suburbicarie, raggruppate giuridicamente in sinodi provinciali; sia che si rivolga all'episcopato della Gallia, della Spagna e dell'Africa; dovunque ci sia un torto da riparare, un giudizio da pronunciare, una regola canonica da inculcare, una sentenza da emanare, un principio nuovo da instaurare, Leone è vigile e presente, con un senso veramente impressionante della inderogabile e invulnerabile autorità della Sede romana.
Lo si vide ben chiaro nelle controversie religiose d'Oriente, che dopo le annose discussioni iniziatesi col Concilio di Nicea, avevano raggiunto attraverso le polemiche nestoriane ed eutichiane il loro acme. La cristologia delle Chiese orientali aveva oscillato dal Concilio di Costantinopoli (381) in poi tra la forma tendente a dividere irreconciliabilmente il divino e l'umano, unicamente coabitanti senza contatto, nell'essere del Cristo, e la forma tendente ad annullare completamente l'umano, nell'unica natura divina del Cristo. Nestorio aveva piuttosto abbondato nella valutazione umanistica del Cristo: Eutiche era andato al polo opposto, annullando, si può dire, ogni connotato umano nella fantasmagorica apparizione del Cristo Dio. IlTomo a Flaviano di Leone formulava la dottrina della duplice natura con una chiarezza cristallina, che avrebbe fatto di questa formula di fede un documento capitale nello sviluppo della teologia e della spiritualità del mondo cristiano. Roma stringeva cosí ancora una volta i suoi ultimi patti con l'Oriente bizantino. La Romània esisteva ancora in pieno. E la riconciliazione tra Roma e Costantinopoli sulla base della condanna di Eutiche, appariva come simbolo e sanzione di una ancora superstite fondamentale unità del mondo mediterraneo, destinata a sopravvivere per due secoli, fino all'epoca della irruzione islamica.
Questa unità aveva, dal punto di vista ideologico e religioso, il suo fondamento essenziale in una parallela visione del destino umano nel mondo e dei rapporti fra società religiosa e società politica. Le divergenze che l'Occidente e l'Oriente si portavano in grembo a proposito di questi rapporti non avevano ancora avuto agio di esplodere e di manifestarsi in tutta la loro capacità di corrosione.
Tutelatore delle dottrine agostiniane in quello che esse hanno di praticamente normativo, Leone d'altra parte è avversario risoluto ed inconciliabile dei postulati dualistici manichei. Qui anzi probabilmente è uno dei lati piú rilevanti e piú significativi del suo ministero apostolico.
Come già in altre epoche della storia del cristianesimo, il momento particolarmente delicato dello sviluppo della società religiosa e della delimitazione dei suoi rapporti con l'autorità politica poneva al primo piano il problema della natura del male cosí individuale come collettivo, delle sue ragioni prime, della sua funzione nel piano cosmico dell'universale organizzazione dell'essere. E il problema era risolto da larghi nuclei di credenti con quelle stesse presunzioni dualistiche che noi troviamo come un nucleo costantemente in fermento nella struttura della civiltà mediterranea.
Dal giorno in cui sulle orme di Ciro e dei suoi successori dell'Impero achemenida la propaganda zarathustriana aveva cominciato nel sesto secolo avanti Cristo a muovere verso le coste anatoliche, la visione dualistica del mondo non ha mai cessato di operare in profondità nei tessuti della spiritualità e della cultura del Vicino Oriente e del Medio Mediterraneo.
Il cristianesimo stesso come abbiamo potuto già ripetute volte constatare era stato alle sue origini, come il giudaismo post-esiliaco, largamente tributario della tradizione dualistica.
Ma il dualismo cosí etico come metafisico, la certezza cioè che il male non è una semplice negazione o parziale partecipazione del bene, ma che al contrario è una realtà concreta e positiva, positivamente operante in antitesi, in contrasto permanente di fronte al bene, è una delle piú paradossali situazioni che si possano immaginare cosí dal punto di vista della dialettica astratta come dal punto di vista della costituzione sociale e della sua disciplina.
Dialetticamente il dualismo, l'ammissione cioè di due principî preesistenti alla esistenza empirica, armati uno di fronte all'altro nella continua insidia reciproca, sembra insostenibile in quanto è una esplicita deroga e una palese offesa al postulato della onnipotenza dell'Essere Supremo creatore e reggitore dell'universo.
Nel dominio della vita concreta e pratica il dualismo può rappresentare una forza negativa di distruzione e di corrosione, favorendo le forme aberranti della ascesi che sono per definizione e per antonomasia incompatibili con il normale funzionamento e sviluppo della costituzione sociale.
D'altro canto però non si dà consegna di palingenesi e di resurrezione se non a patto di riconoscere che v'è nel mondo una malvagità concreta per vincere la quale è necessaria la lotta e sono necessarie la sofferenza e l'agonia del bene.
Ogni forte esperienza religiosa è quindi fondamentalmente e indeclinabilmente dualistica. Ma le grandi organizzazioni religiose non possono apertamente e senza clausole restrittive fare appello ai principî del dualismo. Possono viverne: ma debbono negarli. Questa la sorte della Chiesa cristiana nel mondo. Ad ogni momento saliente della sua storia noi vediamo riaffiorare correnti dualistiche che la ortodossia ufficiale combatte e soffoca. Ma senza quelle correnti dualistiche la stessa ortodossia sarebbe incapace di sopravvivere.
Lo abbiamo visto al tramonto del terzo secolo al momento della nascita e del diffondersi fulmineo del movimento manicheo. Lo rivediamo ora alla metà del secolo quinto mentre sulla storia dell'Occidente cristiano grava la tanto oscura minaccia delle invasioni barbariche. Lo si vedrà di nuovo al declinare del Medioevo che pure è la creazione tipica ed originale del cristianesimo quando al sorgere della nuova età i movimenti catari ed albigesi faranno rivivere improvvisamente i vecchi miti della lotta iniziale fra la luce e le tenebre che attende nella penitenza e nella rinuncia la completa reintegrazione del bene.
Prospero di Aquitania, che secondo ogni verosimiglianza ha scritto proprio a Roma la sua cronaca, vi racconta che il vescovo Leone scoprí tra il 10 ottobre e il 12 dicembre del 443 una larga congrega di manichei proprio nella sua sede vescovile. E parla della turpe grossolanità delle loro dottrine e denuncia il ritrovamento nella sede delle loro riunioni di una copiosa suppellettile libraria. Prospero soggiunge che Leone agí sotto la diretta ispirazione di Dio, proprio come quando andò ad incontrare e ad arrestare Attila, nell'interesse della città come in quello di tutto il mondo. I manichei arrestati rivelarono i nomi dei loro maestri, dei loro vescovi e dei loro preti, consegnando gli elenchi delle provincie e delle città dove esistevano comunità di fratelli.
A quanto risulta dal racconto sorpreso e scandalizzato di Prospero, i manichei possedevano una vera e propria organizzazione ecclesiastica. Già del resto all'epoca di Sant'Agostino esistevano nelle file stesse del clero cattolico manichei professi. A Roma i manichei avevano preferito costituirsi autonomi. Non dobbiamo pensare per questo che Roma rappresentasse il centro dell'organizzazione manichea, quantunque come sempre la dignità della vecchia capitale imperiale conferisse a tutti i suoi gruppi e a tutte le sue conventicole un naturale carattere di preminenza. I sermoni di San Leone Magno sono lí a darci tuttora l'eco della vivacissima polemica che il Pontefice condusse contro la dottrina dualistica e della pratica repressione che egli organizzò dei suoi corifei e dei suoi proseliti.
I manichei arrestati furono giudicati non senza solennità. Il Papa presiedette in persona al giudizio avendo convocato i vescovi delle diocesi suburbicarie come anche i laici cristiani piú in vista della metropoli. Fu redatto un processo verbale degli interrogatori, degli eletti e delle elette, cioè dei fedeli manichei che avevano conseguito nella setta l'iniziazione suprema. Furono fatte minute inchieste sulle loro dottrine, sulle loro liturgie, sulla loro letteratura. La passione di parte spiega naturalmente in tutto questo macchinoso procedimento la sua azione e ai manichei vengono attribuiti riti osceni e pervertitori non diversi del resto da quelli che noi troviamo in qualche modo riconosciuti e celebrati nella letteratura gnostica alessandrina tardiva come la Pistis Sophia.
La presenza di questi numerosi gruppi manichei a Roma, alla metà del quinto secolo, è fatto di cui bisogna tenere il massimo conto.
Innanzi tutto il fatto ci attesta come nelle ore piú solenni nella storia della trasmissione del messaggio cristiano, la Chiesa ufficiale ha avuto sempre al proprio fianco, stimolo e rivale, una comunità strettamente dualistica che si è rifiutata di accondiscendere a quella teologia e a quella visione del mondo unitaria con le quali, per non derogare alla onnipotenza di Dio, si finisce necessariamente col derogare alla sua bontà. Poiché se il male è una realtà concreta, come immaginare che Dio lo possa permettere senza fare offesa ad una delle sue connotazioni caratteristiche, l'assoluta bontà e l'assoluta sapienza? E d'altro canto, se il male esiste nella sua dura efficienza reale e nella sua sussistenza palpabile, non è esso una istanza da opporre alla illimitata potenza di Dio? Non rimane dunque che o negare la possibilità del male o ammettere che Dio, espressione e causa suprema di tutto quello che è bene nel mondo, abbia di contro a sé un anti-Dio e un'anti-vita, contro cui deve ininterrottamente combattere soffrendo nell'attesa di quella vittoria finale che sarà la instaurazione della regalità divina nell'universo.
In secondo luogo la presenza delle comunità manichee a Roma all'epoca di San Leone Magno, con la loro copiosa letteratura apocrifa, con tutti i loro romanzi agiografici, ci fa comprendere di rimbalzo la crescente fioritura della letteratura agiografica ortodossa e la determinazione definitiva canonica dei libri sacri.
Anche il cristianesimo antico ha conosciuto la sua letteratura romanzesca: vi sono gli Atti degli Apostoli, gli Atti dei Martiri, gli Atti degli Asceti. L'Oriente monastico ha la sua Historia Lausiaca, l'Occidente ha tutta la folta produzione delle gesta dei martiri e delle vergini.
Ma c'è di piú. Lo stesso uso che i neo-manichei del quinto secolo fanno della storia spinge gli ortodossi a interessarsi anch'essi alla loro storia particolare. È in piena crisi manichea del quinto secolo che appare il Feriale pseudo-geronimiano che è il piú antico calendario universale della Chiesa cristiana. È in piena crisi manichea che è redatto il martirologio pseudo-eusebiano. È in piena crisi manichea che compaiono il primo sacramentario, la grande collezione canonica della Chiesa romana, infine il Liber Pontificalis.
Ne abbiamo abbastanza per misurare l'eccezionale importanza del periodo dominato dalla figura di San Leone Magno. Da ora fino alla fine del decimo secolo e oltre il cristianesimo cattolico sarà costantemente alle prese in Occidente con un avversario temibile e tenace: il dualismo. Nel quinto e nel sesto secolo soprattutto la lotta è fervida tra i due fratelli nemici. Sembra attenuarsi come se i due avversari stessi si assopissero in mezzo all'anarchia feudale. Ma la lotta riprenderà piú fervida che mai quando la dissoluzione del regime feudale farà balenare su tutto l'orizzonte europeo una possibilità di sviluppo demografico ed economico che per naturale reazione farà risorgere dalle ceneri non raffreddate il fuoco della visione drammatica dell'universo a cui nei lontani secoli Zarathustra aveva dato la prima formulazione.
Che del resto il manicheismo continuasse a serpeggiare a Roma nonostante tutte le repressioni politiche ed ecclesiastiche è mostrato dai provvedimenti adottati al riguardo un quarantennio circa piú tardi da uno dei piú eminenti fra i successori di Leone I, da Gelasio, vescovo di Roma fra il 492 e il 496. Il pontificato di questo romano, successo a Felice III, è degno del piú speciale rilievo perché le decisioni da lui adottate, raccomandate ad una produzione trattatistica e sinodale delle piú complesse e delle piú discusse, rivelano una coscienza rigidissima dei poteri papali cosí di fronte alle altre sedi vescovili di tutto il mondo cristiano come di fronte alle autorità politiche del tempo.
Mentre egli continua imperterrito l'opposizione dei suoi predecessori all'imperatore greco Anastasio e al suo patriarca costantinopolitano Eufemio per il loro favoreggiamento al monofisitismo mai smentito dall'epoca dell'Henoticon di Zenone, mantiene al cospetto di Odoacre un contegno di compassata ostilità, determinata molto piú che dalla sua professione ariana dalla sua inframmettenza in cose ecclesiastiche e vescovili.
Perché, interprete in questo consapevolissimo della tradizione vescovile romana e in pari tempo assertore tenace della preminenza delle cose religiose sulle cose politiche, Gelasio I ha trasmesso al Medioevo una dottrina dei poteri che sarà largamente utilizzata poi all'epoca delle lotte tra Papato e Impero.
In una lettera del 494 all'imperatore Anastasio, egli proclamava che due sono le autorità da cui il mondo è fondamentalmente governato, la consacrata autorità dei vescovi e la potestà reale. Di queste due, secondo Gelasio, la preminente è l'autorità sacerdotale che per decreto divino costituisce norma e guida anche del re degli uomini.
Ora di Gelasio sappiamo che non solamente si oppose energicamente alla ripresa culturale del superstite paganesimo romano, ma fu anche durissimo con le conventicole manichee sopravvissute evidentemente al regime di rigore di Leone il Grande, espellendo da Roma ed esiliando gruppi di manichei nuovamente scoperti e bruciando i loro libri.
Ma in pari tempo questo Papa cosí ferocemente antimanicheo fu il principale patrocinatore dell'agostinismo al tramonto del quinto secolo e un avversario implacabile del pelagianesimo, quasi avvertisse che se il dualismo aperto e conseguenziario dei manichei rappresentava cosí per la vita politica come per la disciplina ecclesiastica un elemento inassimilabile, il dualismo latente e inconseguente dell'agostinismo costituiva il fermento indispensabile al cammino progressivo della società cristiana organizzatrice della nuova età verso le concezioni e la pratica dell'ascesi e della continenza.
Intorno al nome di Gelasio si è largamente battagliato negli ultimi anni a proposito del cosiddetto decretum gelasianum.
Si tratta di uno dei piú sorprendenti atti ufficiali che ci sia stato tramandato sotto il nome di questo Pontefice. Nella forma attuale tale decreto comprende nelle sue quattro parti: un elenco dei sette doni dello Spirito Santo in Cristo, a cui fa séguito un catalogo dei diversi nomi reali e simbolici della seconda persona della Trinità e un testo di Sant'Agostino riguardante la processione dello Spirito Santo dal Padre al Figlio; il canone dei libri del Nuovo e dell'Antico Testamento; un breve trattato sul primato della Chiesa romana; il decretum de libris recipiendis et non recipiendis, cioè un elenco di quei libri che la Chiesa romana o permette di leggere, oppure riprova quali opere di scismatici ed eretici. Dal fatto che i piú recenti fra gli autori proibiti sono Pietro Mango, morto nel 489, Pietro Fullone, morto nel 488, Acacio, morto nel 489 e il semipelagiano Fausto di Riez, morto nel 493; e tra gli approvati Leone Magno, morto nel 471, e Prospero di Aquitania, morto nel 463, si conchiude legittimamente che il catalogo ha la sua data di origine al termine del quinto secolo.
Se il documento nella sua redazione attuale deve probabilmente riportarsi ad un'epoca piú tarda, il nucleo centrale deve indubbiamente ritenersi espressione di quell'intimo processo di disciplina interiore ed ecumenica che la Chiesa romana veniva subendo e nel medesimo tempo attuando dall'epoca di Papa Damaso in poi.
I brevi scritti polemici del Pontefice Gelasio, specialmente quelli dedicati all'eresia pelagiana e alla duplice natura del Cristo, stanno a dimostrare da una parte la visione misterica del cristianesimo che investe, anima e sostiene le affermazioni vigorose del primato romano, e nel medesimo tempo come si fosse ancora lontani, a proposito del Sacramento Eucaristico, da quella formulazione della transustanziazione che sarà possibile solo molto piú tardi, quando la Chiesa si verrà assuefacendo e rivestendo di metafisica aristotelica.
Allora, alla fine del quinto secolo, l'autorità papale e la disciplina unitaria del cattolicesimo si raccomandavano molto piú efficacemente alla sensazione sacrale dell'universo e ai presupposti fondamentalmente dualistici dell'antropologia e della filosofia della storia escogitate e sostenute dal grande vescovo d'Ippona, Sant'Agostino.