Quelle stesse condizioni di cose che all'indomani del trasferimento della capitale dell'Impero da Roma a Bisanzio avevano portato automaticamente e progressivamente il vescovato romano ad assumere mansioni sempre piú vaste e rigide di sorveglianza, di disciplina e di controllo sull'episcopato ecumenico della società cattolica, esercitarono di pari passo la loro azione sull'innalzamento e il rafforzamento della autorità vescovile in grembo alle singole comunità, disseminate nel mondo occidentale e tutte ormai funzionalmente legate alla ripartizione burocratica e civile del territorio, su cui veniva premendo e penetrando l'invasione delle popolazioni barbariche.
Le primitive comunità cristiane si erano gerarchicamente organizzate secondo due tipi profondamente difformi l'uno dall'altro: le comunità particolarmente del mondo siro-palestinese, che erano nate piú strettamente associate alle comunità sinagogali della diaspora ebraica, avevano introdotto nella struttura della loro vita associata dei collegi presbiteriali o di anziani, incaricati del funzionamento economico-assistenziale della comunità stessa. Penetrando in territorio ellenistico il cristianesimo, a contatto con i tiasi sottoposti alla disciplina unitaria di un sovraintendente o episcopo, si era naturalmente adattato al tipo di organizzazione vigente e aveva esso stesso adottato la funzione unitaria dell'unico reggitore e amministratore.
Data l'ampiezza stessa del territorio greco-romano sul quale le comunità sorte dall'esercizio dell'apostolato universalistico si propagarono per fatale legge di disseminazione, l'episcopato fu la forma di organizzazione che prevalse. La scomparsa delle organizzazioni ebraiche dopo le grandi campagne di repressione e di distruzione di Tito e di Adriano, rese naturalmente piú agevole il successo incontrastato della organizzazione episcopale.
L'episcopato fu cosí nella Chiesa ecumenica primitiva il vincolo di federazione fra le varie comunità. Il vescovo fu l'espressione e il rappresentante diretto dei singoli gruppi credenti. Là dove esistevano correnti cristiane emigranti, il vescovo rappresentò il tratto di unione tra le comunità emigrate e il ceppo primitivo. Esempio classico di queste indistruttibili relazioni etnico-economiche, l'episcopato greco-orientale di Lione, mantenutosi in stretto collegamento con le originarie comunità asiatiche.
Agli albori del quarto secolo, quando con Costantino l'Impero passa ufficialmente alla professione cristiana, l'episcopato cattolico ha già alle spalle una solida e lunga storia, che aveva resistito alla bufera della persecuzione e aveva nella prova e nel cimento irrobustito le proprie capacità organizzative e le proprie mansioni, che potremmo dire legali.
Il trasferimento della capitale politica ad Oriente, con tutte le incalcolabili conseguenze politico-amministrative di questo capitale provvedimento, facendo di Roma il centro di raccolta e il punto di riferimento di tutte le comunità cristiane dell'Impero, cosí occidentale come orientale, contribuiva di rimbalzo a rendere piú precisa e nel medesimo tempo piú circoscritta e piú efficiente la responsabilità dei singoli vescovi nel governo del proprio gregge.
E quando attraverso le grandi crisi del quarto secolo e poi sotto la formidabile pressione barbarica nel quinto, l'ossatura politico-burocratica del mondo occidentale si rivelò vulnerata e corrosa dalla impotenza dei poteri centrali, l'episcopato occidentale assurse d'improvviso ad una elevatissima funzione sociale, che costituí i primi indizî di quella organizzazione pluricellulare della società cristiana medioevale, in cui lo spirito del Vangelo diede in maniera stupenda e sorprendente la prova piú solenne delle sue originali e inconfondibili capacità creatrici.
Nella sua parvenza esteriore e visibile la Chiesa uscita dal Vangelo era un vero paradosso vivente. Era un aggregato di aspettanti la subita apparizione del Cristo vittorioso e la gloriosa instaurazione del suo Regno. Come tale, non erano i vincoli burocratici che avrebbero potuto darle coesione e capacità di sussistenza. Ma le esigenze pratiche ed empiriche di qualsiasi aggregato umano sono sempre infinitamente piú valide e operanti che le forme ideali della fede intima e dell'idealità impalpabile. Tanto piú le esigenze concrete della disciplina quotidiana accennavano a farsi sentire, mano mano che l'ardore febbrile dell'aspettativa originaria si andava logorando e ottundendo sotto il peso della delusione.
Ma il fermento primordiale, che aveva alimentato e sostenuto l'entusiasmo delle originarie comunità, non veniva meno per questo. La grande originalità del messaggio cristiano è stata quella di avere, senza che gli uomini lo avvertissero in pieno, insegnato un metodo sociale nuovo e portentoso. Questo metodo consisteva nell'arte, non insegnata ma vissuta, di agire in bene sulla società, di contribuire al suo innalzamento e alla sua incessante purificazione, rinnegando in radice la validità stessa permanente delle forme esteriori dell'aggregazione umana, in vista unicamente di una trasfigurazione della stessa vita aggregata nello Spirito e per lo Spirito.
Questa paradossale consegna sarebbe stata nei secoli la linea logica e continuativa della storia cristiana. Il giorno in cui la Chiesa ufficiale, a questa precisa, tassativa e rigida consegna, avesse sostituito il metodo degli accostamenti diplomatici con la società empirica, per guidarla e signoreggiarla, prendendo da essa stessa a prestito i mezzi, i criteri, e gli strumenti di lavoro, la società cristiana, come creazione originale del messaggio evangelico, si sarebbe potuta dire scomparsa definitivamente dalla storia. Ed è quello che sarebbe accaduto un giorno.
Agli inizî del IV secolo, nonostante il sottile tentativo di accaparramento e di subordinazione compiuto da Costantino e dal piú intraprendente dei suoi figli, Costanzo, l'energia primitiva con la quale la società cristiana era entrata nel mondo, corpo visibile di credenti nell'invisibile, era ancora troppo viva e profonda perché non si traducesse in forme di organizzazione disciplinari e sociali, capaci di dare una sagoma al mondo che doveva nascere dall'incontro e dal contrasto delle superstiti forme imperiali con le sopravvenienti forme barbariche.
Le polemiche religiose del IV secolo che, come abbiamo visto, nascondevano cospicue ragioni politico-sociali, dalle quali continuarono ad essere costantemente animate, diedero agio allo spirito essenziale della Chiesa cristiana di esprimere da sé ideali e forme organizzative, che avrebbero costituito i tessuti specifici e caratteristici della società medioevale.
Sono i grandi vescovi del IV secolo cristiano, specialmente in Occidente, che hanno gettato le basi della civiltà medioevale. Se Agostino ha espresso i principî che avrebbero retto questa società, i grandi vescovi dell'Occidente cristiano, che hanno imperturbabilmente resistito alla insidia dell'arianesimo e alla captivante manomissione dello Stato, hanno offerto il cemento all'organismo della nuova età. Per questo ogni loro gesto è un rito e ogni loro parola è un monito.
Lucrezio aveva cantato che la natura non conosce nascita che non tragga alimento ed aiuto della decomposizione e dalla morte:
Quando aliud ex alio reficit natura, nec ullam
Rem gigni patitur, nisi morte adiuta aliena.
Eraclito aveva già cantato ai suoi tempi che gli immortali e i mortali sono ininterrottamente a contatto, succhiando i mortali la vita dagli immortali e trasfigurando gli immortali la morte dei mortali. La scolastica riaffermerà dal canto suo che solo il dissolvimento dell'uno è la generazione dell'altro.
La decadenza irreparabile della grande costituzione imperiale romana, che si viene lentamente sfaldando politicamente, sotto però la conservata unità culturale e linguistica ed economica del mondo latino-mediterraneo, portava automaticamente di rimbalzo ad una effervescenza sempre piú impetuosa, organica e fattiva, quelle comunità regionali che con maggiore o minore elasticità e duttilità di spirito avevano assimilato da Roma imperiale le forme del governo e i tipi dell'educazione spirituale.
Su questa materia molle e sensibile la paradossale esperienza cristiana veniva imprimendo il suo conio, cercando di forgiarla a norma delle esigenze dell'evoluzione collettiva, e in pari tempo della conformità consentita alla trascendentistica visuale della esperienza evangelica.
Fra le regioni che, al momento drammatico del trapasso, sono piú vicine al flusso prepotente dei barbari e in pari tempo per la loro destrezza spirituale piú intimamente soggiacenti all'azione del romanesimo, la Gallia occupa un posto preminente, e per questo stesso il suo cristianesimo, che aveva avuto le sue origini dalle correnti migratorie dell'Anatolia, ricreato da Roma, era destinato a rivelare maggiori attitudini e maggiori capacità di fronte all'opera della edificazione sociale e cristiana.
Se in Italia l'Impero si difese con piú ostinata e vigorosa energia, cercando di salvare gli istituti e la conformazione burocratica, in Gallia, quando gli imperatori ultimi furono surrogati da re barbarici, la situazione politicamente cambiò con maggiore rapidità. La Gallia si sottomise sollecitamente alle tre nazioni germaniche che erano scese ad invaderla: quella dei Burgundi ad est, dei Visigoti a sud, dei Franchi a nord. Tentando di costituire nuovi centri di raggruppamento provinciale, il paese gallico, in uno sforzo spontaneo di disciplina autonoma, cercò di piegare le consuetudini romanizzate alla situazione creata dalle nuove mescolanze etniche e dalla giustapposizione degli istituti.
Ma su tutto questo lavorio di fusione, o, se si vuole, di contaminazione razziale e civile, domina e giganteggia l'opera dell'episcopato cristiano. Provenienti dalla carriera burocratica o dalla milizia romana, questi vescovi galli del IV e del V secolo sono stati veramente i genuini fondatori di quel tipo speciale di organizzazione civile e spirituale che aprirà le vie alla feudalità medioevale e alle grandi idee religiose dei cinque secoli che corrono dalla trasformazione religiosa dell'Impero romano alla creazione del nuovo Impero cristiano d'Occidente.
La loro opera cospicua è presieduta da alcuni criteri ben riconoscibili anche se non palesemente avvertiti da loro stessi. Essi sono innanzi tutto dei tenaci e arditi rivendicatori dell'autonomia dei valori religiosi, di fronte ai valori politici. Sono degli intransigenti assertori di una ortodossia dottrinale che non è altro nella sua essenza e in radice se non l'affermazione fervida e ostinata del carattere assolutamente trascendente ed inviolabile della rivelazione sacra, di fronte alle forze erosive della speculazione razionale umana. Sono infine dei predicatori instancabili di idealità ascetiche, nelle quali non è difficile e non è azzardato scoprire ed individuare residui viventi e operanti di quel profondo substrato dualistico, senza cui si direbbe che le tradizioni religiose corrono immancabilmente e irrimediabilmente il rischio di perdersi nell'immanentismo insidioso della filosofia e della morale autonoma.
Il primo grande rappresentante di questa insigne e mirabile dinastia di dignitari episcopali, che la storia del IV e del V secolo può designare come creatori della nuova civiltà occidentale, è Ilario di Poitiers. Era nato nella sede del suo futuro episcopato, nella seconda Aquitania, all'epoca stessa in cui Costantino, in séguito alla vittoria ad Saxa Rubra, si era dato al nuovo assetto politico e religioso dell'Impero. Nelle scuole per cui era insigne la Gallia romana compí il suo tirocinio culturale. Acquistò familiarità, cosí, con i modelli della letteratura latina, e si avviò alla conoscenza di quella lingua greca in cui l'esilio d'Oriente lo avrebbe reso peritissimo. Nel suo trattato De Trinitate egli ha introdotto al principio una narrazione certamente autobiografica, di quella che è l'odissea, tra le incertezze e le inquietudini, dell'anima che scruta pensosamente il problema dei propri destini. La pagina vale la pena di essere segnalata, perché ci dà il sentore di quelle che erano le dubbiezze spirituali di un'anima fine ed aristocratica agli inizi del IV secolo e ci fa presentire fin d'ora quel che sarebbe stato al tramonto del secolo il capolavoro autobiografico di Sant'Agostino.
«Meditando sul dovere specificamente religioso della vita umana, quale la natura stessa e la riflessione dei sapienti ce lo additano, per innalzarci fino all'intelligenza di questa vita che è uno squisitissimo e meraviglioso dono divino, io constatai che, a norma dell'opinione comune, quel che costituisce l'interesse e la desiderabile dolcezza della vita, quel che oggi come sempre è parso come la meta piú ambita dagli uomini, è il riposo nella abbondanza. L'uno di questi due termini senza l'altro arreca piú sofferenze che vantaggi. In realtà, la quiete nell'indigenza fa rassomigliare la vita presente ad un esilio. Ed una opulenza senza quiete porta con sé tanto maggior numero di calamità, in quanto l'assenza di riposo interiore e di tranquillità appare piú abnorme in mezzo ai beni che largamente permetterebbero di godere. D'altro canto, sebbene la quiete e l'abbondanza racchiudano in sé la possibilità di tutte le dolcezze della vita, mi appaiono in sostanza beni identici al benessere della vita delle bestie. Le quali nelle loro corse vagabonde attraverso i boschi e i pascoli ridenti si sottraggono al lavoro e trovano a portata di mano nella vegetazione dei prati una nutrizione copiosa. Qualora dunque si considerino la quiete e l'abbondanza come il bene piú cospicuo della vita umana, noi dovremo alla fin fine confessare che un tale bene ci è comune con gli animali sprovvisti di ragione. Essi infatti debbono ai generosi servizi della natura il duplice vantaggio, sovrabbondando di beni che non hanno bisogno di andare a procacciarsi».
Questo bisogno inquieto di spostare risolutamente le finalità della vita al di là della sfera di tutte le esperienze sensibili e di tutti i valori terreni non è in Ilario l'epilogo di una logorante stanchezza della vita e di un personale disinganno, capaci di portare a quelle forme strettamente individualistiche di ascesi e di mortificazione di cui le forme tipiche sono la concentrazione buddistica e la superba impassibilità cinica e stoica.
Ilario ha bene aperti gli occhi sul mondo che lo circonda e la sua sete di assoluto, il suo bisogno di trascendente, la sua aspirazione alla rinuncia mondana non sono che il presentimento fattivo di una trasposizione possibile dei veri interessi dell'umanità in una zona di superiori idealità che solo in apparenza sono avulse e scisse dal mondo.
Mentre la politica dei nuovi imperatori cristiani in Oriente portava istintivamente i cristiani delle classi piú elevate a ritenere possibile un connubio di cristianità e di politica da cui non potevano rampollare per loro che privilegi e forme di potenza, l'Occidente, abbandonato in qualche modo politicamente a se stesso, gemente sotto l'incubo quotidiano delle devastazioni barbariche, era spontaneamente indotto a tentare per le vie del piú audace rinnegamento della empiricità, una ricostruzione fondamentale dei rapporti sociali.
L'arianesimo appare logicamente a questi fieri rappresentanti dell'intransigenza cristiana uno sforzo compiuto dallo Stato per corrompere e disarmare le capacità costruttive della Chiesa evangelica.
Ilario fu tratto dalle impellenti circostanze della vita a costituirsi campione ed araldo della resistenza cristiana alla manomissione politica degli eredi di Costantino.
Costanzo si era gettato apertamente nelle braccia dei semi-ariani. Divenuto in séguito alla morte dei suoi fratelli, Costantino il giovane e Costante, padrone di tutta l'eredità paterna, pretese di far regnare con sé il semi-arianesimo. Egli addita Atanasio quale perturbatore dell'Impero e quale suo nemico personale solo perché si atteggia a difensore indomabile del consustanziale e fedele all'ascendente di Roma. Dopo averlo fatto deporre da un sinodo antiocheno presieduto da Eusebio di Nicomedia, Costanzo chiede all'Occidente, che egli percorre in mezzo ad una pompa trionfale, di condannarlo a propria volta. Si trovarono dei vescovi occidentali pronti ad accondiscendere al volere imperiale. Ma non mancò neppure la resistenza pertinace. Eusebio di Vercelli e Dionigi di Milano furono per questo banditi dalle loro sedi vescovili. Fu allora la volta di Ilario di levarsi a difesa di una ortodossia all'ombra della quale egli poté organizzare quel magistero e quelle capacità direttive dell'episcopato cattolico che avrebbero costituito il nerbo nella costituzione pubblica sociale del Medioevo cristiano.
Egli fa echeggiare la Gallia intiera nella esplosione della sua sorpresa indignata. Ispirando a tutti i suoi confratelli il coraggio da cui era animato, convoca una riunione di vescovi che proscrive Valente e Ursacio, Saturnino, i condannatori di Atanasio e complici di Costanzo. Rivolgendosi direttamente al sovrano rivendica l'autonomia del magistero ecclesiastico separando nettamente gli interessi della politica da quelli della religione.
L'esilio in Oriente fu la rappresaglia governativa. Ma dalla sua solitudine di esiliato, Ilario, dal fondo della Frigia, fece sentire piú energica che mai la sua voce di rivendicatore imperterrito della fede nicena che nel IV secolo appare come il contrafforte teologale della virtú ricostruttiva della Chiesa cristiana.
Di pari passo con le sue rivendicazioni teologiche Ilario in esilio manda innanzi la sua propaganda ascetica e anti-matrimoniale. In una sua lettera alla figlia Abra, Ilario celebra la verginità cristiana come condizione di un apostolato caritatevole chiamato a tenere il posto della famiglia. Nel momento di accingersi alla edificazione laboriosa di una nuova costruzione sociale nella quale i valori tradizionali della civiltà imperialistica romana, Stato, proprietà, circoscritta associazione familiare, saranno negati per una tutta spirituale consociazione di uomini e di valori, la Chiesa del IV secolo professa apertamente la sua ispirazione ascetica e le sue tendenze anti-demografiche.
Ma, occorre ben ripeterlo, questa ispirazione ascetica non equivale affatto ad una evasione dagli oneri della vita associata. Ne è al contrario una delle espressioni piú originali e piú feconde. Non per nulla tra coloro che si avvicineranno a Sant'Ilario durante lo spiegamento della sua attività vescovile, figurerà un personaggio che passa direttamente al clero e al monacato dalla professione delle armi, quasi a simboleggiare, di fronte al mondo e alla storia, che la perfetta professione cristiana non è altro che un trasferimento degli oneri militari dal campo di battaglia al terreno dello spirito. Abbiamo nominato San Martino di Tours.
«Dopo aver lasciato il servizio militare, Martino si recò presso Sant'Ilario, vescovo di Poitiers». Sono le parole con cui Sulpizio Severo ci annuncia la conversione di colui che doveva raccogliere l'eredità ilariana e portare le Chiese della Gallia alla piú alta manifestazione delle sue virtú romanamente costruttrici.
Sant'Ilario moriva nella notte fra il 12 e il 13 gennaio del 368. Fu nominato a succedergli lí per lí un asceta cristiano di Legugé a nome Giusto. Ma il pio uomo si sottrasse cosí vittoriosamente alla nomina rischiosa che fu necessario sostituirlo immediatamente con un tal Pascenzio di cui ci è completamente ignota la vita. Tre anni piú tardi, resasi vacante per la morte di San Lidorio la sede vescovile di Tours, gli abitanti trassero dalla solitudine Martino cui non fu possibile sottrarsi alla plebiscitaria designazione popolare.
Sulpizio Severo testifica: «Occupato il vescovato, io non posso dire quanto Martino vi si mostrasse grande, poiché rimase invariabilmente ciò che era stato per l'innanzi. La stessa umiltà di cuore, la medesima povertà nel vestire. Pieno di autorità e di grazia, seppe sostenere la dignità di vescovo pur conservando lo spirito e le virtú del monaco».
Queste parole del biografo sono, può dirsi, l'epigrafe piú acconcia a designare le mansioni e lo spirito dell'episcopato gallico nel IV secolo tramontante. Ad una autorità religiosa, cui la difficoltà di comunicazioni con i centri vitali della Chiesa d'Occidente spesso accresceva lustro ed importanza, di cui erano rivestiti i vescovi della Gallia piú direttamente esposta alle incursioni barbariche, la forza delle cose aveva aggiunto una autorità civile che assumeva ogni giorno sempre maggiore efficienza. Le popolazioni disilluse, oppresse o atterrite dalle invasioni barbariche, avevano smarrito oramai ogni capacità di considerare l'Impero come un reggitore potente e un difensore sicuro. Diciamo di piú: l'Impero romano era divenuto esso stesso, per quelle popolazioni, un nemico esoso e fraudolento. Le angherie dei suoi impiegati mantenevano nel medesimo tempo l'odio e la miseria.
La Chiesa appariva oramai come il solo potere capace di ispirare confidenza e simpatia. Il vescovo che ne era il rappresentante ufficiale fu riguardato sempre piú come il padre di tutti. Divenuto popolare sia per il genere di vita ordinariamente assai modesta, sia per gli istituti di beneficenza che creava e manteneva ovunque con notevole senso pratico, il vescovo aveva acquistato una tale autorità che i poteri politici erano necessariamente costretti a fare i conti con essa. Ed egli, uscito dalle file del popolo e col popolo continuamente a contatto, non poteva fare altro uso di questa sua autorità che quello richiesto dalle esigenze della giustizia e dalla difesa degli oppressi. Il popolo gli dava spesso e volentieri quel titolo di defensor civitatis che Valentiniano I creò nel 365 per il magistrato che doveva presiedere l'adunanza municipale e personificare gli interessi della città.
Ma l'attività vescovile fatta tutta di proselitismo e di beneficenza non induce Martino a rinunciare alla pratica dell'ascetismo organizzato. La solitudine di Marmoutier fu l'ospizio in cui con un nucleo di piú fedeli seguaci egli andò a ricercare quelle possibilità della spirituale contemplazione che l'esercizio del ministero vescovile sembrava avere acuito anziché spento.
Martino di Tours, morto 1'8 novembre 397, rimase cosí esemplare completo di quel che è l'opera e la missione dell'episcopato cristiano in quel periodo di rifacimento europeo che è delimitato fra la conversione di Costantino e la scomparsa politica dell'Impero d'Occidente.
La popolarità del Santo gli sopravvisse, trasfigurandosi nei racconti dei miracoli che si moltiplicavano sulla sua tomba. E un giorno sul suo sepolcro venne a compiere il suo pellegrinaggio il primo re dei Franchi convertito, Clodoveo.
Ma la fiaccola lucente che questi vescovi, passati dalla milizia e dalla burocrazia imperiale alle mansioni ecclesiastiche, agitano sul mondo gallo-romano nel momento del trapasso sotto la pressione barbarica, non si spegne con la scomparsa dal mondo dei primi corifei della rinascita religiosa quali Ilario e Martino.
La fiaccola è affidata a nuove mani, degne di continuare l'opera degli insigni predecessori. Tra i vecchi santi francesi quegli che piú fu popolare dopo San Martino è senza dubbio San Germano di Auxerre. La sua vita, per quanto originalissima, rassomiglia cosí da presso a quella di San Martino, che sembra prolungarne sotto il triplice aspetto di monaco vescovo, di fondatore delle parrocchie rurali e di taumaturgo, l'azione ed il prestigio. Martino muore nel 397; Germano comincia il suo episcopato nel 418. Per trent'anni egli sembra offrire al mondo gallo-romano l'illusione di essere un Martino reincarnato.
Era nato ad Auxerre nel 378. Era allora imperatore d'Occidente Graziano, il quale stava per associarsi Teodosio come imperatore d'Oriente. A Roma rifulgeva in tutto il suo potente fasto l'episcopato damasiano.
Il primo biografo di Germano, Costanzio, ci dice che i suoi genitori appartenevano al piú alto strato dell'aristocrazia gallo-romana: erano splendidissimi. Compiuti i suoi studi nelle scuole galliche, auditoria Gallicana, tra cui emergeva l'accademia d'Autun, Germano si trasferiva a Roma, meta ancora di tutti i pellegrinaggi culturali dell'Occidente romanizzato, per compiervi il tirocinio giuridico, preambolo immancabile ed indispensabile a qualsiasi felice carriera di Stato. Germano divenne ben presto un brillantissimo avvocato, esercitante la sua professione presso i tribunali della Prefettura e a Roma sposava una giovane patrizia a nome Eustachia.
La fama del facondo avvocato, la nobiltà della famiglia da cui proveniva, la sua conoscenza del mondo gallico richiamarono su di lui l'attenzione e il favore dell'imperatore Onorio, che lo designava Duca del territorio Armoricano e Nervicano, dux tractus Armoricani et Nervicani. Era il piú vasto dei cinque «ducati» occidentali. Esercitava il suo potere su tutto il litorale dalle foci della Somme a quelle della Gironda, disponendo di dieci corpi di truppe. La sua autorità non si estendeva soltanto sulle tre provincie costiere, la Lionese seconda con metropoli Rouen, la Lionese terza con metropoli Tours, l'Aquitania seconda con metropoli Bordeaux. Il suo ducato comprendeva ugualmente le due provincie eminentemente continentali della Aquitania prima con metropoli Bourges e della Lionese senonese che aveva per metropoli Sens e per città Chartres, Auxerre, Troyes, Orléans, Parigi, Meaux.
Ma nella sua nuova missione, che faceva di lui uno degli esponenti piú insigni e piú in vista dell'amministrazione romana d'Occidente, Germano sperimenta le medesime inquietudini, le medesime insoddisfazioni, le medesime ansie che avevano sollecitato l'animo di Ilario e di Martino. Il mondo andava rapidamente e inesorabilmente alla deriva. I vecchi tessuti burocratici cosí pazientemente elaborati da secoli di amministrazione romana erano intimamente logorati e consunti. L'afflusso barbarico che pur con le sue violenze e le sue devastazioni rappresentava un apporto etnico e sociale nuovo, da cui non si sapeva bene che cosa sarebbe emerso nel prossimo avvenire, dava un tale senso di insicurezza e di precarietà, che lo spirito dei piú raffinati era spontaneamente condotto nel medesimo tempo ad un senso amaro di disgusto e di scoraggiamento e ad una volontà insonne di edificare sul terreno dello spirito qualcosa che, prescindendo completamente da quello che era il fascio dei valori empirici, sociali e politici correnti, preparasse qualcosa di piú normativo e di piú coesivo delle stesse formule legali e degli stessi istituti amministrativi.
Tra qualche decennio uno scrittore ecclesiastico di Marsiglia tutto pieno del senso augusto e misterioso della provvidenza latente che disciplina, contro ogni umana previsione e a dispetto di ogni umano sgomento, i piú profondi e impressionanti rivolgimenti storici, avrebbe cercato di dimostrare che lo sfacelo romano e la irresistibile onda barbarica, rispondevano in pieno ad un miracoloso piano provvidenziale di Dio, che dalla imbelle inettitudine romana e dalla fradicia moralità del mondo civile, solo a parole e mentitamente cristiano, si proponeva di ricavare un nuovo mondo sociale.
Salviano, nel De gubernatione Dei, ha bollato con una frase memoranda l'insipienza cinica e inconsapevole in cui la folleggiante società romana decadente sta miseramente annegando, mentre la forza, per quanto brutale, dei barbari, prepara il nuovo edificio voluto da Dio: moritur et ridet.
«Dove son piú, si domanda sarcasticamente Salviano, l'antica pace e l'antica prosperità? Dove sono mai le dignità fastose d'altri tempi? Erano i Romani altre volte piú forti: oggi sono privi di ogni forza. Essi si facevano temere. Noi oggi temiamo. Imponevano dei balzelli. Noi ne paghiamo. Il nemico ci vende perfino l'uso della luce. Si può immaginare qualcosa di piú basso e di piú disgraziato della nostra situazione?».
Il prete di Marsiglia non risparmia quei ceti cristiani che precipitatisi all'epoca di Costantino sotto le insegne della nuova fede avevano conservato intatti i loro costumi depravati, il loro disinteresse per le sofferenze del popolo, la loro completa indifferenza ai valori trascendenti del messaggio cristiano.
«Leggono il Vangelo e sono dei depravati. Ascoltano gli Apostoli e si ubriacano. Dicono di seguire il Cristo e rubano. Il Cristo ci ha raccomandato, qualora ci si chieda il mantello, di dare pure la nostra tunica. I cristiani dei nostri giorni preferirebbero rubare il mantello al vicino. E almeno piacesse al cielo che il flagello che d'ogni parte ci si precipita addosso schiudesse i nostri occhi alla luce! Ma no, la punizione non porta alla correzione. Le bestie, i muli, gli asini, gli animali immondi, profittano dei rimedi che loro s'impartiscono. Quando si resecano loro delle carni infette, una carne nuova ne prende il posto. Noi, noi siamo torturati, noi siamo bruciati e né il ferro né il fuoco ci guariscono. Qual è lo sciocco che alla vigilia del servaggio pensa ancora agli spettacoli del circo? I romani d'oggidi sono una turba d'insensati. Noi siamo presi da un riso morboso e il nostro riso è prodromo di lacrime. La parola del Signore vale per noi: disgraziati voi che ridete perché piangerete! La vita dei commercianti non è altro che frode e spergiuro. Quella dei curiali non è che ingiustizia. Quella dei funzionari non è che prevaricazione, quella dei soldati non è altro che rapina».
Constatando cosí la corruzione morale e l'ingiustizia dilagante nel mondo romano, Salviano non ha accenti di lamento per il suo progressivo dissolversi, tanto piú che i barbari non sono per lui quei disfacitori che van blaterando i disingannati rappresentanti del governo imperiale. Se essi sono ingiusti, i Romani lo sono altrettanto. Se essi sono avidi, rapaci, immoderati, impudichi, non lo sono piú dei Romani. In compenso hanno un'innocenza naturale che fa bene sperare essi possano essere migliori cristiani dei cristiani ufficiali del tempo.
È la vocazione al battesimo di questi popoli nuovi, che si incuneano nel mondo romano per dissolverne la decrepita armatura giuridica e per rinnovarne la struttura economico-sociale, ad animare soprattutto il cristianesimo di questi vescovi gallo-romani, che abbandonano le mansioni amministrative, per assumere quelle vescovili, quasi a simboleggiare cosí il còmpito nuovo che spetta a chi voglia apprestare elementi e direttive di marcia alla veniente storia?
Sta di fatto che ognuno di questi vescovi monaci, portante con sé l'esperienza del tirocinio burocratico o militare sotto i vessilli di Roma, si fa istintivamente evangelizzatore di quelle popolazioni barbariche che la Roma ufficiale paventa e che il cristianesimo farà sue, perché su questa terra vergine, con questa massa ingenua e primitiva, si costruisca la nuova società, che abrogherà le stesse concezioni romane dello Stato e della proprietà, i due capisaldi della tradizione quiritaria, per forgiare un nuovo mondo, retto, con un delicatissimo equilibrio instabile, sull'idea di una spirituale milizia terrena che marcia verso la instaurazione del Regno di Dio. A cinque anni di distanza dalla occupazione romana di Alarico, un funzionario romano, poeta squisito, aveva, durante il suo viaggio di ritorno in Gallia, cantato l'epicedio sulla morente forza di Roma, credendo di avere davanti a sé il suo avvenire imperituro. Egli si consumava di dolore e di rimpianto, riprendendo la via della sua patria d'origine e abbandonando quell'Urbe, che pur dopo le tracce miserande del saccheggio gotico, conservava cosí mirabilmente fascinoso l'aspetto delle sue vetuste glorie e della sua immortale grandezza. Aveva cantato Rutilio Namaziano, dirimpetto alla barbarie e al cristianesimo invadente, che per lui si equivalevano: «Spesso infiggiamo i baci su le porte che abbiamo da lasciare, e i piedi trapassano e superano di mala voglia le sacre soglie. Preghiamo perdono con le lacrime e sacrifichiamo con le laudi per quanto almeno l'angoscia del pianto lascia scorrere le parole. Ascolta, o regina bellissima del mondo che è tuo; ascolta, o Roma, dal polo stellato che t'accoglie; ascolta, o genitrice di uomini e genitrice di dèi, non lungi dal cielo per i tuoi templi siamo: te cantiamo, e sempre, fino a che il permettano i fati, te canteremo: sano e salvo, e fino a che viva (sospes), nessuno può essere immemore di te. Piú presto scellerati oblii ricopriranno il sole di quello che l'onor tuo cada dal nostro cuore, poiché eguali ai raggi del sole tu estendi i tuoi benefici per tutto ove sparso intorno al globo mareggia l'oceano. A te si gira esso Febo che tutto abbraccia... e, quanto si allarga la natura vitale in fra i due assi, tanto la terra è aperta alla tua virtú. Facesti alle diverse genti una patria sola: giovò ai fuori legge esser pure nel tuo dominio: cosí, offrendo ai vinti il consorzio del tuo diritto, facesti urbe quello che prima era l'orbe. Ben confessiamo autori del tuo popolo Venere e Marte, quella madre degli Eneadi, questo padre dei Romulidi; la clemenza vittoriosa mitiga la forza armata: l'uno e l'altro nume conviene al tuo costume civile. E tu, abbracciando l'universo coi tuoi trionfi che portan la legge, lo fai vivere in una federazione di civiltà. Te, dea, te celebra ogni popolo che sotto il pacifico tuo giogo porta libero il collo. Non mai le stelle nell'eterno loro movimento videro Impero piú bello e glorioso del tuo... e il tuo regno è minore del tuo merito che hai di regnare; coi fatti sopravanzi i grandi fati... Solleva, o Roma, il capo laureato, il capo raggiante nel cono della turrita corona, e versa dall'umbone aureo dello scudo perpetui splendori. Porgi, porgi le tue leggi che son per vivere nei secoli eternamente romani; e sola delle nazioni non temere il filar fatale delle Parche. Ciò che gli altri regni dissolve te ripara; a te ordine di rinascimento, è poter crescere dai mali». (Trad. Carducci).
Al poeta gallo-romano capitava un po' il destino di Balaam. Passando davanti alle isole dell'arcipelago toscano, abitate da solitari cristiani, egli credeva di poter irridere con aria di sussiego e di disprezzo a quelle forme repellenti di ascesi che fuggivano il mondo in maniera ignominiosa. In realtà, perché Roma potesse continuare ad essere veramente sinonimo ed equivalente del mondo intiero, bisognava proprio che quel cristianesimo praticato dai monaci in forma cosí assoluta ed intransigente, corrodesse e sovvertisse tutta la millenaria impalcatura del giure romano per creare una società basata su principî e volta verso orientamenti completamente in antitesi a tutto ciò che aveva rappresentato il midollo della tradizione romana.
Mai come allora stava per vedersi come la legge piú paradossale e nel medesimo tempo piú palese della storia sia quella della eterogenesi dei fini.
Gli strumenti di questa sorprendente metamorfosi sono i grandi vescovi dell'Occidente.
Due sono i momenti capitali della movimentata vita di San Germano, l'incontro con San Patrizio e la missione della Bretagna d'oltremare, e l'incontro con Santa Genoveffa.
Il primo incontro ha avuto conseguenze di una portata incalcolabile, perché segnò l'iniziazione dei Bretoni e dei Pitti al cristianesimo. Non che non esistessero cristiani nelle isole britanniche anche prima dell'iniziativa di San Germano. Ma si trattava di cristiani singoli e di esigue comunità disperse.
Nel suo ardore proselitistico, ardore proselitistico che è caratteristico di tutto l'episcopato gallico del IV e V secolo, Germano, da buon funzionario romano trasformato in messaggero e in ministro di Cristo, tende alla propagazione del messaggio di cui, col suo fiuto esercitato, avverte le capacità normative e la virtú edificativa.
I ricordi intorno a questa missione d'oltremare che doveva dischiudere il varco alla grande storia religiosa di quella che fu chiamata «l'isola dei santi», hanno assunto ben presto i colori della piú fiorita leggenda. I dati di fatto nella loro verosimile e sostanziale realtà possono delinearsi cosí. Il cristianesimo è arrivato in Irlanda con la propagazione stessa della civiltà romana agli inizî del IV secolo. Il fatto che il cristianesimo irlandese ci si presenta innanzi tutto con la figura di Pelagio, destinata ad incontrarsi in una maniera cosí drammatica e cosí pregna di conseguenze in un duello storico col vescovo di Ippona Agostino, mostra che questo cristianesimo bretone-iberico ha fin dalle origini realizzato un connubio ottimistico molto singolare di cultura classico-storica e di messaggio cristiano. Straniera al dominio politico di Roma; erede di una brillante tradizione culturale indigena; aperta improvvisamente all'influsso della classicità, l'Irlanda del IV secolo è rimasta immune nel primo momento da quelle travaglianti ossessioni del problema del male e delle sue pessimistiche soluzioni dualistiche, che dànno un'impronta cosí caratteristicamente propria alla filosofia della storia e alla antropologia che la Cristianità occidentale viene forgiando agli inizi del V secolo sotto la pressione di irresistibili evenienze e circostanze storiche. È su questa cultura classicheggiante e cristianeggiante della Bretagna insulare che viene a ripercuotersi l'azione dell'episcopato gallico.
San Germano d'Auxerre è il corifeo di questi rapporti disciplinatori della Cristianità gallica con la Cristianità celtico-irlandese.
Era un'ora drammatica per la Bretagna. Dopo che gli ultimi soldati ebbero traversato la Manica e furono scesi in Gallia per difenderla nell'ora in cui essa aveva subìto le grandi invasioni del 406, del 408, del 411 attraverso cui Svevi, Alani, Vandali, Burgundi, Visigoti avevano saccheggiato e incendiato a gara le città piú famose, i Sassoni anch'essi erano venuti a compiere in Bretagna spedizioni sempre piú audaci. Le loro devastazioni piú di ogni altra dovevano lasciare una impressione di orrore e di sacrilegio. Gilda nel suo libro «Sulla rovina e il pianto inenarrabile della Bretagna» in cui par di cogliere le lamentazioni di un altro Geremia, parla di «questi feroci Sassoni dal nome esecrando, odiati da Dio e dagli uomini, che profanano gli altari e squassano per tutto la loro torcia incendiaria». E non si era ancora che agli inizi delle iatture perché altri pagani, gli Angli della Germania, i Pitti della Caledonia, dovevano sopravvenire per distruggere in radice l'indipendenza dei Bretoni.
In quest'ora di collasso e di sgomento universali la comunità cristiana bretone di cui Pelagio può considerarsi come un rappresentante non degenere, ma eccentrico e vagante, sentiva il bisogno di domandare alla Chiesa gallica il soccorso della fraternità nella fede.
Non sappiamo in qual modo la richiesta giungesse a destinazione. Noi sappiamo soltanto che una convocazione di vescovi galli decise di inviare a soccorso spirituale dei Bretoni «i vescovi Germano e Lupo, queste brillanti fiaccole della religione, questi uomini apostolici viventi sulla terra ma per i loro meriti veri e degni cittadini del cielo». Cosí ci dice il biografo di San Germano, Costanzio. E soggiunge: «Piú la missione appariva laboriosa, piú questi mirabili eroi della fede posero di generoso fervore ed entusiasmo nell'accettarla. La fiamma della loro fede era come un aculeo per affrettare la conclusione e il compimento del vasto e nobile programma».
Cosí il biografo di San Germano ad una cinquantina d'anni di distanza dall'evento. Nessun accenno ad un intervento della Chiesa romana o ad una investitura dall'alto dei due emissari dell'episcopato gallico.
E invece una testimonianza contemporanea, quella di Prospero d'Aquitania, ci fa sapere che «ad istigazione del diacono Palladio, Papa Celestino mandò Germano quale legato apostolico in vece propria e questi dopo aver confuso gli eretici (si allude ai pelagiani) riconduceva i Bretoni alla fede cattolica».
Queste parole Prospero le avrebbe scritte verso il 429, vale a dire quattro anni appena dopo la partenza di Germano.
Senza attardarci in lunghe discussioni sui testi si può trovare un terreno di facile conciliazione supponendo che il diacono romano Palladio, che doveva essere consacrato da Papa Celestino come primo vescovo inviato da lui in Irlanda nel 431, conoscesse perfettamente lo stato della Chiesa bretone, poiché ad Auxerre, dove egli visse vicino a San Germano, nel medesimo tempo si trovava con San Germano anche Patrizio che doveva succedergli come grande Apostolo dell'Irlanda. In base a questa conoscenza delle cose bretoni, è facile immaginare che Palladio in persona abbia suggerito al Papa l'opportunità di far cadere la propria delegazione sulla persona di Germano, già designato dai vescovi gallici ad assolvere il delicato incarico tra i fedeli d'oltre Manica.
Germano non era ben noto a Roma fin dalla sua carriera laica anteriore alla consacrazione religiosa, e la sua posizione iniziale di dux della marca armoricana, con l'obbligo di sorvegliare il litus saxonicum, non gli aveva conferito già una speciale predisposizione a compiere quel suo viaggio di ricognizione religiosa fra i fedeli dell'altra sponda? Non si potrebbe immaginare esempio piú tipicamente ed eloquentemente classico della transizione naturale che si veniva effettuando nella prima metà del V secolo dai còmpiti dell'amministrazione burocratica civile a quelli dell'amministrazione sacrale cristiana. Erano funzionari romani dislocati nelle zone di maggiore sensibilità alle frontiere dell'Impero, che venivano automaticamente chiamati a rivestire cariche di altissima responsabilità spirituale, utilizzando per la costituzione della nuova società uscente dalla bufera del rimescolio etnico e territoriale, gli elementi nuovi e fruttiferi della esperienza evangelica.
Lo stesso fatto che Germano si trasferisce in Bretagna ad assolvervi un còmpito di rettificazione dogmatica e disciplinare contro la infiltrazione della etica pelagiana, strano miscuglio di moralismo stoico e di ispirazione evangelica, sta a documentare in una maniera ricchissima di significato la divergenza profonda che sussisteva fra le direttive normative della vita associata classico-romana e quelle che venivano delineandosi di su la esperienza accumulata da quattro secoli di penetrazione cristiana nel mondo d'Occidente. Questo episcopato gallico che si assume còmpiti di magistero e di governo è tutto pervaso da aspirazioni ascetiche, da programmi antidemografici, da profonde orientazioni dualistiche nel modo di considerare la vita cosí individuale come associata, le leggi stesse che presiedono allo sviluppo della società e della storia. È questa concezione ascetico-dualistica che Germano, e con lui la grande maggioranza dei vescovi gallici, professa. È solo essa che è capace di creare un tipo di società nuova, senza precedenti.
Per una singolare coincidenza il viaggio di Germano d'Auxerre verso l'Inghilterra fu l'occasione di un altro straordinario incontro. Germano si recava in Bretagna ad aprire per la Cristianità d'oltre Manica un'epoca su cui avrebbe dominato gigantesca la figura di un ex-prigioniero irlandese che aveva trovato rifugio ad Auxerre, Patrizio. Egli muoveva d'Auxerre al declinare dell'inverno dell'anno 429. Per raggiungere Gesoriacum (la Boulogne di oggi) donde doveva prendere il mare per toccare la Gran Bretagna, probabilmente Germano usò la comunicazione fluviale. I fiumi sono le vie che camminano e nel Nord della Francia essi rappresentavano già ai tempi di San Germano le migliori vie di comunicazione. Dopo essersi imbarcato sulla Yonne, Germano discese in battello la Senna fino a Lutezia, i cui nocchieri erano già da lungo tempo famosi. Da Lutezia Germano dovette riprendere la sua strada fino al disotto del confluente dell'Oise, onde raggiungere la via romana che attraverso Beauvais e Amiens giungeva a Boulogne. Essendo il viaggio impossibile la notte, la comitiva si arrestava ogni sera dove le circostanze lo permettevano. Cosí, traversando il territorio parigino, dovette un pomeriggio fermarsi a Nanterre. Là, a Nanterre, Germano avrebbe incontrato Genoveffa fanciulla e l'avrebbe segnata con la sua mano. La fanciulla, predestinata ad incontrarsi piú tardi con chi avrebbe aperto le vie alla Francia succedente alla Gallia romana, riceveva in certo modo una investitura simbolica da un transfuga della burocrazia imperiale, che rivestito di infule vescovili si avviava a consacrare, in qualche modo, la Cristianità che sarebbe stata il retaggio dell'apostolato patriziano.
Sui primi decenni del V secolo, a distanza di poco piú che cent'anni dalla grande metamorfosi religiosa costantiniana, i veri trasmettitori delle forze creatrici della nuova civiltà cristiana che sorge, non sono già i burocrati e i comandanti dell'Impero cosí detto cristianizzato, bensí questi spiriti audaci di esuli dall'organizzazione civile, che sotto le insegne della Chiesa e in nome del solo Vangelo, prescindendo da ogni riconoscibile cura politica, si dedicano ad un'opera che ha la sola apparenza di proselitismo spirituale.
I loro orientamenti morali sono strettamente ascetici. Loro programma è quello della pura conquista religiosa. Ma la loro religiosità conquistatrice è, per un mirabile prodigio di dialettica paradossale, la sola socialmente fattiva. E tale è proprio perché professa palesemente un intransigente e radicale rinnegamento della realtà sociale empirica, e della sua organizzazione esteriore.
Le tradizioni del paese di Galles dove i Bretoni si rifugiarono man mano che venivano respinti dagli Angli e dai Sassoni, come pure alcune tradizioni della Armorica, divenuta, quando i Bretoni cacciati dalla loro terra vi affluirono, la Britannia Minor, Bretagna francese, sono piene della memoria di Germano, designato come l'iniziatore di quanto, alle origini religiose della regione, vi fu fatto di grande e di nobile.
Soprattutto è la vita monastica che viene ricollegata alla azione diretta, personale, instancabile del grande vescovo di Auxerre, che era passato al seggio vescovile dalle sue funzioni di dux civile di Roma.
I testi di origine bretone ci parlano almeno di tre cenobi fondati da San Germano in terra di Galles.
L'opera di evangelizzazione compiuta dal grande vescovo della Gallia in terra d'oltremare, si concretizza di pari passo in una disseminazione di spirito ascetico cenobitico. Gli stessi collegamenti tra Auxerre e la missione di San Patrizio, favoriranno quel carattere monastico che le Cristianità celtiche, quasi eredi delle comunità dei Bardi, conserveranno per secoli.
Per un singolare istinto che vorrà essere il simbolo dei rapporti ideali tra la nuova civiltà cristiano-gallica e le tradizioni spirituali di Roma, Germano verrà a chiudere i suoi occhi alla corte di Galla Placidia a Ravenna. I rapporti politici fra la Gallia traversata e devastata dalle popolazioni barbariche e la rappresentanza della autorità imperiale in Occidente erano esposti a oscillazioni che non andavano esenti da sospetti e da diffidenze. Bramoso di sgombrare l'orizzonte da ogni nebbia di malintesi specialmente in un momento in cui dalla figura di Galla Placidia lo spiegamento del potere imperiale in Occidente assumeva cosí palese carattere di idealità programmatiche cristiane, Germano si reca a Ravenna accolto dalle piú solenni manifestazioni di devozione. L'ex-funzionario imperiale, rivestito delle insegne sacerdotali, trovava a corte un riconoscimento che era cosa ben diversa da una pura ed esteriore approvazione gerarchica. L'autorità sociale del messaggio cristiano aveva trovato le vie nuove della sua originale manifestazione. E a Ravenna Germano moriva.
La sua grande azione politico-sociale doveva essere ripresa in Francia da un vescovo che nel 448, anno della morte di San Germano, non era ancora nato, ma la cui figura e la cui opera sembrano effettivamente ad un secolo di distanza la continuazione logica e riconoscibile della molteplice azione spiegata da lui. Cesario di Arles già monaco di Lérins è veramente colui che porta, e per ragioni di ambiente e per ragioni di coerente sviluppo della spiritualità cristiana nel sesto secolo, a perfetta maturità la influenza dei suoi grandi predecessori.
Il monachismo aveva agli inizi della grande campagna antipelagiana di Sant'Agostino tradito le sue inquietudini e le sue resistenze. Era sembrato al primo momento che calcare troppo la mano sull'azione della grazia nella realizzazione del bene e sul misterioso decreto di predestinazione nel destino della superiore salvezza, rendesse interamente superfluo e vano ogni sforzo di pratica ascetica e ogni proposito di abnegazione volontaria. Dai monaci, anche in Africa, erano venute le prime insurrezioni contro la mistica predestinaziana del vescovo di Ippona.
Ma ormai, dopo il ciclo di due generazioni e dopo il travaglio laboriosissimo cui lo scontro dei popoli sottopone il mondo romano per tutto il corso del V secolo, i problemi strettamente etico-antropologici sembrano spostarsi verso il terreno di una piú ampia e sconfinata visione storico-umana. E il monachismo non appare piú soltanto come lo sforzo individuale verso la pratica della perfezione e il raggiungimento della salvezza, appare bensí e meglio come un'evasione grandiosa da un mondo in cui è impossibile realizzare la giustizia, per inserirsi in esso da lontano, mercè l'esemplare nobiltà di un ideale spirituale vissuto con logica e pertinace intransigenza. Sono ora dei monaci saliti alla dignità vescovile che patrocineranno l'accoglimento definitivo della mistica agostiniana quale norma non solamente di etica individuale, ma quale prospettiva di reintegrazione e di progresso cristiani.
Mentre in Italia, sua terra di origine, la struttura dell'Impero si difese piú a lungo che altrove, in Gallia, quando gli ultimi imperatori furono rimpiazzati da re barbarici, il paese non tardò a sottomettersi per intiero alle nazioni germaniche di già installate, sotto un titolo o l'altro, sul suolo provinciale. Tre ve n'erano: i Burgundi ad est, i Visigoti a sud, i Franchi a settentrione. Questa triplice installazione barbarica si sarebbe potuta portare ad una sola e compatta organizzazione statale? In altri termini, quale dei tre popoli era destinato a divenire decisamente il piú forte e a sottomettersi gli altri? I Goti sembravano offrire vantaggi cospicui sugli altri. Penetrati per primi nel territorio, padroni della maggior parte della Spagna, essi occupavano in Gallia le piú importanti città del Mezzogiorno, Bordeaux, Tolosa, Narbona, Marsiglia e soprattutto la città imperiale di Arles, la praepotens Arelas. Anche lo Stato dei Burgundi nella valle del Rodano sembrava presentare una situazione imponente. Ma i destinati al predominio erano quei Franchi che apparivano agli inizi meno temibili. Raggruppati in bande piuttosto che in un vero organismo nazionale, disseminati fra i piccoli regni di Colonia, di Tongres, di Tournai, di Cambrai, le loro divisioni e la debolezza che ne conseguiva avevano permesso ai generali romani di mantenersi incolumi fra la Loire e la Somme. Essi erano ancora degli ausiliari imperiali quando già altre popolazioni barbariche erano pervenute a impadronirsi dell'amministrazione delle provincie. Eppure furono questi Franchi che ebbero ragione delle altre vicine orde barbariche e, imponendo il loro ascendente a tutto il territorio dell'antica Gallia, gli restituirono l'unità politica creando uno Stato potente: merito soprattutto di due loro grandi capi: Meroveo donde la stirpe reale trasse il suo nome e suo figlio Clodoveo.
In questa laboriosa costituzione dell'unità franca in Europa, l'azione extra-politica dei monaci vescovi cristiani ha esercitato indubbiamente un'azione rilevante.
Arles attraverso le trasformazioni politiche riuscí a mantenere nella Gallia sud-orientale il suo primato di centro morale e religioso. Agli inizi del secolo sesto Cesario ne assumeva l'amministrazione spirituale. La sua famiglia era di Châlon-sur-Saône, vale a dire di territorio burgundo. Tale circostanza, in quell'ora di oscillanti fortune politiche, gli procurò fastidi non indifferenti. Ma la sapienza e la nobiltà spirituale di Cesario lo fecero superiore ai rischi della politica militante e nonostante una breve parentesi di prigionia a Ravenna egli riuscí a fare di questa stessa prova uno strumento meraviglioso per il suo successo. Liberato da Teodorico, circondato anzi da ogni onore, Cesario poté scendere fino a Roma dove Papa Simmaco gli confermò i suoi diritti di metropolita. A Cesario fu da Roma concesso il privilegio di portare il pallio romano che cosí per la prima volta era elargito fuori del territorio italico. Tornato in sede, un'altra lettera pontificia gli conferiva i poteri di vicario del vescovo di Roma cosí in Gallia come in Spagna.
Ma il governo episcopale. di Cesario è contrassegnato dal sinodo da lui indetto e presieduto a Orange nel 529 dove, a proposito del grave problema della grazia, furono adottate decisioni destinate ad esercitare un'azione direttiva considerevole in tutto lo sviluppo della teologia carismatica dell'Occidente medioevale.
In fondo il problema dei rapporti fra la libera azione dell'uomo e l'assistenza soprannaturale di Dio nel conseguimento della salvezza e nell'attuazione del bene è un problema capitalissimo nella costituzione di una visione della vita. Qualora si ecceda nella valutazione ottimistica delle capacità umane, concedendo a queste un esagerato potere nella operazione del bene, si corre sempre fatalmente il rischio di lusingare le velleità umane tendenti istintivamente sempre all'autosufficienza e all'autodivinizzazione. La conseguenza di tale deformazione è l'identificazione del fatto col bene, del reale con l'ideale, della vita empirica con la vita spirituale, diciamo in termini piú appariscenti e piú concreti, dello Stato con la Chiesa, dell'organizzazione cioè empirica degli interessi e delle finalità umane, con l'organizzazione trascendente dei valori dello spirito e delle finalità ultra-terrene. Concedendo invece esageratamente alla grazia, deprimendo cioè oltre misura le possibilità umane, sopravvalutando l'inserirsi dell'opera di Dio nella costituzione della civiltà e del bene associato, si corre fatalmente il rischio di spingere gli individui e le collettività ad una indolenza passiva, funesta e deleteria per la conquista progressiva di condizioni di civiltà che rendano meno bestiali e meno violenti gli istinti funzionali dell'uomo.
Non è detto che l'equilibrio possa raggiungersi fra le due posizioni contrastanti in virtú della logica astratta e sulla base di una perfetta coerenza. Probabilmente i sistemi normativamente piú efficaci sono quelli che non avvertendo o sprezzando le contraddizioni astratte e le antinomie teoretiche, poggiano le loro assise su presupposti fondamentalmente in contrasto, ma che, proprio per questo loro intimo ed irriducibile contrasto, sembrano in pratica essere meglio acconci a servire la dialettica strana e paradossale che presiede alla vita dello spirito cosí nell'individuo come nella vita aggregata.
Le dottrine agostiniane sono tipiche a questo riguardo. Sostanzialmente contraddittorie si rivelano sempre meglio capaci di manodurre la civiltà cristiana uscita dalla crisi del mondo antico. Il Vangelo stesso del resto non era stato una sublime contraddizione fra la visuale dell'imminente Regno di Dio e il proposito di legiferare in nome dell'Eternità?
Ma le dottrine agostiniane non erano andate esenti dalle opposizioni iraconde di tutti coloro che nella vita credono di poter esclusivamente fare appello alla logica univoca e alla piú rettilinea e schematica coerenza formale. Verso l'anno 520 il vescovo Fausto di Riez metteva in circolazione un'opera su «La grazia di Dio e il libero arbitrio». Le vecchie polemiche pelagiane ricominciavano. Un agostiniano deciso, il vescovo africano Fulgenzio di Ruspa, lo confutava con asprezza.
Sebbene Lérins fosse stato agli inizî piuttosto contrario alla antropologia e all'etica di Sant'Agostino, quando nel primo momento era sembrato che questa antropologia e questa etica dovessero determinare un deprezzamento dell'ascetica monastica, piú tardi quando il monachismo fu investito in pieno della consapevolezza della sua funzione storica e sociale le iniziali diffidenze caddero rapidamente. Il monachismo avvertí di essere esso nel mondo la realizzazione simbolica, e la funzione predestinata, di quella città di Dio, l'insieme di coloro che antepongono l'amore di Dio all'amore di sé, che Sant'Agostino aveva contrapposto come correttivo e come fermento alla città del mondo o di Satana, l'insieme cioè di coloro che antepongono l'amore di sé all'amore di Dio. L'ex-monaco di Lérins, Cesario, divenuto vescovo di una delle piú importanti sedi galliche, doveva assumere sotto il patrocinio del suo nome e del suo governo il successo piú vasto della apologetica mistica del vescovo africano.
L'Africa romana aveva dato alla Cristianità del quinto secolo la sua piú ecumenica figura di maestro e di dottore. La Gallia romanizzata dava alla Cristianità del sesto secolo il piú valido interprete della ecumenicità agostiniana. Il sinodo di Orange emanava canoni ed una professione di fede in cui si esprime la dottrina della necessità assoluta della grazia per la realizzazione di qualsiasi opera buona, anche per il primo embrionale movimento della conversione. In pari tempo i testi di Orange proclamavano la subordinazione radicale del libero arbitrio, irrimediabilmente maculato e viziato dal peccato originale, all'azione della grazia. Naturalmente si ripudia con orrore qualsiasi idea della predestinazione al male che del resto non era mai stata formalmente insegnata da Sant'Agostino, limitatosi a individuare nel complesso dell'umanità, una massa perditionis non suscettibile di alcuna possibilità di salvezza. C'è tanto desolato pessimismo, ma c'è anche tanta lucida intuizione del male profondo che si nasconde nel corso degli umani casi, in questa disperata constatazione della dannabilità irreparabile di tanti esseri votati senza scampo al loro futuro riassorbimento nelle potenze incommensurabili di Satana! Roma diede l' approvazione per mano di Bonifacio II alle decisioni di Orange.
Non è senza significato che un vescovo come Cesario, uscito da un cenobio per passare alla amministrazione religiosa di una città della importanza politica di Arles e chiamato dalle circostanze dottrinali e disciplinari del momento a favorire cosí risolutamente la propagazione e la canonizzazione delle dottrine agostiniane sulla grazia, sentisse in pari tempo il bisogno di interessarsi attivamente alla disciplina della vita cenobitica. Va sotto il suo nome una «Regola» per i conventi maschili. E sappiamo in pari tempo che non appena divenuto vescovo volle fondare nella sua sede vescovile un convento femminile di cui affidò la direzione alla propria sorella Cesaria. E anche a questo convento femminile impose una sua regola perfettamente stilizzata, la quale anzi sortí ripercussioni piú vaste e valide che la stessa regola maschile.
Sarebbe difficile esagerare l'importanza di questa disciplina conventuale introdotta e sanzionata da Cesario di Arles. Qualche lustro prima che San Benedetto in Italia stabilisse definitivamente con la sua «Regola» le forme normalizzate della ascesi associata, Cesario tenta per conto suo di organizzare forme di religiosità conventuale, quasi nel presentimento infallibile che in mezzo al disfacimento delle vecchie costituzioni burocratiche romane, l'azione sociale del cristianesimo non potesse esercitarsi nel grembo della comunità se non per mezzo di nuclei misticamente collegati nell'esercizio della preghiera e nella pratica del rinnegamento evangelico. Chiamati a costituire in mezzo alla barbarie dilagante e trionfante i nuclei piú in vista della disciplina cristiana, i cenobi ebbero indeclinabile bisogno di regolare la tecnica della loro esistenza quotidiana affinché lo sparpagliamento e la dissipazione non facessero correre rischi alla virtú normativa dell'originario entusiasmo. Fino all'epoca di Cesario le comunità meglio organizzate come quelle di Vienna, del Giura, di Lérins, erano vissute sulla base di consuetudini, ma prive però di qualsiasi legislazione scritta. Indipendentemente da esse esistevano numerose fondazioni effimere e di scarsa solidità, incapaci di sopravvivere stabilmente ai fervori dei primi giorni. Numerosi poi erano i monaci indisciplinati, ribelli alla vita regolata e alla disciplina obbediente, molto meglio adatti con le loro stravaganze bene spesso disordinate a discreditare la professione monastica anziché a raccomandarla. A questo mondo vagante e oscillante Cesario impone, col fascino della sua figura e l'autorevolezza della sua dignità, la vita stabile, la clausura infrangibile, la povertà consapevole, la seria vita comune.
Per questo insieme di qualità e di iniziative cosí nel campo della disciplina religiosa come in quello della determinazione canonica delle dottrine teologali cristiane, Cesario appare come una delle figure piú imponenti dell'episcopato gallico all'inizio del sesto secolo, degno continuatore di Ilario e di Germano.
Sono questi vescovi perfettamente consapevoli dei loro doveri di reggitori cristiani e di successori religiosi dei dignitari laici dell'Impero, che, nel laborioso momento di trapasso dalla organizzazione unitaria romana alle organizzazioni provinciali barbariche, assolvono un còmpito impareggiabile di cementazione e di consolidamento delle forze aggregate esposte al piú amaro e disperato dei dissolvimenti. È mercè loro che il cristianesimo riesce a tradurre in atto tutte le sue capacità e virtú disciplinatrici, affidate però ad una precettistica e ad una visuale della vita che sembrano a prima vista solo rivolte ai valori trascendenti delle superiori idealità evangeliche.
Son loro che creano la nuova civiltà. E la creano precisamente in virtú della loro intransigenza nel disdegno delle pure forme politiche della vita associata, intransigenza che ha la sua espressione simbolica e la sua celebrazione concreta nell'abdicazione dalle dignità civili per assumere quelle sacre del sacerdozio e dell'episcopato.
Naturalmente questo trapasso di funzioni non si compie in maniera dovunque uniforme. Si direbbe anzi che il cristianesimo arriva progressivamente a creare questi tipi perfetti di suoi corifei e di suoi rappresentanti, dopo avere nelle prime epoche successive alla conversione ufficiale di Costantino, creato dei tipi intermedi per i quali la professione cristiana fu una superficiale vernice che nascondeva a mala pena le radicate e non cambiate attitudini paganeggianti.
A questa categoria appartengono scrittori come Ausonio di Bordeaux che dopo essere stato precettore di Graziano fu console nel 379. La sua lunga carriera accademica, come professore di grammatica e di retorica all'Università della sua città natale, troppo lo aveva messo a contatto con la tradizione della classicità perché la sua del resto incontestabile adesione al Vangelo ne potesse trasformare le ispirazioni primitive e gli orientamenti fondamentali. Amico di Simmaco con il quale scambia lettere cariche di complimenti goffi e pesanti, maestro di San Paolina che compirà a Nola in Italia una missione religiosa analoga a quella dei grandi vescovi gallici, in relazione costante con tutto il mondo piú eminente dell'Impero, Ausonio rappresenta al tramonto del IV secolo molto bene quella classe di insigni personaggi usciti dalla scuola che coprono con la loro fosforescente cultura e con la loro agile destrezza intellettuale la mancanza di vera nobiltà e la deficienza di forti convinzioni. È cristiano senza dubbio, secondo l'etichetta ufficiale. Ma i suoi versi avrebbero potuto essere stati scritti da un pagano. La sua Ephemeris è la pittura della vita normale di un borghese del IV secolo nel quale la trasformazione religiosa dell'Impero per opera di Costantino non ha prodotto altro che una alterazione esteriore dei connotati anagrafici.
Temperamenti consimili ne troviamo anche sulle sedi vescovili nel V secolo. Tale quel Sidonio Apollinare, letterato e poeta, uomo politico e ministro dell'imperatore, poi vescovo di Clermont, suddito adulatore e vittima in pari tempo dei re barbarici. Ma ci guarderemo bene dal mettere figure di questo genere alla pari con le figure di un Germano o di un Cesario. Sotto le infule sacerdotali scrittori come Sidonio mantengono la loro flaccida anima di cortigiani e di arrivisti. L'oggetto delle loro esaltazioni non è piú l'imperatore di Roma, è il re barbarico. Ma nella loro anima angusta e pedestre il còmpito vescovile non è altro che una dignità cortigiana aggiunta alle altre. I suoi carmi ci fanno assistere ai matrimoni dei capi germanici e all'accorrere delle popolazioni nuove alle corti dei nuovi sovrani. Questo vescovo non esita a mescolare i nomi di Giove e di Venere ai suoi panegirici e ai suoi epitalami. Le sue lettere sono infarcite di frammenti di Virgilio e di Orazio, di citazioni e di reminiscenze. Aspira a trasfondere nelle proprie composizioni poetiche l'armonia di Simmaco e la sapiente maturità di Plinio. Non potendo fare di meglio si compiace di una prosa rimata, messa alla moda da Frontone, molto coltivata nelle scuole dei retori, e in cui tutti i membri delle frasi contengono o una antitesi, o una metafora, o una formula piccante. Nulla piú raffinato delle opere di questo mezzo barbaro. Non manca di spirito e di una certa finezza satirica che si compiace di berteggiare le traversie del tempo. Assiste da osservatore divertito allo spettacolo caleidoscopico che offre lo strano mondo intorno a lui. Si ricava dalle sue lettere che la cultura letteraria non è ai suoi tempi un'eccezione. I suoi amici leggono Varrone e nel medesimo tempo Sant'Agostino, Orazio e Prudenzio.
Prudenzio: lui sí, il poeta spagnolo del IV secolo declinante, aveva profondamente sentito la novità del messaggio cristiano, l'originalità della nuova tecnica evangelica e, delle vecchie forme letterarie della tradizione classica, aveva fatto, con magistero ardito e felice, il veicolo acconcio alla celebrazione delle nuove idealità e della nuova fede creativa.
Prudenzio è effettivamente un grandissimo poeta. È il solo lirico vero e genuino che la letteratura latina abbia prodotto dai tempi di Orazio in poi, ben superiore a quest'ultimo per la profondità del sentimento e la originalità dell'espressione, dopo il quale, per ritrovare un artista autentico in versi, bisognerà attendere piú di nove secoli, bisognerà cioè attendere Dante.
Il riavvicinamento non è audace o bislacco. Prudenzio sta alle origini della grande poesia cristiana, nel momento in cui il cristianesimo inaugura la sua effettiva opera di costruzione sociale: Dante sta all'epilogo quando l'opera sociale dello spirito cristiano sembra aver compiuto la parabola della sua ascensione e aver esaurito le sue possibilità sistematrici.
Sulla vita di Prudenzio gettano luce alcune confidenze autobiografiche che egli ha inserito nella Praefatio alle sue opere poetiche: «Attraverso dieci quinquenni, se non erro, dice il poeta di sé, ormai sono passato: e per di piú sette anni hanno compiuto lor giro, mentre godiamo frattanto del sole che viene e che va. Incalza il termine della vita e Iddio oramai appone alla vecchiaia i prossimi giorni. In tanto spazio di tempo che cosa mai abbiamo fatto di buono? Pianse l'infanzia mia al crepitio della sferza. Poscia il vizio mi prese e la toga mi addestrò nelle false parole, non senza mia colpa. Allora la protervia lasciva e la lussuria sfacciata – ahi, me ne pento e vergogno! – lordò la mia gioventú con la sozzura e col fango della dissolutezza. Quindi le liti armarono l'animo turbolento e la bramosia troppo ostinata della vittoria fu soggetta ad aspre venture. Due volte col potere delle leggi fummo al governo di nobili città, e ai buoni cittadini rendemmo giustizia, nei rei suscitammo sgomento. Finalmente la grazia del principe mi innalzò al grado della milizia, e mi volle daccanto, assunto nell'ordine prossimo. Mentre cosí volando si affaccenda la vita, la canizie si insinua nella vecchiaia d'un tratto, accusandomi di essermi scordato di quel vecchio Salia, che era console in quel mio giorno natale il quale quanti mai verni abbia fatti passare e quante rose dopo il gelo abbia riportato sui prati, la neve del mio capo lo prova. Forse che tali beni, tanti mali, gioveranno dopo la disfatta della carne, allorché quale si sia ciò che fui, sarà distrutto dalla morte? Una voce io debbo ascoltare: chiunque tu sia, l'anima tua ha perduto quel mondo che amava. Le cose di Dio non curò; e tu sei servo di Dio. Ma ora presso all'ultima fine l'anima peccatrice deponga la stoltezza e celebri almeno Iddio con la voce se non lo può con i meriti. Trascorra negli inni ogni giorno, e niuna notte trapassi senza cantare il Signore. Combatta le eresie, dispieghi la cattolica fede, calpesti i riti pagani. Porti, o Roma, rovina agli idoli tuoi; consacri ai martiri il canto e gli Apostoli esalti. Cosí mentre scrivo, mentre parlo, che io possa dai vincoli del corpo balzar libero fuori, dove mi condurrà l'ultimo suono della mia voce» (Traduzione Marchesi).
Quando dunque il poeta traccia cosí il programma della sua carriera letteraria e della sua missione apologetica e polemica, conta già 57 anni e riguarda con un sospiro alla vanità di tutto il passato, all'infanzia contristata dalla sferza magistrale, alla gioventú contaminata dalla dissolutezza. Nato alla metà del IV secolo sotto il consolato di Filippo e di Salia in una città non precisabile della Spagna tarraconese, Prudenzio aveva ricevuto l'educazione retorica che doveva condurlo all'esercizio dell'avvocatura e fu avvocato appassionato ed inquieto. Gli si aprí ben presto la via degli onori, fu forse vicario della provincia tarraconese e forse fu comes primi ordinis.
Era giunto Prudenzio all'età circa di 50 anni quando subita sopravvenne la rinuncia alle cose del mondo. Non ne sappiamo le ragioni e non ne possiamo definire le circostanze. La sua opera superstite ci mostra come egli da quell'età ha cominciato a poetare in gloria di Cristo. Il piano della sua ispirazione poetica risponde a molteplici esigenze di propaganda e di polemica. Nel quadriennio che va dal 401 al 405 egli attese al compimento del suo voto e del suo programma con intensissimo fervore, ora impetuoso e quasi improvviso come nei poemi polemici, ora raccolto e raffinato come nelle liriche. È in questo stesso periodo di devota, pia e poetica attività che Prudenzio compie il suo viaggio a Roma, dove giunge nel 404, nell'anno stesso in cui vi giungeva Onorio per spiegarvi il suo grande trionfo.
La poesia di Prudenzio è una tipica poesia didattica e dottrinale. Da questo punto di vista i poemi prudenziani non si può dire che costituiscano una novità. Rappresentano piuttosto la continuazione di un tipo poetico che aveva piú tenacemente degli altri perdurato e resistito con diversa fortuna alle vicende letterarie, per la sua speciale capacità di contenere dentro una forma tradizionale e canonizzata una materia di continuata varietà e vivacità. La letteratura latina aveva nel grande poema di Lucrezio un monumento impareggiabile di poesia volta a significazione dottrinale e ad esaltazione di battaglie ideali.
La produzione di Prudenzio è la espressione poetica di tutto un materiale vivo, fluido e palpitante di idee, che era naturalmente chiamato a trovare nell'esametro epico la piú adatta significazione. Le battaglie apologetiche che Tertulliano aveva combattuto nel momento in cui ancora l'Impero romano recalcitrava furente alla penetrazione del cristianesimo, Prudenzio le rinnova nella temperie pacificata del trionfo politico cristiano. Si direbbe che il passaggio stesso dalla prosa concitata dell'apologista africano alla scorrevole vena poetica dello scrittore spagnolo, stia a simboleggiare e ad esprimere il nuovo còmpito costruttivo del messaggio cristiano, pervenuto ormai ai fastigi del suo trionfo pubblico e chiamato irrevocabilmente a un'immensa opera di costruzione civile.
Con Prudenzio l'epoca didascalica torna ad essere quale era stata in Lucrezio, una battaglia poetica per una conquista ideale, un'opera d'arte messa a servizio di una fede.
La produzione prudenziana, vasta e copiosa pur dettata in un cosí circoscritto lasso di tempo, sta a dimostrare l'intensa capacità creativa dell'esperienza religiosa uscita dal Vangelo, nel momento in cui essa si accinge a trarre su dal rimescolio etnico-politico del V secolo incipiente le fattezze e la sagoma della nuova civiltà mediterranea unificata e trasfigurata dalla nuova tradizione evangelica.
La produzione poetica di Prudenzio è quanto mai copiosa. Essa comprende innanzi tutto poemi teologici come l'Apotheosis e l'Hamartigenia dove la polemica è diretta contro l'eresia e dove la celebrazione della verità ortodossa è fatta con accenti energici e convinti. Una polemica ancor piú vigorosa Prudenzio conduce contro il paganesimo nei due libri contra Symmachum, quel Simmaco cioè che aveva rivendicato al cospetto dell'autorità imperiale nettamente cristianeggiante la validità del sopravvissuto culto pagano. La polemica teologale di Prudenzio tradisce a primo aspetto qualcosa di anacronistico e di superato. Il poeta impugna le eresie piú antiche e oramai meno pericolose. Oggetto dei suoi strali sono i marcioniti, la cui possibilità di proselitismo nel IV secolo è senza dubbio straordinariamente impoverita e paralizzata. Quando parla del problema trinitario, non può non destare meraviglia che Prudenzio combatta con tanto acre virulenza sabelliani, ebioniti, manichei, dimenticandosi completamente di Ario e della sua dottrina che pure per tutto il quarto secolo ha cosí imperversato tanto in Oriente che in Occidente. È un temperamento tutto fasciato di cautela quello del poeta e si comprende senza difficoltà come egli abbia voluto lasciare in non cale problemi spinosi e polemiche ardenti. Il problema trinitario durante tutto il corso del IV secolo può dirsi tuttora un problema che non ha trovato la sua ultima parola e non è stato risoluto in maniera universalmente soddisfacente. Meglio pertanto lasciare la decisione definitiva al giudizio delle grandi assemblee vescovili che si rinnovano cosí di frequente dal 325 in poi sotto la pressione delle discordi minoranze e del travaglio profondo che subisce la coscienza cristiana.
Anche la Psychomachia prudenziana racchiude in sostanza un contenuto polemico. Essa è un poema allegorico-morale, tendente a glorificare la fede cattolica che assistita dalle virtú combatte e vince la idolatria con tutta la sua coorte di vizi. Il campo della visionaria battaglia è naturalmente l'animo umano. Mentre l'arte classica aveva ignorato vere e proprie allegorie, Prudenzio appare come il primo a concepire un poema compiutamente allegorico, a svolgere tutta una vasta allegoria morale in un poema di novecentoquindici esametri offrendo un genuino modello a tutta la posteriore arte allegorica.
Ma l'opera poetica piú cospicua di Prudenzio è senza dubbio il liber Cathemerinon o libro dei canti quotidiani. Esso contiene una duplice serie di inni, formata ciascuna di sei, distanti per tempo e per indole di composizione. I primi sei che dettero il nome alla raccolta sono destinati alle preghiere del giorno: l'inno del mattutino, quello del mattino, prima e dopo il desinare, l'inno del crepuscolo, quello avanti il sonno. Gli ultimi sei celebrano alcune speciali usanze della festività cattolica, come il digiuno (inni 7° e 8°), il Natale (inno 11°) l'Epifania (inno 12°). Nell'inno 9° è celebrato Gesù; nell'inno 10° è cantata l'ora piú grave e sacra della vita, l'ora cioè della morte. Cosí Prudenzio si colloca terzo dopo Ilario ed Ambrogio nella produzione della lirica liturgica latina: ma è senza dubbio il primo ad introdurre risolutamente i nuovi cantici spirituali della Chiesa cattolica nel patrimonio letterario della poesia latina.
La letteratura greca cristiana ci aveva già offerto, nel secondo e terzo secolo, inni religiosi. Se ne trova uno in metro anapestico alla fine del Pedagogo di Clemente Alessandrino. E un canto religioso conchiude il Simposio di Metodio di Olimpo. Ma vera innologia sacra per l'ufficio ecclesiastico non si trova nella Chiesa greca prima di Gregorio Nazianzeno.
Infine il Peristephanon liber, le cosí dette Corone di Prudenzio, comprende un ciclo di quattordici carmi dei quali cinque cantano le gesta di martiri spagnoli, quattro sono in onore di martiri romani e altri quattro celebrano martiri di paesi diversi. L'inno ottavo invece illustra rapidamente un battistero innalzato in onore di due martiri che forse sono gli stessi santi di Calahorra esaltati nel carme primo. Il libro delle Corone suggerisce un delicato problema estetico-letterario che coinvolge tutta la questione del significato della poesia cristiana latina al tramonto del IV secolo e agli inizi del V.
Mentre nei poemi di Prudenzio è palese l'influenza sia della poesia didascalica latina sia della letteratura cristiana apologetica e polemica; mentre nel liber Cathemerinon è facile rintracciare lo sviluppo retorico e poetico degli inni costituiti già per opera di Ilario e di Ambrogio nell'officiatura religiosa della Chiesa; è piuttosto difficile determinare la connessione del Peristephanon con le forme poetiche preesistenti.
Il titolo della raccolta, l'intendimento eroico, l'indole medesima dei carmi, in cui l'elemento lirico si alterna col drammatico, fanno spontaneamente pensare all'epinicio, benché l'elemento epico non vi sia cosí appariscente come in tal caso vorrebbe la logica. Ma è piú naturale pensare che il carme di Prudenzio sia il risultato di un'elaborazione personale e letteraria su preesistenti materiali ecclesiastici nei quali l'epopea del martirio aveva già trovato la sua spontanea celebrazione collettiva. In realtà gli inni delle Corone hanno un tono cosí singolare di ballata e di preghiera insieme, tradiscono un misto cosí specifico di poesia descrittiva e narrativa e di ispirazione liturgica che vien fatto naturale di pensare ad una preesistente fioritura di canti popolari che abbinavano la esaltazione del testimone cristiano con la supplica e la invocazione. Gli atti dei martiri, sia ufficiali sia leggendari, dovevano avere offerto a queste celebrazioni poetiche e popolari uno spunto irresistibile.
Pertanto le Corone di Prudenzio costituiscono effettivamente, in questo loro sforzo rielaborativo, il primo monumento letterario della nuova poesia cristiana. I metri si ritrovano tutti nella vecchia poesia, ma scelti e disposti in modo da formare talora una novità lirica. Le immagini, le fasi, le figure sono imitate e derivate in gran parte dalla suppellettile letteraria e retorica del passato, ma tutto è diretto alla colorazione e alla significazione di fatti, di sentimenti, di aspirazioni pieni di novità e di originalità. I vecchi metri dattilici o giambici o trocaici o anapestici entrano nella composizione di questo poema originale che è nel medesimo tempo lirico, epico e drammatico tutto insieme. Nella lirica cosí di Prudenzio sono i germi fecondi di quella poesia medioevale che sia in latino sia nelle lingue romanze verrà via via assumendo la forma dei cantàri, delle sequenze e delle canzoni di gesta. Anche da questo punto di vista il tramonto del secolo IV, il secolo di Atanasio, di Ambrogio e di Agostino ci si rivela come il secolo da cui germinerà in tutte le manifestazioni della spiritualità mediterranea il Medioevo cristiano.