Se l'apparizione del cristianesimo costituisce il fatto piú insigne nella storia spirituale del genere umano, il quarto secolo può designarsi, senza esagerazione, come il piú rimarchevole nella storia della vita pubblica dei popoli europei. Il cristianesimo cessa in questo secolo di rappresentare un movimento clandestino che insidia con la sua ostilità sorda e con il suo assenteismo pacifista la vita dell'organizzazione statale romana. Per opera di un sovrano audacemente riformatore, il cristianesimo è chiamato dapprima al riconoscimento ufficiale e poi alla funzione di religione di Stato. Il trapasso di queste posizioni doveva logicamente sortire conseguenze vaste e sostanziali cosí nella compagine della civiltà romana come nella struttura teorica e disciplinare della società religiosa nata dalla predicazione del Vangelo.
Nella storia della nostra civiltà mediterranea l'evo antico si diversifica dal nuovo, dal punto di vista etico-sociale, principalmente per questo. Nell'evo antico valori politici e valori religiosi sono strettamente associati gli uni agli altri, perché la religione rappresenta, né piú né meno, che un dovere civico come gli altri. Ottemperando alla pratica liturgica ufficiale l'individuo contribuisce a garantire l'assistenza favorevole delle forze superiori al gruppo familiare e sociale cui appartiene. Nell'evo nuovo invece la sfera dei valori religiosi è bruscamente scissa da quella dei valori politici. L'anima individuale, pervenuta alla completa consapevolezza della propria dignità, entra in immediato rapporto col divino personale e raggiunge la propria salvezza in virtú di un misterioso processo di redenzione. Naturalmente non c'è nulla nella vita del singolo che non si ripercuota nella vita della comunità cui appartiene, ed anche la esperienza cristiana, come la esperienza religiosa nel mondo antico, si inserisce automaticamente e si innesta sull'insieme dei rapporti politici e sociali che sono compresi nel fatto stesso dell'umana convivenza. Ma lungi dal sottostare ad essi e dal servirli, li domina e li sanziona, li eleva e li trasfigura mercè lo sdoppiamento di una duplice collettività a cui il singolo appartiene, la collettività dei rapporti sensibili e la collettività dei rapporti spirituali.
Occorsero tre secoli perché l'Impero potesse ammettere la propria capacità di sopravvivere alla accettazione di pratiche e di credenze religiose difformi da quelle tradizionali e occorsero pure tre secoli perché il cristianesimo potesse acconciarsi ad accettare il riconoscimento e non piú la semplice tolleranza del «secolo» presente.
Il secolo IV può considerarsi come un periodo di assestamento in cui la società politica e la società religiosa si avviano a fissare i diritti ed i doveri reciproci dopo la rivoluzione profonda operata da Costantino con la sua conversione.
Non è possibile farsi una idea adeguata dei coefficienti politico-dinastici ed etico-culturali della grande riforma religiosa compiuta da Costantino se non si passa rapidamente in rassegna lo sviluppo della politica romana sotto il forte e coerente governo di Diocleziano.
L'Impero romano ha portato fin dalle sue origini, come già abbiamo avuto occasione di rilevare, una certa ambigua e inquietante polarizzazione antitetica, tra le vecchie forme democratiche non completamente abolite e le velleità assolutiste ed orientalistiche che lo facevano intransigente e persecutore. Di qui un certo senso permanente di instabilità e di malessere, che si traduceva molto spesso in un pànico disperato di fronte ad una possibile e catastrofica disgregazione.
Alla metà del terzo secolo, quando era diventato già di moda attribuire alla empietà e all'ateismo dei cristiani le grosse iatture del mondo, San Cipriano rispondeva agli accusatori del cristianesimo sostenendo invece che tutto faceva pensare essere il mondo ormai decrepito e avviato quindi alla sua definitiva decadenza. « L'inverno non dà la copia di piogge necessaria al nutrimento delle semenze affidate alla terra; l'estate non dà una cosí torrida temperie solare da permettere il maturar delle spighe; la primavera non dà sufficiente fecondità di frutti. Le cave montane stanche ed esauste dànno minor quantità di argento e di oro; le polle d'acqua sembrano inaridirsi ogni giorno. Vien meno l'agricoltura nei campi, la pesca nel mare, la milizia negli accampamenti, la giustizia nel Foro, la lealtà nelle amicizie, la perizia nelle arti, la disciplina nei costumi». E continuando con l'interpellare l'avversario pagano San Cipriano domanda: «Credi tu che la pinguedine e la produttività della vecchiaia possano comunque gareggiare con la fresca produttività della giovinezza? È pur necessario che si vada assottigliando e impoverendo la forza di tutto che si appressa al suo occaso. I raggi del sole son piú pallidi e fiacchi al tramonto; la luce lunare si affievolisce nelle ultime notti; l'albero che fu ai suoi tempi verde e ricco si deforma nella sterilità della sua vecchiaia e la sorgente che fu ricca e copiosa agli inizi non manda che poche gocce quando la decrepitudine l'impoverisca. Questa la sentenza che grava sul mondo, questa la legge di Dio, che tutto quel che è nato, corra verso la morte; tutto quel che è cresciuto, una volta invecchi; tutto quel che è forte, si indebolisca e attraverso un processo di progressiva infermità e diminuzione, scompaia» (Ad Demetrianum).
Le penose e agitate incertezze, le sedizioni e i disordini attraverso cui si svolge, può dirsi senza notevoli periodi di tregua, la vita politica dell'Impero romano, e che facevano pensare malinconicamente al vescovo cartaginese del terzo secolo che il mondo tutto si avviasse al tramonto, non dipendevano tanto dalla eterogeneità delle popolazioni che Roma aveva soggiogato e che potrebbe quindi supporsi aspirassero a riguadagnare la loro autonomia. Roma le aveva fatte sue, che non erano ancora in gran parte cosí mature alla vita civile e politica, da sentire il peso del dominio straniero. E d'altro canto l'appartenere all'Orbis Romanus dava a tutti un senso di tale robusta fierezza da equivalere in qualche modo al nostro moderno sentimento patriottico. E non è neppure da pensare che Roma facesse eccessivamente gravare sui sudditi il peso di un suo accentramento burocratico. Una quantità di concessioni e di privilegi garantivano a città ed a provincie diritti di legislazione autonoma, che equivalevano ad un vero e complesso decentramento. Né infine il governo monarchico era tale a Roma da dover apparire a tutti nelle provincie come un intollerabile despotismo. In realtà l'Impero aveva finito col rappresentare una vittoriosa rivincita delle provincie sul mal governo della oligarchia senatoriale.
Il vero tarlo roditore della compagine imperiale romana fu piuttosto nella mancanza di una disciplina regolare e sanzionata nella trasmissione del potere; nella lenta corrosione esercitata sempre piú dai barbari sulle frontiere; nella disgregatrice aspirazione di singoli e di masse a conquistare una personalità etica su cui lo Stato finisse con l'essere incapace di esercitare il suo ferreo dominio.
Le riforme di Diocleziano miravano ad assicurare allo Stato romano un tale decentramento militare che rendesse piú agevole e piú spedita la difesa delle frontiere; una tale forma di regime imperiale che la trasmissione del potere supremo fosse posta al sicuro da sorprese e da pronunciamenti; una tale rigidezza nella distribuzione dei ceti e delle classi, che mai le risorse da estorcersi dalle curiae e da chi le rappresentava di fronte allo Stato, venissero meno al fisco.
A rendere indefettibile la nuova costituzione Diocleziano la impregnò di spirito religioso, portando alle ultime conseguenze la divinizzazione imperiale e la vecchia concezione del còmpito politico riserbato alla religiosità ed al sacerdozio.
In questo vasto ed organico programma di restaurazione conservatrice, a cui il governo dioclezianeo si impegnava tanto piú risolutamente quanto piú viva si era fatta la coscienza del pericolo imminente, la persecuzione anticristiana doveva prima o poi innestarsi come un corollario indeclinabile.
La fortunosa età su cui dominano le due figure antitetiche di Diocleziano e di Costantino ha i suoi ricordi affidati ad una produzione letteraria ricca per quanto variamente autorevole. Gli scrittori di questa letteratura sono gli uni di parte pagana gli altri di parte cristiana. Alla parte pagana spettano i Panegyrici latini, compilati e pronunciati in date solenni agli inizi del quarto secolo. Con essi vanno registrati gli Scriptores Historiae Augustae che redassero a varie riprese (Elio Sparziano, Vulcanio Gallicano, Trebellio Pollione ai tempi di Diocleziano; Flavio Vopisco, Elio Lampridio, Giulio Capitolino qualche decennio piú tardi) le biografie imperiali da Adriano a Caro. Pagano è Aurelio Vittore che scrive ai tempi di Teodosio la sua cronistoria De Caesaribus e pagano è pure Eutropio, autore, ai tempi di Valente, di un Breviarium ab urbe condita. Al tramonto del quarto secolo dopo una vita pubblica insigne Ammiano Marcellino pure pagano redigeva le sue voluminose Res gestae e agli inizî del quinto Zosimo scriveva la sua Nuova storia.
Di parte cristiana noi possediamo due fonti di primissimo ordine: il De mortibus persecutorum, oggi concordemente rivendicato a Lattanzio, e gli scritti storici di Eusebio vescovo di Cesarea, la cui documentazione e le cui fonti, dopo essere state ripetute volte sottoposte a sottile e spietata critica, appaiono oggi, di nuovo, insospettabili.
Caio Aurelio Valerio Diocleziano era stato proclamato imperatore il 17 novembre del 284 dalle legioni che sotto Caro e Numeriano avevano compiuto una dura campagna in Persia. Egli regnò da solo su tutta la vastità dell'Impero fino al primo di aprile del 285, nel qual giorno si associò nel governo imperiale, come Augusto, Caio Aurelio Valerio Massimiano. Allora fu fissato solennemente il carattere religioso e sacrale dei due imperatori. L'uno chiamato a reggere l'Oriente con capitale a Nicomedia sul Golfo Astaceno (oggi Ismid), l'altro chiamato a reggere l'Occidente con capitale a Treviri. Nei panegirici ufficiali del 289 e del 290 i due imperatori sono designati quali inauguratori di una prosapia divina: Diocleziano è chiamato Giovio; Massimiano è chiamato Erculeo; Giove ed Ercole sono indicati come genitori ed avi dei due sovrani: «Son vostri genitori coloro che conferirono a voi nome e dignità imperiali». A loro volta gli imperatori sono assimilati alle due divinità da cui han tratto il nome e la dignità, e i templi sono ugualmente comuni alle due divinità ed ai due imperatori. In essi è adorata come Numen la divinità presente dei sovrani. Anzi, in un primo momento, data la concordia esistente fra i due Augusti, fu possibile indirizzarsi alle loro due rispettive divinità associate nel medesimo tempio. Il panegirista lo dice esplicitamente: «Qual mai spettacolo diede la vostra pietà, quando nel Palazzo di Milano a coloro che erano stati introdotti per adorare le divine fattezze, appariste entrambi insieme e trasformaste la tradizione del singolo culto, con l'apparizione repentina del duplice nume!». E quando nella costituzione tetrarchica i due Augusti si associarono i due Cesari, l'insieme dei quattro sovrani fu paragonato all'amalgama degli elementi terrestri e celesti, che secondo le idee astrologiche e cosmogoniche del tempo, sono precisamente quattro.
Il primo di marzo del 293 Diocleziano, bramoso di aggregarsi nuovi colleghi che lo assecondassero nel governo militare e burocratico dell'Impero, elevava alla dignità di Cesari Costanzo Cloro e Galerio. L'unità legislativa e statale fu in certo modo mantenuta, perché Diocleziano conservò un privilegiato titulus primi ordinis che lo autorizzava ad emanare leggi valide anche nel territorio dei colleghi. Nella nuova ripartizione dell'Impero, a cui si era cosí addivenuti, Diocleziano si riservò l'Oriente asiatico e l'Egitto, con capitale Nicomedia. Massimiano conservò per sé l'Italia, la Spagna e l'Africa, con capitale Milano. Dei due Cesari, il primo in dignità, Costanzo Cloro, ebbe la Gallia e la Bretagna, da lui conquistata nel 296 su Allectus, con residenza a Treviri o a Eboracum. A Galerio toccò la Pannonia superiore, l'Illirico, la Tracia, la Tessaglia, vale a dire tutta l'attuale penisola balcanica, con residenza a Sirmio (oggi Mitrovitza sulla Sava). Contemporaneamente alla istituzione della tetrarchia, Diocleziano attuò una serie di riforme amministrative, in virtú delle quali il territorio imperiale venne ad essere ripartito in un maggior numero di provincie e di magistrature.
Simili novità costituzionali dovevano necessariamente far sentire la loro azione sui rapporti fra società civile e società religiosa. Non è da pensare che in Diocleziano ci fosse, fin da principio, la stoffa di un violento e deciso persecutore. Questo dalmata di grande ingegno e di sottilissima capacità amministrativa doveva comprendere molto bene i pericoli insiti in una cieca politica di repressione. Ma l'accentramento burocratico nelle singole parti in cui fu suddiviso l'Impero; la piú intima fusione di politica e di religione con una conseguente identificazione dei doveri civici coi doveri religiosi, dovevano necessariamente condurre al dissidio definitivo tra l'Impero nettamente totalitario e la religione, che era nata appunto come rivendicazione dell'autonoma coscienza umana di fronte alla prepotente pressione dell'organismo statale.
Dai tempi di Aureliano il cristianesimo aveva goduto di una pace relativa. Al principio del libro ottavo della sua Storia ecclesiastica Eusebio di Cesarea ci fa una pittura piuttosto idilliaca di quei giorni, e i tratti della sua descrizione ci fanno in realtà arguire che il cristianesimo avesse ormai guadagnato un indiscusso diritto di cittadinanza nel grembo della società imperiale. Probabilmente al 295 va assegnata la conversione di Arnobio, il retore celebrato di Sicca nella Numidia proconsolare. Dalla sua scuola era uscito pochi anni prima per recarsi a Nicomedia, e insegnare colà, per volere di Diocleziano, retorica latina, un altro retore, che doveva offrire piú tardi alla difesa del cristianesimo tutto il lussureggiante fervore del suo ingegno meridionale: Cecilio Firmiano Lattanzio.
La temperie storica propizia e la libertà largamente sfruttata avevano fatto sentire la loro azione depauperatrice sulla disciplina interna e sulla rigidezza morale delle comunità cristiane. Se Eusebio denuncia nelle medesime pagine della sua Storia ecclesiastica parecchi abusi che l'epoca della pace aveva introdotto nelle comunità cristiane d'Oriente, i canoni emanati dal sinodo di Illiberis (Elvira) nella Spagna fra il 300 e il 303, ci dànno la documentazione di strani accomodamenti agli usi pagani, a cui i cristiani si erano acconciati e che l'autorità vescovile credeva di dovere reprimere con tutto il possibile rigore. Tali canoni, per esempio, ci dimostrano che le comunità cristiane della Spagna annoveravano fedeli che tornavano con facilità e senza scrupolo alla frequenza dei templi pagani ed alla consumazione dei sacrifici. I medesimi canoni ci attestano l'esistenza di cristiani che assolvevano senza ritegno le funzioni del flaminato. Flamini, come si sa, erano i sacerdoti del culto di Roma e di Augusto, in funzione presso le provincie e i municipi. La Spagna contava tre flamini provinciali per le sue tre provincie (la Tarraconensis, la Boetica e la Lusitanica) e numerosi flamini municipali. La carica era annuale, ma chi l'aveva ricoperta una volta diveniva senz'altro e rimaneva flamen perpetuus. Le mansioni e gli oneri del flaminato comportavano necessariamente sacrifici idolàtrici e la presidenza dei giuochi che ogni nuovo flamine doveva, come un munus, organizzare per la città che lo aveva nominato e che implicavano di solito la morte di gladiatori e scene di immoralità nelle rappresentazioni mimiche. I medesimi canoni di Elvira ci fanno constatare la crudeltà delle matrone cristiane contro gli schiavi e la credenza diffusa tra i cristiani nella efficacia delle pratiche magiche.
Ma non è da pensare che tutte le comunità cristiane del IV secolo incipiente si trovassero ad un livello morale e disciplinare cosí basso come quello che ci mostrano le comunità spagnole colpite dai canoni di Elvira.
Nell'Africa proconsolare ad esempio e nella Numidia è certo che il cristianesimo aveva conservato nella sua maggioranza quella intransigenza rigida, di cui meno di un secolo prima Tertulliano si era costituito cosí veemente patrocinatore. Tutte le espressioni della vita pagana, ma soprattutto il servizio militare e le sue periodiche manifestazioni dinastiche e lealistiche, trovavano colà i cristiani fieramente avversi. Universalizzata, la diffidenza dei cristiani africani avrebbe potuto mandare in malora l'esercito romano.
Si comprende quindi perfettamente come nel suo vasto e urgente piano di riorganizzazione imperiale; nel proposito netto di distinguere il potere civile dal militare, accompagnato però dal presupposto che ogni mansione assolta in servizio dello Stato dovesse rivestire un carattere sacro e religioso, Diocleziano doveva prima o poi trovarsi nella impellente necessità di eliminare dall'esercito tutti quegli elementi che, entrativi per legge (i figli dei veterani erano ad esempio costretti al servizio militare), non vi adempivano però il proprio dovere secondo la disciplina.
Eusebio ci dice appunto che «improvvisamente, quegli che ne aveva ricevuto il potere (il Demonio), si destò come da un lungo letargo. In principio ingaggiò la sua battaglia contro le Chiese – dopo il tempo (di persecuzione) trascorso fra Decio e Valeriano – segretamente e nell'ombra, non iniziando la guerra d'un colpo solo, ma scagliandosi da principio contro coloro che prestavano servizio militare. Esso partiva dall'idea che sarebbe stato agevole perdere tutti gli altri, qualora fosse in antecedenza riuscito nella lotta con questi. Fu possibile allora vedere moltissimi che prestavano servizio militare abbracciare volentieri la vita privata per non divenire i transfughi della religione del Dio formatore dell'Universo. Quando il ministro della guerra allora in carica ebbe iniziato la persecuzione contro le truppe, classificò dapprima ed epurò coloro che prestavano servizio sotto le armi. Offrí loro la scelta o di obbedire e di continuare cosí a godere del loro grado o al contrario di esserne spogliati, qualora avessero fatto il contrario di quel che era comandato. Numerosi soldati del Regno del Cristo senza esitare preferirono la confessione della loro fede all'onore insigne e alla posizione eminente che avevano. Di questi, raramente accadeva che alcuni avessero da sopportare non solamente la perdita della loro dignità, ma anche la lotta per la loro piú pia esistenza. Colui che in quel momento dirigeva il piano si conduceva con misura non osando arrivare all'effusione del sangue se non per alcuni. A quanto pare temeva la massa dei credenti e non osava gettarsi nella lotta contro tutti insieme».
In verità non erano mancate da parte di cristiani esaltati le provocazioni. Specialmente in alcune regioni dell'impero atti di insubordinazione e rifiuti di prestar servizio militare avevano destato l'allarme nelle autorità provinciali e centrali. Un documento di indubitabile valore storico, gli Acta Maximiliani, ci dà, riproducendo gli atti dell'archivio proconsolare di Cartagine, una scena di questo genere. È la scena dell'arruolamento di Massimiliano figlio di Fabio Vittore forse veterano e certamente agente del fisco, temonarius (riscuotitore cioè dell'aurum tironicum, balzello pagato da chi voleva ottenere l'esonero di qualche suo dipendente dalla milizia). La scena si svolge a Teveste il 12 marzo del 295, al cospetto del proconsole Cassio Dione, che presiede un consiglio di leva. Il rifiuto del servizio merita a Massimiliano il martirio. Fatti simili dovevano necessariamente ingenerare nella autorità romana non solamente il proposito di eliminare dall'esercito tutti coloro che professavano sentimenti cristiani e che pertanto non offrivano alcuna garanzia di adempiere convenientemente il loro dovere, ma a lungo andare anche il proposito di sopprimere la causa prima della insidiosa insubordinazione, vale a dire la propaganda cristiana. I filosofi neoplatonici Porfirio e Ierocle soffiavano nel fuoco mostrando la necessità di colpire a morte una religione che oltre a rappresentare, secondo loro, un cumulo di assurdità, minava fatalmente la compagine dello Stato romano.
In uno dei piú vivaci capitoli del suo De mortibus persecutorum Lattanzio ci fa assistere ad un colloquio che si sarebbe svolto nella reggia di Nicomedia agli albori del 303, fra Galerio e Diocleziano, a proposito di cristianesimo. Il primo inculca la persecuzione piú feroce, il secondo si mostra riluttante. Galerio la vince e la persecuzione fu decisa. Non si scatenò subito in tutto il suo furore, ma seguí un crescendo di cui Eusebio ci ha segnalato le tappe. Si cominciò il 23 febbraio del 303 con l'imporre la distruzione degli edifici sacri, il sequestro della suppellettile e dei libri religiosi, la degradazione di tutti i cittadini professanti il cristianesimo e la riduzione in schiavitú dei cristiani plebei. Un secondo editto nel corso del medesimo anno, riproducendo le misure adottate cinquanta anni prima da Valeriano, cercò di colpire il clero nella supposizione che, catturati i pastori, il gregge si sarebbe disperso e le comunità si sarebbero disciolte. Un terzo provvedimento che ha tutta l'aria di essere un decreto di amnistia garantiva agli imprigionati la libertà purché si acconciassero a sacrificare. Infine, constatata l'inefficacia delle mezze misure, nel 304 Diocleziano emanava l'editto della persecuzione generale e implacabile contro tutti i professanti il cristianesimo.
Fu questo veramente il periodo aureo del martirio cristiano. Il copioso e farraginoso lavoro della leggenda, che all'indomani della conversione costantiniana cominciò a deporre il suo velo sempre piú spesso sulle figure di coloro che con l'affrontare impavidi la morte avevano reso possibile il trionfo della libertà di coscienza, ha reso straordinariamente arduo ricostruire con certezza le pagine piú notevoli nella storia dei martiri dioclezianei. Ma noi possiamo affermare che a questo periodo vanno assegnate le figure piú insigni del martirologio, per quanto le amplificazioni delle Passiones del quinto e del sesto secolo, e piú ancora il lavoro capriccioso degli agiografi del posteriore Medioevo, primo fra tutti Adone vescovo di Vienna nel nono secolo, abbiano reso quasi impossibile talora fissarne con precisione la datazione cronologica.
La resistenza cristiana fu piú forte della persecuzione statale e il fallimento della politica religiosa non dovette essere l'ultimo movente dell'abdicazione di Diocleziano a Nicomedia e di Massimiano a Milano il 1° maggio del 305. Si costituiva cosí una nuova tetrarchia. Costanzo Cloro conservava il governo della Gallia e della Bretagna e assumeva il Titulus primi ordinis. Galerio assumeva per sé il governo del Ponto, della Bitinia, della Tracia, della Grecia, della Macedonia, della Mesia, della Pannonia inferiore. Severo Secondo ereditava i dominî di Massimiano e precisamente l'Italia, la Rezia, la Pannonia superiore, l'Africa e la Spagna. A Massimino Daza veniva assegnata la diocesi dell'Asia a sud del Tauro, la Siria e l'Egitto. Agli inizi del 306 Costanzo muoveva guerra ai Pitti in Bretagna e li soggiogava. Ma le sue forze declinavano. Sentendosi vicino a morire reclamava la presenza del figlio Costantino natogli dall'unione con una stabularia, con una modesta albergatrice cioè di Drepano conosciuta venticinque anni prima. Costantino giungeva ad Eboractun appena in tempo per accogliere l'ultimo respiro del padre che si spegneva il 25 luglio. Egli era proclamato immediatamente imperatore dalle truppe. Dopo uno scambio di ambascerie Galerio, che assume il titolo primi ordinis, gli riconosce la qualità di Cesare. Nell'ottobre successivo Costantino compiva una felice campagna contro gli Alamanni e i Franchi. E la vittoria sua veniva celebrata con ludi solenni. Verso il medesimo tempo Galerio faceva eseguire operazioni catastali e ricerche amministrative per introdurre un nuovo census. Le esecuzioni del fisco e la estensione della capitatio a Roma determinavano nella vecchia capitale imperiale una ribellione di pretoriani e di popolo che conduceva al potere il 28 ottobre 306 Massenzio figlio di Massimiano. Severo Secondo iniziava allora una spedizione contro Roma. Massenzio però richiamava il proprio padre dal suo ritiro e gli faceva riassumere la porpora. L'esercito di Severo, formato tutto di antichi soldati di Massimiano, di fronte alla nuova situazione si sbandava. Severo si rifugiava precipitosamente a Ravenna e si rendeva a discrezione al vincitore. I sovrani d'Occidente cercavano allora di stringersi maggiormente fra loro e il 31 marzo 307 Costantino, ripudiata la concubina Minervina da cui già aveva avuto un figliuolo, Crispo, celebrava a Treviri il suo matrimonio con Fausta figlia di Massimiano, ricevendo da questi il titolo augustale.
Irritato da questa coalizione politica dell'Occidente, Galerio riprendeva la spedizione fallita di Severo, ma trovava anch'egli una resistenza accanita nelle regioni di confine e doveva ritirarsi in disordine.
La compattezza occidentale non si manteneva a lungo. Massimiano, che aveva riassunto nel 307 il titolo di Augusto, ma non aveva territorio proprio da governare, tentava di sottrarre il potere effettivo al figlio che riusciva invece ad espellerlo dai propri Stati. Si rifugiava allora presso il genero Costantino, mentre Massenzio, volendo rassodare il proprio dominio in Africa, vi mandava ambasciatori a raccogliere omaggio. Ma le truppe fedeli ancora al vecchio esule proclamavano imperatore il viceprefetto del pretorio, Lucio Domizio Alessandro.
Non avendo potuto ridurre con le armi al regime tetrarchico la Roma ribelle, Galerio cercava di ridurvela con una nuova ripartizione territoriale. L'11 novembre del 308 si radunavano a Carnuntum nella Pannonia (oggi Hainburg) Diocleziano, Galerio e Licinio amico del secondo. Quest'ultimo riceveva la porpora e il titolo di Augusto prendendo nella tetrarchia il posto di Severo. Il regime tetrarchico però si rivelava ormai insufficiente a soddisfare le velleità di predominio delle singole circoscrizioni cesaree. Nell'aprile del 309 Massimino Daza era proclamato Augusto dalle sue soldatesche e Galerio, quasi per trovare in Occidente un possibile alleato contro il nuovo Augusto d'Oriente, riconosceva anche a Costantino la dignità imperiale. Roma pertanto col suo Massenzio rimaneva isolata in Occidente e la Spagna, separata da Roma dal mare e dalla Gallia, aderiva pacificamente al governo di Costantino. I rapporti fra questi e il suo cognato Massenzio, che si erano già annebbiati quando nel suo palazzo di Arles Costantino aveva ospitato il suocero ribelle, si facevano sempre piú tesi.
Nella prima metà del 310 oscure mene di palazzo alimentate dall'inquieto Ercole inducevano Costantino a sopprimere l'incomodo ospite. Allora Massenzio, con evidente intenzione di rappresaglia, faceva coniare monete commemorative dedicate Divo Maximiano Patri, mentre Costantino faceva martellare il nome di Ercole: nelle epigrafi, ne faceva rovesciare le statue, ne condannava la memoria. La guerra fra i due cognati appariva ormai inevitabile. Nel giugno del 311 Massenzio mandava in Africa il suo prefetto del pretorio Rufo Volusiano e il suo generale Zenone che vincevano e trucidavano l'usurpatore Alessandro. L'Africa poteva cosí provvedere ai bisogni dell'annona di Roma e agli approvvigionamenti che Massenzio accumulava nella previsione del conflitto. Costantino dal canto suo preparava l'esercito delle Gallie e ispezionava la frontiera del Reno per scongiurare sorprese da quella parte durante le ostilità. Nel settembre del 312 Costantino valicava le Alpi e iniziava la campagna che doveva condurlo alla vittoria del Ponte Milvio, all'affermazione pubblica della sua adesione al cosí detto cristianesimo e al cosí detto Editto di Milano.
La tattica religiosa dell'Impero romano in questo breve ma turbinoso periodo che va dalla abdicazione di Diocleziano alla vittoria di Costantino su Massenzio, segue le oscillazioni della politica. Costanzo Cloro e Costantino non rivelano zelo alcuno nell'applicare le leggi persecutorie emanate nel biennio 303-304. Parecchi indizî anzi farebbero pensare che già nell'ambiente di Costanzo Cloro il cristianesimo godesse speciali simpatie. Dal canto suo Massenzio, preoccupato di consolidare il suo potere vacillante con una larga politica di tolleranza, evita con ogni cura di turbare lo spirito pubblico della sua città e delle sue provincie. Massimino invece, il feroce e rozzo nipote di Galerio, imprime alla sua politica religiosa un carattere di raffinata crudeltà.
Fin da quando era ostaggio alla corte di Nicomedia, Costantino doveva aver concepito un proposito di abbattere il regime tetrarchico e di ristabilire l'unità dell'Impero. Iniziando la sua carriera augustale egli si riannodava attraverso un duplice tramite alla dinastia erculea. Suo padre infatti era stato adottato da Massimiano Ercole ed egli ne aveva sposato la figlia. Ercole sarebbe rimasto il dio tutelare del governo costantiniano se nel 310, come abbiamo visto, mentre Costantino dirigeva sul Reno la seconda campagna contro i germani, Massimiano non avesse teso insidie al genero ospitale e non ne avesse quindi provocato lo sdegno vendicatore. Massimiano fu condannato a morire per delitto di lesa maestà e implicando la sua morte la damnatio memoriae cadeva il suo culto personale mentre in Oriente la dinastia giovia sopravviveva ancora per quattordici anni.
Il cambiamento nel culto ufficiale della casa costantiniana appare già effettuato nel corso del 310, dal panegirico che un anonimo retore tenne a Treviri alla presenza di Costantino, ricorrendo l'anniversario della fondazione della città. In questo panegirico è innanzi tutto affermato il principio ereditario contro il principio dell'adozione, che è alla base del regime tetrarchico. Costantino vi è additato come discendente da Claudio II il Gotico e sovrano quindi per diritto di sangue. In secondo luogo il panegirista consacra ufficialmente il cambiamento di culto operatosi alla corte di Costantino dopo il crimenlese di Massimiano. La divinità, il prestigio della quale riempie di sé il panegirico, è Apollo. Sarà il Dio ereditario della dinastia nuovamente riconosciuta, quella dei secondi Flavi. Da quel momento le zecche appartenenti a Costantino coniano copiosissime monete su cui è inciso il tipo costante del sol invictus: giovane dalla lunga chioma vestito di clamide fissata sulla spalla, con una corona raggiata in testa, che tiene ora la frusta, simbolo della quadriga, ed ora il globo, simbolo astrologico del dominio, e protende la mano destra con la palma dischiusa in avanti in segno di protezione.
Adottando il culto di Apollo come culto ufficiale della casa regnante Costantino del resto non fa che uniformarsi alle predilezioni religiose dei suoi amministrati. Nelle tre Gallie, il culto di Apollo, corrispondente al culto della vecchia divinità del fuoco cara ai Celti, era larghissimamente diffuso. L'immagine del sole radiato non scomparirà dalle monete costantiniane neppure dopo il passaggio al cristianesimo del vincitore ad Saxa Rubra. L'amministrazione monetaria continuerà a coniare monete col tipo abituale avvalendosi di poteri che non furono immediatamente soppressi da Costantino cristianeggiante.
Una traccia anzi del culto solare praticato da Costantino fra il 310 e il 312 apparirà perfino nella nuova capitale cristiana dell'Impero, Costantinopoli, poco tempo prima della solenne inaugurazione sua, avvenuta l'11 maggio del 330. Sebbene infatti Costantino vi avesse proibito cerimonie pagane e vi avesse ridotto il culto imperiale a incolori celebrazioni di giuochi, una statua gigantesca di Elios vi fu introdotta, i cui tratti erano stati opportunamente forgiati in modo da arieggiare la fisionomia dell'Imperatore.
Mentre cosí Costantino attuava in Occidente la sua elastica e lungimirante politica religiosa, in Oriente maturavano avvenimenti di singolare rilievo. Proprio mentre l'anonimo retore celebrava a Treviri nel luglio del 310 le vittorie di Costantino sugli Alamanni e registrava i privilegi di cui l'aveva insignito Apollo, Galerio cadeva malato a Nicomedia di un cancro implacabile. Dopo dieci mesi di crude sofferenze il vecchio persecutore del cristianesimo, in preda ad un profondo rivolgimento spirituale che non sorprende in uno spirito rozzo uso ai piú superstiziosi terrori, emanava il 30 aprile del 311 a Nicomedia il primo editto di tolleranza che il cristianesimo potesse annoverare al proprio attivo. Il testo che ci vien conservato da Lattanzio e da Eusebio ce lo fa riconoscere come una vera palinodia. Galerio vi riconosceva che i provvedimenti adottati per far tornare tutti i sudditi alle tradizionali consuetudini non avevano ottenuto il successo che si era sperato. A causa di ciò, egli affermava di dover dare prova della sua condiscendenza, autorizzando senz'altro la professione cristiana e concedendo esplicitamente ai cristiani il libero diritto di riunione, purché contenuto nei regolamenti di polizia.
Per la prima volta da quando il Vangelo aveva risonato nel mondo, l'Impero romano proclamava in un testo ufficiale la liceità della professione cristiana e del culto cristiano. Pochi giorni dopo Galerio moriva. Massimino invadeva senz'altro la parte asiatica dei suoi Stati, mentre Licinio occupava la Tracia e giungeva in vista della Propontide.
Massimino prendeva cosí possesso dell'Anatolia. Egli non era disposto a conformarsi alle ultime volontà dello zio Galerio e l'Anatolia, la regione piú profondamente penetrata di propaganda cristiana fra tutte le regioni dell'Impero, stava cosí per subire alla vigilia del definitivo riconoscimento cristiano l'ultimo attacco violento di un programma di unificazione religiosa pagana ispirato da un singolare sincretismo pan-egiziano.
Tale politica era destinata ad una irreparabile catastrofe. L'alleanza stretta fra Costantino e Licinio; la campagna in Italia di Costantino; la vittoria di questi ai Sassi Rossi e la conseguente politica di tolleranza verso il cristianesimo, costrinsero, alla fine, Massimino a cambiare tattica. Ma era ormai troppo tardi. Nella inevitabile lotta con Licinio egli ebbe la peggio. E con la sua scomparsa, la politica innovatrice di Costantino e di Licinio ebbe modo di irraggiarsi in tutto il Vicino Oriente.
La grande riforma religiosa costantiniana, cioè il riconoscimento ufficiale della comunità cristiana presa nel suo ecumenico complesso, appare a chi la studi nei suoi coefficienti immediati come il risultato di un cosí singolare e complicato intreccio di fattori che può essere giudicata del tutto vana e antistorica l'orientazione di alcuni critici, i quali hanno voluto trovare la spiegazione di quella politica semplicemente nelle condizioni statistiche delle confessioni religiose dell'Impero, agli albori del IV secolo.
Costantino è stato un sovrano di grande ingegno e di fortissima volontà, che ha precorso i tempi ed ha segnato sull'organismo statale un'impronta nettamente personale. Molti dei suoi provvedimenti, del resto, suggeriti dalle circostanze del momento, hanno trovato soltanto nel posteriore sviluppo storico del mondo romano ed orientale la possibilità di esplicare tutta l'efficienza di cui erano ricchi. Ad ogni modo, un rapido esame del quadro statistico dell'Impero dal punto di vista religioso alla vigilia del memorando rescritto di tolleranza è indispensabile.
Il quadro statistico non è facile. È puramente approssimativo. Non si è probabilmente molto lontani dal vero calcolando, in blocco, la popolazione di tutto l'Impero romano dell'epoca di Costantino, intorno alla cifra di una ottantina di milioni, distribuiti però in maniera molto difforme da quella che le attuali condizioni demografiche dell'Europa Mediterranea e dell'Asia Anteriore potrebbero lasciar supporre. Tutto induce ad esempio a pensare che nel quarto secolo avevano una popolazione relativa molto superiore all'attuale le regioni dell'Africa proconsolare e della Numidia e dell'Anatolia, le regioni appunto in cui il cristianesimo aveva raggiunto il piú alto grado di diffusione. Sulla popolazione totale dell'Impero i cristiani potevano rappresentare, verso il 310, la quarta parte. Ma questa minoranza non era distribuita in modo uniforme su tutta l'estensione dell'Impero; al contrario, era ripartita in modo che in alcune provincie i cristiani costituivano il nucleo piú ragguardevole della popolazione, in altre invece avevano appena organizzato le loro comunità di tipo episcopale.
Dal punto di vista della statistica cristiana i territori imperiali si possono distinguere agli inizi del quarto secolo in quattro categorie. Innanzi tutto i territori nei quali il cristianesimo contava già la metà circa della popolazione e costituiva già la confessione religiosa prevalente. Al secondo posto vanno assegnati i territori in cui i cristiani costituivano una minoranza colta e fattiva, capace di fronteggiare le altre professioni religiose. Un terzo gruppo è formato da quei territori in cui il cristianesimo era ancora scarsamente diffuso. Si possono annoverare a parte i territori in cui il cristianesimo giungeva allora per la prima volta, o mancava ancora del tutto.
Alla prima categoria possiamo assegnare le provincie appartenenti all'attuale territorio dell'Asia Minore, in cui il cristianesimo non aveva cessato di fare progressi dai primi viaggi missionari di San Paolo e dallo sviluppo della comunità efesina nel secondo secolo incipiente. Nella Frigia, nella Bitinia, nel Ponto, alcune zone dovevano ormai essere apertamente cristiane. Si possono aggiungere la zona tracica che guarda sull'Ellesponto, l'Armenia ed Edessa.
Alla seconda categoria vanno assegnate: 1. l'Africa proconsolare e la Numidia, che potrebbero forse anche assegnarsi senza grave pericolo di errore alla prima; 2. Antiochia e la Celesiria; 3. Alessandria con l'Egitto e la Tebaide; 4. Roma, la Bassa Italia e alcune zone dell'Italia centrale (nel 250, a giudicare dai dati offertici da una lettera di Papa Cornelio che Eusebio riporta nel VI libro della sua Storia ecclesiastica, i cristiani a Roma non dovevano essere meno di 30.000: e con tutta probabilità cinquanta anni piú tardi il loro numero si era raddoppiato); 5. la Spagna; 6. le coste dell'Acaia, della Tessaglia, della Macedonia; 7. le coste meridionali della Gallia.
Nella terza categoria possono comprendersi: 1. la Palestina, eccezione fatta per alcune città greche come Cesarea, dove il contingente cristiano era senza dubbio molto imponente; 2. la Fenicia, aperta al cristianesimo solamente sulle coste; 3. l'Arabia; 4. alcune località della Mesopotamia; 5. tutte le zone interne dell'Acaia, della Macedonia, della Tessaglia, dell'Epiro, della Dalmazia, della Mesia e della Pannonia; 6. l'Italia settentrionale; 7. la Mauritania e la Tripolitania.
Finalmente alla quarta categoria possono ascriversi la Gallia media e la settentrionale, la Belgica, la Germania, la Rezia.
Una semplice enumerazione di questo genere è sufficiente a mostrare come il cristianesimo orientale possedesse statisticamente una superiorità schiacciante sul cristianesimo occidentale. Sicché il passaggio ufficiale dell'Impero alla professione cristiana segnò il passo decisivo verso quella trasformazione orientalistica, che, cominciata può dirsi nella seconda metà del terzo secolo sotto Aureliano, aveva preso il suo aire deciso e travolgente sotto Diocleziano.
Gli scrittori ecclesiastici del IV secolo, quali Arnobio, Eusebio, Agostino, non hanno torto quando confessano il loro stupore di fronte ai progressi straordinari che la fede cristiana aveva realizzato di generazione in generazione. Settanta anni soltanto erano trascorsi dalla costituzione della prima comunità etnico-cristiana in Antiochia di Siria, e già Plinio, scrivendo a Traiano, si mostrava preoccupato del successo rapido della nuova fede nella remota Bitinia. Passano altri 70 anni, e la controversia a proposito della celebrazione pasquale ci mostra una federazione di gruppi cristiani, che va da Lione ad Edessa ed ha a Roma il suo centro di propulsione e di raccolta. Passa un altro settantennio e l'imperatore, secondo una frase riferitaci da San Cipriano, un imperatore che si chiama Decio, è costretto a dichiarare che sarebbe piú disposto a tollerare a Roma un emulo imperiale, anziché un vescovo cristiano. Passa un altro settantennio, e la croce è inalberata come vessillo da truppe romane.
Il conflitto di Costantino con Massenzio si chiude con la battaglia ad Saxa Rubra. Il 26 ottobre del 312 l'esercito costantiniano, forte di 40.000 uomini a piedi e di 10.000 uomini a cavallo, giungeva per la Cassia alle porte di Roma. Massenzio, che disponeva di forze molto superiori, aveva fortificato la città sulla sponda del Tevere a Ponte Milvio. Se si fosse contentato di tenersi chiuso in Roma, avrebbe potuto sostenere l'assedio. Ma ingannato da una errata valutazione dell'abilità di Costantino e timoroso dell'opinione pubblica che doveva fargli rimprovero di indolenza e di viltà, volle tentare un agguato e disponendo un fragile ponte di barche a nord del ponte volle far passare di nascosto le sue truppe sulla sponda destra del fiume. Ma le vedette di Costantino avvertirono l'insidia e Costantino il 27 lanciava i suoi soldati sul centro delle truppe nemiche asserragliate in posizione malagevole fra le alture e il Tevere, nella pianura di Tor di Quinto. La vittoria fu clamorosa. Il 28 ottobre Costantino entrava solennemente in Roma accolto dal Senato e dal popolo tripudianti. Il Senato pagano dedicò al vincitore il tempio innalzato da Massenzio al proprio figlio Romolo, e stabiliva di offrirgli come degno omaggio una statua d'oro, uno scudo ed una corona. Il Senato inoltre decretava che Costantino assumesse il titolo di primo Augusto, col potere annesso di legiferare per tutto l'Impero.
Fra i Romani che quel giorno vollero uscire per la Flaminia incontro al sovrano ed alle sue truppe trionfanti non dovettero mancare i cristiani che poterono ben rallegrarsi di vedere sugli scudi della guardia del corpo di Costantino un segno ad essi familiare: e precisamente una lettera greca, la Chi, posta di traverso, le cui aste si venivano ad incontrare ad angolo retto, e la cui asta verticale ripiegata all'apice prendeva la forma di una Ro. Erano le iniziali del nome di Cristo: il segno della salvezza cristiana.
Secondo il racconto di Lattanzio, cronologicamente il piú vicino agli avvenimenti, Costantino aveva fatto imprimere il segno fatidico alla vigilia della decisiva battaglia in séguito ad un avvertimento ricevuto in sogno. Piú tardi gli scrittori cristiani mostreranno di saperne molto di piú intorno agli ammaestramenti celesti che avevano indotto Costantino a segnare sugli scudi la sua professione cristiana.
L'apologia è stata sempre una grande e favolosa creatrice di leggende.
In realtà il simbolo della Croce e il monogramma con la Chi e la Ro intrecciate quale compendium scripturae del nome di Cristo non avevano bisogno di spiegazioni per i cristiani. Già qualcuno degli apologisti aveva segnalato l'universalità del simbolo della croce. L'aveva riconosciuta Minucio Felice, l'aveva riconosciuta Tertulliano. In quanto al compendio del nome di Cristo espresso con le due iniziali greche del nome insieme intrecciate, esso è troppo bene attestato dai monumenti cristiani della Roma cristiana pre-costantiniana per poter supporre che Costantino lo facesse disegnare sugli scudi senza prevedere e calcolare in tutte le possibili conseguenze l'apprezzamento e l'interpretazione che sarebbero stati dati al suo gesto innovatore.
Costantino rimase in Roma per tutto l'inverno 312-313, adottando una serie di provvedimenti legislativi diretti a garantire il ritorno pacifico dell'Italia e dell'Africa latina nella ricostituita unità dell'Occidente.
Ai primi di febbraio del 313, restaurato l'ordine nella città, Costantino si trasferiva a Milano, dove pure si recava Licinio, per celebrare il matrimonio con la sorella del vincitore del Ponte Milvio, Costanza. Si può arguire che, avendo ormai preso decisamente la sua via sul terreno della politica religiosa, Costantino avesse fretta di incontrarsi col collega d'Oriente (Massimino doveva sembrargli ormai quasi quantità trascurabile) per emanare di comune accordo le leggi che avrebbero radicalmente spostato i principi fondamentali su cui si reggeva la concezione politica dell'Impero romano. La vecchia mentalità pagana avrebbe ancora continuato ad impregnare di sé molte delle manifestazioni pubbliche dell'attività statale. Ma un nuovo spirito avrebbe presieduto d'ora innanzi ai rapporti fra la società politica e la società religiosa e il regime dell'universale libertà di coscienza, che Costantino intendeva inaugurare, si sarebbe automaticamente trasformato nel regime del privilegio e del predominio, a vantaggio della confessione cristiana.
A Milano, Costantino e Licinio riprendevano ed ampliavano la politica di universale tolleranza per tutte le forme religiose che Galerio aveva già inaugurato due anni prima dal suo letto di morte. Solo piú tardi Costantino, che conservò sempre il titolo e l'autorità giuridica di Pontifex Maximus, intervenendo direttamente nelle questioni interne del cristianesimo e concedendo al clero cristiano privilegi insigni, mostrò di voler fare del cristianesimo e delle sue forze morali quello instrumentum regni che era stato fino allora il paganesimo.
L'editto di Galerio, garantendo universalmente libertà di culto e di riunione a quanti facevano professione di cristianesimo, era venuto implicitamente ad autorizzare l'esistenza e l'attività anche di gruppi cristiani che intendendo la loro fede religiosa nella maniera piú totalitaria potevano costituire centri pericolosi di agitazione antistatale. Il rescritto emanato a Milano da Costantino e da Licinio, ribadendo e corroborando il principio dell'editto galeriano, intese nel medesimo tempo richiamare l'attenzione delle autorità provinciali sul fatto che c'era un criterio specificativo sicuro per riconoscere quali erano i gruppi di cristiani che meritavano il diritto di riunione e quello di possedere. Dovevano appartenere cioè al grande corpo universale dei fedeli. Il rescritto di Milano riconosceva pertanto l'unità dell'organismo sociale cristiano, la legittimità reintegrata dei suoi diritti di riunione e di possesso, e conferiva ad esso una fisionomia giuridica che racchiudeva in germe tutti i poteri e tutti i privilegi che la Chiesa sarebbe andata d'ora in poi rapidamente guadagnando.
A distanza di un anno appena dal matrimonio solennemente celebrato a Milano tra Licinio e Costanza i rapporti tra i due sovrani e cognati si facevano già straordinariamente tesi. L'incertezza dei confini tra gli Stati rispettivi; la rinascente bramosia, cosí dell'Occidente come dell'Oriente, di allargare il potere sui territori che ne costituivano la saldatura nell'Illirico, facevano prevedere immancabile il conflitto. E questo, preparato dalle due parti nella prima metà del 314, scoppiava nell'autunno. Dopo avere raccolto i suoi eserciti nell'Italia settentrionale, Costantino passava nel settembre per Aquileia, Noviodunum, Siscia, si incontrava nella Pannonia con le truppe di Licinio e riportava a Cibali una prima importante vittoria. Retrocedendo attraverso la Tracia, Licinio innalzava Valente alla dignità imperiale. A Mardia, tra Filippopoli e Adrianopoli, Costantino riportava una seconda vittoria. Nella pace che ne seguí le provincie della Pannonia, dell'Illiria, della Macedonia, della Grecia, della Mesia, passavano a Costantino ed a Licinio restavano la Tracia, l'Asia, la Siria, l'Egitto.
Si iniziava allora un periodo di pace che sarebbe durato quasi un decennio. Costantino lo impiega per attuare tutta una nuova legislazione politico-religiosa, in virtú della quale il cristianesimo fu posto in grado di penetrare nella costituzione stessa dell'Impero e imporvi il suo spirito democratico e le sue nuove valutazioni etiche.
Già agli inizî del 313, trovandosi a Roma dopo la vittoria di Massenzio, Costantino aveva emanato un editto per garantire l'equa ripartizione delle gabelle e assicurare a ciascuno che si ritenesse ingiustamente gravato la possibilità del pronto ricorso. L'ingiusta ripartizione delle imposte per opera degli impiegati delle finanze imperiali era uno dei piú efficienti fattori di dissolvimento della vita imperiale. Non erano soltanto i tabularii, cioè gli impiegati che fissavano i ruoli dei balzelli da pagare, che commettevano abusi e gravavano la mano sui meno ricchi, alleggerendo invece gli oneri dei privilegiati della fortuna. Anche i riscuotitori delle tasse si abbandonavano ad arbitrî. Costantino cerca di riparare anche a questi con una legge del 313 cadente, emanata da Treviri e diretta al proconsole dell'Africa, Eliano. Nel medesimo anno Costantino riservava a sé, contro facili abusi di potere, il diritto di dichiarare esenti dagli oneri curiali coloro che fossero stati colpiti da particolari infortuni, esenzione che rendeva nulla la loro capacità di rispondere, dinanzi al fisco imperiale, per la solvibilità delle curie cui appartenevano. A questo stesso primo periodo del governo unitario di Costantino in Occidente crediamo debba assegnarsi la legge con la quale fu abolito il supplizio della croce e fu sostituito con quello della forca, evidentemente per atto di omaggio al simbolo piú espressivo della redenzione cristiana.
Costantino trascorreva la prima metà del 315 nelle provincie novellamente conquistate. Nel luglio veniva a Roma per la seconda volta, celebrando con un anno di anticipo i suoi decennali. In quella occasione era inaugurato l'arco innalzato a commemorazione della vittoria che egli, instinctu divinitatis, aveva riportato sul «tiranno» Massenzio e sul suo partito.
Tra le numerose leggi emanate in quell'anno dall'imperatore meritano di essere ricordate: quella con cui era demandata al fisco od all'amministrazione privata del sovrano la cura di quei fanciulli che i genitori non riuscivano a mantenere; l'altra con la quale le finanze dello Stato erano impegnate a sovvenire quei genitori bisognosi che fossero stati indotti dalla miseria a vendere schiavi i loro figli; la legge con cui si prescriveva il raggiungimento della prova apodittica in quei processi di adulterio, di omicidio e di maleficio che potevano condurre ad una sentenza di morte; infine quella con cui si vietò di imprimere un marchio deturpante sul volto dei condannati ai giuochi gladiatori od alle miniere.
Il 316 fu in gran parte trascorso da Costantino in Gallia. Solo nell'autunno si trasferiva a Milano e nei primi mesi del 317 passava in Oriente, fermandosi successivamente a Sirmio, Serdica, Tessalonica. A Serdica il primo marzo elevava i due figli Crispo e Costantino, questo secondo nato ad Arles nell'agosto 314, alla dignità di Cesari. In tale occasione dovette probabilmente essere innalzato per la prima volta il famoso Labarum, affidato come stendardo di cavalleria (vexillum) ad un nucleo sceltissimo di soldati cristiani. Pure nel 317 l'imperatore dovette pensare a fare incidere sul suo elmo in grandi lettere il monogramma, che era in cima all'asta verticale del labaro. Le monete infatti coniate a Siscia a partire da quell'anno ce ne dànno la prova palmare. Cosí il sovrano dava al suo Impero una espressione ed una testimonianza solenni della sua calcolata adesione alla religione cristiana.
Ma non bisogna credere che di fronte a simili manifestazioni personali di fede cristiana compiute dall'imperatore, l'amministrazione dell'Impero si piegasse senz'altro all'esempio sovrano e rinunciasse ad approfittare del regime di uguaglianza dei culti bandito a Milano, per aderire in blocco alla nuova religione. Mai come in questo momento l'interferenza dei due culti apparve piú complessa e mai gli atteggiamenti delle autorità rivelarono piú nitidamente quella intima contraddizione che caratterizza il regime costantiniano. Mentre cosí la zecca di Siscia incideva sulle monete, sull'elmo imperiale, il monogramma cristiano, Costantino era sempre Pontifex Maximus ed altre zecche registravano sulle loro monete le vecchie diciture pagane.
Il 318, che Costantino trascorse in gran parte ad Aquileia, fu anno di intensa operosità legislativa. Una legge riveste particolare importanza ed è quella con cui, al fine di garantire ai cristiani la «imparzialità» dell'amministrazione giudiziaria, Costantino investiva i vescovi di un potere giudicativo che dovette rappresentare il piú insigne e il piú innovatore dei privilegi. Già fin dal 316, autorizzando i vescovi a sanzionare con la sola loro presenza la manomissione degli schiavi, senza che vi fosse piú bisogno di ricorrere per questo al pretore ed alle vecchie formalità di legge, Costantino aveva conferito ai vescovi una personalità giuridica ed un potere pubblico che dovevano sensibilmente accrescerne il prestigio e l'azione. Ora, con la nuova costituzione in forma di rescritto al prefetto Ablavio, all'ordinaria amministrazione della giustizia un'altra se ne venne a sovrapporre, alla quale i cristiani potevano fare appello quando avessero voluto. Significava questo conferire ad essi una magnifica posizione di privilegio. Se salendo al trono d'Occidente ed accingendosi a trasformare la politica religiosa dell'Impero, Costantino aveva trovato i cristiani ancora in minoranza, egli ora fa il possibile per trasformare al piú presto, mercè privilegi e favori, questa minoranza in maggioranza. Ci può essere privilegio piú ambìto e praticamente piú fruttifero che una amministrazione giudiziaria propria e privilegiata?
Il 319 Costantino lo trascorre a Sirmio, a Serdica ed a Tessalonica. Una costituzione di quell'anno diretta da Costantino al popolo romano vietava la aruspicina privata e l'autorizzava solamente nelle cerimonie pubbliche. Nel gennaio dell'anno successivo Costantino, spingendosi sempre piú innanzi e risolutamente nella politica di favore per la società cristiana e per il suo clero, aboliva le limitazioni e le inabilità giuridiche con cui le leggi Giulia e Papia Poppea avevano cercato di colpire il celibato e la mancanza di prole. Tali leggi avevano duramente circoscritto i diritti ereditari di coloro che non avevano prole. Al celibe era stata sottratta qualsiasi capacità di ereditare in virtú di testamento. Chi era privo di figli ma coniugato poteva ereditare soltanto la metà di quello che gli fosse stato lasciato da un estraneo e la decima parte della sostanza del proprio coniuge. Per quanto concerneva i genitori di un solo figlio, solamente il Pater solitarius poteva integralmente ereditare quanto gli fosse stato lasciato per testamento. Per godere di un simile diritto, la donna libera invece doveva avere tre figli almeno e la liberta quattro. Costantino abrogava risolutamente tutte le limitazioni imposte dal vecchio diritto alla capacità di ereditare, desunte dallo stato familiare dei singoli. Ed equiparava su questo terreno uomini e donne, liberi e liberti. Lasciava soltanto intatta la limitazione che circoscriveva ad un decimo dell'asse ereditario la capacità di ereditare del coniuge sopravvissuto, e privo di figli. Era una nuova politica demografica.
Il 321 è anno di capitale importanza nello sviluppo trionfale del riconoscimento giuridico della prassi cristiana e della costituzione della personalità giuridica della Chiesa. In quell'anno Costantino ribadiva ad allargava con un rescritto ad Osio la facoltà già concessa ai dignitari del clero di sanzionare e garantire con la loro presenza e con il loro nome la validità delle manomissioni. Riconosceva come giorno festivo il Dies dominicus che la cancelleria imperiale designa però sincretisticamente come Dies solis. Infine garantiva universalmente il diritto di testare a favore della comunità cristiana. Fu questa legge che moltiplicò rapidissimamente la proprietà ecclesiastica. Ad un cinquantennio di distanza, le leggi di un imperatore cristiano come Valentiniano, avrebbero dovuto a questa proprietà imporre un freno, perché essa non si trasformasse in una pesantissima ed ingombrante mano-morta.
È difficile pensare che questa politica sempre piú pronunciatamente filo-cristiana di Costantino non avesse finalità politiche immediate. L'unificazione imperiale e l'accaparramento dell'Oriente non costituivano la sua meta piú accarezzata? Nel 322 cominciarono a profilarsi i segni del nuovo conflitto con Licinio. Condotta vittoriosamente una campagna contro i Sarmati al tramonto dell'anno, Costantino, agli inizi del 323, risaliva da Tessalonica verso le frontiere della Mesia e batteva i Goti in pieno territorio di Licinio. Simile violazione del confine che divideva l'Impero d'Oriente da quello d'Occidente equivaleva ad una vera e propria dichiarazione di guerra. Per rappresaglia, Licinio assumeva un contegno ostile verso i propri sudditi cristiani, in cui poteva ragionevolmente sospettare sentimenti di simpatia verso il rivale, che spiegava ormai apertamente lo sguardo avido sui territori a sud della Propontide.
Nel novembre del 323, celebrando i suoi quindecennalia, Licinio imponeva ai suoi sudditi cristiani di partecipare anch'essi ai sacrifici celebrati in suo onore. Come risposta immediata, con abile mossa che dovette suscitare echi profondi in Oriente, Costantino indirizzava un rescritto ad Elpidio, prefetto del pretorio in Italia, con cui proibiva sotto le sanzioni piú gravi di costringere gli ecclesiastici e piú genericamente i cristiani ad assistere a pubblici sacrifici espiatori, accompagnati da processioni intorno ai recinti delle città e da lectisternia offerti agli dèi per impetrare assistenza in speciali occasioni della vita pubblica. E ancora una volta il conflitto fra i due Imperi assumeva aspetto e contenuto religiosi.
Firmatario del rescritto milanese, garante del medesimo regime di autodecisione religiosa che questo aveva introdotto, nelle regioni in cui aveva imperversato la politica di Massimino, Licinio non poté naturalmente nei primi anni del suo governo orientale assumere contegno di ostilità e di diffidenza di fronte alle comunità cristiane. È dal 322, da quando cioè la vicinanza di Costantino ai confini dei suoi Stati e la politica di questi cominciarono a suscitare le sue apprensioni ed i suoi sospetti, che il suo atteggiamento si deve essere sostanzialmente modificato. Scrivendo il libro X della sua Storia ecclesiastica a pochi mesi di distanza dalle vittorie costantiniane del 324, Eusebio di Cesarea ci ha conservato una memoria sommaria e sensibilmente partigiana, ma ad ogni modo diretta ed immediata, del regime persecutorio, instaurato piuttosto subdolamente da Licinio in questo periodo.
Ragguagli anche piú minuziosi possiamo cogliere nel primo libro di quella vita di Costantino, che Eusebio medesimo cominciò, in veste di panegirista, al tramonto del 337. Pur facendo la debita tara a tutto quello che il tono apologetico può aver dato di sovrabbondante a queste rievocazioni, noi possiamo ad ogni modo constatare il carattere ipocritamente capzioso dei provvedimenti legislativi con cui Licinio si accinse ad indebolire e vulnerare il cristianesimo, nel quale egli poteva, legittimamente del resto, scorgere un pericoloso alleato di Costantino e del suo programma di unificazione imperiale.
Dice Eusebio nella Storia ecclesiastica: «Avendo (Licinio) deciso di muovere guerra a Costantino, cominciò in pari tempo ad impugnare quel Dio dell'Universo che sapeva venerato dal suo rivale. Intraprese pertanto a perseguitare gradatamente e nascostamente quei cultori di Dio che erano sotto la sua giurisdizione, di nessuna trama insidiosa responsabili contro il suo governo. Cacciò dapprima tutti i cristiani dalla sua casa imperiale: privando cosí se stesso, disgraziato, di quella assistenza di preghiera che costoro solevano, come per dovere patrio, innalzare a Dio e per lui e per tutti. Ordinava quindi che tutti coloro i quali prestavano servizio militare nelle città fossero spogliati della loro dignità ed eliminati dal loro rango qualora si fossero rifiutati di sacrificare ai demoni. Ma tutto ciò è ben poca cosa in confronto con quel che seguí. Proibí infatti con una legge che si venisse in soccorso di quei miseri, che erano chiusi in prigione, somministrando ad essi il vitto, o che si mostrasse un po' di misericordia per quanti soffrivano nei vincoli la fame. Licinio avrebbe voluto cosí imporre che non esistesse piú alcun uomo animato da sentimenti di pietà e che nulla potessero fare di caritatevole quanti sono indotti da natura ad avere compassione del prossimo. Fu in realtà codesta una legge mostruosa e feroce in quanto cercava di soffocare ogni senso di dolcezza instillato da natura, poiché era stabilito come sanzione che chiunque avesse cosí mostrato pietà dovesse soggiacere alle medesime pene degli imputati, dovesse cioè essere chiuso in catene nelle prigioni e dovesse essere accomunato con i rei, chiunque fosse colui che aveva prestato umanitario soccorso».
La biografia di Costantino specifica ancor piú, registrando le fasi successive attraverso cui passò la larvata persecuzione anticristiana di Licinio: «Dapprima tacitamente e subdolamente prende di mira i ministri di Dio che si trovano nel territorio della sua giurisdizione e che nulla avevan fatto di criminoso contro il suo potere, mendicando insidiosi pretesti contro di loro. Né rinvenendo alcun decente capo d'accusa né trovando modo plausibile di nuocere ad essi, emanava una legge ordinando che mai i vescovi per nessuna ragione al mondo tenessero riunioni fra loro, né ad alcuno di essi fosse lecito di recarsi nella comunità del vicino, né fosse consentito tenere adunanze, consigli od inchieste in comune sugli affari piú importanti. Era questo un ottimo pretesto per conculcare i nostri diritti. I trasgressori della legge incappavano immediatamente nelle penalità stabilite. E coloro che avessero obbedito alla legge finivano immediatamente col rovinare le leggi ecclesiastiche, poiché non è possibile risolvere le controversie di maggior momento senza tenere dei sinodi. Dopo di che emanò una seconda legge con la quale imponeva che gli uomini non si trovassero mai con le donne nel tempio per pregare e che le donne non frequentassero le venerande aule cristiane in cui si inculcava la virtú. Ai vescovi fu cosí vietato di impartire alle donne l'insegnamento dei divini precetti, imponendosi che ad istruire le donne, altre donne fossero designate. E poiché tutti ridevano a simili disposizioni del sovrano, altre ne escogitò a distruzione delle chiese, ordinando cioè che le solenni adunanze religiose del popolo fossero celebrate fuori delle porte cittadine, in aperta campagna, osservando che l'aria libera fuori del recinto conveniva molto meglio all'adunanza che non quella dei luoghi di culto in città».
Sebbene Eusebio osservi, e se ne capisce il perché, che i provvedimenti adottati da Licinio contro il cristianesimo finivano col suscitare il riso del pubblico, noi possiamo scorgere molto bene la logica politica che ad essi presiedeva. In procinto di ingaggiare un nuovo e definitivo conflitto col cognato ambizioso il quale sognava ormai evidentemente di riunificare nelle sue mani l'Impero, l'imperatore d'Oriente diffida istintivamente della fedeltà politica dei cristiani e dapprima li elimina dall'amministrazione imperiale e dall'esercito, quindi toglie loro il libero diritto di riunione, cercando di separare gli uomini dalle donne nei luoghi di culto nei quali l'azione femminile doveva essere cosí intensa, e nella organizzazione culturale della società ecclesiastica, e confinando infine le riunioni religiose fuori della città, dove evidentemente esse non potevano assumere che con molto maggiore difficoltà carattere sedizioso.
I rapporti fra Costantino e Licinio raggiungevano il massimo della tensione agli inizi del 324. Costantino riprendeva la emissione di monete dinastiche che avevano già caratterizzato il periodo immediatamente precedente la guerra del 314. Tali monete commemorative sono coniate con i nomi degli imperatori divinizzati Claudio il Gotico, Massimiano Ercole, Costanzo Cloro. Anche altre piccole monete sono coniate in questo tempo con i nomi di Helena e di Fausta designate quali nobilissimae feminae. Gli eserciti dei due rivali muovevano dalle rispettive sedi nella primavera del 324 e si scontravano ad Adrianopoli. Il labaro cristiano sventolava dinanzi alla cavalleria della guardia imperiale di Costantino. Questi riportava il 3 luglio una grande vittoria sull'avversario, costretto a fuga precipitosa. Costantino si portava immediatamente innanzi e stringeva di assedio Bisanzio. Licinio, lasciate poche guarnigioni di scorta a retroguardia, si trasferiva con il grosso del suo esercito e con tutto il suo tesoro a Calcedonia nella Bitinia e creava Augusto Martiniana affidandogli la sorveglianza dell'Ellesponto. Tra il luglio e l'agosto Crispo distruggeva la flotta di Licinio comandata da Abauto e nel settembre immediatamente successivo Costantino attraversava a sua volta il Bosforo approdando in Asia al promontorio di Crisopoli. Nelle vicinanze di Calcedonia egli vinceva per la seconda volta Licinio il quale si chiudeva allora in Nicomedia. Costanza si recava a trovare il fratello vincitore e ne otteneva che lo sposo avesse momentaneamente salva la vita abdicando. Nel novembre Bisanzio era ribattezzata col nome del trionfatore per essere piú tardi e precisamente nel 330 solennemente inaugurata dopo la sua trasformazione. In quell'occasione nuove monete erano coniate con le immagini delle Augustae Elena e Fausta e Costantino adottava un maestoso diadema imperiale intrecciato di pietre preziose e di alloro e un mantello purpureo; assumendo in pari tempo i titoli di Victor ac Triumphator omnium gentium, Rector totius orbis, Ubique Victor.
Da questo momento gli emblemi pagani scompaiono completamente dalle monete dell'Impero.
Appena entrato in possesso dei territori orientali Costantino bandiva a tutti i nuovi sudditi quei principî di politica filo-cristiani che ormai da parecchi anni avevano soppiantato in Occidente i principi di politica di tolleranza sanzionati con il rescritto milanese del 313.
Gli editti costantiniani conservatici da Eusebio nel secondo libro della sua vita di Costantino ci mostrano come questi si desse immediatamente ad elargire in Oriente ai cristiani quei privilegi che in Occidente erano già entrati ormai nella legislazione ufficiale.
Ma anche qui, con un singolare per quanto non fortuito parallelismo, il governo imperiale, drizzato l'asse della sua politica in favore del cristianesimo, si trovò immediatamente di fronte ai dissidi interni che il travolgimento della politica religiosa suscitava nel seno della società cristiana.
Il trapasso dell'Impero da pagano a cristiano non poteva effettuarsi in nessun posto senza provocare reazioni diverse nel popolo cristiano. E mentre in Occidente, all'indomani del rescritto milanese, si profila in una delle zone piú delicate e religiosamente piú importanti, l'Africa romanizzata, il grande dissidio donatista, in Oriente sarà la polemica ariana che darà fuoco alle polveri.
Veramente già da parecchi anni l'Egitto e la Palestina specialmente erano intimamente scossi da un dissenso riguardante la natura del Logos e i suoi trascendenti rapporti col Padre. Ma simile controversia che forse senza il cambiamento politico dell'Impero sarebbe rimasta una pura discussione teologica facilmente domata e sistemata dalle decisioni di qualche sinodo locale, innestata invece sulle agitazioni morali e politiche che la trasformazione religiosa dell'Impero d'Oriente portava con sé, divenne un conflitto clamoroso che richiamò per decenni l'attenzione del pubblico e del governo e originò una serie di controversie, l'eco persistente delle quali si prolungò rumorosamente per secoli.
Il cristianesimo era nato portando sul terreno sociale una incolmabile eterogeneità di fini e di metodi fra l'aggregazione umana, nudamente politica, e l'aggregazione religiosa. Tertulliano aveva aforisticamente sentenziato che due dati di fatto irriducibili si opponevano alla conversione cristiana degli imperatori: il fatto che il mondo non può fare a meno di Cesari e l'altro, che un cristiano non può mai agognare al cesarato. La grande rivoluzione politica realizzata da Costantino sembrava costituire una smentita all'aforisma tertullianeo. In realtà si spalancavano le porte ad una rivalità fra Impero e cristianesimo che avrebbe accompagnato da presso lo sviluppo della società cristiana. È il conflitto fra politica e religione che darà, d'ora in poi, in permanenza, carattere di aspra e combattuta drammaticità alla storia del fatto cristiano.