Se il cristianesimo entra nel mondo col supplizio del Cristo sul Golgota, il primo incontro della organizzazione cristiana col mondo politico è segnato dai supplizi dei cristiani nel Vaticano, all'indomani dell'incendio del 64. Svetonio, è vero, ci parla di una espulsione di ebrei da Roma per opera di Claudio nel 51, che è in rapporto con un tal Cristo. Il messaggio del Cristo, giunto clandestinamente a Roma attraverso le nuove portate da Gerusalemme da qualche ebreo delle sinagoghe romane reduce dal pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme, aveva destato in mezzo agli ebrei romani un subbuglio, per placare il quale Claudio pensò bene di cacciare da Roma i piú turbolenti. Due di questi espulsi incontrarono Paolo a Corinto e Paolo ne fu incoraggiato a scrivere da lungi la sua lettera agli iniziati di Roma, che doveva essere come la sua presentazione per il giorno in cui avesse potuto realizzare il suo sogno di venire anche lui ad interpretare il Vangelo fra i gruppi credenti della metropoli. L'incendio neroniano del luglio 64 e la conseguente crudele repressione operata da Nerone costituiscono il battesimo storico della comunità romana e piú genericamente della Chiesa nei suoi contatti col potere politico. Da questo punto di vista il cristianesimo non poteva che offrirsi al mondo con i contrassegni piú eloquenti e meglio rispondenti alla sua natura: la croce infamante di Gesù alle porte di Gerusalemme e i roghi accesi da Nerone nei suoi giardini del Vaticano, per distruggere i rappresentanti di quella che Tacito, al declinare della sua vita, dettando il libro XV dei suoi Annali, definirà «superstizione esecranda».
Il problema dei rapporti fra cristianesimo e Impero non è un puro problema giuridico, come è stato piú di frequente inteso dall'epoca di Mommsen in poi: è un problema di morale associata e di temperie politica. Non lo si può considerare e risolvere avulso dal complesso dell'evoluzione morale e religiosa dell'Impero romano, nella concezione e nella pratica della regalità. Si può dire che se l'Oriente e l'Occidente, secondo la classica comparazione di Kipling, sono come due fratelli gemelli, costretti a vivere associati l'uno all'altro pur nel loro irriducibile contrasto, in nessuna zona questa comparazione è piú esatta quanto in quella politica.
L'Oriente ha una concezione sacrale e religiosa della regalità. E ogni volta che l'Occidente si è trovato stretto politicamente all'Oriente, l'Oriente, pur soggiacendo al predominio culturale e legislativo dell'Occidente, ha ad esso imposto la sua tecnica del governo monarchico e la sua concezione della divinità adorabile del sovrano. L'Oriente adora i suoi sovrani, dall'Egitto alla Siria, e dalla Persia agli Hittiti. Una cosa pare in realtà caratteristica del regime politico orientale: il concetto trascendente del sovrano, a cui si deve la stessa adorazione che si deve agli dèi. Il bacio del piede, l'adorazione, la proskynesis di cui troviamo la prima menzione in Eschilo, rappresentante piu insigne di quanto comunemente non si creda della penetrazione delle idee iraniche nel Vicino Oriente e nell'Ellade del V secolo avanti Cristo, sono l'espressione della lealtà civica dei sudditi verso il loro sovrano. Probabilmente, la piú solenne manifestazione di questo culto della regalità la si ebbe il giorno in cui Ciro entrò trionfante in Babilonia e la popolazione si precipitò al suo cospetto per adorarlo. Quando la Grecia con Alessandro iniziò la sua avanzata verso Oriente, spezzando il dominio achemenida, Alessandro non poté fare a meno di venire adottando ed assorbendo tutte le pratiche della regalità orientale, mano mano che penetrava piú a fondo nel territorio della sua epica conquista. I suoi successori ne calcarono le orme orientalistiche e i Seleucidi cercarono di imporre la loro concezione del potere e della regalità anche a quel popolo che fu il piú refrattario alla divinizzazione del sovrano: il popolo ebraico. Israele fu una nazione troppo piccola per non fare della sua intransigente adorazione di Jahvè, di cui il sovrano è l'umile «unto», il suo baluardo morale di fronte ai poteri teocraticamente concepiti e organizzati dell'Egitto e dell'Assiria.
Roma rinnovò l'esperienza di Alessandro e mano mano che le sue conquiste andarono ampliandosi nell'Oriente Mediterraneo, anche essa dovette acconciare i suoi metodi di governo e le sue concezioni politiche alle esigenze, alle tradizioni, ai costumi dell'Oriente.
Come è ben risaputo, Cesare avrebbe probabilmente costituito una vera e propria monarchia, se alle idi di marzo del 44 la carriera e la vita non gli fossero state proditoriarnente stroncate. Augusto, piú accorto e piú malleabile, volle, pur accentrando nella sua persona ogni potere, conservare la finzione giuridica del Senato, onde quel regime composito ed ambiguo che oggi si è convenuto chiamare diarchia. Ma la logica della storia e della politica fu piú forte del volere di Augusto, e quell'orientalesimo che Antonio aveva professato senza ambagi, che ad Azio sembrava essere stato debellato nel 31 avanti Cristo, riprese trionfalmente il suo prestigio e la sua efficienza, portando l'Impero romano ad una concezione e ad un esercizio del potere sempre piú improntati al modello orientale. Non furono soltanto le religioni orientali di mistero che ebbero sotto l'Impero il loro riconoscimento ufficiale ed il favore piú insigne, fu tutta la concezione della regalità orientalisticamente intesa, cui i successori di Augusto nell'Impero dovettero piú o meno consapevolmente e volutamente soggiacere. Si direbbe che assumere la porpora imperiale fosse rivestire qualcosa di rassomigliante alla camicia di Nesso. Gli imperatori ne sono automaticamente, quasi loro malgrado, tratti ad una oltracotanza tirannica, di cui la piú grande e insigne vittima sarà la comunità cristiana, anche in questo erede e continuatrice della comunità religiosa ebraica.
L'ambiguità che aveva caratterizzato l'organizzazione imperiale sotto Augusto trae gli imperatori fatalmente a cercare un modo ereditario o adottivo di costituire e garantire la continuità del potere. D'altro canto la finzione costituzionale e la crescente ingerenza delle truppe, pongono questa continuità alla mercè del partito senatoriale e delle truppe, specialmente quelle pretoriane. La storia dell' Impero è pertanto la storia di una serie di monche e precarie dinastie, nessuna delle quali riesce ad assicurare la propria continuità ereditaria, ma ciascuna delle quali, per rafforzare il proprio potere, finisce col portare alle piú paradossali e mostruose espressioni il culto religioso del sovrano.
Quando, nel 29 avanti Cristo, a due anni soli di distanza dalla vittoria di Azio, Augusto fu richiesto dalla provincia di Asia e dalla Bitinia di permettere che, sul modello tradizionale della regalità orientale, si istituisse colà il culto della sua persona, Augusto rispose che gli edificandi templi fossero congiuntamente dedicati alla dea Roma e all'imperatore. Roma deificata aveva già ricevuto dei templi fin dall'epoca delle guerre puniche. Il culto della persona del sovrano, nella visione di Augusto, si sarebbe dovuto inserire su questo culto simbolico della città che aveva portato in Oriente il prestigio italico. Augusto ha dunque rifuggito dal fare della propria persona un oggetto isolato di culto. Ma Cesare aveva ricevuto pochi anni dopo l'eccidio delle idi di marzo un tempio dedicato a lui nel Foro e l'apoteosi imperiale, rinnovatasi alla morte di Augusto, non tardò molto a diventare la celebrazione e la consacrazione sacrale dell'imperatore vivente. Già Augusto, del resto, procedendo nel 7 avanti Cristo ad una riorganizzazione delle regioni di Roma, aveva prescritto che in ogni edicola dei Lares compitales il genio di Augusto avesse un posto tra i due. Le dinastie che si susseguono nel governo dell'Impero offrono questo di caratteristico, che, se cominciano tutte emulando la parsimonia e la prudente accortezza di Augusto, finiscono tutte nella maniera piú tragica e drammatica col portare la concezione religiosa del potere alle sue piú abnormi espressioni, con conseguenze cruente per la libertà spirituale e religiosa. Le comunità cristiane ne faranno periodicamente le spese.
Cosí, se la dinastia Giulio-Claudiana si chiude con gli orrori di Nerone, la dinastia Flavia, iniziata sotto cosí prosperi auspici con Vespasiano, si chiude con gli orrori Domizianei. Il regno di Nerone, l'ultimo degli imperatori Giulio-Claudiani, è segnato da forme estreme di adulatio e dallo spiegamento dei piú goffi onori sovrannaturali, tributati al sovrano, particolarmente mercè l'uso della corona raggiante sul conio delle monete. Vespasiano, sebbene gradisse che il suo governo fosse accompagnato dalla divulgazione di prosperi e lusinghieri presagi, non volle mai che si dimenticassero le umili origini della sua famiglia e schivò scrupolosamente ogni ostentazione, nell'ossequio pubblico alla sua persona. Il bisogno di far dimenticare la pompa demagogica e il fasto popolaresco di Nerone ispirò anche ai Flavi molte opere grandiose a Roma. Di nuovo, il regime Flaviano pencola automaticamente verso l'accentuazione del culto imperiale, che porterà il governo di Domiziano a quelle manifestazioni di grandiosità, di cui si sono ricuperati gli avanzi in quella che è una delle piú insignì città del dominio romano in Oriente, ad Efeso. Ed è proprio da Efeso che, al tramonto del governo Domizianeo, quando sulle monete si segnavano quelle lettere Domitianus Caesar XVI tribunicia potestate (D. C. XVI) che offriranno all'autore dell'Apocalissi il numero simbolico contrassegnante il marchio che la bestia imprime sulla mano e sulla fronte dei suoi seguaci, esce il manifesto piú violento della ribellione cristiana al culto imperiale.
È sullo sfondo storico di questa evoluzione logica e fatale del potere religioso romano che va studiata la questione dei rapporti giuridici fra cristianesimo e Impero. Non è questione che possa essere risolta con una semplice analisi di testi legali e di editti persecutorî: non è questione che possa ricavare elementi di soluzione soltanto dalla ricostruzione delle dottrine politiche dei primi difensori del cristianesimo. È questione che deve essere prospettata alla luce di una evoluzione intima del potere politico romano ed alla luce degli orientamenti centrali della Chiesa in formazione.
Un altro elemento anche bisogna però tenere presente nella valutazione integrale della figura giuridica, con cui le Chiese cristiane si sono costituite nell'Impero e sono venute a contatto con i poteri politici. La costituzione delle Chiese cristiane si è compiuta in un tempo nel quale il diritto romano di associazione, cosí dal punto di vista del diritto privato come da quello del diritto pubblico, era stato ormai sostanzialmente codificato. A norma di tale diritto, la costituzione di associazioni personali al di fuori della forma di quelle relazioni specifiche che poggiano su convenzioni contrattuali, dipendeva da un atto di autorizzazione statale, che possedeva forza costitutiva. Mercè tale atto del potere statale veniva concesso il diritto pubblico soggettivo, che costituiva e rendeva legittima l'associazione, e quindi la stessa vita associata, rivestita cosí, implicitamente almeno, della legalità. Solamente le società funerarie, i collegia tenuiorum sive funeraticia, poggiavano sul fondamento di una speciale legge, preesistente alla costituzione del diritto di associazione. Simile eccezione al diritto generale rispondeva ad un evidente interesse pubblico. Le Chiese cristiane si sono costituite inizialmente come società funerarie o sono rientrate nel diritto comune associativo? Si potrebbe dire che all'interrogazione è impossibile rispondere in maniera inappellabile. Si è creduto per molto tempo che veramente le Chiese precostantiniane fossero state organizzate come società funerarie. La tesi, cara a Giovanni Battista De Rossi, è stata poi ripetute volte sottoposta a contestazione. Si può pensare, forse molto meglio; che le comunità precostantiniane non siano state mai organizzate come società funerarie, ma si siano fatte riconoscere in rapporto a terzi, cosí di fronte agli organi statali come di fronte a privati, sempre e fin da principio, come specifiche organizzazioni religiose. Le Chiese pertanto debbono avere goduto del diritto della libertà religiosa di associazione. Le restrizioni di simili diritti, quali noi le constatiamo sotto Valeriano come sotto Diocleziano ed i suoi associati nel potere, rappresentano misure repressive, suggerite da una politica reazionaria e da una disciplina di governo coattiva. In concreto, non sembra sia stato mai decretato uno scioglimento delle comunità ecclesiastiche collegato con la sottrazione di questo subbiettivo diritto pubblico di associazione o con una sanzione criminale. Non lo si constata neppure nella impostazione di quei processi penali che sono imbastiti e condotti contro individui professanti la religione cristiana, e rei di contravvenzione alle prescrizioni imperiali del sacrificio.
Le antiche Chiese cristiane ci appaiono come partecipi palesemente ad una piena vita giuridica. Godono della facoltà di capitalizzare, posseggono fondi. Attraverso i loro organi gerarchici conchiudono e stipulano contrattazioni giuridiche. Ci compaiono pertanto rivestite di autorizzazione e strette da obblighi. Sono le rendite dei loro possessi che coprono i bisogni ecclesiastici, sostengono materialmente la gerarchia, spiegano una vasta opera di assistenza che è in parte superconfessionale. In contrasto con le associazioni di diritto pubblico e privato alle quali, in base ai presupposti della sicurezza statale, era vietato di assolvere còmpiti di previdenza, come un diritto sovrano riservato allo Stato, le Chiese appaiono già nell'età precostantiniana autorizzate a spiegare incombenze assistenziali, che non sembrano circoscritte da limiti. Le organizzazioni ecclesiastiche possono costituirsi parte nelle contestazioni giuridiche. La loro posizione giuridica è peculiare, anche da un punto di vista giuridico amministrativo. In rapporto con lo Stato sovrano viene ad essa riconosciuta nelle contese amministrative la capacità di stare in giudizio, cosí passiva come attiva. Durante la validità delle costituzioni speciali sul sacrificio, le Chiese sono soggetti di procedimenti amministrativi. Già prima del 313 esse occupano, nei rapporti con le autorità pubbliche, una posizione analoga a quella delle corporazioni di diritto pubblico. L'editto di Galerio, come la convenzione di Milano, avranno un carattere di palinodia e suoneranno ritiro di disposizioni repressive eccezionali. Verranno a decretare una restitutio in integrum e non costituiranno diritto. Di modo che occorre oggi concludere che la situazione di diritto privato e pubblico dimostra come le Chiese cristiane, già prima di Costantino, possedessero figura giuridica. È con una visuale piú vasta che noi dobbiamo quindi procedere alla definizione della genesi e dello sviluppo delle persecuzioni. E questa visuale deve estendersi al conflitto vasto che col cristianesimo si delinea fra la concezione ieratica e sacrale del potere e la concezione delle realtà trascendenti, sintetizzate dalla nozione del Regno di Dio che il cristianesimo ha professato entrando nel mondo.
Sul vasto campo di esperienze costituito dalla legislazione e dalla pratica politica dell'Impero romano in materia religiosa, l'attitudine di Roma di fronte al cristianesimo nascente, domina come fatto di maggiore rilievo. Perché mai i Romani, nella loro insigne tolleranza per le religioni e per i riti affluenti da ogni lido verso le rive del Tevere, hanno fatto una sanguinosa eccezione proprio per quel cristianesimo che, fra tutte le professioni sacre ospitate, solo doveva sopravvivere allo sfacelo dell'Impero, per surrogarlo nel monopolio e nella disciplina della civiltà? Perché mai i culti di Mitra o d'Iside non hanno registrato martiri, al contrario hanno prosperato tranquillamente all'ombra propizia del Palatino, mentre il culto di Cristo, introdotto inizialmente in qualche casa privata od in qualche sinagoga della Suburra, ha dovuto affrontare per tre secoli l'ostilità della massa e i verdetti del potere costituito?
Il problema ha due aspetti: un aspetto giuridico, un aspetto morale. Si tratta di sapere quale è la genesi legale e il fondamento giuridico della persecuzione. E si tratta d'altro canto di sapere in quale zona della vita pubblica il contrasto tra il messaggio cristiano e la tradizione religiosa del mondo romano si è piú apertamente profilato e piú ostinatamente svolto.
L'esistenza di particolari leggi anticristiane all'epoca di Nerone è esclusa dal dubbio stesso e dall'incertezza di Plinio nel modo di comportarsi al cospetto delle comunità cristiane, quali traspaiono dalla sua corrispondenza con l'imperatore Traiano, al tempo della sua legazione in Bitinia tra il 111 e il 113. Plinio, il celebrato avvocato, l'uomo politico di fiducia di Traiano, lo scrittore forbito e raffinato, il mondano apprezzato e ricercato, confessa di non aver mai assistito a procedimenti legali contro i cristiani.
Avverte che v'è qualcosa nel loro atteggiamento religioso che è in contrasto aperto con la concezione romana dei rapporti tra vita politica e vita religiosa. Se non è disposto ad adoperare, nel definire il cristianesimo, i termini grossi e sonanti che adoprerà in quel medesimo torno di tempo Tacito, chiamando il cristianesimo una superstizione esecrabile, degna di essere annoverata fra tutto quello che di immondo e di atroce si riversa dall'Impero sulla Capitale, la sua terminologia non è molto diversa. È soltanto il suo temperamento rifuggente dalle frasi troppo sonanti che lo fa parlare di una superstizione senza misura, anziché di una superstizione esecrabile. Ma il suo apprezzamento è lo stesso e quindi il suo giudizio tenderebbe ad una sentenza radicale. Ma il suo buon senso romano e la sua equità istintiva lo trattengono da una sentenza precipitosa. Ha sottoposto i cristiani della Bitinia, che gli sono stati deferiti, a torture crudeli per estorcere confessioni e denuncie compromettenti. Ma la massa dei denunciati è grande ed è consigliabile il procedimento prudenziale. E poi si tratta di una qualità già universalmente e ufficialmente proscritta, si tratta cioè, quando si parla di cristiani, di una qualifica che implica delitti comuni e quindi una sentenza automatica? È quel che Plinio non sa. Se fosse esistita veramente una legge esplicita contro il cristianesimo il suo imbarazzo non avrebbe avuto ragione d'essere. È l'indeterminata loro situazione legale che suggerisce e spiega il suo ricorso a Traiano.
E Traiano risponde. Risponde anche lui senza fare appello ad una legge preesistente, che autorizzerebbe le indagini e le inchieste. Traiano non vuole delazioni. Ma a anch'egli sa che l'opposizione fra professione religiosa cristiana e pieno dovere civile romano è radicale e funzionale, e qualora sia constatata la professione cristiana non indietreggia dall'autorizzare le supreme sanzioni.
La tradizione cristiana ha giudicato mite il contegno di Traiano alla luce di tutta la sua pratica di governo. Naturalmente, non ha nulla di comune con Caligola e con Nerone, espressioni estreme delle aberrazioni, cui conduce il culto imperiale nella dinastia Giulio-Claudiana. E il suo governo è un'aperta reazione al governo di Domiziano, anche egli vittima truce della aberrante psicopatia, a cui porta la concezione ieratica dell'autorità sovrana. La leggenda cristiana ha immaginato nel medioevo che Traiano, mercè l'intervento di Gregorio Magno, sia l'unico che dopo Cristo sia riuscito a salire in cielo senza il battesimo. E San Tommaso cercherà di giustificare teologicamente questa leggenda che Dante ha cantato. In realtà anche l' Impero di Traiano ha conosciuto vittime cristiane insigni e repressione antievangelica. Il conflitto era piú forte delle buone disposizioni sovrane. E il conflitto è un conflitto di atteggiamenti spirituali, al variare dei quali la massa offre un contributo che è preponderante e decisivo.
I rapporti fra cristianesimo e Impero infatti hanno subìto una evoluzione profonda di cui occorre distinguere le fasi salienti. Inaugurato da Nerone in una maniera che non è agevole definire dal punto di vista legale, in sostanza, l'atteggiamento ostile e virtualmente persecutorio è rimasto l'atteggiamento fondamentale dello Stato romano di fronte al cristianesimo, fino a Costantino. Nulla di piú naturale, del resto. Sul terreno sociale si potrebbe dire che la grande novità e la grande scoperta del cristianesimo è la separazione netta dei valori politici dai valori religiosi. Di fronte ad una concezione dura, assoluta, della vita politica e del suo organo direttamente rappresentativo, lo Stato, il cristianesimo ha praticato nel mondo una super-politica, anch'essa assoluta, la quale implicava la svalutazione completa, dal punto di vista morale e religioso, della organizzazione statale. E un Impero romano che per logica fatale di cose tendeva automaticamente a rivestirsi, al modo delle monarchie orientali, di forme ieratiche e di pretese divine, era automaticamente tratto a scorgere nel cristianesimo il suo irriducibile avversario e ad assumere quindi un atteggiamento di difesa che si riversava immediatamente in una pratica persecutrice.
Ma questo funzionale contrasto non poteva non subire oscillazioni di intensità, a norma delle variabili circostanze ambientali e delle sempre nuove situazioni di fatto. In un primo periodo si potrebbe dire che il potere centrale romano, di fronte alla propaganda cristiana, ha conservato un atteggiamento prevalentemente passivo, lasciandosi piuttosto guidare, se non trascinare, dalle pressioni popolari e dalle esigenze politiche locali. Questo periodo, che si potrebbe dire contrassegnato da rescritti imperiali i quali tendono a imporre piuttosto un argine e un freno all'avversione anticristiana della massa ignara e feroce, si prolunga fino al 202, quando Settimio Severo emana l'editto contro il proselitismo giudaico e cristiano. Sono allora i neofìti ad essere direttamente presi di mira. Un terzo periodo di vera e spietata persecuzione comincia con Decio e si chiude con Diocleziano, quando l'Impero, sentendo l'avanzarsi del processo di disgregamento che colpisce in maniera inesorabile la propria compagine, tenta con uno sforzo supremo di ristabilire ad ogni costo l'unità religiosa, indicendo una prescrizione totale del cristianesimo che raccoglie un numero indubbiamente ingente di martiri in tutte le provincie.
Che la massa fosse la responsabile maggiore delle prime persecuzioni anticristiane risulta da tutta la letteratura cristiana primitiva. Tertulliano descrive in una maniera grafica lo scoppio del sentimento popolare contro i cristiani. Occasioni frequenti erano offerte al suo divampare da tutte le disavventure pubbliche, in cui la superstizione plebea scopriva conseguenze della cosiddetta irreligiosità dei fedeli al Vangelo. Tertulliano dunque, rivolgendosi ai pagani, ragiona cosí: «Ci chiamate fazione sediziosa. A me pare piuttosto che il qualificativo di faziosi andrebbe attribuito a coloro che cospirano selvaggiamente animati dall'odio cieco dei buoni, che chiedono selvaggiamente il sangue degli innocenti accampando perfino a giustificazione del loro insano risentimento la stolta e fatua supposizione che i cristiani siano la causa di ogni pubblica sciagura e di ogni disagio collettivo. Se il Tevere straripa, se il Nilo non bagna le campagne, se si verificano commozioni atmosferiche o terrestri, se sopravvengono la carestia o la peste, non si ode immediatamente che un grido selvaggio: – I cristiani ai leoni».
Ancora all'epoca dell'imperatore Massimino, alla vigilia si potrebbe dire dell'editto costantiniano, gli abitanti di Aricanda nella Licia in Anatolia chiedevano, e la loro voce ci è stata conservata in una epigrafe, la morte dei cristiani, come dispregiatori degli Dei, l'«empietà» dei quali faceva gravare sull'Impero la minaccia delle punizioni della irritazione divina.
L'iscrizione dice testualmente cosí: «Ai salvatori di tutto il genere umano, agli Dei Augusti Cesari, Galerio Valerio Massimino, Flavio Valerio Costantino, Valerio Liciniano Licilio, supplica formulata dal popolo fedele dei Lici e dei Panfilii. Avendo, o illustri imperatori, gli Dei vostri consanguinei colmato sempre di favori manifesti coloro che amano la loro religione e li pregano per la salvezza dei nostri signori invincibili, abbiamo creduto bene di ricorrere alla vostra immortale maestà onde chiedere che i cristiani da lungo tempo e tuttora ribelli siano alla fine soppressi e non offendano piú con le loro assurde novità il rispetto dovuto agli Dei. Tale risultato potrà essere ottenuto interdicendo ed impedendo mediante un vostro divino ed eterno decreto le loro empie pratiche, e costringendoli a praticare il culto degli Dei vostri consanguinei e ad invocarli in favore della vostra eterna e incorruttibile maestà, cosa profittevole al benessere di tutti i vostri sudditi».
La piú antica letteratura ecclesiastica ci permette di constatare a volte come la furia della folla sovreccitata passi sopra ad ogni canone di procedura e ad ogni regolarità legale nel suo odio anticristiano. La lettera della Chiesa di Smirne, per esempio, sul martirio dell'ottuagenario vescovo Policarpo nel 155, descrive la scena feroce della folla che appresta materie infiammabili al rogo del martire e infierisce sul suo corpo, non curandosi affatto della sanzione legale al suo operato. E la lettera della Chiesa di Lione, in cui è descritta la sollevazione anticristiana del 177, ci fa vedere come il legato romano commetta una vera illegalità, condannando Attalo, cittadino romano, alle belve anziché alla decapitazione, proprio per dare soddisfazione alla moltitudine furente.
Che la folla e la folla sola, anonima, barbarica e grossolana, fosse la vera responsabile dell'odio anticristiano, appare del resto dalla natura stessa delle accuse mostruosamente fantastiche che si scorgono accumulate senza alcun discernimento sul capo dei cristiani. Sono registrate tutte in un limpido tratto di quel gioiello dell'antica letteratura cristiana che è l'Ottavio di Minucio Felice. È l'interlocutore pagano del dialogo che parla. È quindi il personaggio particolarmente designato a conglobare nel suo atto di accusa tutte le imputazioni che corrono in mezzo al pubblico contro il messaggio cristiano. «Chi non deplorerà – egli dice – che individui di una disgraziata, illecita fazione osino ribellarsi ai nostri dèi, costituendo, con i piú spregevoli detriti della società, con donnicciuole ed analfabeti, una collettività tenebrosa, odiatrice della luce, che tace in pubblico, ma mormora sobillatrice negli angiporti, disprezza i templi, beffeggia le cose sacre, guarda con sussiego e dispregio i sacerdoti ufficiali e calpesta la porpora? Esposta ai tormenti, li sfida sfrontatamente dopo averli temuti, quando essi appaiono ancora lontani. Teme la morte eterna dopo la morte corporale, ma questa morte corporale non la paventa. Si radunano costoro in conventicole infami. Si riconoscono a convenuti contrassegni e si amano prima quasi di essersi conosciuti. Talora si accende fra essi un nefando vincolo di libidine religiosa e si chiamano fratelli e sorelle quasi a sperimentare l'invereconda voluttà dell'incesto. La loro stolta e demente superstizione trae gloria dai delitti. So che adorano una testa asinina e si vocifera che si prostrino ad adorazioni obbrobriose. La loro iniziazione si compie nel delitto. All'iniziando infatti è presentato un infante sapientemente dissimulato nel grano e sulla innocente vittima sono diretti i colpi micidiali del suo pugnale. Allora i congregati suggono il sangue dell'innocente trafitto, se ne distribuiscono le membra federandosi cosí nel mistero di un crimine senza nome. Nel giorno festivo si radunano uomini, donne, sorelle, madri, figli in una indecorosa promiscuità di sessi e di età. Ben satolli, quando arde arroventato dalle vivande e dai vini il fuoco della lussuria, viene aizzato un cane legato al candelabro illuminante la scena con una ghiotta fetta di carne lanciata oltre la linea cui può estendersi la sua catena. Il desiderio della preda trasforma la bestia in lenone. Il candelabro è rovesciato e la comunità adunata si abbandona nelle tenebre alle proprie malsane voglie, tutti nella loro coscienza, se non nel fatto, incestuosi. Su labbra cristiane risuona costantemente la minaccia al mondo circostante. Tetri e misantropi nascondono nel silenzio le loro impubblicabili gesta. Non adornano il loro capo di fiori. Non profumano il loro corpo. Perfino ai sepolcri rifiutano l'omaggio floreale. Pallidi, tremolanti, son veramente degni di pietà. Disgraziati! Piace loro speculare sulle cose divine e dimenticano il detto sapiente di Socrate: – Quel che è sopra di noi non ci riguarda. – E dimenticano il dilemma inevitabile che a sovvertire la tradizione veneranda dei padri si cade inevitabilmente nella superstizione o nello scetticismo».
Cosí, al cadere del secondo secolo, l'interlocutore pagano dell'Ottavio sintetizzava le accuse pubblicamente circolanti contro la professione cristiana. Ve n'ha fra esse di quelle che equivalgono per la nostra valutazione ad altrettanti titoli di merito. Nell'accusa invereconda poi della maldicenza pagana, notiamo l'incapacità di cogliere il valore mistico dell'amore fraterno che avvinceva vicendevolmente i seguaci del Vangelo.
E nel disdegno pagano per l'indifferenza cristiana alla vita ed alla morte, noi cogliamo il segno di una superba superiorità e di una imperturbabile forza spirituale di fronte alla minaccia delle pene e del martirio. Strano osservare che perfino Marco Aurelio, una delle anime piú nobili ed elevate che la cultura greco-romana fosse stata capace di produrre, nella freddezza compassata del suo stoicismo, svaluta e bistratta il coraggio dei martiri cristiani come una inutile e fatua ostentazione.
Gran parte delle accuse pagane circolanti contro le comunità cristiane con la loro stessa mostruosità tradiscono la fonte impura da cui emanano. È la folla anonima, grossolana e oscenamente pettegola che sospetta aberrazioni in grembo a quelle conventicole che debbono affidare al riserbo ed al segreto l'esplicazione della loro fede innovatrice e del loro programma spiritualmente rivoluzionario.
La presenza irrefrenabile di un intervento estraneo ed extra-legale nello svolgimento procedurale della persecuzione è denunciato dalle numerose irregolarità che in questa procedura gli apologisti denunciano e rilevano.
Di queste irregolarità le piú appariscenti sono il negato patrocinio agli imputati e l'anormale uso del supplizio quale mezzo di istruttoria. Tertulliano apostrofa cosí con veemenza i pagani: «Se noi siamo cosí nocivi al bene pubblico quanto supponete, perché mai non ci trattate come sono trattati gli altri sediziosi e gli altri delinquenti? Quando altri sono imputati di delitti affini a quelli che voi attribuite a noi, essi possono parlare in propria difesa o possono quanto meno pagare avvocati eloquenti perché li difendano. Solamente ai cristiani è vietato di dire qualsiasi parola intesa a perorare la loro causa, a difendere la verità, a prevenire una ingiustizia. Quando si tratta di noi, non si bada che a una cosa: a soddisfare cioè l'odio pubblico, strappando una confessione di fede invece di sottoporre ad istruttoria una imputazione criminosa. In un processo voi siete soliti per legge di indagare le circostanze di tempo e di luogo per valutare la reità. Nel caso nostro nulla di tutto ciò: eppure sarebbe proceduralmente utile sapere quanti infanticidi abbiano commesso i nostri imputati, quanti incesti abbiano consumato, a quanti immondi banchetti abbiano assistito e quali cuochi abbiano apprestato le vivande e quali cani abbiano provocato le tenebre. Né basta. Mentre di solito infliggete la tortura a rei che volete fare confessi, a noi infliggete la tortura non già per farci confessare il delitto che sarebbe nel caso nostro la professione cristiana, bensí al contrario per farcela rinnegare».
Infine si può osservare che l'atteggiamento stesso dei primi imperatori che si son dovuti occupare di cristianesimo sta lí a dimostrare che le vere ragioni dell'ostilità anticristiana stanno nel sentimento del gran pubblico. A prescindere da Nerone che colpisce i cristiani onde sviare da sé il sospetto di colpabilità nell'incendio di Roma, mostrandoci cosí implicitamente che al popolo non doveva dispiacere simile trasferimento di reità, l'intervento imperiale in materia cristiana è fino al tramonto del secondo secolo diretto nettamente a frenare gli impulsi incomposti della folla e le denunzie interessate degli spioni. A tale ispirazione obbedisce la lettera dell'imperatore Traiano a Plinio, legato della Bitinia divenuta di recente provincia imperiale, contenente le misurate prescrizioni: «Non bisogna ricercare i cristiani. Se denunciati e rei convinti, occorre punirli, con la riserva però che se qualcuno nega di essere cristiano e dimostra la propria negazione, anche se nel passato sia stato sospetto otterrà grazia col suo pentimento. Delle denunzie anonime – soggiunge il savio imperatore – mai deve tenersi conto. Ché questo equivarrebbe ad offrire un esempio detestabile non degno del nostro tempo».
Piú esplicito ancora è il rescritto di Adriano diretto verso il 125 a Minucio Fundano, proconsole dell'Asia, sul medesimo argomento. «Non voglio che degli innocenti siano molestati e occorre impedire che i calunniatori possano impunemente esercitare il loro vile mestiere di briganti. Se i sudditi della provincia vogliono sostenere a viso aperto le loro rimostranze contro i cristiani accusandoli di qualche concreta mala azione al cospetto dei tribunali regolari, io non proibirò loro di farlo, ma non posso in alcun modo tollerare che si ricorra invece a petizioni e a sollevazioni clamorose. Risponde molto meglio a norma di diritto che colui il quale presenta una accusa, specifichi gli addebiti. Se sarà dimostrato che il denunciato ha agito contravvenendo alle leggi, gli saranno inflitte pene proporzionate alla gravità della colpa. Ma in cambio sarà adottata ogni piú scrupolosa cura perché in caso di denunzia calunniosa il calunniatore sia punito nella maniera piú esemplare».
Lo stesso Marco Aurelio, che, non essendo scettico come Adriano né indolente come Antonino, mirò scrupolosamente alla tutela della religiosità romana, gravò ancor piú energicamente la mano contro i denunziatori. La leggenda ne trasse occasione per attribuirgli un rescritto oggi concordemente riconosciuto apocrifo, le cui disposizioni tolleranti sono una anticipazione mitica dell'editto costantiniano.
Questa tattica moderatrice degli imperatori venne però ripetutamente ad infrangersi di fronte alla irriflessa ostilità della folla, istintivamente, si direbbe, anticristiana. Proprio sotto il governo del mite imperatore filosofo la storia della Cristianità primitiva registra una delle piú barbariche scene di persecuzione anticristiana che ci offra il martirologio evangelico. L'episodio è narrato in un documento che può essere ben definito il capolavoro dell'antica letteratura agiografica: la circolare della Chiesa lionese.
Nell'agosto del 177, in occasione della festa annuale del culto imperiale, approfittando dell'assenza del legato, il popolo di Lione, che detestava i cristiani reclutati soprattutto nelle file delle colonie orientali emigrate sulle rive commerciali del Rodano, si agita e sulla pubblica piazza chiede tumultuosamente il massacro dei seguaci del Vangelo. Il tribuno della coorte urbana, sopraffatto dal clamore pubblico, imprigiona quanti gli sono denunciati. La notizia della sommossa richiama senza indugio alla sua sede il legato, il quale inizia il procedimento penale. Qualcuno degli imputati cede e sotto le sofferenze inaudite della tortura nega la propria professione cristiana. Di piú, alcuni schiavi pagani imprigionati insieme ai loro padroni di cui condividono la fede, posti anche essi alla tortura finiscono col confessare quanto i torturatori vogliono che essi confessino e secondo quanto ci riferisce la lettera della comunità lionese dichiarano che gli infanticidi, i pasti di carne umana, gli incesti e gli altri misfatti abbominevoli di cui va vociferando la voce pubblica sono realtà. La conferma eccita al parossismo il furore della folla.
Ora la folla si atteggia ad intransigente vendicatrice della morale che si presume offesa quando i designati trasgressori di questa appartengono a gruppi che essa odia. I tormenti inflitti ai cristiani toccano a Lione i limiti concessi alle risorse quasi inesauribili dell'umana ferocia. Impressionante soprattutto è la costanza della povera schiava cristiana Blandina, che affronta con imperturbabile energia le pene piú raffinate. Finisce sgozzata mentre la folla stessa allibita deve mormorare allo straziante spettacolo: «Mai fra noi fu visto un fragile corpo di donna sostenere con fermezza spasimi piú cocenti».
Episodi come questo mostrano realmente come l'atteggiamento dell'Impero romano di fronte al cristianesimo subisca di volta in volta in pari tempo le pressioni della folla, facile alle esplosioni dell'odio e del rancore, e delle proprie preoccupazioni diversamente orientate secondo le esigenze variabili della sua disciplina assolutista. In fondo si ha chiara la sensazione che, come ha ben visto il Mommsen, l'atteggiamento dell'Impero di fronte al cristianesimo ha variato di momento in momento secondo la diversità delle circostanze e della temperie storica. Roma in fondo ha costantemente represso quelli che le apparivano come abusi di indole religiosa mediante misure di polizia. Tutto lascia supporre che il medesimo sistema sia stato seguìto nel trattamento fatto ai cristiani. In realtà, nella repressione della nuova fede non vengono invocate leggi penali che proscrivano senza limitazione la religione del Vangelo. Né riusciamo ad intravvedere decreti che abbiano definito in linea generale la professione cristiana come un inequivocabile delitto. I governatori delle provincie appaiono come gli autentici arbitri della persecuzione. E l'intervento degli imperatori costituisce piuttosto un semplice provvedimento amministrativo destinato a disciplinare l'esercizio dello ius coërcendi. Mai nei rescritti appare la nozione specifica o la denominazione giuridica di un delitto cristiano. Come mai troviamo nella procedura la parvenza di una normale regolarità legislativa. E l'intento preciso degli apologisti nei loro rinnovati saggi letterari e polemici è appunto quello di sottrarre la causa dei cristiani al capriccioso arbitrio della coercizione, per sottoporla invece alle regole procedurali fisse dei tribunali criminali ordinari. I cristiani primitivi nulla avevano da temere da una istruttoria che avesse cercato di accertare quanto di vero fosse contenuto nelle ripugnanti accuse con cui erano colpiti dal pubblico ignaro e malevolo. E tutto invece potevano attendersi dagli ufficiali di polizia assillati dall'obbligo di tutelare nella maniera piú sospettosa l'ordine delle provincie sottoposte per non incorrere nella disgrazia fatale di Cesare e dal desiderio di ingraziarsi gli elementi piú turbolenti e quindi piú pericolosi delle popolazioni sorvegliate.
Si capisce del resto come l'insegnamento cristiano potesse essere esposto fatalmente al sospetto degli elementi ligi ai sistemi politici assoluti. Non portava esso un rivolgimento radicale nelle tavole dei valori politici ed etici correnti? Il cristianesimo predicava virtú che il mondo pagano ignorava quando addirittura non le disprezzava. Il cristianesimo stimolava l'interesse dello spirito verso una sfera di vita interiore e di realtà trascendenti che era consuetudinariamente del tutto trasandata, vilipesa o ignorata. Il cristianesimo accendeva nei cuori un senso di fratellanza umana che avrebbe potuto far sorridere di compassione i piú nobili rappresentanti della cultura classica. Infine, spostando le finalità della vita verso una meta collocata al di là della morte, capovolgeva audacemente tutte le abituali regole di condotta.
Se la predicazione cristiana si fosse unicamente rivolta all'individuo imponendo al singolo un còmpito nuovo nella esplicazione della sua vita interiore, lo sdegno e l'ostilità del pubblico pagano non avrebbero avuto ragione di esplodere cosí minacciosamente. No. Non bisogna mai dimenticare che il cristianesimo è entrato nell'Impero non solo come sforzo operoso di redenzione individuale, bensí anche come una fattiva e organica energia sociale. I suoi seguaci hanno posseduto fin dall'inizio la salda coerenza di gruppo, hanno espresso la coscienza di un popolo e di una razza nuovi, ricchi di una fede, di una speranza e di un programma che si son proposti di instaurare nel mondo circostante per superarlo e soppiantarlo.
Eredi di una tradizione religiosa circoscritta quale il giudaismo; partecipi di una fede e di una speranza messianica che avevano il loro fulcro nella nozione del Regno di Dio, i cristiani asseriscono fin dagli esordi di avere ereditato i diritti del popolo d'Israele e di aver tolto ad esso i privilegi spettanti alla stirpe santa, alla comunità preferita e prediletta da Dio. La letteratura cristiana primitiva dimostra chiaramente come i credenti nel Vangelo abbiano recato nel mondo fin dal loro nascere una spiccata coscienza di razza, intendendo la parola razza in quella significazione spirituale che consente di fare del cristianesimo la terza stirpe dopo quella dei pagani genericamente intesi e dei monoteisti al modo ebraico. Le lettere paoline come l'Apocalissi, il Pastore di Erma come le Apologie di Aristide e di Giustino, affermano recisamente che la stirpe santa dei cristiani risale attraverso una mistica prosapia a origini anteriori al mondo. Vedono anzi nel messaggio cristiano la ragione ultima e la finalità prestabilita della creazione universa. Secondo Paolo il popolo cristiano ha inaugurato col suo ingresso nel mondo la nuova fase della storia umana che si avvia ormai al suo supremo compimento e al suo drammatico epilogo. Cristo, il nuovo Adamo, ha spiritualmente generato la nuova umanità destinata a trasfigurare e fondere in una superiore fraternità le vecchie differenze nazionali, politiche e sociali. Il mondo romano non tardò ad acquistare una chiara percezione del nuovo nucleo morale che si andava costituendo in grembo alla collettività imperiale. E individuò ben presto il tertium genus. Tertulliano ci dà la sua testimonianza sull'uso di tale designazione, quando nello Scorpiace destinato all'apologia del martirio descrive uno scatto anticristiano del popolo adunato nel circo che grida: «Fino a quando sarà tollerata tra noi la terza razza?».
Questa terza razza accampava titoli che potevano facilmente suonare alle orecchie dei pagani come un affronto insolente. Pretendeva di essere insieme il popolo piú giovane e il piú vecchio, di portare con sé l'arca del futuro e dell'eternità. Se qualcuno avesse lanciato il rimprovero: siete dei giudei degeneri, i cristiani avrebbero potuto tranquillamente replicare: noi siamo la comunità del Messia e quindi costituiamo l'autentico Israele. Per chi asseriva: voi siete semplicemente giudei, la risposta era pronta: noi siamo una creazione nuova ed un popolo nuovo. Se al contrario veniva loro rinfacciata la novità dell'insegnamento e la mancanza di una storia, i cristiani potevano prontamente replicare: soltanto in apparenza noi siamo di ieri perché la nostra vita nascosta, ma non per questo meno reale, risale alle origini stesse del mondo e precede quella di tutti gli altri popoli, perché noi rappresentiamo il primordiale popolo di Dio. E a chi sentenziava: voi non meritate di vivere, i cristiani avevano il coraggio di rispondere sdegnosamente: noi vogliamo morire per vivere, perché siamo cittadini di un mondo avvenire e nutriamo fiducia incrollabile nel trionfo della nostra risurrezione.
La profonda coscienza di costituire il popolo primigenio e predestinato; la certezza di una immancabile trasfigurazione beata nel veniente Regno di Dio si traducevano tra i cristiani in una autonoma e caratteristica foggia di vita. Nella lettera ai Filippesi San Paolo aveva affermato con solennità: «La nostra vera città è nei cieli». E l'epistola agli Ebrei aveva commentato: «Non possediamo qui la nostra cittadinanza permanente, noi attendiamo di essere cittadini dei cieli». Sorretti e ispirati da simile senso della caducità terrena e della provvisorietà della esistenza materiale, i cristiani si considerano pellegrini e stranieri nel mondo. Assorti nella fede rifuggono dai suoi interessi e dalle sue preoccupazioni con lo sguardo impaziente verso quel Regno oltre-mondano alle soglie del quale si affrettano.
Simile atteggiamento ha la sua tipica espressione nella prima similitudine di Erma. Due città con i due rispettivi sovrani si levano l'una di fronte all'altra, la città terrena e la città celeste. Il cristiano non deve avere nulla di comune con la prima, la città terrena, e con il suo sovrano: il Diavolo. Tutta la sua esistenza viene automaticamente a svolgersi in una opposizione e in un contrasto insanabili alla vita, agli ordinamenti, alle leggi della città terrena. Già nelle lettere apostoliche viene posto in rilievo, piú di qualunque schema dogmatico, il dovere tassativo per il cristiano di una condotta illibata che faccia risplendere i fedeli del Vangelo come altrettante luci in mezzo ad un esercito di corrotti e di traviati.
Non come i gentili e neppure come i giudei, bensí come popolo sacro a Dio, realizzante fin d'ora sulla terra il mistero del Regno di Dio – ecco la nuova parola d'ordine. Tutti gli aspetti della vita fino ai piú intimi ed ai piú umili vengono automaticamente posti sotto la disciplina innovatrice dello Spirito e ordinati in nuove fogge. Tale concetto, che i cristiani cioè costituiscano uno speciale ordinamento e rappresentino la milizia prescelta del vero Dio e del Cristo, suggerito già dall'autore della lettera agli Efesini, trova i suoi piú decisi ed eloquenti assertori in Tertulliano ed in Cipriano. Non è arrischiato il sostenere che il significato dell'appellativo di pagani che i cristiani attribuiscono ai gentili non sia quello di abitanti delle campagne che il vocabolo possiede in Cicerone e in Orazio, bensí quello di borghesi e di civili in opposizione a soldati, nel quale l'hanno adoperato Plinio e Giovenale. Tertulliano ha proclamato per tutti i suoi fratelli di fede: «Al cospetto del Cristo il fedele, anche se borghese, è soldato (miles est paganus fidelis); mentre il pagano, anche se è soldato, è al cospetto di Dio un semplice borghese e civile (paganus est miles fidelis)».
Contro questa coscienza federativa del cristianesimo primitivo, contro questa non dissimulata pretesa di superiorità morale, spirituale e religiosa, la massa pagana si ribella. Il cristianesimo, nelle sue espressioni piú audacemente innovatrici come la millenaristica, non rappresentava la corrosione minacciosa della costituzione imperiale? Cristianesimo e via imperiale romana non si rivelavano come i due termini di una antitesi irreconciliabile? In uno dei passi piú singolari del suo Apologeticum, Tertulliano ha avvertito questo dilemma irriducibile ed ha proclamato: «Fin dai tempi di Tiberio i Cesari avrebbero creduto nel Cristo se i Cesari non fossero necessari al mondo e se un cristiano potesse essere Cesare». Verrà il giorno in cui il corso romanzesco dei fatti umani opporrà una smentita recisa a questa antitesi tertullianea: i Cesari si faranno cristiani. Ma allora si dovrà vedere se saranno i Cesari che si convertiranno al cristianesimo o se non sarà il cristianesimo che si convertirà al cesarismo. Alle sue origini il cristianesimo nasceva come visuale di una collettività organizzata sulle leggi dello spirito, la quale si contrappone risolutamente alla collettività basata sulle semplici norme della disciplina politica. E quando nella sua mastodontica configurazione territoriale l'Impero avvertirà la minaccia che rappresenta ad Oriente la presenza di foltissime comunità cristiane la cui fedeltà di fronte all'incalzare dei Parti è dubbia e precaria, la persecuzione divamperà, da Decio a Diocleziano, a Galerio e Massimino, non piú come un semplice e circoscritto provvedimento poliziesco, ma come espressione legale e organica della volontà romana di difendere il suo minacciato potere. Il cristianesimo attraverserà vittoriosamente la prova e, dopo l'infelice tentativo tetrarchico di ripartizione del potere imperiale escogitato da Diocleziano, questo potere dovrà, per tornare all'unità, capitolare di fronte al cristianesimo e il cristianesimo dovrà caricarsi sulle sue spalle l'onere di diventare strumento e cooperatore del nuovo regime imperiale.