«Era l'anno XV del governo di Tiberio Cesare. Ponzio Pilato reggeva la Giudea. Era tetrarca della Galilea Erode. Suo fratello Filippo era tetrarca della Iturea e della regione Traconitide. Lisania era tetrarca della Abilene. Erano Sommi Pontefici Anna e Caifa. Ed ecco che la Parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria. E Giovanni si dié a percorrere tutto il territorio del Giordano, predicando il battesimo della conversione». Il terzo Vangelo canonico, il Vangelo che porta il nome di Luca, ha voluto ben circoscrivere cronologicamente (III, l e ss.) «l'inizio della buona novella» mercè un settuplice sincronismo, passando in rassegna, a cominciare da Roma e finendo col Sinedrio Gerosolimitano, tutti i poteri che potevano offrire un riferimento temporale alla esplosione della nuova profezia.
Augusto era morto il 19 agosto del 14. Il 15° anno di Tiberio corrisponde pertanto al 28. Nato prima della morte di Erode il grande, Gesù doveva avere circa 32 anni quando scese nelle acque del Giordano per ricevere il battesimo di Giovanni.
Riconosceva dunque il valore del suo messaggio ed il significato simbolico della sua iniziazione nella abluzione.
Ed è pieno di valore il particolare che per indicare l'inizio della predicazione di Giovanni, il medesimo evangelista adopera lo stesso inciso che il Profeta Geremia aveva usato per esprimere il mistero carismatico della propria vocazione. «La Parola di Jahvè mi fu rivolta al tempo di Giosia figliolo di Aman re di Giudea l'anno 13° del suo regno. La Parola di Jahvè mi fu rivolta in questi termini: – Prima che io ti avessi formato nel seno di tua madre, io ti conoscevo: e prima che tu uscissi dal suo seno io ti avevo consacrato e ti avevo costituito profeta delle genti –» (I, 1-4).
Per esplicita ammissione del piú vivo e colorito fra i redattori evangelici, il messaggio giovanneo, prodromo del messaggio cristiano, appare nei suoi caratteri primigenî come una impetuosa e purificata reviviscenza della tradizione profetica. Una delle ultime parole di questa era stata un annuncio di universalità religiosa e una minaccia di palingenesi politica: «Io non ritraggo piú da voi alcun compiacimento, dice il Signore degli eserciti; non voglio piú ricevere dalle vostre mani alcuna oblazione. Perché, ecco, da levante a ponente insigne è il mio nome tra le genti, e in ogni luogo mi viene offerto un sacrificio mondo, al mio nome viene immolata un'oblazione pura... Io manderò il mio angelo precursore, dice Jahvè, perché mi spiani il cammino e improvvisamente perverrà al suo tempio il Signore, che voi cercate, l'angelo dell'alleanza, che voi desiderate. Guardate: arriva. Ma chi mai potrà affrontare il giorno della sua venuta, e chi mai riuscirà a tenersi ritto dinanzi al fulgore della sua apparizione? ...Spunta il giorno, fiammeggiante come una fornace, in cui tutti gli iniqui e i prepotenti, fatti simili ad arida paglia, saranno consumati dal fuoco: nulla ne sopravviverà. Sulle vostre fronti invece, tementi il Suo nome, sorgerà un sole di giustizia, i cui raggi si appelleranno: riparazione. Voi ne trasalirete di gioia e ne tripudierete, come vitelli tratti fuori dalla lor clausura. E gli empi cadranno sotto i vostri piedi, come cenere spenta» (Mal. I e III). All'ammonimento profetico era succeduta l'apocalittica anonima e popolare.
Dalle sue descrizioni del giorno del Signore, la pietà giudaica aveva tratto alimento per la sua paziente aspettativa.
Tristi giorni correvano per la società ebraica, da quando le discordie domestiche si erano insinuate nella dinastia teocratica degli Asmonei, offuscando sinistramente la gloria epica dei suoi patriottici inizi e fiaccando le capacità della sua resistenza! La rivalità di Aristobulo II contro Ircano II, il suo sforzo per usurparne le cumulate dignità di re e di sommo sacerdote, offrivano il destro a Pompeo, spiante l'occasione di penetrare nello stato maccabaico onde attuare il suo grande sogno di riorganizzazione della Siria, di ingerirsi nella politica interna del Giudaismo. Piú accessibili alle voci del rancore che a quelle della carità di patria, i partigiani di Ircano gli spalancarono le porte di Gerusalemme. Nonostante la difesa accanita di pochi nazionalisti, Pompeo, in un sabato dell'autunno del 69, penetrava nel Tempio, e violava la soglia del Santo dei Santi. Seguendo i consueti criteri politici di Roma in levante, che mirava a stabilire utili sostegni sulle comunità urbane di tipo greco, Pompeo affrancò dalla supremazia giudaica le città costiere da Rafia a sud, a Dera a nord, come tutti i centri non giudaici della Perea, oltre Scitopoli e Samaria, conglobate nella giurisdizione del Governatore della nuova provincia di Siria. La porzione strettamente giudaica del regno costituito a prezzo di tanto sangue dai figli di Matatia, fu lasciata a Giovanni Ircano, riconosciuto come sommo sacerdote, ma spogliato di ogni potere regale. Tutto il paese fu sottoposto a tributi. Ma poiché l'umiliante riduzione di poteri non riuscí ad estinguere la gelosia, l'emulazione e i rancori tra i figli degeneri della regina Alessandra, Gabinio spogliava definitivamente, nel 57 a. C., Ircano di tutti i suoi poteri civili e ripartiva il territorio in cinque distretti indipendenti, amministrati da altrettanti collegi oligarchici. Le guerre civili di Roma si ripercossero sensibilmente sull'atteggiamento dei partiti in Oriente. Cesare tentò in un primo momento di avvalersi degli emuli domestici di Ircano, per combattere il superstite partito di Pompeo in Siria. Ma gliene vennero meno gli strumenti e poiché l'idumeo Antipatro, già governatore dell'Idumea per delegazione di Ircano, si era battuto valorosamente a Pelusio per la sua causa, lo costituí procuratore di Ircano stesso, al quale restituí il potere etnarcale sui giudei, di cui Gabinio lo aveva spogliato. Il provvedimento fu di una raffinata accortezza. Ponendo ai fianchi di Ircano il sagace ed ambizioso idumeo, che era stato in passato suo gagliardo fautore nella lotta domestica con Aristobulo, Cesare poté pensare che i vecchi vincoli di leale amicizia fra i due si sarebbero infranti: una loro possibile gelosia avrebbe un giorno favorito lo spodestamento della popolare dinastia maccabaica e una successione idumea avrebbe potuto rendere quando che fosse piú facile e piú sicuro il dominio di Roma sulla razza d'Israele. La terra di Edom era stata soggiogata da Giovanni Ircano solo nel 128 avanti Cristo e costretta ad abbracciare il giudaismo: la conversione recente era ricordata con dispregiativo sussiego dagli israeliti puri, che non potevano concedere agli idumei altro appellativo che quello di «semigiudei». Ma Cesare non doveva raccogliere i frutti del suo calcolo consumato. Dopo le tragiche idi di marzo del 44, Cassio Longino, contro la volontà del Senato, si trasferiva in Siria, da lui reclamata come propria provincia. Antipatro aveva in antecedenza nominato i suoi due figli, Fasael ed Erode, strateghi, rispettivamente, della regione gerosolimitana e della Galilea. Gli scaltri idumei non diedero prova di eccessiva gratitudine al creatore della loro fortuna, Cesare, e si rivolsero, senza scrupoli, al nuovo astro sorgente. Cassio li ebbe ministri docili e spietati nel riscuotere i balzelli e le taglie straordinarie, imposti per rifornire la cassa di guerra repubblicana, e ne li ricompensò, creando il trentenne Erode governatore della Celesiria. La disfatta di Bruto e Cassio a Filippi induceva gli astuti idumei ad un nuovo cinico voltafaccia. Antonio non volle pesare per il sottile la sincerità dei loro sentimenti; e, fiducioso nelle loro capacità amministrative, nominava, cosí Fasael come Erode, tetrarchi. Ma le vecchie rivalità asmonee congiuravano nell'ombra. Antigono, il figlio di Aristobulo, il vecchio emulo di Ircano, era riuscito ad attrarre dalla sua parte le simpatie parsiche, – il che lo metteva decisamente fra i nemici di Roma – e penetrando col soccorso dei nuovi alleati in Palestina, riusciva a catturare lo zio imbelle e Fasael. Erode, lungimirante, prendeva la via di Roma: e a Roma il Senato lo proclamava re della Giudea. Un triennio circa fu necessario perché questa regalità nominale potesse tradursi in atto. Ma alla fine di questo movimentato periodo bellico, Erode poteva raggiungere il sogno della sua giovinezza, entrando sovrano a Gerusalemme, inducendo Antonio a decapitare lo sfortunato Antigono – il primo re che Roma affidasse al boia – illudendosi di acquistare un titolo di legittimità con lo sposare Marianne, nipote di Ircano II. Il trentatreenne (37- 4 a. C.) regno di Erode (che è passato nella storia col nome di grande) potrebbe essere assunto a prova apodittica della incompatibilità assoluta e radicale che sussiste fra la politica realistica e la morale, della legge in virtú di cui il successo politico è in ragione inversa delle preoccupazioni etiche che si portano nel raggiungerlo. L'astuto idumeo, pur sotto il vassallaggio di Roma, riuscí a portare le frontiere del suo regno oltre i limiti sognati nei periodi piú brillanti della storia di Israele. Nonostante la sorda opposizione alleata cosí dei superstiti partigiani degli Asmonei; come dei Farisei, sognanti il ripristino di un autentico regno di David; nonostante l'avversione invida di Cleopatra, onnipotente nell'animo di Antonio; nonostante la difficoltà di reggersi sotto l'occhio sospettoso di Roma, in quel periodo vulcanico che precedette la costituzione dell'Impero; Erode riuscí a rafforzare progressivamente la compagine del suo Stato e a portarlo a quella sicurezza militare e a quella floridezza artistica, che ebbe la sua espressione culminante nei grandiosi restauri del Tempio. Ma di quali lacrime e di quale sangue dové grondare tale floridezza! Erode era appena entrato a Gerusalemme, re investito da Roma, che l'eccidio di quarantacinque fra i piú eminenti membri del Sinedrio, rei di aver parteggiato per il disgraziato rampollo degli Asmonei, dava un'idea adeguata dei suoi metodi di governo. Due anni dopo, l'assassinio del sommo sacerdote Aristobulo nei bagni di Gerico rivelava quanto tenaci fossero gli odî e i timori del figlio di Antipatro. Le continue metamorfosi politiche, secondo l'oscillare delle fortune dei successivi dittatori di Roma, mostrarono di quanto cinica versatilità fosse capace lo spirito dell'ambizioso sovrano. Infine le inaudite tragedie domestiche, onde furono funestati gli estremi anni del re, che aveva sognato la riconciliazione di Israele, vincolando una moglie asmonea alla sua famiglia di feroci Idumei, sembrarono dover imprimere un suggello di sangue su una carriera politica, brillantissima dal punto di vista materiale, oscenamente ripugnante dal punto di vista etico. Nessuna casa regale, ha potuto sentenziare il Mommsen, ha mai visto, nei secoli della storia, piú raccapricciante infuriare di odî cruenti fra consanguinei, della triste casa di Erode. Sul suo letto di morte il settantenne sovrano, cui Augusto aveva concesso, derogando alla regola che limitava le capacità testamentarie dei reges socii, di disporre dei suoi territori come volesse, cambiava, nel 4 a. C., per la terza volta le sue disposizioni (egli aveva larga possibilità di disposizione fra i figli delle sue dieci mogli!), assegnando ad Archelao la Giudea col titolo di re; ad Erode Antipa la Galilea e la Perea, con quello di tetrarca; a Filippo i distretti a nord-est lungo la sponda orientale del mare di Galilea, pure col titolo di tetrarca. Se il governo di quest'ultimo sulle regioni piú povere del vasto regno erodiano è celebrato da Giuseppe Flavio come un regime di moderazione e di mitezza, difforme da tutte le tradizioni della casa, Antipa ed Archelao riproducono i metodi di governo del padre, del quale però non posseggono l'accortezza rapida e la malleabilità disinvolta. Archelao in particolare, freddo e grossolano, sordo alle esigenze religiose piú elementari dei sudditi, manomettendo senza scrupolo e per i piú futili pretesti la piú alta dignità sacerdotale, giunse in breve ad irritare talmente l'animo corrucciato dei migliori ceti della Giudea e della Samaria, che il loro sdegno ritenne preferibile un diretto intervento imperiale, al tirannico capriccio del despota. Roma colse l'occasione a volo e, confinato Archelao a Vienna, eresse il suo territorio a provincia, direttamente amministrata da un procuratore dell'Ordine Equestre, sotto l'alta sorveglianza del legato imperiale di Siria. Rare volte nella turbinosa storia d'Israele la coscienza intransigente del fedele di Jahvè aveva avuto piú ragionevole motivo di rattristarsi in cuore, nella consapevolezza della propria impotenza. Le pietre del Tempio rinnovato potevano risplendere al sole, in una grandiosità e in una imponenza ignota alla originaria costruzione salomonica: ma all'ombra di quell'edificio sacro, un potere straniero, complice di una piú lontana e piú insidiosa tirannia, era venuto a tendere una lusinga peccaminosa. Come lontano appariva ormai, nelle nebbie del sogno e del rimpianto, quel luminoso regno davidico, in cui cosí equilibrata economia di poteri avevano trovato la religiosità e la politica d'Israele! La stessa teocrazia maccabaica poteva sembrare ormai allo scrupoloso ed esigente fariseo un ideale vagheggiabile. Si era ormai scesi cosí in basso, che le anime timorate dei credenti potevano valutare meno infausta politica quella che al fosco dominio di mezzi giudei, increduli nell'anima, venduti allo straniero, pronti alla repressione e alla vendetta, preferiva lo stesso governo straniero, il quale non avrebbe celato i suoi autentici connotati, e con lo spiegamento delle sue aperte volontà di dominio avrebbe potuto suscitare una salutare reazione, simile a quella che aveva portato alla riscossa i contemporanei di Matatia e dei suoi cinque figli!
Ma quando, appunto, tutta la violenza malefica di cui è capace un'organizzazione statale, sul cui fondamentale egoismo non esercitino la loro virtú di freno e di correttivo la visione degli inviolabili diritti della coscienza e la fede dell'Infinito, affiori e straripi nello svolgimento di una vita associata; quando l'intreccio dei fatti storici dia la sensazione esasperante della impossibilità di opporre un limite alla perversità di un potere, giunto in pari tempo al massimo grado della sua degenerazione e della sua forza bruta; gli spiriti acquistano, improvvisa, la consapevolezza di una sanzione ultraterrena e, affrancandosi dal fosco fascino degli interessi e della materialità su cui s'innalzano le gerarchie politiche, intuiscono l'incommensurabile virtú etica e sociale della rinuncia e concretizzano, d'istinto, il loro anelito di liberazione, nella fede del soprannaturale, che sa abbattere e rinnovare con armi ignote alla perfidia e all'inganno delle potestà umane. Lo sconcio regime di sopraffazione e di scetticismo onde era impastata la grandezza degli erodiani riattizzò, di sotto la cenere secolare, la fiamma purificatrice del profetismo. Il passaggio della Giudea dal potere intollerabile di Archelao al governo diretto di Roma e dei suoi legati e dei suoi procuratori, fece improvvisamente sentire, attraverso le consuete procedure fiscali, il servaggio in cui era miseramente precipitato il popolo dell'elezione e della promessa. Un nuovo partito di zeloti, organizzato da Giuda di Gamala in Galilea, cercò di tradurre in un programma pratico e di resistenza armata le vecchie speranze messianiche di Israele e la pietà gelosa ed intransigente dei Farisei. Ma invano. Non basta la bontà della causa ad assicurare il successo contro la forza. Non si può debellare il male con le sue armi e i suoi metodi. Per aver ragione della violenza bruta e della sopraffazione armata, occorre contrapporre loro il fascino della rinuncia consapevole e della speranza inerme.
Erode Antipa, la «volpe» infida e maldestra, si godeva da pochi mesi nella sua nuova e sfarzosa capitale, Tiberiade, l'amore incestuoso di Erodiade, l'ex-moglie di un suo fratellastro, quando per la prima volta si fé sentire sulle rive orientali del Giordano, nel territorio della Perea, la voce aspra e minacciosa di uno strano predicatore di ascesi, di penitenza e di castigo. Si chiamava Giovanni, e poiché a simbolo della palingenesi interiore che egli chiedeva alle turbe accorrenti al suo monito egli aveva adottato l'abluzione nelle acque del Giordano, che i dottori della legge ufficiale giudicavano dal canto loro non sufficientemente pura per essere usata nel rito, gli era stato dato il soprannome di battezzatore. La sua foggia di esistenza era dura ed eccentrica: le parole delle sue invettive erano fiere e flagellanti. «Figli di vipere – gridava agli ascoltatori esterrefatti, piegati il capo sotto la sua impressionante rampogna – chi vi ha dato a credere di poter sfuggire all'ira imminente? Fate piú tosto opere che rivelino i vostri sentimenti di compunzione e di dolore, e non vi lusingate della vostra qualità di rampolli di Abramo. Poiché, vi dico il vero: il Signore onnipotente può suscitar da ogni pietra un figlio di Abramo». La strana predicazione aveva avuto i suoi inizî nel deserto di Giudea, ad ovest del Mar Morto, sui confini della pianura di Gerico. Poi aveva traghettato il fiume e si era acclimata nel territorio di Antipa. Il Tetrarca ne fu, ben presto, preoccupato. Levò il Battista la sua implacabile campagna contro il re adultero ed incestuoso? Può darsi. Ma se anche allusioni personali non lo colpirono sul vivo, non era davvero nel dominio di un figlio di Erode che potevano rinnovarsi, impunemente, ai tempi di Tiberio, i fasti della predicazione profetica. Antipa si affrettò a chiudere il predicatore molesto nella fortezza di Machero, ripromettendosi di sopprimere la voce sgradevole alla prima occasione.
Ma la voce della rampogna e dell'ammonimento religioso non cessò di risuonare per questo: essa fu ripresa improvvisamente da un oscuro partigiano della Galilea ed innalzata ad un cosí eccelso tono di nobiltà e di purezza, che dopo venti secoli quella voce suscita ancora fremiti e speranze nello spirito di seicento milioni di credenti.
Era sceso un giorno anch'egli, trentenne, nel Giordano, con gli altri penitenti trascinati dalla parola del Battista. Proveniva da un piccolo villaggio della Galilea, la terra delle fiorite primavere e dei luminosi sogni apocalittici: si chiamava Gesù. Compiuto il rito, che doveva simboleggiare la profonda e radicale trasformazione interiore, si era raccolto nella solitudine, ad attendere l'ora sua. Il ministero profetico iniziato da Giovanni non doveva essere che il periodo della preparazione al suo messaggio. La cattura del profeta mostrò che l'ora era scoccata. Gesù ne riprese, ardimentoso, l'azione, nella regione nord-orientale della Galilea.
Ma di primo acchito si poterono segnalare le differenze che contrassegnavano, pur sui motivi comuni, la predicazione del nuovo venuto e i metodi della sua propaganda. Tali differenze non tardarono ad essere segnalate dai suoi avversari, pronti a farsene un'arma contro di Lui, essi che neppure alla predicazione del Battista avevano prestato alcun docile ascolto. Gesù doveva colpire spietatamente il fondo ambiguo della loro anima recalcitrante. «A chi mai – è registrato in un suo loghion passato nei Vangeli di Luca e di Matteo – potrò rassomigliare gli uomini della mia generazione? Ecco: li rassomiglierò a dei gruppi di fanciulli che siedono in piazza e si rimproverano a vicenda. Gli uni dicono agli altri: – Volevamo fare un giuoco allegro e vi suonammo i flauti: voi non ballaste. Ci voltammo allora ad un giuoco triste, e cominciammo a lamentarci: ma voi non piangeste con noi. – In verità, apparve in mezzo a voi Giovanni il battezzatore, che si asteneva dal mangiar pane e dal bere vino, e voi vi siete bisbigliati a vicenda: – È un indemoniato. – È apparso il Figliuolo dell'Uomo, che mangia e beve, e voi dite: – Ecco un individuo mangione e beone, amico di riscuotitori di gabelle e di peccatori. – Ma ecco: la sapienza sa farsi rendere giustizia da tutti i suoi genuini figli» (Lc. XII, 31-35; cfr. Mt. XI, 16-19).
Cosí un divario netto e reciso appariva fra i metodi della propaganda e della pedagogia religiosa del Battista e quelli del nuovo predicatore galileo. Questi non raccomandava la metamorfosi interiore, in cui faceva consistere la conversione interna e il passaggio alla sua sequela (metànoia), ad un insieme di pratiche e di consuetudini esteriori, ispirate e alimentate dal proposito di sottrarsi scrupolosamente alla vita sociale e ai suoi contatti contaminatori: bensí la collocava in una zona cosí profonda dell'anima convertita, da renderla inattaccabile e irraggiungibile, pur attraverso la piú larga partecipazione all'esistenza associata dei fratelli. Gesù bandiva anch'egli l'onere del rinnegamento e della rinuncia: ma non ne additava la realizzazione adeguata nel materiale allontanamento dal mondo, bensí unicamente nell'indifferenza completa dello spirito alle fluttuanti, instabili, insignificanti condizioni esteriori. Qui veramente la singolare e paradossale originalità della predicazione sua, la quale non costituiva una precettistica ascetica, una dura disciplina educante alla soppressione dei desideri innati dell'uomo; ma imponeva il trasferimento delle valutazioni etiche e delle aspirazioni spirituali, dalla sfera in cui le colloca la convenzionalità sociale, in quella della pura interiorità e dell'ideale Regno di Dio.
La tavola di fondazione del movimento religioso che Gesù veniva cosí a suscitare con la sua parola è costituita dalla brevissima enunciazione delle beatitudini, di cui il Vangelo di Luca ha conservato probabilmente il testo primitivo: «Beati voi, pezzenti, perché vostro è il regno dei Cieli; beati voi, ora affamati, ché sarete satollati; beati voi che ora piangete, che verrà dí in cui riderete; beati voi quando gli uomini vi portino odio, e vi scaccino, e vi tormentino e gettino l'ostracismo contro il vostro nome, a causa del Figlio dell'Uomo. Io vi dico: trasalitene di gioia, ché grande è il vostro guiderdone in cielo. Sorte non diversa toccò ai profeti».
Come il Battista, Gesù chiama alla riscossa gli umili e i diseredati e parla di liberazione dalle pene della vita e della miseria. Ma la forza che egli invoca a strumento di liberazione, è il bene sereno e disinteressato, e la gioia ch'egli promette, è la gioia luminosa del Padre.
Se il cristianesimo ha dato alla civiltà mediterranea un patrimonio di esperienze e di valori, di cui venti secoli di storia sembrano non aver ancora spiegato fino all'esaurimento le intime risorse, la ragione ne va cercata nella ricchezza del suo contenuto specifico. Il quale consiste in una etica e in una antropologia originali, rette da una sicura fede nel Padre celeste, avvivate da una calda coscienza soteriologica, e sboccanti in una escatologia ottimistica. I tre connotati del «numinoso» – il tremendo, il portento, il fascino – accompagnano in maniera eccezionale l'annuncio evangelico. Per questo esso offre all'infinita reviviscenza della sinfonia religiosa nella storia, i temi centrali, onde si compone, di cui si intesse e in cui si perpetua l'esperienza del «sacro».
A) Il tratto singolare della morale cristiana è nella stessa complessità e nell'immanente contrasto dei suoi elementi. Essa è infatti superlativamente eteronoma e proprio per questo squisitamente autonoma. Nasce e si esplica nella atmosfera dei doni soprannaturali e, proprio in virtú di questa connotazione carismatica, implica la valorizzazione piú elevata della libertà umana; presuppone una sanzione e postula un premio, pure esaltando la gratuita gioia nel bene; travalica e annulla potenzialmente ogni legge, per sollevare chi la pratichi alla sicura vita dello spirito, sebbene racchiuda in germe la giustificazione di ogni legge, suggerita dalle esigenze mutevoli della edificazione fraterna; reintegra la natura, elevandola però al miraggio soprannaturale del Regno; moltiplica fino alle estreme possibilità la virtú dell'individuo, trasformandola, centuplicata, nella simbiosi della esperienza associata.
Come ogni etica genuinamente religiosa, quella del Vangelo è, in maniera nettissima, eteronoma: parte cioè dal presupposto che la legge assoluta del bene nasca da Dio e solo da Dio venga consegnata agli uomini. Anzi, l'eteronomia della legge morale, che è postulata da ogni giustificazione religiosa del precetto della bontà e del sacrificio, è accolta e sanzionata dal Vangelo in tutte le sue applicazioni.
Gesù dice che colui il quale pone la sua anima allo sbaraglio e la dissipa nella piena dedizione di sé ai fratelli, quegli solo la ritrova integra e la conquista per l'eternità. L'uomo è dunque incapace di trovare in sé la norma del suo retto operare. È Dio che gli rivela la via della sua perfetta realizzazione: e questa via è segnata nel rinnegamento delle sue velleità egoistiche, nella disseminazione di tutti i suoi tesori, per il vantaggio dei fratelli. L'atteggiamento personale da cui, come da fonte, scaturisce la vera moralità delle nostre azioni, non è già quello di una subordinazione e di una uniformità esteriori a precetti formulati da poteri che siano come il concretarsi sensibile della eticità di cui è funzionalmente ricca la vita associata, bensí quello della spontanea e consapevole uniformità ad un potere trascendente che, impartendoci il monito, ci conferisce la capacità di eseguirlo. La morale del Vangelo poggia tutta sul volonteroso riconoscimento di una provvidenza paterna di Dio, affidandoci alla quale noi ci trasfiguriamo nel bene e diveniamo cooperatori suoi nell'elevazione degli uomini, verso il dominio della verità e della giustizia.
Appare pertanto teoricamente e praticamente impossibile scindere nella predicazione neotestamentaria l'elemento etico da quello religioso. La norma del bene è designata nel comportamento del Padre di fronte allo sviluppo della vita cosmica: «Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli». Orbene: il Padre sparge, con signorile generosità, il dono della sua pioggia e del suo sole su tutti indistintamente gli uomini, non guardando in viso i connotati di nessuno. La vita morale pertanto, alla luce del Vangelo, è quella che si impregna e pratica i suggerimenti offerti da una visione fortemente religiosa dell'universo. Perché tutto il mondo è sorvegliato dall'assistenza longanime del Padre, tutto nell'uomo deve essere subordinato alla ricerca del Regno suo nella giustizia. Il rimanente verrà da sé.
Eminentemente religiosa, vale a dire mistica e trascendentistica, la morale evangelica è pure perfettamente umana. Essa solo infatti presenta una mèta ed uno sbocco adeguati allo spirito ragionevole che, sotto lo stimolo di una spontaneità naturale, si protende verso l'irraggiungibile accaparramento dell'universo nella sua avidità di possesso, e che, nella delusione delle sue volontà, corre rischio di smarrire il senso profondo della sua reale destinazione, nello spiegamento universale del bene. Tale morale raggiunge l'intento, colmando e placando le esigenze destate nello spirito dalla stessa economia immanente della vita associata: piegandolo cioè al servizio fraterno, nel quale sono la sua vera pace e la sua completa gioia.
La morale cristiana, chiedendo cosí il pregiudiziale rinnegamento di ogni istinto egoistico, appare come una morale funzionalmente eroica, in quanto esige da chi la voglia praticare l'interiore abbandono di sé, la integrale rinuncia ad ogni affermazione della propria volontà di conquista, l'assoluta abnegazione per la letizia dei fratelli, la trasfigurazione del proprio io, la celebrazione dei valori antitetici a quelli esaltati dalle comuni e materiali forme dell'esistenza. Poiché appunto, se il mondo è l'espansione sfrenata degli istinti bassi ed egoistici degli uomini, strettisi in solidarietà per il soddisfacimento dei loro interessi sensibili, il cristiano saprà in anticipo che alla sua professione non potrà tener fede, senza affrontare, sempre e dovunque, l'ostilità ed il rancore.
Questa etica è costantemente fiancheggiata, nella predicazione neotestamentaria, dalla garanzia del premio immancabile. Ma simile circostanza non le imprime una connotazione di eudemonistica inferiorità. Chi lo affermasse cadrebbe in un abbaglio analogo a quello di chi parlasse a cuor leggero di esteriorità dell'etica evangelica, poiché questa fa risalire a Dio l'impostazione della legge del bene. Il Padre che nella predicazione di Gesù viene additato alla imitazione della coscienza credente è un altro di natura, fatto se stesso nella solidarietà dell'amore, della bontà, della Grazia. Lungi dall'annullare l'autonomia dello spirito nella posizione dell'atto etico, questa presenza del Padre mediante il suo volere e la sua pedagogia nella elaborazione del mondo della soggettività operante, la esalta e la corrobora. Con una precisa rispondenza alla realtà, il quarto evangelista ha potuto attribuire al Cristo le parole: «la verità (naturalmente la "mia" verità) vi farà liberi» (VIII, 32) sostituendo il vocabolo verità là dove l'aforisma rabbinico registrava la Torah, e additando cosí la novità riscattatrice del nuovo messaggio. Analogamente, la visione sempre presente del Regno, verso cui va l'ansia del credente, nulla sottrae al valore intimo ed immacolato della pratica buona, poiché la sovranità assoluta del Padre, di cui si attende la manifestazione gloriosa, sebbene attuata mercè una serie di prodigi, costituirà lo spiegamento completo di una possibilità, che è già in qualche modo in movimento. L'azione morale compiuta nella attesa purificatrice ed elevatrice, è già una anticipazione della meta, ed i frutti dello spirito che affiorano e maturano nelle opere della carità, sono già di per sé un'arra del futuro trionfo. Le virtú che conducono al Regno sono pertanto, in maniera misteriosa, il Regno stesso. Può già darsi anzi che in questa ineffabile identificazione della speranza e della bontà operosa sia la spiegazione piú acconcia di un enigmatico inciso neotestamentario: «il Regno di Dio è in mezzo a voi».
L'anima di colui il quale crede nella realizzazione di questo miraggio sembra acquistare nuovi poteri di edificazione e di miglioramento fraterni. Nella sua nuova individualità spirituale è trasfigurata la sua natura, sí da divenire strumento di disseminazione del bene nel mondo, copia fedele del paterno esemplare.
Cosí la visione del bene che il Padre diffonde nel mondo, la discoperta cioè della sua generosa perfezione, è il principio interiore della capacità carismatica di imitarne la virtú e di passare fra gli uomini nell'attitudine della fiducia ilare, del perdono pronto, della beneficenza inesausta. Quanto piú vivo è il senso della provvidente presenza di Dio nel mondo, altrettanto ricca e urgente è la fonte dell'operoso ben fare.
Riguardata pertanto nei suoi specifici elementi costitutivi, la morale del Nuovo Testamento appare come un'etica originalissima, che nulla ha a che vedere con i sistemi morali basati sulle indagini della pura dialettica. La sua scaturigine è nella rivelazione della divina bontà, offerta come modello tendenziale alle energie dello spirito umano. Perché questo ideale costituisce, con la graduatoria dei valori che esso mira automaticamente ad instaurare fra gli uomini, la negazione piú rude delle loro naturali consuetudini e delle loro innate tendenze, l'attuarlo non rientra nel novero delle possibilità naturali, individuali o collettive. Solamente la consapevolezza di un efficace riscatto, soprannaturalmente conseguito, dagli istinti dell'egoismo che pullulano nel nostro essere, è capace di creare nell'uomo una personalità spirituale, cittadina di una carismatica città, le cui azioni sono le opere della bontà e del sacrificio. L'etica del Vangelo ha mirabilmente innestato le leggi capaci di presiedere perfettamente all'economia della vita associata, su quelle che possono illuminare i rapporti dello spirito individuale con Dio.
B) Quando nel discorso del monte Gesù vuole riassumere in un elementare aforisma il contenuto originale del suo messaggio ai discepoli, addita, come idea limite e come modello ultimo alla aspirazione dell'umana condotta, la perfezione del Padre. La perfezione etica è adeguatamente espressa dall'appellativo di paterno attribuito a Dio. Gli uomini debbono aspirare a svolgere integralmente le capacità di bene che recano potenzialmente nella propria viva coscienza, ricopiando in sé le attitudini longanimi e generose che la divina paternità spiega nella economia dell'universo. Essi anzi scopriranno tanto piú da presso la specifica natura di Dio, Padre, quanto piú concretamente si costituiranno paterni, vale a dire longanimi e generosi distributori di bene.
L'autore dell'Ecclesiaste aveva ammonito (V, 2): «Non essere precipitoso nel parlare, e il tuo cuore non si affretti a proferir motto al cospetto di Dio: poiché Dio è in cielo e tu sei sulla terra». Nella trasmissione del suo patrimonio religioso, Israele aveva scrupolosamente evitato di diminuire l'abisso che separa il Creatore dalla creatura, con raffigurazioni improprie e con denominazioni irriverenti. Un senso di trepidazione e di sgomento accompagna ogni suo tentativo di dare nome a Dio. Il cielo accompagna invariabilmente, nella sua fantasia, la immagine dell'Altissimo, come la zona piú acconcia a premunirla da ogni contaminante interferenza con il mondo perituro della realtà sensibile e materiale. Il progresso della speculazione teologica nel giudaismo sembra aver avuto una sua espressione saliente nel rinvenimento e nella divulgazione di appellativi sempre piú efficaci, per designare la realtà sovrana di Dio senza offuscare l'ineffabile purezza della sua maestà e senza ledere l'inviolabile inaccessibilità della sua trascendenza. In qual maniera l'appellativo di Padre si inserisce fra gli altri?
«Tu annuncerai a Faraone: – Cosí dice Jahvè: Israele è il mio figliuolo, affinché mi serva: e se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò il tuo figliuolo, il tuo primogenito –». Queste parole dell'Esodo (IV, 22) rappresentano la piú antica testimonianza della consapevolezza di un collegamento di paternità e di figliuolanza tra Dio e il suo popolo. In esse è nettamente espresso il carattere peculiare che contrassegna nel Vecchio Testamento la nozione della divina paternità. La quale coinvolge unicamente, o quanto meno in una maniera particolarissima, il popolo della elezione. Israele ha cosí immediata e cosí preponderante la certezza della sua filiale relazione con Jahvè, che non si pone né pur il problema della logica compatibilità di simile rapporto privilegiato, con il presupposto dell'universale efficienza e dominio del Creatore, e perde di vista il parallelo diritto alla figliuolanza di quanti hanno ricevuto l'essere da Lui. Israele riposa nella sicurezza di una assistenza provvida e lungimirante dall'alto, che non gli mancherà mai. Ad essa deve corrispondere nel popolo l'attitudine alla docilità e all'obbedienza, quale, in una famiglia, i figli mantengono verso il padre e il signore di casa.
I singoli membri della collettività israelitica partecipano personalmente agli oneri e ai privilegi di cosí eccezionale rapporto con Dio. Ma la partecipazione è legata direttamente all'affinità di sangue e alla connotazione etnica. «Figliuoli di Jahvè, del vostro Dio, voi siete! Non vi fate incisioni addosso, non vi radete la fronte per lutto di un morto: perché tu sei un popolo consacrato a Jahvè, al tuo Dio, e Jahvè ti ha scelto» (Deut. XIV, 1). La solidarietà fra l'individuo e la massa legata al medesimo ceppo è concepita cosí intima e viva scaturigine delle qualità e delle capacità religiose, che, si potrebbe dire, le relazioni dell'individuo con Dio si fanno piú intime e piú solenni in ragione del posto che l'individuo occupa nella esplicazione della attività associata. Onde colui il quale nella dignità reale assomma i poteri su Israele e in certo modo rappresenta il simbolo vivente dell'unità etnica e nazionale, realizza per eccellenza il rapporto filiale, nel quale il popolo è costituito al cospetto di Jahvè.
Quanto questo saldo collegamento di tutto il popolo e di tutta la razza nella consapevolezza di un privilegiato dono di assistenza divina fosse pragmaticamente normativa; quanto efficace sanzione esso rappresentasse per i doveri pratici dei membri della comunità, nella esplicazione della vita associata, traspare da un passo di Malachia: «Non esiste un solo e medesimo Padre per noi tutti? Non è forse il medesimo Padre che ci ha creato? Perché dunque noi siamo perfidi l'uno contro l'altro, sí da profanare il patto dei nostri padri? Giuda è perfido e l'abbominio si perpetua in Israele, a Gerusalemme: perché Giuda profana la casa sacra a Jahvè».
Onde si comprende come lo sviluppo della spiritualità religiosa in seno ad Israele dovesse portare ad un approfondimento parallelo del vincolo filiale della coscienza nazionale con Dio, da una parte, e dei doveri di pietà e di bontà che esso implicava, dall'altra. La letteratura apocrifa e pseudo-epigrafa, specialmente, conserva la traccia di questo processo di chiarificazione e di affinamento, in virtú del quale la personalità individuale emerge dalla indistinzione della vita collettiva ed acquista la fisionomia circoscritta di una coscienza responsabile, che si innalza direttamente al senso del divino mercè la propria purificazione e l'operosa ascensione nel bene. Il Siracide è ancora testimone della concezione tradizionale quando, invocato il soccorso di Jahvè per il popolo, lo interpella: «Abbi pietà tu del popolo che è stato chiamato col tuo nome, Israele, che tu hai nominato Primogenito!» (XXXVI, 17). Ma nel medesimo tempo tradisce l'elaborazione etica e concettuale che induce, in vista di una piú intima disciplina collettiva, a dare piú pronunciato rilievo alla virtú personale, nella conquista del favore e della assistenza paterna del cielo. Egli prega pertanto, a nome del giusto: «O Signore, Padre e Dio della mia vita, non mi abbandonare al loro consiglio... Allontana la concupiscenza da me» (XXIII, 4-5). E nell'appendice: «Sí, io gridai: – O Jahvè, mio Padre sei tu, poiché tu sei l'eroe della mia salvezza; non mi dimenticare nel dí dell'angoscia, della sventura e della desolazione –» (LI, 10). L'autore del libro della Sapienza, se applica ancora ad Israele l'appellativo di figlio di Dio (XVIII, 13), celebra in pari tempo con particolare compiacenza la qualità filiale che Dio riscontra nel giusto (II, 13, 16, 18).
In quel vasto fermentare della coscienza religiosa giudaica dall'epoca degli Asmonei in poi, di cui la letteratura pseudepigrafa, a base apocalittica, fu la tipica espressione, nel pullulare delle visioni auspicanti la reviviscenza politica nazionale, il rapporto di paternità e di figliuolanza fra Jahvè ed Israele fu rivendicato con particolare calore. Il libro dei Giubilei schematizza cosí la traiettoria storica del popolo eletto: «Le loro anime aderiranno strettamente a me, si uniformeranno a tutti i miei comandi e i miei comandi torneranno ad essi. Ed io sarò per essi un Padre ed essi saranno miei figli. Ed essi saranno chiamati tutti figli del Dio vivente. Ed ogni angelo ed ogni spirito riconoscerà con sicurezza che questi sono miei figli, e che io sono loro Padre, in sincerità e in giustizia, e che io li amo» (I, 24 e ss.). L'Enoch etiopico immagina che, nel giudizio, i potenti oppressori di Israele, che è il figlio eletto di Dio, saranno consegnati, per la punizione, agli angeli del castigo (LXII, 14). E i salmi di Salomone auspicano il giorno in cui il Re, figlio di David, sognato e vagheggiato nell'abbiezione, riconoscerà come genuini figli del loro Dio gli Israeliti, incontaminati e pazienti nella fedeltà e nella speranza (XVII, 30).
Il giudaismo posteriore alla catastrofe del 70, sotto il peso della delusione e dello scoramento, sembrò abbandonare la insistenza esclusivistica sulla raffigurazione collettiva del vincolo filiale di Israele verso Jahvè, per assegnarle invece un valore prevalentemente individuale ed etico. La letteratura rabbinica parla costantemente del Padre celeste come della trasfigurazione religiosa del padre terrestre, verso il quale vanno l'assidua devozione e la compunta pietà del giusto. In essa la circonlocuzione «nostro Padre che è nei Cieli» figura come un surrogato popolare del tetragramma, caduto ormai in desuetudine. E sebbene l'esegesi targumica cercasse di evitare con ogni cura di usare l'appellativo di Padre, senza clausole limitative, a proposito di Dio, pure la preghiera giudaica ricorre ad esso senza esitazione. La quinta e la sesta petizione delle Diciotto preghiere si rivolgono direttamente a Dio, cosí: «Riportaci, Padre nostro, alla tua legge e tràici, nostro Re, presso al tuo servizio, e rinnòvaci in perfetto pentimento, alla tua presenza. Benedetto sei tu, o Signore, che ti compiaci della penitenza. Perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo peccato: perdonaci, nostro Re, perché siamo trasgressori. Pronto al perdono e alla remissione Tu sei. Benedetto tu, o Signore, misericordiosissimo, che copiosamente perdoni». Akiba, racconta l'Agadà, ottenne la pioggia con una semplice e breve preghiera, che cominciava: «Padre nostro e nostro Re».
Ma in questo processo di interiore spiritualizzazione, che la nozione della divina paternità subisce nell'insegnamento rabbinico, quanto ha potuto influire, oltre l'amarezza delle fatali traversie politiche, la rivale propaganda cristiana? È un problema, cotesto, di impossibile soluzione, dal quale però, probabilmente con eccessiva disinvoltura, prescindono coloro i quali credono di poter assottigliare l'originalità dell'esperienza neotestamentaria, mercè lo schieramento tutto formale di parallelismi rabbinici.
Gesù sembra a volte riconoscere una paternità divina, che coinvolge a modo di privilegio il popolo d'Israele. Alla cananea che gli chiede la guarigione della figlia, risponde che non è consentito di sottrarre il pane dovuto ai figli, per gettarlo in pasto ai cagnolini: di togliere cioè una grazia prodigiosa ad Israele, per elargirla ai gentili. Ma la risposta arguta della donna vince il presupposto esclusivista e Gesù opera, per lei, il suo secondo miracolo a distanza.
Il suo modo consueto di designare Dio non è all'apparenza diverso da quello cui era pervenuta l'elaborazione tradizionale della religiosità giudaica. L'inciso familiare ormai: «il Padre che è nei cieli», oppure: «il Padre celeste» ricorre non meno di venti volte nel Vangelo di Matteo. Ma l'analogia è del tutto esteriore e superficiale.
Circola per entro alla Concezione di Dio che ispira l'opera e la preghiera di Gesù e che egli inculca ai suoi fedeli, qualcosa di cosí intimo, di cosí personale, di cosí squisitamente nuovo, che si comprende perfettamente come dalla sua eccezionale esperienza del divino sia germinato un moto religioso di proporzioni cosí ampie e cosí pertinaci. Il suo riportarsi a Dio infatti non è il riferimento freddo ed esteriore della religiosità professionale, che o ripete le formule stereotipate della teologia canonizzata, o accompagna i suoi accenti con tutte le clausole untuose e precauzionali, le quali sogliano sulle labbra della pietà farisaica ostentare un ossequio e una devozione che sono sostanzialmente freddezza ed esteriorità. Dio è concepito invece ed invocato da Gesù come presente, quasi mescolato, immedesimato con l'azione buona e con la carità operosa. Nel discorso della montagna, Matteo, descrivendo Gesù in atto di impartire ai suoi discepoli il programma grandioso della sua palingenesi religiosa, riferisce per tre volte il suo accenno significativo al Padre universale, che partecipa come modello o come sanzione ad ogni pura e disinteressata attuazione di bene. La beneficenza deve essere segreta, perché il Padre la ricompensi (VI, 4); la preghiera non sarà mai una monotona e questuante poliloghia, perché il Padre di tutti sa, di tutti i suoi figli, i bisogni (VI, 8); il perdono reciproco tra fratelli è la condizione del perdono del Padre (VI, 15). Cosí la teodicea è generata e sorvegliata dall'etica. E la nozione del Padre si illumina e si corrobora nella pratica dell'amore scambievole. In questa intima saldatura delle concezioni religiose con la coscienza vivente della legge morale e dell'abnegazione operosa è la divina originalità del messaggio neotestamentario.
Tale originalità si ripercuote automaticamente nell'elementare «liturgia» cristiana, che in seno al primo nucleo di discepoli è tutta nella preghiera insegnata dal Signore. In questa preghiera l'invocazione a Dio non reca l'abbinamento del qualificativo di Padre con l'altro di Re, come nella preghiera ufficiale giudaica, ma reca il primo, che diviene l'unico appellativo capace di esprimere la limpida tenerezza di rapporti che la fiducia e l'abnegazione instaurano fra l'anima religiosa e il divino sussistente. L'anima, quando, scendendo nelle profondità della sua capacità buona, raggiunge questo senso della sua familiarità con Dio attraverso la propria esplicazione nell'amore, non ha piú alcun bisogno di specificare con una clausola limitativa – «nei cieli» – la natura della paternità invocata, ma si esprime automaticamente con l'invocazione candida del fanciullo che leva lo sguardo supplice e confidente verso colui dal quale ripete la sua vita: – Padre mio!
Questa riduzione della vitalità etica e religiosa ad una perenne consapevolezza della consanguineità dell'anima che, fiduciosa, opera il bene, con il Padre, generoso distributore di bontà e di pietà nell'universo, in cui è la peculiare caratteristica della teodicea e della morale neotestamentarie, rappresenta la misura a norma della quale è consentito valutare e graduare la partecipazione dell'individuo alla divina paternità. Nel discorso del monte, che Matteo fa pronunciare a Gesù quando questi vede che affluiscono le folle, ma additandolo circondato dai discepoli, quasi ad indicare i successivi gironi di seguaci che si vengono naturalmente a costituire fra gli ascoltatori del suo insegnamento, il Padre è menzionato come Quegli la bontà e la gloria del quale sono destinate a riflettersi e a trovare attuazione nell'opera misericordiosa dei fedeli, ed è descritto come l'unico principio «paterno» che l'uomo può e deve riconoscere, quando, cosciente della sua origine e della sua destinazione, si convinca che la sorgente della sua vera vita responsabile è nell'esempio salutare che il Padre celeste offre, attraverso lo spiegamento della sua onnipotente bontà. Gesù, traendo cosí i suoi discepoli ad una conoscenza intuitiva di quella alta propinquità col Padre, nella quale il credente è costituito dall'azione buona, li avvicina alla propria esperienza e li associa alla propria coscienza.
Non smarrisce Egli per questo o affievolisce la nozione costantemente presente dei suoi particolari rapporti col Padre: rapporti incomunicabili, che hanno la loro riprova nella stessa virtú dell'insegnamento, dell'opera miracolosa, del sacrificio reintegratore. Sotto lo stimolo di una tale perspicua nozione, Gesù si costituisce intermediario fra Dio e gli uomini, nello scoprimento della suprema volontà (Mt. VII, 21); garante e vindice della confessione dei suoi discepoli (Mt. X, 32 e ss.); creatore della nuova e spirituale comunità credente (Mt. XVI, 17).
C) Realizzatore perfetto della morale rovesciatrice del Regno; interprete eccellente della volontà salutifera del Padre, è Gesù.
L'autore dei presagi racchiusi nel libro di Daniele, rivestendo con immagini e inquadrando in ripartizioni cronologiche ugualmente derivanti dalla drammatica escatologia del parsismo, la sua passionale filosofia della storia, aveva, sotto l'oppressione dell'Epifane, preannunciato l'avvento dell'economia della mitezza e della bontà, dopo i regni infausti della violenza e della sopraffazione: «Io riguardai nelle visioni notturne, ed ecco, uno come un figlio di uomo venne sulle nubi del cielo, e si diresse verso l'anziano di giorni. E a lui furono consentiti dominio e gloria» (VII, 13 e ss.). Dovendo contrapporre il vagheggiato «regno dei santi» ai quattro successivi imperi pagani di Babilonia, di Media, di Persia e di Grecia – potenze militari ingorde e feroci – il Veggente era stato naturalmente indotto a sollevare, di contro alle quattro bestie simboliche, il profilo di un essere celeste, scendente sulle nubi in fattezze umane.
Poco meno di un secolo piú tardi, rivendicando i diritti dei giusti conculcati, contro le contaminazioni e le deviazioni del regno asmoneo, mal consigliato dai Sadducei, l'autore delle Parabole di Enoch, sotto l'azione riconoscibile delle immagini del vaticinio danielico, si spinge a descrivere le mansioni del Figlio dell'Uomo: «Farà levare i re e i potenti dai loro letti e i forti dai loro seggi: e infrangerà i freni dei forti, e spezzerà i denti dei peccatori» (XLVI). E centocinquanta anni piú tardi, fumanti ancora le rovine di Gerusalemme, l'apocalista del IV libro di Esdra immaginava infine, nella sua sesta visione, che un essere in figura umana avrebbe apportato, dal mare, la pace e il riscatto del trionfo messianico.
Questi pochi dati, saltuari e scheletrici, scaglionati su una distesa di tempo che va dall'oppressione di Antioco IV fin quasi alla vigilia della catastrofe giudaica sotto Adriano, ci permettono appena di intravvedere il fervore di aspettativa e di inquietudini, con cui la coscienza religiosa del morente Israele si era data a speculare sull'humanitas di colui che avrebbe apportato, in mezzo al dilagare della violenza e dell'ingiustizia, la realtà della pace e della gioia.
Nel nuovo Testamento la formula «Figlio dell'Uomo» domina sovrana. L'ultimo dei macarismi nel Vangelo di Luca è cosí riportato: «Beati voi, quando gli uomini vi odieranno, quando vi porranno al bando, vi copriranno di oltraggi, quando ripudieranno il vostro nome, a causa del Figlio dell'Uomo!» (VI, 22). Secondo il Terzo Vangelo, dunque, fin dalla enunciazione programmatica dei caposaldi morali del suo insegnamento, Gesù avrebbe adoperato, per indicare se stesso nella previsione dei rischi insiti alla sua sequela, l'inciso inconsueto ed enigmatico, che ritornerà poi, nel medesimo Vangelo, altre venticinque volte, in passi una terza parte dei quali è comune ad entrambi gli altri Sinottici, o all'uno o all'altro di essi.
Che Gesù adoperasse l'inciso aramaico corrispondente al greco Figlio dell'Uomo, appare oramai incontestabile. Si può dire che ne abbia offerto l'argomento palmare proprio l'impugnatore piú valido di questa certezza, quando ha ammesso che i primi fedeli di Gerusalemme, i quali pure parlavano aramaico, debbono aver già fatto distinzione fra l'ordinario bar-naša, il figlio dell'uomo equivalente genericamente ad uomo, e lo specifico, tecnico ed eccezionale bar-naša. Se una differenza di tono, di volontà, di efficienza, può essere stata introdotta e segnalata nell'uso dell'identico inciso da una comunità parlante aramaico, nulla vieta di pensare che una possibilità di diversa connotazione si riscontrasse antecedentemente già nell'uso di esso e che Gesù se ne sia avvalso per designare il proprio destino e la propria natura, in maniera leggermente ambigua ma per la sua stessa indeterminatezza meglio adeguata alla complessa e misteriosa vastità del suo messaggio e della sua missione. La concezione umanitaria che aveva suggerito l'immagine del veggente, e che nel giro di frase semitico trovava una sfumatura di significazione perduta nelle versioni (ragione non ultima della scomparsa del titolo dalla terminologia cristologica), anima a propria volta la delineazione che Gesù traccia, dagli inizi, del suo programma e dei suoi ideali. La sua predicazione e la sua visione del Regno traboccano di spirito pacifico e di volontà di perdono. Attendersi da Dio altra cosa che il trionfo prodigioso e la rivendicazione riparatrice dei miserabili e dei diseredati, significa tradire l'eredità piú gelosa della speranza profetica. Immaginare che il veniente Regno possa essere un'angusta reintegrazione politica nazionale, equivale a supporre che Dio si manifesti per le medesime vie, che sono duramente battute dalle uniformi competizioni dei poteri terreni. Ridurre le proporzioni e l'àmbito del prossimo evento grandioso ad un ripristinamento di effimere glorie umane e ad una rivendicazione realistica di autonomie civili, vale contravvenire in pieno alla consegna precisa della tradizione sacra di Israele. Il Regno è il regno dei giusti e dei santi: e, a norma del vaticinio danielico, colui il quale ne ha scoperto il contenuto genuino, e ai giusti e ai santi, che sono i reietti e i perseguitati, ha riservato l'eredità della vittoria non lontana, è «un figlio di uomo» col quale si inaugura l'economia della bontà e della giustizia, dopo le rapaci dinastie animalesche della sopraffazione e della violenza.
Nel momento in cui, bandendo il programma rovesciatore delle sue beatitudini, Gesù dischiudeva la via all'avvento dei poveri e dei semplici, egli poteva non avere umanamente chiaro il senso di quel che importava il suo còmpito e dell'amarezza cui avrebbe condotto la sua opera quotidiana. Il contenuto etico e sociale, cosí squisitamente umanitario, del suo messaggio, poneva automaticamente questo in rapporto con la prospettiva luminosa di Daniele. Gesù poteva a buon diritto assumere per sé il qualificativo che il veggente aveva applicato a chi del Regno di Dio e della sua giustizia avrebbe segnato l'albeggiare. Gli eventi si sarebbero incaricati essi, sotto la vigile tutela del Padre, di dare ai particolari del vaticinio la realizzazione piú conveniente. E attraverso gli sviluppi della sua propaganda si sarebbero chiariti i valori e le postulazioni che il messaggio della bontà e della pace racchiudeva in se stesso. Sulla possibile chiarificazione di queste implicite ripercussioni si sarebbe esercitato il suo ministero e si sarebbe adagio adagio definita la fede dei discepoli.
Frattanto Gesù, dominato dalla convinzione che l'annuncio della beatitudine, retaggio esclusivo di pezzenti e di affamati, inaugura effettivamente «la grandezza dei segni» riservata al «popolo dei santi dell'Altissimo», si accinge ad esercitare, con serena naturalezza, le mansioni eccezionali che convengono al suo ministero umanitario. Guarisce cosí i malanni del corpo e risana le immonde deformità dello spirito. Proclama la subordinazione di tutte le leggi positive, comprese quelle della disciplina religiosa, alla potestà che compete al banditore della vera giustizia nella pietà e nella esaltazione degli umili. L'esplicazione del ministero pone allo scoperto le difficoltà e gli ostacoli su cui si imbatte la predicazione della misericordia e del perdono. Gesù ne sente il contraccolpo. Scopre e denuncia la voce della malignità. La rigida predicazione di penitenza e l'austera consegna della sua ascesi avevano fatto mormorare del battezzatore che fosse indemoniato. Il sorriso abituale di Gesù, la sua familiare conversazione con i rifiuti della società ufficiale, la libera dimestichezza con tutti, le forme sciolte e franche della sua vita quotidiana, fan dire di Lui che è, egli il Figlio dell'Uomo, un beone e un crapulone, amico di publicani e di peccatori. Per affrontare cosí corrodente e malfamante irrisione del mondo, risultato logico e fatale del messaggio della bontà e della pace in mezzo ad una società di ingordi e di violenti, occorre una volontà eroica. Al Figliuolo dell'Uomo manca quel che hanno volpi e uccelli: una tana e un nido. E pure seguirlo è uno stretto dovere e il confessarlo costituisce la condizione indispensabile per conseguire una sentenza benevola il dí della rassegna finale. Perciò il Figlio dell'Uomo arrossirà, quando venga nella gloria del Padre suo con gli angeli santi, di chi abbia arrossito di Lui al cospetto degli uomini e si sia vergognato di aggregarsi alla sua compagnia di miserabili e di diseredati. E coloro i quali vanno malignamente diffamando l'opera sua ed escògitano e propalano spiegazioni obbrobriose ai suoi prodigi, si rendono rei di un peccato imperdonabile, poiché non bistrattano soltanto il Figlio dell'Uomo, ma impugnano quegli che veglia su di Lui e ne sostiene e convalida l'azione: lo Spirito Santo. Di rimbalzo, coloro i quali accettano volonterosamente la sua sequela, condividono i suoi disagi e le sue speranze, subiscono con Lui i medesimi affronti e le medesime traversie, non potranno non partecipare con Lui alla gloria del trionfo. Il quale non può essere lontano.
Cosí, è attraverso le vicende e le oscillanti fortune della predicazione che si precisa e si completa la nozione iniziale del Figlio dell'Uomo. Assunta preliminarmente come l'espressione adeguata del programma morale che Gesù si apprestava ad annunciare e ad attuare, sulla falsariga della profezia danielica; intesa quindi nel suo originale valore etico come designante l'avvento della economia della bontà umana e della mitezza religiosa di contro alla violenza dei poteri politici; la formula si concreta adagio adagio e si arricchisce delle piú tipiche connotazioni escatologiche. Il Figlio dell'Uomo, bistrattato e disconosciuto nella enunciazione della sua palingenesi morale, avrà la sua immancabile rivincita. Anche essa del resto si inquadrava perfettamente nel piano delle visioni profetiche.
I familiari del Figliuol dell'Uomo, addestrati adagio adagio alla intelligenza del suo messaggio e del suo destino, pervengono alla comprensione esatta degli orientamenti morali che Egli inculca e in pari tempo si avvicinano ad una valutazione precisa dei suoi poteri personali. La confessione messianica di Pietro, che risponde alla domanda categorica di Gesù sulle voci correnti circa la reale natura sua, segna la precipitazione brusca di lunghe riflessioni e di latenti incertezze e la transizione decisa da una raffigurazione strettamente morale dell'insegnamento suo ad una raffigurazione consapevolmente e coerentemente messianica.
Di rimbalzo Gesù, cosciente ormai della fatalità della sua carriera e della logica stringente dei propri atti, ne trae motivo per disporre gli animi dei suoi vicini alla suprema prova gerosolimitana. Dal riconoscimento di Cesarea di Filippo ha inizio il gruppo dei passi sinottici nei quali l'uso della formula «Figlio dell'Uomo» si inserisce in previsioni ripetute dell'epilogo tragico del ministero giudaico. Può pensarsi che Gesù fondesse cosí la formula danielica con la figura del servo sofferente di Jahvè nel Deutero-Isaia: e che, nella consapevolezza dell'intimo collegamento fra la prova e il trionfo, egli si avviasse alla suprema manifestazione della sua fede e della sua potestà nella Città Santa. Al cospetto del Sinedrio egli dà la formula completa del suo vaticinio, appropriando solennemente ed integralmente a sé la visione di Daniele.
Non era che la conclusione rigorosa del principio posto agli inizî della sua predicazione e l'applicazione ultima, in vista del martirio imminente, del presupposto che aveva disciplinato il processo di sviluppo della sua azione. Il «simile a Figlio d'Uomo» intravisto da Daniele scendente sulle nubi doveva inaugurare l'età della pace e della giustizia umana, in contrapposizione agli imperi nefasti della violenza, della sopraffazione e della bestialità. Il Figlio dell'Uomo, che aveva proclamato la beatitudine dei miseri e aveva imposto di sfidare, per Lui, l'iracondia dei potenti del mondo, doveva tradurre in atto fino all'estremo limite il proposito del sacrificio e della rinuncia, per l'ammaestramento e il conforto dei molti. Egli stesso aveva schematizzato la consegna della propria vita e scoperto il significato della propria missione, quando aveva detto che mentre i grandi della terra godono nell'ostentare la durezza imperiosa del loro dominio sugli uomini, il Figlio dell'Uomo, attraverso il servizio prestato ai fratelli, si sarebbe costituito prezzo di affrancamento per tutti.
Cosí l'elemento «portentoso» (la soteriologia), si mescolava nel cristianesimo all'elemento «tremendo» (l'etica e l'antropologia) e all'elemento «fascinoso» (la escatologia): i tre elementi centrali di ogni valida e normativa esperienza del «numinoso».
La storia del pensiero e della prassi nel cristianesimo sarebbe stata l'esplicazione e l'elaborazione dei motivi elementari, che si erano fusi e saldati nella parola e nell'opera del Cristo.