II L'INTERPRETAZIONE DI PAOLO

Il problema delle origini cristiane si accentra su quello della persona e dell'insegnamento di Paolo. Colui che ha dato l'inizio al movimento, Gesù il Galileo, non ha lasciato nulla di scritto. Il ricordo delle sue parole e delle sue gesta è opera d'altri, e l'autenticità e la data degli scritti cui è affidato tale ricordo, soggiacciono a discussioni sulle quali probabilmente non sarà mai fatta luce completa. Sulla genuinità delle principali lettere paoline, invece, l'accordo dei critici non avventurosi è, può dirsi, completo. La testimonianza di Paolo pertanto rappresenta un punto di riferimento che può considerarsi inconcusso. Si comprende come una testimonianza di questo genere proietti fasci di luce su tutta la questione delle origini cristiane. Paolo fu contemporaneo di Gesù. Venne ad aggregarsi ai seguaci di lui a pochissimi anni di distanza dal supplizio infamante. Per sua stessa confessione, affidata ad una delle lettere meno discusse, entrò molto presto in rapporto con quegli che fungeva da capo degli associati e dei continuatori dell'opera del Maestro. Prima come dopo la conversione doveva avere avuto abbondanti occasioni per familiarizzarsi con i fatti relativi alla vita e alla morte del Cristo. Tutto il decorso della sua esperienza rappresenta quindi un'insigne testimonianza la quale ha il vantaggio di dispiegarsi per intero nella luce della storia.

Come deve essere interpretata? Quali ne sono i presupposti? Su quale raffigurazione del Cristo riposa? Quesiti di tal genere conducono direttamente al cuore di un imponente enigma storico.

La comparsa provvidenziale di Paolo quale apporto ha recato al processo di sviluppo del cristianesimo primitivo? È stato egli un fedele continuatore od un inconsapevole deformatore del messaggio di Gesù? Si può dire senza esagerazione che qualora si sia data l'adeguata spiegazione della religione di Paolo si sarà di pari passo risolta la questione formidabile delle origini del cristianesimo.

Ora l'esperienza e l'insegnamento di Paolo, inquadrati nella cornice del momento culturale e religioso in cui si svolsero, non rappresentano una contraffazione del messaggio di Gesù: ne costituiscono piuttosto l'approfondimento. Sono quell'esperienza e quell'insegnamento che hanno avviato tale messaggio verso la schematizzazione acconcia alla propaganda nel mondo greco-romano. Paolo ha fatto subire all'elemento escatologico (fascinans), a quello soteriologico (portentum), infine a quello etico-ecclesiologico (tremendum), tutti e tre potenzialmente coesistenti nell'annuncio evangelico, un processo di chiarificazione e di potenziamento che ne ha reso agevoli la disseminazione e l'organizzazione sistematica.

Il maturare del pensiero di Paolo è intimamente collegato allo spiegamento della sua opera apostolica. Si direbbe anzi che l'efficienza del suo insegnamento teorico sia in ragione diretta del collegamento di questo alla vita spirituale e carismatica delle comunità che egli ha costituito e guidato. Per questo ogni tentativo serio diretto a disegnare i contorni delle idee dell'Apostolo non può fare a meno di tenere sempre l'occhio agli itinerari della sua propaganda e alle circostanze concrete dei suoi singoli ammaestramenti.

Se ogni genuina conversione religiosa è la polarizzazione subitanea delle prospettive di una vita fuori dalla cerchia degli interessi terreni verso le idealità del Trascendente, la conversione di Saulo fu la trasposizione del programma del suo messianismo farisaico nella sfera dello spiritualismo puro ed extra-politico, in cui la predicazione di Gesù aveva collocato il miraggio del Regno.

Non è arrischiato ricostruire la traiettoria di sviluppo dell'esperienza che condusse Saulo alla conversione. Egli doveva aver cominciato a saturarsi molto presto dei sogni cari ai ceti intransigenti della sua razza. La stessa sua inesperienza di israelita della dispersione doveva avergli fatto ritenere facile e prossimo l'ideale dell'affrancamento politico e religioso, del quale si nutriva la nazione giudaica. Adagio adagio, però, il disinganno della vita, la conoscenza diretta della reale situazione in Palestina, la constatazione del pervertimento di tanta parte dei poteri costituiti del culto gerosolimitano e della sua acquiescenza al dominio dell'invasore e del profanatore, debbono avere lentamente corroso in Saulo le radici della fede. Avrebbe mai potuto Jahvè intervenire prodigiosamente a soccorso e a salvezza di un popolo che aveva con imperdonabile improntitudine abbandonato la legge santa ed aveva ignominiosamente trescato con l'oppressore e il peccatore? Saulo doveva aver già pensato piú volte che la pittura abbozzata dai Salmi della corruzione del mondo valeva alla lettera per i tempi in cui gli era capitato di vivere: «Non v'è sulla terra piú neppure un giusto; non v'è piú chi comprenda qualcosa; chi cerchi Iddio. Tutti deviarono dal retto sentiero; tutti in blocco sono stati svuotati di ogni capacità di bene. Non si trova piú chi operi la bontà: dei buoni s'è perduto lo stampo. Sepolcro spalancato la gola degli uomini; pronte le loro lingue a ordire inganni. Veleno di serpenti sotto le loro labbra. La loro bocca è ricolma di imprecazioni e di amarezza. Rapidi i loro piedi nell'effondere sangue: rovina e desolazione sulle loro vie. Smarrirono irrimediabilmente il sentiero della pace: il timore di Dio è dileguato dalle loro pupille!». In questo disperato disfacimento della rettitudine e della moralità, come lusingarsi che Jahvè si ricordasse del suo popolo traviato? Saulo doveva già essere in preda a una crisi di scoramento profondo quando per la prima volta gli giunsero allo spirito i sentori della predicazione di Gesù. In questa concezione, la prospettiva del bene era collocata sulla linea della abnegazione, della generosità, dell'umiltà, del perdono. Il capovolgimento brusco e radicale delle valutazioni familiari d'Israele; lo scardinamento coerente e rettilineo delle comuni convenzioni etiche e sociali, dovettero in sulle prime destare in Saulo una reazione violenta. Ma negli strati piú profondi del sub-cosciente, già tocchi e pervasi dall'inquietudine e dal disinganno, il messaggio del Galileo suppliziato dovette lavorare oscuramente.

Del resto, anche lassú nella sua Tarso tumultuosa e raffinata, Saulo giovanetto non aveva udito parlare vagamente di iniziazioni misteriose che garantivano la liberazione e la immortalità mercè l'incorporazione in favolose figure divine, che avevano simbolicamente attuato in se stesse il dramma dell'annullamento e della rinascita? Quelle dottrine, quantunque contaminate da liturgie grossolane e da mitologie torbide, non avrebbero potuto racchiudere un nucleo sostanziale di verità, nella loro asserzione preliminare di un collegamento ineffabile fra la morte e la vita, fra l'abbiezione e il riscatto?

Qualcosa, nella tradizione del profetismo, veniva a suffragare nello spirito di Saulo questa raffigurazione misteriosa della sofferenza mediatrice. Il «servo di Jahvè» era già stato dipinto come il ricettacolo predestinato di tutte le umiliazioni e di tutti i dolori, e per questo stesso come lo strumento infallibile dell'universale perdono. Senza che Saulo se ne rendesse conto, l'avvicinamento di simili concezioni doveva aver posto in travaglio la sua anima. Non sarebbe stato per caso còmpito provvidenziale d'Israele l'innestare, sulle amorali credenze dei misteri, la coscienza dei valori morali, nella celebrazione dei quali era il vanto della legislazione Mosaica? Il Galileo che aveva espiato sulla croce il delitto della sua predicazione iconoclastica e della cui risurrezione i suoi fedeli si dimostravano tanto sicuri, non avrebbe attuato in sé, nella piena controllabilità storica e in una forma peculiare di realizzazione profetica e messianica, il mito cui si ispiravano le piú alte esperienze del mondo ellenistico contemporaneo? E, d'altro canto, nel nuovo messaggio di liberazione etica, sostituito da quello della precaria e problematica liberazione politica e di per sé suscettibile di universale applicazione, non si conservava in qualche modo il privilegio d'Israele nell'economia religiosa del mondo?

La trasposizione della speranza politica d'Israele nell'orizzonte dell'universale redenzione dal male, non si operò senza contrasti e senza oscillazioni. Paolo stesso dovette piú volte ritornare sulle proprie concezioni escatologiche, per purificarle da ogni sopravvivenza di materialismo politico e sociale, e per affinarne la capacità normativa. Quando, nel primo periodo del suo apostolato macedone e acaico, egli moderava le impazienze dei convertiti di Tessalonica, la sua raffigurazione degli ultimi eventi è ancora tutta imbevuta di elementi apocalittici giudaici. Nella comunità, che egli aveva organizzato colà, era morto qualche fratello e i superstiti si domandavano non senza apprensione quale ne sarebbe stata la sorte, in rapporto a quella venuta del Signore cosí ardentemente aspettata e non ancora verificatasi durante l'esistenza corporea degli scomparsi. Era dunque urgente rassicurare questi trepidanti sopravvissuti, sul destino ugualmente glorioso dei defunti. La prima lettera che spediva Paolo verso il 50 ai Tessalonicesi è precisamente un ammonimento caloroso alla fiducia e alla sicurezza. Non si debbono nutrire affatto ansie ed angustie su1la sorte dei fratelli che si sono anzi tempo «addormentati». Il cristiano non è come il pagano: un essere spoglio di speranza. Spentosi in Cristo, egli sarà da Dio innalzato al trionfo, in una con Cristo. Il giorno non prevedibile in cui il Signore, al suono della tromba, scenderà dal Cielo, i morti risorgeranno prima e i sopravvissuti li seguiranno sulla via delle nubi. Il momento della grande palingenesi, annuncia San Paolo, è ignoto. Ma nessuno deve per questo abbandonarsi a trepidazioni. L'umanità è ormai divisa nettamente in due schiere: i figli delle tenebre, coloro cioè che hanno perdutamente chiuso gli occhi alla verità, e i figli della luce, i credenti. Il trionfo finale di questi secondi è determinato da un decreto infallibile di Dio, il quale non consente revoca.

Se le categoriche enunciazioni di Paolo rassicurarono lí per lí i fedeli di Tessalonica sulla sorte dei fratelli spentisi prima della «parusia», provocarono inconvenienti di altro genere. Dappoiché Dio aveva infallibilmente destinato i credenti, non piú all'ira, bensí al raggiungimento della salvezza, sicché essi, dormendo come vegliando, erano sempre prodigiosamente vivi nel Cristo risorto, prossimo ormai a raccogliere i suoi di tra i figli delle tenebre, a qual pro darsi da fare per le cure della stessa esistenza materiale? Non restava che abbandonarsi inerti all'aspettativa fiduciosa dello svolgimento fatale del dramma cosmico, il cui epilogo doveva trovare viventi molti dei convertiti da Paolo. La seconda lettera ai Tessalonicesi fu pertanto un consiglio di pazienza e di operosità. Lo spiegamento della catastrofe parusiaca non poteva essere avvenimento tanto sommario ed immediato, quanto i semplici fedeli di Tessalonica amavano darsi a credere. Esso implicava parecchi atti successivi, qualcuno dei quali anzi dipendeva proprio dallo sforzo di coloro che credevano nella palingenesi. Con parole caute, con circonlocuzioni misteriose, imposte cosí dalla delicatezza dell'argomento, come dalla necessità di non esporre il latore e i lettori della missiva a probabili e dure rappresaglie, Paolo accenna in questa seconda lettera agli eventi preparatori e premonitori del grande giorno del Signore. Innanzi tutto sarebbe dovuta scoppiare l'apostasia, una specie cioè di sollevazione in massa contro l'Impero dei Cesari, di quei Cesari che con la loro blasfema pretesa di ricevere onori divini appaiono inequivocabilmente, all'Apostolo, quali mostruosi e insani profanatori di quanto c'è di sacro nello spirito dell'uomo e della vita associata. Allora, continuava San Paolo, avrebbe avuto modo di manifestarsi senza freni e senza riguardi l'uomo della empietà, quegli che è funzionalmente fuori della legge, il figlio perduto, il fedifrago per antonomasia, colui il quale vuole innalzarsi al disopra di quanto è ritenuto divino ed è oggetto di culto, si da presumere di poter prendere il posto del vero Dio nel suo tempio e di proclamare sé, Dio: vale a dire il Sovrano Imperiale, nella cui persona divinizzata e nelle temerarie prerogative Roma pagana aveva sintetizzato tutte le capacità malefiche della sua politica sopraffattrice. Attualmente, insinua in modo vago San Paolo, c'è qualcosa che trattiene costui dallo svolgere tutta l'azione funesta e perversa che è potenzialmente nelle sue mansioni e nelle sue tiranniche attribuzioni. Tale forza di freno è rappresentata dai legati e dai proconsoli, gente che vive a contatto con le popolazioni soggette, che ne conosce quindi i bisogni e ne rispetta le aspirazioni. Costoro tengono a bada, per quanto è in loro, l'oscura forza di male che è nel potere centrale e per ciò stesso scongiurano e ritardano lo scoppio liberatore della generale apostasia. Il ritardo è provvidenziale: l'empio deve pur manifestarsi al momento assegnato, non un istante prima. Se il mistero della empietà è già in opera, la pienezza del suo malvagio influsso subisce freni provvisori. Solo l'apostasia costringerà l'empio a fare sfacciato sfoggio delle sue brutali risorse, a cercare di rafforzare il suo trono traballante con tutti i mezzi che Satana porrà a sua disposizione. Invano! Allora il Signore apparirà per annientarlo col semplice alito della sua bocca, per polverizzarlo col balenante fulgore della sua apparizione. Se questa è la certezza dei credenti, le vane e subdole arti dell'empio possono, purtroppo, sedurre i ricercatori della ingiustizia e gli sprezzatori della verità, già destinati alla eterna perdizione. Ma quelle arti sono vuote di qualsiasi fascino agli occhi di coloro che amano tenacemente il vero e recano in cuore la predestinazione alla salvezza.

Noi abbiamo cosí una enunciazione esauriente dei motivi di cui si intesseva, nel suo primo periodo, la predicazione apostolica di Paolo. Essi convergevano tutti nella speranza infallibile della parusia imminente. L'elemento escatologico o fascinans appare dunque nel messaggio di Paolo il predominante ed è svolto con l'accompagnamento delle raffigurazioni piú realistiche. Piú tardi, sotto l'efficacia della sua quotidiana esperienza, sotto l'azione di propagande rivali, come quella mistica ed allegoristica di Apollo, Paolo attenua il realismo della sua escatologia, ne circoscrive in maniera spirituale il nucleo primigenio, ne fa interiore ed extra-empirico il contenuto. Ad un postulato però Paolo rimane irremovibilmente aderente: alla fede nella risurrezione della carne, alla certezza della partecipazione effettiva del nostro corpo al trionfo gaudioso con Cristo.

Scrivendo ai fedeli di Corinto, in mezzo alle cui fila l'insegnamento platonizzante di Apollo aveva disseminato l'incertezza ed il dubbio, Paolo asserisce, con un singolare procedimento argomentativo, che qualora i morti non fossero destinati ad una risurrezione sensibile, se ne dovrebbe concludere che neppur Cristo era risorto. E in tal caso la fede sarebbe scesa al livello della piú miserevole fra le illusioni. La ritorsione di Paolo contro i disseminatori del dubbio è aspra e concitata: «Domanda qualcuno: come possono risorgere i morti, con qual corpo mai sono essi capaci di ritornare? Sciocco! Quel che tu semini, non è vivificato se prima non muoia. E quel che tu semini, non è già l'organismo che verrà poi, ma un miserabile seme, vuoi di grano, vuoi di una qualsiasi altra pianta. È Dio che conferisce ad esso il corpo che vuole. A ciascun seme il proprio corpo. Allo stesso modo non ogni carne è la medesima carne, perché altra è la carne degli uomini, altra quella dei quadrupedi, altra quella degli uccelli, altra infine quella dei pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri: lo splendore dei primi nulla ha a vedere con quello dei secondi. Si applichi tutto ciò alla risurrezione dei morti. È seminato nella putredine, risorge nella incorruttibilità. È seminato nell'ignominia, risorge nella gloria; è seminato nella impotenza, risorge nella forza. È seminato un corpo psichico, risorge un corpo spirituale... Gran mistero invero! Non tutti ci addormenteremo, ma tutti ci trasformeremo, in un attimo, ad un batter di ciglia, allo squillare dell'ultima tromba, suonando la quale i morti risorgeranno incorruttibili e noi ci trasformeremo. Poiché è pur necessario che questo nostro involucro corruttibile rivesta la incorruttibilità e questo nostro elemento mortale si ricinga d'immortalità. Ché quando codesto corruttibile abbia indossato la incorruttibilità e codesto mortale abbia assunto la immortalità, allora solamente si sarà verificato il presagio: la morte fu ingoiata dalla vita». (I Cor. XV, 35 e ss.).

Paolo difende cosí, con estrema energia, dalla minaccia della Interpretazione spiritualistica, il realismo concreto della sua speranza: rivendica il fascino sensibile della sua esperienza escatologica, da cui aveva preso le mosse la sua conversione ed in cui era la giustificazione vivente dell'apostolato universalistico.

Ma la sua era una resistenza destinata, sotto la pressione delle delusioni e sotto il pungolo della concorrenza proselitistica, a passare successivamente su una serie di posizioni retrostanti, che avrebbero automaticamente imposto il rafforzamento e lo sviluppo dei coefficienti secondari della nuova religiosità in formazione.

Se quando scriveva la prima lettera canonica ai fedeli di Corinto Paolo credeva di potere enunciare la sua ferma convinzione che non avrebbe assaporato il sonno della morte prima di assurgere alla qualità di corpo trasfigurato nella parusia, quando invece scrive la seconda, l'eventualità della morte prima ancora dell'avvento del trionfo, è presente al suo spirito. «Noi sappiamo che qualora anche la nostra casa terrena, che è a mo' di tenda, si dissolva, noi riceveremo da Dio un'altra dimora, una casa cioè immortale, non manufatta, nei Cieli. Poiché noi stiamo sospirando nell'attuale nostra condizione, consumandoci nel desiderio di rivestirci del nostro involucro celestiale, se pur noi saremo trovati ancora vestiti e non denudati. Finché infatti siamo sotto (questa) tenda, noi gemiamo sotto il suo carico, quantunque noi non vagheggiamo di esserne spogliati, bensí di ricevere una sopravveste, affinché quel che è mortale sia ingoiato dalla vita. Chi ci ha foggiato per questo è Dio, quel medesimo Dio che ci ha dato la caparra dello Spirito. Sempre pertanto siamo ricolmi di fiducia, sapendo come, peregrinando nel corpo, siamo esuli dal Signore. Ché il nostro marciare è attraverso la fede, non attraverso la revisione. Tale fiducia fa desiderare di uscire dal corpo, per raggiungere la nostra dimora presso il Signore. Comunque, dimoranti nel corpo od uscenti dal corpo, uno è il nostro scopo: riuscire a Lui graditi» (II Cor. V).

«La speranza della prossima rivelazione trionfale del Cristo doveva accompagnare fino al tragico epilogo la propaganda dell'Apostolo. Ancora nella lettera ai Filippesi, una sola è la sua parola d'ordine: la parola dell'aspettativa affascinante. «Siate ininterrottamente lieti nel Signore: lo ripeto, gioite. La vostra mite compostezza rifulga al cospetto di tutti gli uomini. Il Signore è vicino» (Fil. IV, 4-5).

Ma con gli anni la visione della sua fede escatologica era andata smarrendo i connotati realistici dei primi suoi entusiasmi di convertito e pur ispirando e muovendo l'ardore della sua opera, aveva ceduto il posto ad una attesa sicura e fiduciosa, nella quale il godimento del premio era già in certo modo pregustato attraverso l'esercizio delle virtú necessarie per conseguirlo. «Il Regno di Dio non è mangiare e bere: ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rom. XIV, 17).

Una simile attenuazione dell'apparato realistico, in cui si era offerto l'annuncio escatologico nelle prime espressioni dell'insegnamento paolino, doveva logicamente condurre ad uno svolgimento dei coefficienti collaterali della nuova religiosità cristiana. I motivi, dal cui intreccio e dalla cui interdipendenza scaturisce l'esperienza del «Sacro», il motivo fascinans, quello portentoso e quello tremendo, costituiscono, potrebbe dirsi, nella loro somma una costante, a dosar la quale ciascuno contribuisce in misura variabile, determinata dalla proporzione degli altri. L'affievolirsi del coefficiente escatologico (fascinans) provoca di rimbalzo un intensificarsi di quello soteriologico (portentum) e di quello etico-carismatico (tremendum.). Per questo può dirsi che se pragmatismo è fondamentalmente subordinazione di tutti i valori astratti alle esigenze spirituali del vivere aggregato dell'uomo e quindi riduzione delle verità dialetticamente conseguite e concettualmente formulate a traduzioni non arbitrarie ma sempre dissolvibili e superabili di profondi istinti della vita psichica, l'evoluzione delle religioni costituite è dominata da una dialettica squisitamente pragmatistica.

Tra i maestri di religiosità San Paolo però è stato il piú radicale dei pragmatisti. Il suo pragmatismo non è soltanto la scoperta negativa della fondamentale relatività e della insanabile ed inarrestabile capacità delle costruzioni speculative e della superabilità di tutti i sistemi etico-giuridici, ai quali sono affidate le sorti delle varie configurazioni sociali. È molto di piú. È anche l'affermazione esplicita ed il riconoscimento positivo della funzione storica e del significato oggettivo di questi sistemi.

La polemica antilegalistica contro i fuorviati delle comunità galatiche, aveva indotto Paolo a scomporre l'economia della storia precristiana in un elemento mistico primordiale: la promessa di Dio e la fiducia serena di Abramo, e in un elemento giuridico, la legislazione mosaica cioè, che di quel primo elemento mistico aveva rappresentato un surrogato ed un derivato. Annebbiatasi la consapevolezza della originaria relazione mistica con Dio, fondata su una giustizia che era per essenza il risultato dell'abbandono fiducioso a Lui, una quantità di leggi di ogni genere era stata imposta agli uomini. Tali leggi dovevano servire quale mezzo di registrazione e di intensificazione della congenita debolezza umana, sottrattasi al senso diretto della sorveglianza e dell'assistenza di Dio. Ma ora, ripristinata nel mondo l'economia della promessa e della fiducia, mercè l'avvento e la morte del Cristo fattosi «maledizione» per noi; riaccesasi fra gli uomini la luce dell'aspettativa di quella reintegrazione universale, la brama della quale strappa gemiti angosciosi all'intiera creazione (Rom. VIII, 22-23), qualsiasi barriera etnica, sociale, economica veniva ad essere automaticamente abbattuta ed ogni costruzione giuridica annullata. Unica legge ormai l'amore ed unica guida la fiducia. «Prima che ricomparisse nel mondo la fede, eravamo tutti imprigionati sotto la custodia della legge, protesi verso la sopravveniente rivelazione della fede stessa: la legge, appunto, rappresentò la nostra pedagogia verso il Cristo. Nella fede in Cristo dovevamo ritrovare la nostra integrale giustizia. Comparsa la fede, non siamo piú evidentemente sotto la ferula del pedagogo e tutti siete ormai figli di Dio, in virtú della fede che è nel Cristo Gesù. Quanti foste iniziati al nome di Cristo, Cristo rivestiste, onde non sussiste ormai piú distinzione di giudeo o di greco, di schiavo o di libero, di uomo o di donna: tutti un solo essere siete nel Cristo Gesù» (Gal. III, 23-28).

Se la polemica antilegalistica – conseguenza inevitabile della universalità alla quale Paolo aveva portato il messaggio della «salvezza» nel Cristo – induceva l'Apostolo ad una risoluzione della esperienza religiosa in un atto di fiducia, l'elaborazione spirituale ed interiore della speranza del Regno lo induceva d'altro canto, fatalmente, ad una progressiva celebrazione mistica del Cristo stesso come riscattatore dell'umanità schiava della colpa. Fondendo la raffigurazione biblica della creazione dell'uomo e della sua iniziale caduta con le rappresentazioni mitiche disseminate nel mondo culturale e religioso del suo tempo sull'uomo primordiale precipitato nella materia e bisognoso di affrancamento, Paolo contrappone il nuovo Adamo al vecchio e scorge la funzione e la missione del Cristo nel debellare il peccato e la morte, la quale è del peccato il guiderdone. «Come attraverso un uomo il peccato si insinuò nel mondo e attraverso il peccato la morte (cosí attraverso un uomo entrò nel mondo la giustizia e attraverso la giustizia la vita): poiché la morte si era propagata in mezzo a tutto il genere umano, avendo tutti peccato. Infatti, fino alla promulgazione della legge il peccato era nel mondo: ma il peccato non veniva addebitato, non sussistendo la legge. Eppure regnò la morte anche nel periodo da Adamo a Mosè, pur su coloro che non avevano peccato a causa della loro somiglianza alla trasgressione di Adamo, tipo della realtà sopravveniente. Ma il dono della grazia è ben superiore in efficienza alla caduta. Onde, se molti morirono per la caduta di uno, molto piú copiosamente la grazia di Dio ed il dono della Grazia che zampilla da un altro uomo, Gesù Cristo, rifluirono sui molti... Sicché come una caduta si trasformò in condanna per molti, cosí l'opera di giustizia di uno si trasformò per tutti gli uomini in virtú giustificatrice per la vita» (Rom. V, 12 e ss.).

Paolo vede cosí il Cristo come un prezzo di riscatto offerto per l'affrancamento degli uomini dalla schiavitú contratta nella colpa di Adamo e quindi come il «primogenito» fra una moltitudine di redenti (Rom. VIII, 29). E assegna a questa primogenitura guadagnata nel sangue un valore cosí eccelso, da trasformarla, nella elaborazione progressiva del suo pensiero, in una primogenitura cosmica ed in una sovranità che trascende i confini dello spazio e del tempo. «In Lui abbiamo il riscatto, la remissione delle colpe: egli è l'immagine di Dio, l'invisibile, primogenito della universa creazione, poiché in Lui tutte le cose furono costituite, cosí nel Cielo come sulla terra, le invisibili e le visibili, i troni e le signorie, i principi e i poteri, tutto attraverso lui e per lui fu creato: ed egli è prima di ogni cosa e tutto si regge in lui. Egli testa del corpo che è la Chiesa» (Col. I, 15 e ss.). «Ed egli, che pure era nella forma di Dio, non fu geloso della sua somiglianza con Dio, ma si annullò fino ad assumere la forma di schiavo fattosi simile agli uomini. E, apparso in fattezze umane, si umiliò, obbedendo fino alla morte, alla morte ignominiosa della croce. Per questo, Dio lo esaltò e gli conferí un nome superiore ad ogni nome, affinché a tal nome ogni ginocchio si pieghi» (Fil. II, 6 e ss).

Per quanto lontano però Paolo sospinga la «schematizzazione» cosmogonica della missione della salvezza nel Cristo, per quanto in alto si elevi la sua speculazione intorno alla colpa e al riscatto, gli elementi vivi e primigenî della religiosità vibrano in lui con una intensità di fervore che la dialettica e l'astrazione mitologica non riescono ad affievolire.

Il «Signore» è da lui proiettato sempre piú lontano nelle sfere misteriose della vita Divina: ma in pari tempo Egli è sentito sempre piú prossimo e operante nella comunità, la quale è il suo organismo mistico vivente nello spazio e nel tempo. La responsabilità che investe ogni fedele in qualità di membro di un corpo simbolico, in cui circola la realtà della grazia e che impone oneri superiori a quelli derivanti da una qualsiasi legge scritta, costituisce il lato piú solenne e diremmo quasi tremendum della religiosità paolina.

Nessuno piú drammaticamente di Paolo ha tratteggiato il duello che si combatte in ogni essere umano tra la legge del bene e quella del male, fra l'istinto della animalità e le esigenze del vivere aggregato. «Accingendomi, egli scrive a nome di ogni essere cosciente, a fare il bene, trovo invece che il male è a mia portata di mano. L'uomo interiore può compiacersi nella legge di Dio. Ma nelle mie membra freme un'altra legge, la quale si ribella pervicacemente alla legge del mio spirito, e mi fa schiavo della legge della colpa che fermenta nel mio organismo. Me sciagurato! Chi mi affrancherà dal corpo di questa incessante agonia?» (Rom. VII, 21-24).

Ma nessuno in pari tempo piú potentemente di Paolo ha sentito il dovere che incombe all'uomo di trasferirsi, mercè il soccorso dello Spirito, nella sfera delle realtà superiori. L'impugnazione della legge positiva non fa che rendere piú urgente il dovere della rinascita fuori della carne, che è il peccato e la morte. «Voi ormai non siete piú nella carne, bensí nello Spirito, perché lo Spirito di Dio alberga in voi... E se Cristo è in voi, oh, in verità, il corpo rimane pure morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita, in vista della giustizia. E se lo Spirito di Colui che trasse Gesù di tra i morti dimora in voi, quegli stesso che ha chiamato dai morti il Cristo Gesù, vivificherà i vostri corpi mortali, mediante lo Spirito Suo che è ancora in voi» (Rom. VIII, 9-11).

L'iniziazione cristiana è pertanto una formidabile consegna al servizio della comunità. I «santi» non possono ripiombare nella colpa se non a patto di esercitare una mostruosa violenza alla loro nuova natura. Morti al peccato perché assimilati alla morte del Cristo attraverso l'iniziazione battesimale, essi sono risorti con Lui e procedono ormai in una invulnerabile novità di vita. «Se, proclama Paolo, noi ci stringemmo al Cristo nella solidarietà della morte, cresceremo insieme a Lui nella solidarietà della risurrezione: ben persuasi ormai che la nostra vecchia personalità fu crocifissa con Lui, affinché fosse annientato il corpo del peccato e noi non fossimo piu costretti a servire alla colpa... Affrancati da questa, fatti schiavi di Dio, i cristiani fruttificano nella santità, verso la loro indefettibile meta: la vita eterna» (Rom. VI).

La sensazione profonda del còmpito «tremendo» che ogni credente si assume inserendosi nel «Corpo» mistico del Signore conduce San Paolo fino a saldare strettamente l'esperienza mistica dell'aggregato cristiano con l'efficacia salutifera del rito praticato dalla comunità. Il mistero della liturgia eucaristica, quale viene adombrato nelle istruzioni della prima lettera canonica ai fedeli di Corinto (XI), rappresenta la sanzione soprannaturale della concordia e della fraternità della vita solidale della Chiesa. E parimenti la consapevolezza del vincolo che stringe ogni fedele alla massa dei fratelli nella conversione e nella speranza, costituisce, nella pedagogia paolina, sciolta bruscamente e audacemente da ogni norma empirica e da ogni codice umano, la radice vera della nuova vita morale. Il credente non appartiene piú a se stesso. Entrato a far parte in virtú dell'iniziazione battesimale di un organismo mistico che è l'incessante proiettarsi del Signore nella storia, nella vita associata, egli non può cedere il proprio corpo al dominio tenebroso della colpa e delle passioni carnali. Il fedele membro della comunità che è il Cristo non può impunemente manomettere la dignità del proprio essere. Ogni compiacimento animale rappresenta agli occhi di Paolo un'appropriazione indebita ed una contaminazione. «Il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo dimorante in voi e datovi da Dio. Voi non appartenete piú a voi stessi» (I Cor. VI, 20).

Cosí gli elementi «numinosi» della iniziale esperienza, sviluppatasi in grembo al primo gruppo di seguaci del Cristo, subiva, attraverso la predicazione di un fariseo convertito, quel principio di «schematizzazione» dottrinale che, mentre assicurava la sua capacità di successo universale, avrebbe offerto lo spunto e la norma agli stadii successivi della riflessione concettuale ecclesiastica e della disciplina normativa della civiltà cristiana.

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