X GLI ALBORI DELL'ILLUMINISMO

Guiberto di Nogent, il memorialista francese del secolo XII, nei suoi De vita sua sive monodiarum libri, cominciati probabilmente verso il 1094, racconta che quando egli dava inizio ai suoi studi verso il 1060 «non s'incontravano quasi affatto maestri di grammatica nei centri cittadini: se ne trovavano appena nelle grandi città, forniti del resto di ben esigua scienza». Al contrario, quand'egli, un trentennio circa piú tardi, mette mano ai suoi Gesta Dei per Francos, può constatare che la «grammatica fiorisce da ogni parte, dappoiché l'ingente numero di scuole la mette a portata dei piú poveri».

Siamo dunque in un intensissimo e fecondissimo periodo di trasformazione scolastica. Le vecchie scuole monastiche hanno fruttificato fuori dall'ambito claustrale. Abbiamo cosí le scuole capitolari. Ogni città vescovile appare provvista di una scuola stabile e regolare. Tenendo conto della insistenza tenace e severa con cui la Chiesa, durante tutta la seconda metà del XII secolo e fino al grande concilio del Laterano del 1215, domanda ai vescovi e ai prelati di organizzare e di' sostenere istituti scolastici, noi possiamo rilevare l'interesse veramente cospicuo che l'autorità ecclesiastica pone nel favorire la propagazione e l'organizzazione dell'insegnamento.

Se Roma insiste per la propagazione della cultura, i piú frequentati e fiorenti istituti scolastici noi li troviamo in Francia. Si direbbe che abbiamo sul terreno della cultura la ripercussione di quella che era stata la divisione dei poteri instaurata dal Papato, mercè la consacrazione imperiale dei Carolingi. Roma, fonte di ogni realtà spirituale e carismatica, è il centro del magistero religioso. Là dove l'Impero cristiano ha trovato la prima sua sede acconcia e normativa, fioriscono e si propagano e si moltiplicano le istituzioni scolastiche.

Canta il poema dei pellegrini tra il IX e l'XI secolo:

O Roma nobilis, orbis et domina,
Cunctarum urbium excellentissima,
Roseo martyrum sanguine rubea,
Albis et virginum liliis candida:
Salutem dicimus tibi per omnia,
Te benedicimus: salve per saecula.

Roma è insigne perché illustrata dal sangue di martiri e dalla candida corona della purezza virginea.

Di fronte a Roma, si verrà levando il centro culturale di Parigi.

Anselmo stesso, il primo trascrittore della fede medioevale in termini di ragionamento sillogistico, emigra dall'Italia in Normandia. Ma la stessa attività scolastica franca si polarizzerà su due indirizzi diversi, secondo che sarà dato maggiore o minor valore all' apologetica razionale del dogma o alla sua riflessione mistica, Quando Anselmo moriva, Abelardo, già trentenne, aveva riempito della sua rumorosa attività didattica le scuole di Parigi, rivaleggiando col proprio maestro Guglielmo di Champeaux.

C'è nella Historia Calamitatum di Abelardo un passo che mette conto registrare, perché ci permette di cogliere sul vivo il divario che si va determinando fra la cultura, che possiamo già chiamare illuministica, del centro parigino, e la cultura, ancora a fondo prevalentemente mistico, che si delinea intorno a Guglielmo, ritiratosi a San Vittore.

Scrive dunque Abelardo: «Giunsi finalmente a Parigi dove la disciplina scolastica era già in fiore, per ascoltare Guglielmo, maestro fra i piú rinomati. Rimasi con lui breve tempo, dapprima bene accetto, poi mal visto e mal tollerato, avendo preso ad impugnare parecchie delle sue opinioni e ad argomentare apertamente contro di lui. Il che mi diede talora la superiorità nella discussione, con grave irritazione dei condiscepoli che non potevano tollerare la preminenza dell'ultimo venuto, di loro tanto piú giovane. Qui il principio delle mie disgrazie. A mano a mano che si andava divulgando la mia fama, contemporaneamente si accendeva l'altrui invidia contro di me e accadde che, presumendo del mio ingegno al di là delle mie capacità reali, cominciai ad aspirare, ancora giovanissimo di anni, al governo personale di una scuola, e a cercare per esso una sede allora insigne, vale a dire il Castello di Melun, la quale era residenza reale. Ne ebbe sentore il mio maestro Guglielmo e, mirando ad allontanare dalla propria quanto piú fosse possibile la scuola mia, si adoperò subdolamente in tutti i modi per togliermi la vagheggiata sede prima che me ne andassi. Ma poiché egli aveva degli avversari fra i potenti della terra, io feci leva sull'aiuto di questi per raggiungere il mio intento. La manifesta sua invidia mi guadagnò la simpatia cosí di molti altri. Dalla mia nuova scuola la fama della mia perizia dialettica si propagò in modo che rimase offuscata fin quasi ad estinguersi la nomea, non solo dei miei condiscepoli, bensì anche del mio maestro. Sicché, levandosi sempre piú in alto la mia ambizione, ben presto trasferii la mia scuola a Corbie, piú vicino a Parigi, affinché mi si offrisse piú facile opportunità di disputa. Non trascorse gran tempo che una malattia, nella quale incorsi per il logorante sovraccarico dello studio, mi costrinse a rimpatriare. Per alcuni anni lontano dal centro degli studi, fui ardentemente rimpianto da coloro che amavano l'esercizio delle indagini dialettiche. Trascorso del tempo, quando già mi ero riavuto dalla mia infermità, quel mio maestro Guglielmo, arcidiacono di Parigi, abbandonata la sua prima divisa, passò all'ordine dei chierici regolari. Si vociferò che lo facesse col proposito di farsi ritenere piú pio e di guadagnare cosí una piú alta prelatura. Come di fatto accadde di lí a poco, con la elevazione alla sede vescovile di Chàlons. In verità simile conversione ascetica non lo allontanò da Parigi, né dalle sue consuete occupazioni filosofiche. Infatti nello stesso cenobio dove si era ritirato per motivi religiosi, aprí immediatamente, secondo il consueto, pubblica scuola. Ed io, tornato a lui per apprendere retorica, tra lo svolgimento dei nostri contraddittori lo costrinse, mercè argomenti stringenti, a mutare la sua vecchia opinione intorno agli universali. Egli infatti aveva antecedentemente insegnato che la comune predicazione degli universali dovesse intendersi nel senso che la medesima realtà inerisse contemporaneamente ed integralmente ai singoli individui, per essenza. Se ne doveva pertanto arguire che gli individui non si diversificavano l'uno dall'altro in nulla di essenziale, ma rappresentavano unicamente altrettante variazioni, in virtú di una moltitudine di proprietà accidentali. Ora invece Guglielmo corresse e modificò il proprio pensiero dicendo piuttosto che la medesima realtà si ritrovava nei singoli non già per essenza, ma per indifferenza. E poiché sulla questione degli universali converge sempre la più assidua attenzione dei dialettici, avendo cambiato opinione su tale questione, Guglielmo vide cadere in discredito la sua fama di maestro mentre la mia ne guadagnò a mille doppi».

Nell'ingenua schiettezza, non priva di millanteria, onde è tutta pervasa la Historia Calamitatum, Abelardo ha certamente fatto pesare con esagerazione sulle decisioni di Guglielmo di Champeaux il proprio tirocinio scolastico, capace di suscitare precoci invidie e forti risentimenti. Comunque, la testimonianza della Historia è preziosa perché ci dà una informazione diretta sulla fondazione della scuola di San Vittore.

A mezzo la sua carriera di maestro e di arcidiacono, Guglielmo, verso il 1108 o il 1109, il momento stesso in cui Anselmo scompare dal mondo, abbandona improvvisamente le sue mansioni ufficiali per ritirarsi a San Vittore presso Parigi a professare la Regola di Sant'Agostino. Ma nel ritiro ascetico è stimolato a riprendere il suo insegnamento ed egli torna, anche nella solitudine, alla spiegazione della dialettica e alla descrizione degli universali, originando cosí la celebre scuola regolare.

Quella che è chiamata la Regola di Sant'Agostino non è altro che la lettera 211 dell'ipponese. La lettera è diretta ad una comunità femminile agitata da reciproche emulazioni e da spirito di insubordinazione. Non ha nulla di un codice stilizzato: non è altro invece che una eloquente e calorosa celebrazione della vita in comune ed una delineazione efficace dei suoi oneri.

«Questo comandiamo che voi pratichiate, voi che vivete raccolte nel monastero, ricordando il fine per il quale vi siete unite insieme. Abitate dunque sotto il medesimo tetto nella concordia e nella umanità, nutrendo fra voi un cuor solo ed un'anima sola, nulla appellando proprio, tutto usando in comune. Colei che presiede alla casa distribuisca a ciascuna il vitto e gli indumenti, non già in assoluta uguaglianza, che non tutte dispongono delle medesime forze fisiche, ma secondo le esigenze dei singoli... Quelle che possedevano nel secolo, una volta entrate nel monastero, pongano tutto volentieri in comune. Quelle che non possedevano, non vadano a ricercare nel monastero quel che fuori non avevano mai avuto... Né, per il fatto che vivono associate, sollevino il capo fino a coloro, cui, fuori, non avrebbero osato appressarsi. Tengano piú tosto in alto il loro cuore e non vadano mendicando beni terreni, affinché i cenobi non siano per diventare vantaggiosi ai ricchi, anziché ai poveri, favorendo l'umiliazione dei ricchi e la boria dei poveri. Ma d'altro canto coloro che occupavano nel mondo un rango eminente non abbiano a fastidio la presenza di sorelle, che furono ammesse alla vita comune venendo dalla povertà. Imparino piú tosto a trar motivo di vanto, anziché dalla nobiltà della prosapia, dalla fraternità delle compagne. Non faccian sentire l'apporto della loro donazione al cenobio, non s'insuperbiscano delle ricchezze elargite, piú di quel che avrebbero potuto insuperbire se ne avessero goduto nel mondo. Non dimentichino che la superbia, a differenza di qualunque altro vizio, tende la sua insidia anche nelle opere buone... Si obbedisca alla Superiora come ad una madre, onde in essa non si manchi di rispetto a Dio. Ma essa non si reputi felice perché dispone di una potestà di dominio: bensí perché esercita un servizio di carità. Al cospetto di Dio, sia sotto i loro piedi. Essa sia universale esempio di bene. Disciplini le irrequiete, consoli le pusillanimi, sostenga le deboli, con tutte sovrabbondi di pazienza. Sostenga ilaremente la disciplina associata: la imponga tremando. E sebbene l'una e l'altra cosa siano necessarie, brami piú di essere amata che temuta, avendo sempre presente nello spirito di dover rendere ragione a Dio per tutte. Onde voi, obbedendo, sappiate di provvedere a lei non meno che a voi, dappoiché quanto è piú in alto di altrettanto è piú in pericolo».

A differenza della Regola benedettina, tutta impregnata di una disciplina gerarchica che si concentra e si innesta sulla persona dell'abbate, nel che è la sua similarità con l'ossatura primitiva del regime feudale, la cosiddetta Regola agostiniana è una celebrazione della vita associata che trae i suoi motivi e le sue norme unicamente dal fervore dello scambievole affetto e del reciproco servizio.

Quando nell'epoca carolingica la vita ecclesiastica e la vita monacale erano state sottoposte ad una disciplina piú rigida e piú uniforme, mentre Benedetto di Aniano riduceva ad unità la molteplicità delle consuetudini cenobitiche, Crodegango, vescovo di Metz, attingeva dalla Regola agostiniana gli elementi per una disciplina acconcia alla vita associata dei chierici della sua cattedrale.

Ma solo molto piú tardi la cosiddetta Regola di Sant'Agostino fu metodicamente imposta a gruppi di ecclesiastici consacrati ad una vita comune di tipo monastico.

I primi accenni espliciti e formali alla Regola di Sant'Agostino noi cominciamo a trovarli soltanto dopo il sinodo del 1063, nel quale Alessandro II aveva ribadito i principi e le norme sanzionati quattro anni prima da Niccolò II circa la vita comune delle corporazioni ecclesiastiche, e aveva introdotto i canonici della Congregazione riformata di San Frediano di Lucca nella chiesa metropolitana del Laterano di Roma.

La forte personalità di Guglielmo di Champeaux, le sue spiccate capacità speculative, impressero senz'altro sulla casa di San Vittore a Parigi connotati caratteristici. Egli era stato maestro a Parigi e commentando la Isagoge di Porfirio aveva fatto oggetto di particolare indagine il problema degli universali.

È il problema che diviene ora l'argomento principe di tutte le discussioni scolastiche e di tutte le controversie accademiche. Dialettici ed antidialettici iniziano ora un battagliare rumoroso che è il segno di una nuova incipiente età del pensiero cristiano.

L'esperienza religiosa cristiana, che è vissuta finora di fede indiscussa e di profonda pietà carismatica, sente il bisogno di trascriversi in formule razionali e di raccomandarsi ad una propedeutica dialettica. Quell'esigenza, che Anselmo per primo ha espresso, di una dimostrazione razionale del Divino, diventa la preoccupazione dominante dell'ora.

Noi vediamo albeggiare cosí un orientamento che può non illegittimamente essere definito pre-illuministico. Per una strana coincidenza, Guglielmo di Champeaux, che è maestro di Abelardo, il grande rappresentante dell'indirizzo speculativo razionale, è anche il lustro di quella scuola di San Vittore, dove la mistica intuitiva del Medioevo celebra con Ugo e Riccardo i suoi ultimi successi.

Avendo realizzato con la creazione di un Impero cristiano universale tutte le possibilità preconcepite nel proprio programma religioso, che è precisamente quello di costituirsi fermento animatore della vita associata, il cristianesimo si trovava ora in una delle posizioni piú drammatiche che potessero concepirsi.

In certo modo la sua vittoria era la sua morte. Nato come rinnegamento di tutti i valori empirici e terreni, come realtà extra-sociale e in un certo modo extra-storica, perché prefigurazione e arra di un Regno di Dio, che deve essere opera prodigiosa di Dio, nato quindi come movimento di minoranza destinato a far lievitare tutta la massa della vita associata, il cristianesimo era stato portato, dalla stessa logica immanente delle sue forze iniziali, a realizzare nel mondo una provvisoria economia politica e religiosa che, secondo la sociologia agostiniana, non doveva essere altro che il pellegrinaggio simultaneo di due città eterogenee, chiamate ad essere sceverate solamente dal vaglio del giudizio di Dio. Tuttavia la stessa ecumenicità tendenziale dei suoi presupposti l' aveva portato a fare di quella sua economia, che avrebbe dovuto essere logicamente apporto di minoranza infinitesimale alla maggioranza strabocchevole, una economia totalitaria e quindi definitiva.

Ma per gli uomini definitivo non può essere altro che ciò che risponde ad idee chiare e a dialettiche sicure. Mentre quel che è retaggio della società e che è per definizione caduco e circoscritto, perché chiamato alla trasumanazione dell'opera di Dio, non può essere affidato che all'intuizione mistica e alla speranza cieca della fede: quella speranza di cui Eschilo aveva detto una volta che è il dono di Prometeo al cuore dell'uomo.

Nella sua dialettica soprannaturale il cristianesimo aveva fatto anche del mondo un possesso d'intuizione anziché di chiaroveggenza razionale. Perché il paradosso che è la radice stessa della vita umana è anche nelle forme della razionalità e della conoscenza. Per possedere il mondo bisogna ritenerlo assolutamente al di fuori e indipendente dal nostro atto conoscitivo. Quando noi crediamo di possederlo piú intimamente, immaginando di crearlo col nostro pensiero, noi lo allontaniamo e lo condanniamo alla volatilizzazione e al nulla.

La questione degli universali, come si proponeva alla speculazione delle scuole al tramonto del secolo Xl, suggerita nella sua concreta formulazione dalla trasmissione dell'Organon aristotelico attraverso le delucidazioni porfiriane, che cos'era altro se non quello che secoli piú tardi, da Cartesio in poi, sarebbe stato definito il problema della conoscenza, il problema del rapporto fra il soggetto pensante e l'oggetto pensato, il problema del rapporto fra spirito e natura, fra io e non io, fra immanenza e trascendenza?

C'è nella nostra capacità cogitante la virtú di ridurre ad unità la molteplicità delle nostre percezioni sensibili. C'è nel nostro spirito la capacità di astrarre dal contingente e dall'effimero per assurgere alla ideazione dell'universale e del necessario.

Universale è tutto ciò che può predicarsi di molteplici realtà percepite. Al di là e al disopra delle nostre connotazioni individuali noi siamo in grado di parlare di realtà superindividuali la cui nozione, applicabile a molteplici oggetti, ne trasfigura l'essenza in uno schema ideale. Ma questo schema ideale è una pura convenzione idiomatica o è un puro ordine concettuale forgiato e schematizzato dalla nostra virtú di pensiero?

Il XII secolo incipiente conosceva già tutte le posizioni possibili al cospetto di questo problema, che è il problema della nostra natura e del rapporto fra la nostra spiritualità ed il reale altro da noi.

Il nominalismo di Roscellino, reviviscenza tipica della vecchia sofistica contro cui si levò il causalismo socratico, non vedeva nelle idee universali che formule verbali, povere e nude, spoglie di qualsiasi entitativa correlazione con la realtà.

In un primo momento Guglielmo di Champeaux aveva pensato che l'universale esistesse nelle singole realtà nella sua essenza e nella sua natura, sí che le specificazioni individuali non fossero che vanazioni tematiche di un unico motivo sussistente, appariscenze accidentali di un'unica ineffabile e sostanzialmente identica essenza. Erano le due posizioni estreme di cui era suscettibile la fede assoluta nella divina realtà di tutto ciò che esiste fuori di noi. Era, in formule teoretiche, il riconoscimento della subordinazione invalicabile dell'individuo alla specie, del singolo alla collettività.

Secondo il nominalismo il nostro parlare di realtà universali non è che l'espressione allucinata di un'unica consapevolezza dell'unicità dell'essere reale. Secondo il realismo a oltranza, questa realtà universale sottostante alle accidentalità peculiari dell'essere singolare non è qualcosa che sfugge alla presa della nostra comprensione riflessa come per il fideismo scettico dei nominalisti: è una realtà, il contatto con la quale ci è direttamente comunicato sol che teniamo presenti i caratteri accidentali delle apparizioni singole. Il funzionamento tecnico del pensiero e il quesito della sua validità sono estranei all'altro atteggiamento metafisico.

Ed è qui la grande storica novità introdotta da Abelardo nello sviluppo del pensiero cristiano partito alla ricerca di una sistemazione razionale della sua visione della realtà.

Per Abelardo il concetto universale, la nozione cioè predicabile di molteplici oggetti individuali, non è una pura parola, ma non è neppure una realtà concreta e palpabile: è un sermo. Vale a dire, è il risultato di una funzione logica dello spirito, il risultato di una nostra capacità cogitante, dotata da natura e per natura di una virtú speciale, quella di creare e di applicare alla realtà le categorie universali. È già la virtú della sintesi a priori.

Si sarebbe potuto dire a prima vista che con la introduzione di questo concetto del sermo o virtú logica di creare l'universalità disciplinatrice della conoscenza, Abelardo non facesse altro che ripristinare in pieno la gnoseologia aristotelica ancora male appresa e male raffigurata dalla dialettica di Roscellino o di Guglielmo.

In realtà egli faceva molto di piú. Perché la dottrina della conoscenza di Aristotele era stata a suo tempo una multiforme e multanime raffigurazione dei processi spirituali e una elasticissima aderenza alle forme molteplici della percezione umana. In polemica con Platone, Aristotele aveva negato qualsiasi carattere aprioristico alla conoscenza umana e aveva fatto dell'intelletto agente una vera virtú trasfiguratrice e sistematrice del reale. Ma nel medesimo tempo aveva attribuito una speciale e preziosa capacità di comprensione alla umana esperienza, sostenendo e proclamando che anche nel «subire passioni» (nel significato etimologico greco della parola) c'è una possibilità di «apprendimento».

Abelardo riporta il problema degli universali direttamente ed esclusivamente al problema dell'origine del procedimento e del valore della conoscenza intellettuale. Il reale veniva cosí già ad essere potenzialmente e latentemente assorbito nella virtú della conoscenza e la spiritualità dal soggetto pensante scendeva ad investire l'oggetto pensato per annullarne il divario da noi e per introdurlo in una sfera universale di spiritualità di cui soggetto ed oggetto non erano che una polarizzazione effimera e transitoria nel processo integrale dello spirito che adegua se stesso.

E poiché in ogni sopravalutazione della capacità creante del soggetto che pensa c'è sempre fatalmente ed automaticamente un tentativo di riduzione della religiosità a termini di razionalità, noi troviamo già in Abelardo, come tanti secoli piú tardi in Emanuele Kant, lo sforzo di introdurre la religione per entro i limiti della sola ragione.

L'insurrezione dell'ortodossia guidata da San Bernardo contro l'apologetica e la metafisica di Abelardo, con le condanne di Soissons e di Sens, non furono altro che la reazione naturale dell'inviolabile dominio teologico che sentiva minacciate le sue basi tradizionali.

Se nel De unitate et trinitate divina Abelardo si dedicava a tradurre il dogma trinitario, quel dogma che alle sue origini e nella sua epoca aurea era stato una trascrizione dogmatica della filosofia della storia suggerita dagli elementi escatologici del messaggio cristiano primitivo, nel Sic et Non Abelardo mette a profitto i risultati acquisiti dai sentenziari medioevali ma non affastella piú disordinatamente e indiscriminatamente le opinioni dei Padri intorno a ciascun dogma; cerca invece di mettere in evidenza le antilogie del pensiero patristico opponendo alle affermazioni positive (sic) le affermazioni contrarie (non). Il dissidio altrimenti irriducibile deve essere secondo Abelardo sanato e risolto mercè l'esame critico e mercè la discussione dialettica.

E perché nulla mancasse al valore prefigurativo dell'opera di Abelardo in quell'ora capitale dello sviluppo cristiano in Europa che fu segnata all'alba del secolo XII, Abelardo va anche lui alla ricerca, come piú tardi Emanuele Kant, di una morale autonoma e scrive il trattato: Scito te ipsum.

Quel che conta nell'operare, secondo Abelardo, è la testimonianza della coscienza. Solo attraverso la coscienza la legge si rivela e si afferma. Solo nella coscienza è la norma e il principio del bene. Il peccato è soltanto là dove la coscienza nega se stessa e si abbassa.

Chi proceda nella luce della propria coscienza è fondamentalmente senza peccato.

Le vicende romanzesche della vita di Abelardo, dal dramma d'amore con Eloisa, con le sue tragiche conseguenze, alle lotte con le comunità monastiche e alla solitudine del Paracleto (non per nulla Abelardo si pone sotto l'egida di quello Spirito Santo a cui pochi decenni piú tardi Gioacchino da Fiore attribuirà l'imminente còmpito, non di illuminare l'intelligenza, ma di rinnovare la vita globale della Chiesa e della società), accompagnano la carriera del filosofo quasi a dar figura simbolica ad ogni suo gesto e ad ogni suo passo.

Immenso veramente il significato di Abelardo. Di fronte alla tradizione cristiana egli si pone in atteggiamento di giudice e di arbitro. Il suo formidabile istinto critico ha modo di manifestarsi soprattutto nelle scorribande patristico-ecclesiastiche del Sic et Non. Non è sull'uno o l'altro punto della dottrina cristiana che egli constata o fa constatare le divergenze apparenti o reali: è bensi sull'insieme stesso della teologia e del diritto ecclesiastico. Con rigore sconcertante Abelardo si compiace di dimostrare come non c'è punto dell'insegnamento tradizionale cristiano che non abbia suggerito ai Padri soluzioni l'una all'altra opposte in irriducibile contrasto.

Non era questo un modo di gettare il piú risibile discredito sull'autorità stessa della tradizione cristiana? Abelardo in realtà non nutriva alcuna intenzione perversa. Egli voleva soltanto, mettendo a nudo le contraddizioni palmari delle testimonianze patristiche, far risaltare l'urgente necessità di affrontare risolutamente il problema della loro armonizzazione.

Residui di ossequio religioso affiorano nella posizione abelardiana. Egli afferma in linea preliminare che noi nel leggere i testi dei Padri non disponiamo di quella luce dello Spirito di cui disponevano i Padri nello scriverli. C'è qui, piú o meno avvertita, la consapevolezza che la storia della Chiesa è entrata in una fase nuova, dove verranno a mancare quelle assistenze soprannaturali che l'avevano accompagnata nell'ora della sua epica creazione? Lo si direbbe. Comunque Abelardo si apre la via ad una reintegrazione delle discordanze patristiche mettendo insieme una prima serie di riflessioni sulla mutevolezza dei significati idiomatici. I termini infatti cambiano di significato secondo i bisogni del linguaggio, secondo l'abilità dello scrittore, secondo la rispondenza dell'uditorio, secondo l'uso di un determinato momento, secondo la stessa incompiuta adeguazione dei vocaboli al fondo sostanziale del nostro pensiero.

Armato già di metodo critico, Abelardo ammonisce in secondo luogo sulla necessità di mettere a prova la autenticità delle opere consultate, come di sottoporre a revisione i testi studiati per affrancarli da interpolazioni e dagli errori degli amanuensi. In terzo luogo Abelardo, già perfettamente edotto della necessità del metodo comparativo, raccomanda di non limitarsi mai all'accettazione di un solo testo e inculca l'onere di ricorrere a tutte le comparazioni possibili. Ma al disopra di tutte queste misure precauzionali e preventive, quel che Abelardo inculca, patrocina e celebra come l' arma infallibile per la risoluzione di tutte le difficoltà offerte cosí dalla riflessione concettuale come dall'erudizione artistica, è la dialettica.

La dialettica è additata da Abelardo sia come legge tecnica di tutta la speculazione medioevale filosofica e teologica, sia come primo preludio alla scienza della filosofia del linguaggio. Tutto il pensiero teologico dovrà passare per questa trafila, poiché anche la teologia consiste tutta in enunciati concettuali e proposizionali sulla realtà divina.

E non è tutto. Perché la teologia non è solamente raccolta, coordinazione e sistemazione dei testi della rivelazione o delle espressioni successive di queste rivelazioni nel corso dei secoli. Essa è anche, al di là di questo còmpito già di per sé tipicamente razionale, una elaborazione costruttiva nella quale la ragione è introdotta quale fattore positivo di intelligibilità.

Ricorda Abelardo in un passo della sua Historia: «I miei studenti esigevano e postulavano ragioni umane e filosofiche. Avevano bisogno di spiegazioni comprensibili, piú che di affermazioni apodittiche. Asserivano che è inutile assolutamente parlare, se non si offre la comprensibilità dei propri enunciati. Dichiaravano apertamente che si può soltanto credere quello che si è prima compreso e che è completamente ridicolo insegnare agli altri quel che non può essere compreso né da chi insegna né da chi apprende».

È questa esigenza d'intelligibilità cosí largamente diffusa nell'atmosfera circostante che induce Abelardo a dettare quel trattato sulla Trinità divina che segna la sua prima audacia teologica.

Ormai la società cristiana ha bisogno di sistemare concettualmente le posizioni acquisite, e invece di sentire la fede come una capacità di conquista e di rinnovamento sociale la sente soltanto come oggetto di riflessione concettuale e di tacitazione psichica individuale. In Sant'Anselmo la fede era andata alla ricerca dell'intelligenza. In Abelardo l'intelligenza vuole essere l'avviamento alla fede. Innegabilmente il dogma e le realtà della fede rimangono per Abelardo qualche cosa di inviolato e di inviolabile. Egli dichiara in tutte lettere che il mistero è impenetrabile, ed ha sempre ritenuto che le sue comparazioni naturali non esaurissero la realtà profonda e irraggiungibile del dogma.

Ma il cammino della trasformazione delle numinose realtà della esperienza sacrale in elementi di riflessione concettuale, è un cammino lungo e periglioso. Abelardo non l'ha compiuto e non l'avrebbe potuto compiere per intiero. Ma ha aperto la strada e ha dato l'abbrivo. Se egli non è razionalista né illuminista nel vero senso della parola, al razionalismo e all'illuminismo ha aperto la strada.

Sant'Anselmo ignorava ancora il termine di theologia come termine della scienza sacrale. Quando egli accennava alle questioni religiose, parlava piuttosto delle questioni offerte dalla «sacra pagina». Audacemente e simbolicamente Abelardo ha scritto una vera «Theologia», di cui il frammento che noi conserviamo porta forse inesattamente, ma ancor piú simbolicamente, il titolo «Introductio ad theologiam».

Non è senza profondo significato il fatto che Abelardo si sia trovato dinanzi, oppositore irriducibile e avversario senza pietà, Bernardo di Chiaravalle, il riformatore dell'Ordine benedettino, il predicatore della Crociata, il patrocinatore di Innocenzo II di contro ad Anacleto II, ed abbia trovato il suo patrocinatore amabile e discreto nell'ultimo grande rappresentante del monachismo cluniacense, Pietro il Venerabile. In questi uomini, che si combattono o s'incontrano, sono tutte le vecchie e le nuove tendenze del cristianesimo storico.

Non è senza significato il fatto che Abelardo spieghi la sua apologetica razionalistica a pochi anni di distanza da quel Berengario di Tours che aveva applicato principî razionalistici alla esposizione del dogma eucaristico. Anch'egli si era armato di dialettica, aveva parlato il linguaggio di Aristotele e di Porfirio, era insorto contro i decreti conciliari. Anche Berengario aveva sottoposto al vaglio della logica i dati incontrollabili della fede ed aveva fatto del problema della conoscenza il problema capitale della riflessione filosofica. Ma quel che là era embrionale e immaturo, qui in Abelardo è organico e sistematicamente esposto.

Secondo l'insieme della produzione abelardiana, noi possiamo effettivamente riconoscere che la crisi ideologica della Cristianità è ormai al suo punto culminante. Il fermento della razionalità, che è per natura e per definizione divoratrice e annegatrice della fede e dei carismi, era stato da lui deposto funestamente nel grembo stesso della speculazione cristiana.

Non avrebbe piú cessato di fermentare.

Quand'egli moriva non lungi da Cluny il 21 aprile 1142, San Bernardo era nel pieno della sua attività politica. Gioacchino da Fiore era ancora fanciullo nel suo paesetto calabrese di Celico, e nel cenobio di San Vittore alle porte di Parigi l'insegnamento incerto e crepuscolare di Guglielmo di Champeaux ripullulava, estrema propaggine mistica della spiritualità medioevale, nelle contemplazioni di Ugo e di Riccardo.

Erano le ultime difese della gnoseologia mistica del Medioevo contro al sopravvenire di una pura apologetica razionale che, per il fatto stesso di fare precipuo assegnamento sulle forze della dialettica, avrebbe lentamente ma irrimediabilmente corroso quell'abbandono extra razionale alle forze trascendenti di Dio e della sua Provvidenza, di cui era vissuta da secoli e secoli non solamente l'esperienza religiosa uscita dal Vangelo, ma si potrebbe dire tutta la spiritualità del mondo mediterraneo.

La scuola dei Vittorini pertanto con a capo Ugo, rappresenta, all'indomani stesso della scomparsa di Guglielmo di Champeaux, l'ultima trincea della misticità medioevale di fronte al sopravvenire della dialettica nel campo della teologia. Per constatarlo basta ricercare nelle opere di Ugo (De arca Noe morali, De Arca Noe mystica, De vanitate mundi, Soliloquium de arrha animae) la complessa dottrina della conoscenza, in cui l'intima esperienza mistica si fonde e si accoppia al discorso dialettico.

Secondo Ugo infatti l'anima razionale non è tutta nel pensiero. Essa comprende ed esercita tre diverse capacità di visione, che sono il pensiero, la meditazione, la contemplazione.

Il pensiero si realizza quando la mente è colpita fugacemente dalla percezione delle cose e la realtà si offre allo spirito col proprio fantasma, o penetrando mercè i sensi o risorgendo dalla memoria sensibile. La meditazione invece consiste essenzialmente in un'assidua e sottile riflessione sul pensiero la quale, o tende a spiegare quel che è oscuro ed involuto, o si sforza di penetrare in quel che è occulto. Infine, secondo Ugo, la contemplazione è un intuito libero e perspicace dello spirito che si protende da ogni parte per leggere in una cosa fino al suo fondo.

La contemplazione si diversifica dalla meditazione per questo: la meditazione si applica a realtà ignote alla nostra intelligenza, mentre la contemplazione si applica piuttosto a realtà note, siano esse note nella loro stessa natura, siano note per virtú nostra. Sicché la contemplazione prende possesso di quel che la meditazione indaga. Da questa si passa a quella mercè un intimo approfondimento dello spirito nella realtà da cui esso è naturalmente avvolto.

Come si vede, per Ugo la realtà esterna, l'altro da noi, è qualcosa che non si esaurisce, non si annulla e non si volatilizza attraverso la capacità raziocinante del nostro pensiero astratto.

«La meditazione», egli dice, «implica una specie di conflitto tra l'ignoranza e la scienza. La luce della verità allora sprizza di fra la caligine dell'errore, come un fuoco che mal si apprende dapprima ad un legno verde. Ma quando il fuoco sia alimentato da forte vento e quando piú violentemente abbia cominciato ad ardere nel legno attaccato, noi scorgiamo innalzarsi nubi caliginose di fumo, traversate ininterrottamente da guizzi purpurei di fiamma. Infine, propagatosi l'incendio, eliminata ogni caligine e ogni nube, appare limpido il solo splendore. E allora la fiamma vittoriosa, trascorrendo trepidante da un estremo all'altro del rogo, domina, avvolgendola tutta, la materia soggiacente e, stringendola in un amplesso impalpabile, la brucia e la consuma. Né si placa finché, penetrando nelle sue intime viscere, non abbia tratto a sé tutto ciò che v'era fuori di sé. E quando nell'incendio tutto quello che poteva essere arso e incenerito sia evaso dalla propria primitiva natura per trasformarsi nella similitudine e nella proprietà del fuoco, allora ogni fragore viene meno, ogni scricchiolio si assopisce, scompaiono i guizzi fiammanti, e il fuoco vorace, avendo tutto assorbito e incorporato in se stesso, si chiude nella sua pace silenziosa».

L'immagine è calzante ed eloquente. La contemplazione equivale al silenzio dello spirito che ha divorato ed ha assimilato nella fiamma incandescente del suo fervore il mondo intiero delle realtà periture tras:figurandolo nei valori dell' eternità.

Ugo però non perde mai la sensazione precisa e invalicabile della distinzione della duplice sfera di oggetti proposti allo spiegamento della capacità contemplativa: gli oggetti visibili e quelli invisibili.

«Dio», dice Ugo da San Vittore, «dà notizia di sé al cuore umano in quattro modi: due interni, due esterni, due attraverso la natura, due in virtú della grazia; internamente mercè la ragione e il desiderio; esternamente attraverso la creazione e la scienza. Alla natura appartengono la ragione e la creazione. Alla grazia appartengono l'aspirazione e la dottrina. Gerarchicamente le quattro vie vanno cosí distribuite: al primo posto la ragione, al secondo la creazione, al terzo la dottrina, al quarto il desiderio. La ragione investiga la fede, la creazione la conferma, la dottrina la spiega, l'aspirazione e la innata esigenza la confermano».

Cosí, quando già Sant'Anselmo aveva affidato la credenza in Dio ad un apodittico ragionamento razionale e mentre Abelardo aveva inserito nei metodi della teologia la piú scrupolosa dialettica, Ugo persisteva nel porre al vertice della scala in cui si distribuiscono le capacità conoscitive dell'uomo il raggiungimento mistico diretto. E ad agevolare questo raggiungimento mistico diretto tendono tutti gli sforzi contemplativi del Vittorino.

Il suo Soliloquium de arrha animae, ad esempio, è concepito ed impostato come un interrogatorio cui l'uomo sottopone la propria anima. L'uomo in questo caso non è un intelletto che ricerca, è invece un amore che tende al possesso del proprio oggetto. Non ha lacune conoscitive da colmare, ha esigenze affettive da appagare. «Dimmi, o anima, te ne supplico; che cosa mai ami tu sopra ogni cosa? So molto bene che la vita tua è amore e so molto bene che senza amore non puoi sussistere».

Ugo passa quindi minutamente in rassegna le esigenze multiformi dell'anima, tutte ugualmente inappagabili dal tumulto e dalle realizzazioni effimere della vita quotidiana. Una sola realtà può placare ed estinguere la sua ardente sete: Dio. Sulla traccia del Cantico dei cantici, Ugo lo designa come lo sposo dell'anima e parla della loro unione come di un imeneo. L'esperienza della comunanza intima con Dio appare al mistico di San Vittore come l'atmosfera indispensabile al pieno e sicuro respiro dell'anima.

La comunità monastica appare all'agostiniano di San Vittore come il campo sperimentale dell'agape cristiana, come l'impalpabile temperie della inserzione nel Cristo mistico, come il terreno propizio alla germinazione e alla maturazione della piena vita interiore. «Ti ho detto, anima, che anche l'associazione con gli uomini sia stata concessa in dono dal Creatore onde tu ne ricavi il gusto del vivere e affinché tu non ti esaurisca nella solitudine di una esistenza isolata».

Cosí, mentre la dialettica aristotelico-abelardiana si insinuava per entro il recinto chiuso della speculazione religiosa cristiana, portandovi germi di un impoverimento e di una deviazione inarrestabili, Ugo persisteva, con inconsapevole senso di rimpianto, a rievocare e a ricelebrare i motivi della vecchia mistica associata evangelica.

Il suo De vanitate mundi è probabilmente, da questo punto di vista, il suo saggio piú significativo. Anche qui l'anima umana è direttamente interpellata. Ma questa volta è interpellata dalla ragione ed è da questa ammaestrata ed ammonita, perché scorga, come dall'alto di un monte, «le realtà mirabili del mondo, vecchie per gli antichi, nuove per i presenti, destinate a sopravvivere per i futuri».

Ma si deve ben comprendere di qual genere di visioni si tratti.

«Quando», scrive Ugo, «tu, o anima, sei invitata a riguardare intorno a te, non devi affatto rivolgere il tuo pensiero a quel che costituisce la visione del tuo occhio visibile. Tu possiedi un secondo occhio, interno, molto piú acuto e perspicace del tuo occhio corporeo, che figge contemporaneamente lo sguardo nel passato, nel presente, nel futuro, che la luce della sua visione per tutto diffonde, che traversa il mondo occulto, si apre una via fra le realtà piú sottili, fa a meno del soccorso di qualunque luce esterna, e tutto avvolge nell'alone del suo splendore. L'occhio di carne è incapace di afferrare insieme quel che si contiene nell'ammaestramento mistico: a questo pertanto occorre apprestare non l'occhio della carne, bensi l'occhio del cuore. Riduciti quindi, o uomo, quasi nella specola della tua mente, e dirigi di là il raggio della tua esplorazione spirituale per tutta l'ampiezza del mondo, si che questo sia sotto la portata della tua contemplazione. Allora ti sarà spiegato dinanzi l'universo, quale tu mai scorgesti, o scorgendolo non afferrasti».

Nella meditazione del mistico di San Vittore riaffiora il motivo centrale e familiare di ogni esperienza iniziatica. Le stesse religioni di mistero, di cui il cristianesimo non era stato che la sublimazione, non erano nate dalla convinzione profonda che c'è un modo di vedere non vedendo, di scorgere nelle tenebre, di ascoltare senza cogliere vociferazioni rumorose? L'uomo possiede una duplice capacità visiva: la capacità sensibile, la visione empirica, l'optasia, come potremmo dire, e la capacità spirituale, la visione interiore, la virtú della apocalissi. Il mondo non è soltanto spiegamento materiale e concatenamento causale di fenomeni, cadenti sotto la presa fugace e superficiale dei sensi. È piuttosto l'involucro appariscente e superficiale di una ulteriore realtà «numinosa», a cogliere la quale occorre aguzzare lo sguardo dell'io intimo e delle forze spirituali. Alla visione mistica si ascenderà attraverso la rassegna minuta dello spettacolo che offrono le varie manifestazioni empiriche della vita quotidiana. La ragione ne farà la descrizione passando in rassegna le molteplici concrete espressioni di questa vita quotidiana.

Ma il segreto della vita non può essere risolto che in virtú di un trasferimento consapevole e volontario dalle ingannevoli e mutabili apparenze del mondo nella sfera delle realtà e dei valori imperituri, dai quali noi siamo, nella nostra esperienza sensibile, esuli e remoti. «Nulla piú dolce», scrive Ugo esule a San Vittore, egli che era nato probabilmente in terra fiamminga, «che il rammemorarsi, in terra straniera, dei sentimenti passati!». Tutta la natura, osserva, continuando, il mistico, manda all'orecchio ascoltante dell'uomo la voce di un'unica esortazione, essa che consta di esseri i quali corrono verso il raggiungimento del loro fine naturale. L'uomo non è che una nota della sinfonia delle cose che tutte si affrettano verso la meta. E meta dell'uomo è unicamente Dio. Dio è il supremo nocchiero: il mondo è il diluvio; il cuore umano, l'arca noetica, che tocca con il suo fondo il tumulto del mare e attinge con la contemplazione il riposo nell'Assoluto.

«Salire a Dio significa entrare in se stessi e non solamente entrare in se stessi, ma entrare in un mondo misterioso e stupendo, traversare nell'imo se stessi e procedere oltre. Sale veramente a Dio colui che penetrando interiormente in se stesso travalica sé e il suo mondo intimo». La famosa pagina delle Confessioni in cui Sant'Agostino tratteggiò in termini ineffabilmente suasivi la contemplazione mistica dell'ultima nottata trascorsa ad Ostia con sua madre, sembra riecheggiare nelle pagine del Vittorino.

La vita dello spirito è indicata parimenti come una progressiva sottrazione di sé al fascino abbagliante dello spettacolo sensibile per ricercare attraverso gli abissi della coscienza l'orma di Dio. A questo punto la certezza soteriologica si viene ad innestare sulla inquietudine naturale che spinge al divino. Nessun mezzo migliore l'uomo possiede per comunicare con il suo io profondo, che quello offerto dalla meditazione dei mezzi che conducono alla salvezza. «L'uomo», scrive Ugo, «rientra in se stesso quando medita tutto ciò che si riferisce alla propria salvazione. Ci sono cose meditando le quali il cuore dell'uomo è spinto in basso, è dissipato e distratto, ma ve ne sono altre amando e cercando le quali è innalzato e reso a se stesso». Cosí il problema del divino è posto da Ugo non soltanto come oggetto di indagine intellettuale, ma come occasione di purificazione e di elevazione interiori.

La totalitarietà della vecchia esperienza cristiana è ancora intatta e normativa a San Vittore.

Aveva scritto Abelardo in una sua lettera: «Non saremo capaci di impugnare e di abbattere le obiezioni mosse da una qualsiasi categoria di eretici e di infedeli se non sapremo distruggere le nuove argomentazioni, se non sapremo con buoni sillogismi contrapporci ai loro sofismi affinché il falso sia opposto al vero e i dialettici vincano gli pseudo-ragionatori: sempre pronti, secondo l'ammonimento di San Pietro, ad offrire, a chiunque ce la chieda, la giustificazione di quella speranza o di quella fede che è in noi. Quando in simile contraddittorio avremo convinto di errore i sofismi, ci saremo dimostrati buoni dialettici. E noi saremo tanto piú fedeli e vigili discepoli del Cristo, che è verità, quanto piú ci faremo forti della verità delle nostre argomentazioni».

Dialettica contro mistica: qui è il contrasto fra Abelardo e la scuola vittorina rinvigorita dal suo maestro Guglielmo.

Il principio animatore di altre correnti teologiche dell'epoca, sboccanti in posizioni giudicate eterodosse, non è diverso da quello di Abelardo. Anche Gilberto de la Porrée, ad esempio, tratta il proposito di costituire una apologetica razionale del dogma. Gilberto è precisamente da questo proposito indotto ad una distinzione fra la divinitas astratta e il deus personale, perché la divinità concepita come realtà essenziale astratta poteva essere il risultato di un procedimento dialettico, mentre il rapporto personale con Dio era il risultato di un imponderabile atto di fede.

Fatalmente l'indirizzo strettamente razionale portava ad una concezione panteistica da cui non ci si poteva salvare che in nome di un apprendimento puramente esteriore dei valori tradizionali della fede cristiana. Il cristianesimo cominciava ad essere estraneo a se stesso e nella vita della spiritualità collettiva si instauravano compartimenti divisori che sarebbero venuti adagio adagio a paralizzare e ad ostacolare la unitaria circolazione della grazia nell'organismo cristiano. È per questo che la polemica contro il panteismo di Gilberto de la Porrée condurrà fatalmente la sistemazione teologica di Pier Lombardo a collocare al primo posto le proposizioni e i quesiti concernenti Dio uno e trino.

La visione dei Vittorini rimane ancora l'ultima superstite visione cristiana unitaria e squisitamente soteriologica.

Ugo vede succeduti l'uno all'altro due grandi periodi: lo stato di natura e lo stato di grazia. E tutto quello che caratterizza e alimenta la spiritualità nel periodo che segue il meriggio della rivelazione nel Vangelo è per lui Sacramentum. Per cui la religiosità, prima che riflessione o speculazione, gli appare movimento e atto di forze pre-razionali. In tutti i suoi trattati Ugo consacra immutabilmente le prime sue enunciazioni alle virtú elementari e primordiali dello spirito nel processo del suo cammino verso l'Assoluto.

Anche Abelardo nella sua teologia aveva preso lo spunto dalla definizione delle virtú cardinali. Ma le definizioni abelardiane tradiscono ben diverso contenuto da quelle del Vittorino. Aveva scritto Abelardo: «Tre sono, come credo, i valori su cui poggia l'essenza della salvezza umana: cioè la fede, la carità e il Sacramento. Reputo la speranza compresa nella fede, come la specie nel genere. Fede infatti è valutazione di realtà non apparenti, vale a dire non soggiacenti ai sensi del corpo. Speranza invece è aspettazione del raggiungimento di qualche vantaggio. In altri termini si spera, quando si crede che si conseguirà un bene. La fede pertanto abbraccia cosí realtà buone come non buone e si estende al passato e al presente oltre che al futuro, mentre la speranza investe finalità solamente buone e future. Ché, in verità, l'aspettarsi qualche cosa di malefico non è piú una speranza, ma una disperazione, una piena diffidenza del bene. La carità infine è un amore onesto, rivolto ad un oggetto conveniente».

Pur muovendosi sulla medesima falsariga tradizionale, che è quella agostiniana, la dottrina delle virtú cardinali, formulata da Ugo, ha tutt'altra movenza. Egli definisce la fede: «Una volontaria certezza di realtà assenti costituita al di là dell'opinione, al di qua della scienza». E ogni parola della definizione è da Ugo delucidata e spiegata. «Volontaria» egli dice, «perché non costretta; di realtà assenti, perché non sottoposte alla presa dei sensi; al disopra dell'opinione; perché il credere è molto piú del pensare; al disotto della scienza, perché il credere è meno del sapere. E noi crediamo, per sapere poi un giorno». Il vecchio inciso paolino: «siamo ora pencolati a guardare nel fondo di un enigmatico abisso come attraverso uno specchio, ma verrà giorno in cui conosceremo in pienezza come saremo stati conosciuti», è quasi palesemente riecheggiato.

Quindi Ugo indaga il rapporto scambievole delle tre virtú. E in questa indagine noi cogliamo, in una maniera graficamente impressionante, la diversità fra l'atteggiamento del mistico, che è ancora sulla linea della tradizione ecclesiastica, e l'atteggiamento del maestro di dialettica, che schiude le porte alla veniente età dell'illuminismo scolastico. «Dalla fede», scrive Ugo, «sgorga la speranza, che può definirsi in questo modo: la speranza è una fiducia in beni futuri nascente dalla grazia di Dio e dalla buona coscienza. La speranza e la carità zampìllano, come da loro sorgente primigenia e da loro naturale fondamento, dalla fede, perché nulla è possibile sperare, e sperandolo amarlo, se in anticipo non si sia creduto. Mentre si può benissimo credere quel che non si spera e non si ama. E poiché la speranza è una certezza nascente da meriti precedenti, e sperare senza meriti è una pura presunzione, e d'altro canto non si dà merito senza carità, occorre concludere che la speranza nasca dal connubio della fede e della carità».

Ugo ritorna altre volte nelle varie sue opere sulla nozione della fede. L'ispirazione mistica di tutta la sua speculazione appare sempre viva e profonda e i suoi atteggiamenti si riprodurranno nel suo discepolo Riccardo come in forma poetica nel cantore della comunità di San Vittore, Adamo.

Nel suo Benjamin maior Riccardo contrappone all'esercizio lento e faticoso della ragione, operante sui dati compositi della fantasia, il volo rapido e intuitivo della contemplazione amorosa. «Occorre ricordare», egli scrive, «che noi possiamo raggiungere i medesimi oggetti attraverso il pensiero, elaborarli attraverso la meditazione, riguardarli in virtú della contemplazione. Se il materiale è il medesimo, la maniera di trattarlo è profondamente diversa. Il pensiero procede lentamente per sentieri disparati e sinuosi, noncurante di quando giungerà alla meta. La meditazione si affretta con lena affannosa per le scorciatoie piú aspre verso la meta. La contemplazione, con audace battito d'ala, si trasferisce prodigiosamente dovunque la sospinga il suo intimo impeto. Il pensiero va serpeggiando: la meditazione cammina, la contemplazione vola. Il pensiero non è un vero lavoro e non produce frutto. La meditazione è un lavoro fruttuoso. La contemplazione è frutto senza sforzo».

Si comprende a quale delle tre espressioni della vita e dell'attività dello spirito andassero le preferenze di Riccardo. Sulla natura, le proprietà, i tipi vari della contemplazione, Riccardo si intrattiene di preferenza, rielaborando quel che egli aveva ascoltato alla scuola di Ugo, cui allude con il verdetto lusinghiero: «Ugo è stato il migliore teologo dei nostri tempi». «La contemplazione», egli dice, «è una libera ed agile capacità perspicace dello spirito, esercitata con ammirazione sugli spettacoli della sapienza».

In questo ambiente di San Vittore tutto pervaso del senso misterico della salvezza cristiana, non poteva fare a meno di maturare una esperienza di poeta, ed è l'esperienza del terzo dei Vittorini, Adamo.

Le sequenze di Adamo sono fra le piú alte e le piú nobilmente ispirate di tutta la poesia ecclesiastica medioevale. Il misticismo, sgorgato dalla pratica della Regola agostiniana tra esperti del tirocinio delle scuole teologiche, tocca in Adamo la pienezza del suo ardore e la perfezione della sua espressione.

Bretone di nascita, Adamo raccoglie e traduce in versi l'esperienza di Ugo e di Riccardo. Quel che il grande Notkero era stato per il primo periodo della poesia liturgica ecclesiastica, Adamo lo è stato per il secondo: il periodo cioè della disciplina ritmica e della distribuzione in strofe. Le sue sequenze posseggono una musicalità squisita, un ritmo meravigliosamente cadenzato, un contenuto devozionale intenso.

Se Ugo è in qualche modo il precursore della Summa di San Tommaso, dove aspirazioni mistiche ed esercizio dialettico tentano ancora una volta di fondersi in un delicatissimo connubio e in un fragile, estremo equilibrio, Adamo è effettivamente il precursore del Pange lingua. Ma il tema preferito del suo canto religioso è lo spirito divino e i suoi ineffabili doni. Canta Adamo nella piú fine delle sue sequenze lo Spirito Santo, ricordando la Pentecoste:

«Lux jucunda, lux insignis,
qua de throno missus ignis
in Christi discipulos,

corda replet, linguas ditat,
ad concordes nos invitat,
linguae, cordis modulos.

Christus misit quod promisit
pignus sponsae quam revisit
die quinquagesima.

Post dulcorem melleum,
petra fudit oleum,
petra jam firmissima.

In tabellis saxeis,
non in linguis igneis,
lex de monte populo.

Paucis cordis novitas
et linguarum unitas
datur in coenaculo.

O quam felix, quam aestiva
dies in qua primitiva
fundatur Ecclesia!».

«O luce gioconda, luce insigne attraverso cui il fuoco
inviato dal trono sui discepoli del Cristo ne riempie i cuori, ne arricchisce le lingue, tu, o luce, inviti noi a concordi modulazioni di lingua e di cuore. Il Cristo ha inviato alla sua sposa il pegno che le aveva promesso, alla sposa che rivisitò nel cinquantesimo giorno. La pietra già solidissima diffonde la dolcezza del miele e la pinguedine dell'olio. Nella vecchia legge la parola di Dio fu data dal monte al popolo in tavole di sasso, non in lingue di fuoco. Nel Cenacolo eletto è data a pochi la novità di cuore e l'unità delle lingue. Che giorno meraviglioso, che giorno fecondo, quello in cui fu fondata la primitiva Chiesa!».

La Chiesa era nata infatti dall'effusione dello Spirito sulle anime di un manipolo di credenti destinati a sparpagliarsi nel mondo per la propagazione della buona novella. Quel manipolo aveva creato una nuova civiltà. Ora che questa civiltà aveva portato a compimento le sue possibilità di creazione, il Paracleto, lo Spirito Santo, tornava ad essere argomento di appassionato amore, ma nel medesimo tempo di laceranti discussioni.

Abelardo, nel primo tragico contatto con la realtà ribelle alla sua innovatrice propaganda razionale, si rifugiava nella solitudine e dedicava il suo rifugio al nome del Paracleto. La esperienza mistica dei Vittorini si riassommava nel canto pentecostale di Adamo. Giú, frattanto, nella solitudine dei boschi silani, un cistercense calabrese faceva dello Spirito Santo, con una reviviscenza improvvisa del fascino apocalittico della Cristianità primitiva, l'antesignano divino della nuova età. Piú lontano di tutti si spingeva il presagio del monaco italico, vero preannunciatore della grande Riforma.

La crisi in cui stava per esser gettata l'eredità delle tradizioni cristiane avrebbe ben meritato di essere risolta attraverso il sogno fatidico del contemplatore di Celico.

Share on Twitter Share on Facebook