IX SANT'ANSELMO E LA PRIMA DIMOSTRAZIONE CRISTIANA DI DIO

Per uno di quei paradossi che spesseggiano cosí numerosi nella storia della tradizione cristiana e sono la prova palmare e incontrovertibile della singolarissima dialettica che presiede alla sua trasmissione nel tempo, è proprio un monaco a rivelare a mezzo il secolo undecimo la profonda trasformazione che si viene effettuando nel mondo cristiano sotto la pressione di circostanze economico-sociali, cosí nella struttura stessa del pensiero cristiano come negli indirizzi nuovi dell'apologetica religiosa. Questo monaco che partecipa d'altra parte attivamente a tutta la vita ecclesiastica del secolo undecimo, è Anselmo.

Nato ad Aosta nel 1033 da Gandolfo longobardo e da Ermengarda, probabilmente di prosapia romana, Anselmo trascorre nella sua nativa Augusta Praetoria gli anni della fanciullezza, ai piedi di quelle Alpi che, secondo la frase del suo biografo, Eadmero, dovevano apparire alla sua ingenua fantasia come l'arduo accesso alla Reggia di quel Dio che è nei cieli. Venticinquenne appena, emigrava dall'Italia e andava a raggiungere Lanfranco nella Badia di Bee. Quando Lanfranco fu chiamato nel 1062 a reggere come abbate Santo Stefano di Caen, Anselmo gli succedeva nel priorato. In tale carica rimaneva un quindicennio per assumere poi la successione di Erluino, nella dignità abbaziale. Dopo un altro quindicennio, raccoglieva a Canterbury la successione arcivescovile del suo Lanfranco. La lotta delle investiture lo avrebbe trovato «monasticamente» addestrato alla rigida resistenza. L'esilio lo faceva partecipare in Italia nel 1098 ad un sinodo barese e un anno dopo ad un sinodo romano.

L'ultimo triennio della sua vita egli però lo poteva trascorrere reintegrato nella sua sede vescovile (1106-1109), ricco di meriti ecclesiastici e di opere culturali, che dànno alla sua figura un rilievo di primissimo ordine nella traiettoria di sviluppo del pensiero cristiano, Anselmo è e rimane monaco, inalterabilmente, in tutta la sua vita, nel fondo della sua anima, in tutto il giro delle sue aspirazioni.

In uno dei capitoli di quel singolare libretto che Eadmero ha compilato basandosi sui propri ricordi, col titolo De sancti Anselmi similitudinibus, la popolazione del Regno di Dio è ripartita in tre classi: quella dei semplici fedeli, che si trovano nella città del loro Signore, esposta a tutte le scorrerie e a tutte le depredazioni del nemico; quella dei monaci, i quali dimorano nel castello e sono al sicuro da ogni rischio, finché materialmente o spiritualmente non cedano alla tentazione di tornare alla rischiosa circolazione delle città; infine quella degli angeli, ospiti dell'inviolabile torrione.

Strano osservare come il mondo angelico occupi un posto di preminente rilievo in tutte le meditazioni, cosí morali come teologiche e mistiche, del monaco e dell'arcivescovo. Questo scrittore, in cui si riflettono cosí visibilmente le nuove tendenze che le trasformate circostanze del mondo feudale fanno affiorare alla superficie della speculazione religiosa e soteriologica nel corso del secolo undecimo, sembra innalzare il suo sguardo alla visione del mondo trascendente ed angelico quanto piú vastamente i suoi interessi e le sue preoccupazioni vanno verso l'ambito della vita concreta.

Anselmo dev'essere stato un padre rettore dei monaci quale raramente se ne sono visti. Persuaso che l'abbate è innanzi tutto maestro e dottore, non appena egli è designato a tale dignità, affida a persone di fiducia le cure assorbenti dell'amministrazione per poter attendere piú liberamente ed efficacemente alla educazione spirituale dei suoi religiosi. Cura in maniera particolarissima la formazione dei giovani, non mancando di osservare che lo spirito degli adolescenti è paragonabile ad una cera molle, incapace di conservare l'impronta che si tenta di lasciarvi se essa non viene calcata con assiduità e metodo, mentre gli uomini maturi sono in maggioranza troppo irrigiditi nella loro essenza spirituale per soggiacere ad una qualsiasi forgiatura.

Se pertanto, e per la sua perizia abbaziale e per il suo ministero monastico, Anselmo appare come una delle figure piú notevoli ed uno dei tipi piú completi e rappresentativi della istituzione che Benedetto di Norcia aveva donato alla tradizione del cristianesimo, d'altro canto per il suo passaggio dallo stato monastico alla dignità vescovile e soprattutto per l'orientamento originale da lui dato alla speculazione teologica, si potrebbe dire che Anselmo rappresenta come una vetta segnante lo spartiacque fra due momenti radicalmente difformi della tradizione pedagogica ed apologetica del cristianesimo cattolico.

Da questo punto di vista egli è un ricapitolatore e un precursore. È un ricapitolatore perché la sua vita spirituale è tutta nel chiostro e per il chiostro. Ma è anche un precursore perché gli indirizzi da lui impressi alla speculazione religiosa lo fanno veramente antesignano di quella cultura che, uscendo dall'ambito claustrale e trasferendosi nei nuovi centri universitari, offrirà il sentore dell'incipiente spirito laico.

Già ai suoi tempi cominciavano a moltiplicarsi i centri secolari della vita intellettuale, i quali ostentavano la loro indipendenza e le loro movenze autonome di fronte al vecchio monopolio monastico.

Si direbbe che Anselmo avvertisse inconsapevolmente questo trasmigrare imminente della cultura religiosa dal mondo monastico nel mondo del clero secolare e dei centri civili di studio, apprestando alla nascente cultura profana elementi che avrebbero dovuto garantirle la continuità del carattere religioso, ma che in pratica invece preparavano l'esodo della cultura da quella sfera di spiritualità e di misticismo aprioristici, nella quale fino allora era vissuta.

Si avvicinava per il mondo del pensiero cristiano un'ora di drammatica tentazione. In verità la storia del pensiero cristiano non è altro che una storia drammatica di memorabili «tentazioni» nel significato etimologico del termine. che implica cimento e repentaglio.

Naturalmente il tipo di queste tentazioni della speculazione religiosa nel cristianesimo era andato variando di momento in momento.

Chi piú tentato di Sant'Agostino? Le sue vive e varie polemiche non sono forse tentativi di risposta alle tentazioni che gli venivano dal mondo circostante? Tentazione aveva per lui rappresentato il dubbio donatista che l'amministrazione sacramentale fosse stata inquinata e vulnerata in radice dalla conversione ufficiale dell'Impero al cristianesimo. Tentazione era stata per lui l'abbiezione mossa alla sua dottrina della grazia e del peccato, secondo la quale un fanciullo premorto al battesimo e quindi perfettamente innocente per quel che riguarda la sua possibile azione, è inesorabilmente condannato al fuoco eterno. E pure grande tentazione sarà stato per lui il fatto che Roma aveva conosciuto la distruzione dopo il suo passaggio al cristianesimo, tentazione cotesta che è alla genesi del De Civitate Dei.

Anche Sant'Anselmo è un grande tentato. Si direbbe che egli ne avesse oscuramente il sentore affermando che c'è un solo modo di vivere pericolosamente, ed è quello del cristiano. Anselmo infatti pone sulle labbra del suo interlocutore Bosone la confessione eloquente: «nimis periculose vivimus».

Dopo secoli di ininterrotta familiarità con il Divino, dopo un lungo ciclo di generazioni di monaci tutti sprofondati nella contemplazione e nella preghiera, la Regola di San Benedetto doveva darci, al declinare del secolo undecimo, il formidabile tentativo anselmiano di formulare per la prima volta una definizione apodittica di Dio.

Si comprende la temperie storica in cui questo tentativo è stato compiuto.

Anselmo appare effettivamente come l'interprete di una generazione che si appresta, sotto lo stimolo di tutte le trasformantisi circostanze ambientali, a tradurre in termini di cultura e di riflessione concettuale il patrimonio secolare della fede. È consumato dall'ansia di offrire a questa fede una trascrizione nozionalmente rigorosa. È quel che lo costituisce, al cospetto delle generazioni successive, maestro eccellente della vita spirituale, come iniziatore di un nuovo ciclo nella traiettoria di sviluppo della speculazione religiosa cristiana.

Nacque cosí il famoso argomento antologico. Costituiva in realtà la piú mostruosa tentazione che si potesse offrire all'anima illuminata e vacillante di un mistico. Era un po' la stessa tentazione del paradiso terrestre. Captare Dio con le forze della ragione, sequestrarlo e avvincerlo nel chiuso di una argomentazione razionale, farne il termine indeclinabile e diremmo quasi immanente delle capacità cogitanti dello spirito, fare della realtà concreta ed esistenziale di Dio l'implicita conseguenza del nostro modo di concepirlo come l'essere di cui non si può immaginare altro piú grande, era effettivamente uno spalancare le porte ad una compromettente e rischiosissima confusione tra il mondo ideale ed il mondo reale, di cui un giorno il monismo idealistico sarebbe stato il risultato logico e indeclinabile.

Tant'è di fatto. Presumendo di porre l'ateo in contraddizione con se stesso, Anselmo ha aperto forse, piú di ogni altro pensatore, il varco al vero ateismo, quell'ateismo che pone Dio nello spirito umano e fa del pensiero un atto di divina creazione. Ma per non essere ingiusti con Sant'Anselmo, si deve assolutamente collocarne la figura nel processo di sviluppo di tutta la società ecclesiastica medioevale e ci si deve d'altra parte sforzare di innestarne la speculazione sulle espressioni salienti del suo fervore mistico e della sua contemplazione.

Appunto perché in collegamento imponderabile con un mondo complesso di valori in evoluzione, Sant'Anselmo rispecchia tanto eloquentemente il processo di transizione dalle forme puramente fideistiche della credenza in Dio all'apologetica razionale del Divino. In fondo il suo argomento antologico è una pura trascrizione in termini argomentativi di una fede già presupposta e consapevole dei suoi dati. È la prima manifestazione di un'intima esigenza, alla quale l'esistere di Dio non si offre piú soltanto come dato indiscutibile di credenza, bensí come conclusione suscettibile di premesse sillogistiche e di indagine razionale.

Sant'Anselmo registra nel Monologium i ragionamenti esposti in proposito ai suoi monaci, mostrandoci come l'inizio della speculazione tipicamente teologale trae origine dalla esperienza associata di un gruppo monastico, disciplinato dalle norme e dalle aspirazioni della riforma cluniacense. V'è, nell'attitudine contemplativa di Anselmo, il sentore della placida dolcezza della comunità, che vive di raccoglimento e di preghiera. Le diuturne consuetudini liturgiche hanno addestrato la sua anima alla percezione di tutta la capacità riposante che è nel mistero dell'abnegazione monastica. Il tirocinio ascetico lo ha condotto ad approfondire il paradosso della salvazione, a farne il fuoco centrale di ogni spiritualità. Nei giorni dell'esilio, le reminiscenze della iniziazione mistica ricevuta nel chiostro riaffiorano nelle sue esortazioni: «O anima cristiana, o anima ravvivata di su lo stato di una morte gravosa, o anima riscattata ed affrancata, mercè il sangue di un Dio, dai ceppi di una schiavitú miserevole, stimola le tue intime capacità, rievoca la tua risurrezione, rifletti alla tua redenzione e alla tua liberazione. Medita dove e qual sia la forza della tua salvezza, concentra su di essa la tua attenzione, dilettati nella sua contemplazione, scuotiti dal tuo torpore, fa violenza al tuo cuore, figgi qui la tua mente. Assapora la dolcezza del tuo Redentore: rinfocati nell'amore del tuo Salvatore. Mastica il favo delle sue parole, succhiane il sapore piú che mellifluo, inghiottine la dolcezza salutare. Mastica pensando, succhia intuendo, inghiotti amando e godendo. E allietati nel masticare, compiaciti nel succhiare, tripudia nell'inghiottire». Cosí, realisticamente, parla il mistico, indotto naturalmente a ricavare dal mondo sensibile le immagini acconce alla raffigurazione analogica della sua esperienza ineffabile. La forza dell'intimo sentimento si risolve nel dialogo animato ed incisivo, coll'oggetto della contemplazione e del rapimento affettivo: «Perché mai, Signore buono, Redentore pio, Salvatore potente, dissimulasti cosí eccelsa virtú sotto il velo di una cosí sconfinata umiltà? Forse al fine di trarre in inganno il demonio, che con l'inganno cacciò l'uomo dal paradiso? Ma la verità non inganna nessuno. Solo chi ignora o non presta ascolto alla verità, trae in inganno se stesso: chi scorge la verità e l'odia o la disprezza, tende a sé agguati. La verità per suo conto non tradisce alcuno. Dunque, affinché il demonio ingannasse se stesso? Ma pure, come la verità non inganna alcuno, non vuole né pure che inganni se stesso, quantunque si voglia dire che lo faccia perché lo permette. Non rivestisti l'umanità per nascondere te, già noto, bensí per disvelarti, ignoto. Ti proclamasti vero Dio e vero uomo: tale ti manifestasti nelle opere. Fu una realtà occulta, non di proposito occultata: non cosí attuatasi onde nascondersi, bensí perché nella conveniente economia si dispiegasse: non per suscitare un'illusione, bensí perché si traducesse nel fatto a norma delle sue esigenze. E se la si definisce occulta, si vuoi dire semplicemente che non è a tutti rivelata. Poiché a nessuno la verità nega se stessa, anche se non si manifesta a tutti. In conclusione, o Signore, non operasti cosí per ingannare o perché altri si ingannasse: ma in tutto persistesti nella verità, nel compiere quel che doveva essere compiuto, nella maniera in cui lo doveva essere. Chi dunque mancò a se stesso nella tua verità, ne dia la colpa alla propria falsità, non già alla tua». Fin nelle manifestazioni della sua piú intima coscienza di redento, Anselmo porta l'orma della sua ferrea nozione del vero, norma infallibile di assoluta sicurezza della finalità dell'universo. E questa interferenza del conoscere col sentire erompe in tutta la sua vigorosa vivezza nella preghiera finale della Meditazione: «Rifletti, anima mia, intuite, o voi tutte forze intime del mio cuore, quanto a Lui debba la mia sostanza. Indubbiamente, o Signore, perché tu mi foggiasti, son debitore al tuo amore di tutto me stesso: son debitore, perché tu mi redimesti: son debitore, perché di tanto alte promesse mi fosti generoso donatore. In verità: debbo all'amor tuo piú che me stesso, nella misura in cui tu sei maggiore di me, tu che a me hai dato te stesso e te stesso prometti. Concedimi, o Signore, di gustare nell'amore quel che gusto attraverso la cognizione. Che io sperimenti attraverso l'affetto, quel che ho intravvisto in virtú dell'intelletto. Io ti debbo piú che me stesso, non posseggo nulla piú di me, e me stesso non posso renderti da me solo. Traimi, o Signore, dietro l'amor tuo: traimi tutto intiero. Tutto che sono, tuo è, perché lo creasti: fa che tutto sia tuo nell'amore. Ecco il mio cuore dinanzi a te, o Signore: si sforza di dartisi, e da solo non ci riesce: fa tu quel che esso non può fare. Introducimi nel sacrario del tuo amore: lo chiedo, lo imploro, sto picchiando. Tu che mi dài forza di chiedere, fammi meritevole di ricevere».

Se Sant'Anselmo salda cosí strettamente il conoscere al sentire, implicitamente viene ad ammettere la superiorità dell'esperienza intuitiva sulla acquisizione conoscitiva razionale e l'anteriorità del possesso per fede al raggiungimento e all'accertamento dialettico. Dalla prima all'ultima delle sue opere Sant'Anselmo dà testimonianza a questa gerarchia di attitudini spirituali. Nulla piú significativo e piú eloquente al riguardo della sua definizione della verità. La quale, nel suo pensiero, non è una inarrivabile adeguazione della formula nazionale alla realtà percepita e né pur una proprietà inerente automaticamente al pensiero, quando questo sia organico e in sé legittimo, bensí una necessità antologica trasfusa e trascritta in termini di raffigurazione concettuale. La verità è una rettitudine che solo lo spirito può percepire, rectitudo sola mente perceptibilis. È quindi una giustizia, trasferita nel mondo astratto della conoscenza: «Il giusto, quando vuole quel che deve volere, e appunto perché è giusto, rispetta la rettitudine della volontà unicamente in vista della stessa rettitudine... Sicché volontà giusta propriamente deve essere detta quella che mantiene la propria rettitudine, per la rettitudine stessa. E la giustizia, genericamente intesa, non è altro che la rettitudine della volontà perseguita, attuata e rispettata per se stessa». La verità è l'equivalente intellettuale della giustizia: ma anch'essa implica un ordine ideale cui, per definizione, deve essere strettamente e docilmente subordinata. Gnoseologia ed etica appaiono pertanto fuse, mercè la consapevolezza permanente della natura extra-razionale di un fondo unico di universale armonia, del quale cosí l'attività cogitante come quella operante dell'uomo debbono costituirsi espressione e realizzazione ugualmente fedeli.

È assolutamente da questo assioma pregiudiziale che occorre prendere le mosse per orientarsi nel dedalo della speculazione teologica anselmiana e per intenderne il vero significato storico.

Il Monologio di Sant'Anselmo vuole appunto trattare del problema centrale di ogni apologetica religiosa, dell'esistenza cioè di Dio e dei suoi attributi. È perfettamente naturale che tale problema non si presenti isolato ad Anselmo, come non si presentava isolato alla riflessione religiosa degli uomini dell'epoca.

Tanto vero che, dopo avere esaminato quel primo problema, Anselmo passa automaticamente a ragionare del dogma trinitario e di quello della creazione, per chiudere, in forma parenetica, col delineare i rapporti fra l'anima e Dio. La dimostrazione si svolge a norma di uno schema che mette a nudo immediatamente le fonti cosí dirette come indirette, dalle quali il contemplatore, che si trasforma e si sdoppia in ragionatore, attinge.

Anselmo comincia con il rilevare che gli uomini aspirano per forza di natura a ciò che reputano essere il bene. Ma nella moltitudine di oggetti verso cui si protende di volta in volta il desiderio ansioso degli uomini, come fare a scoprire il principio che li costituisce meta della inquietudine bramosa dell'uomo? Che un tale principio unificatore, che una tale norma uniforme debbano esistere è principio, di per sé evidente, sul quale non è possibile sollevare dubbi.

Dice Sant'Anselmo: «È indubitabile e chiaro per tutti che laddove un determinato qualificativo si predica di molteplici realtà, in modo che sulla base di esso sia consentito stabilire fra queste una graduatoria quantitativa, simile qualificativo deve essere compreso allo stesso modo per tutte le realtà di cui esso si predica. I singoli oggetti dei quali si predica una specifica qualità, in modo che se ne possa istituire il reciproco confronto, sono suscettibili di simile valutazione comparativa solo in quanto rispondono ad un principio essenzialmente comune. Il bene è appunto un connotato della realtà che permette di spiegarne la graduata appetibilità. Perché noi poniamo le molteplici realtà a confronto l'una con l'altra, perché noi ne possiamo dare una valutazione proporzionata, occorre dire che tutte siano buone a norma e sulla base di alcunché che si presuppone identico nelle varie sue concrete realizzazioni». Questo alcunché, che è il comune denominatore delle realtà buone, è il Sommo Bene del quale in varia misura partecipano le realtà finite: «Quello, buono per sé; queste, buone per virtú di Esso».

Iddio dunque è la rettitudine massima dell'universo: quegli che alle singole espressioni di bontà e di ordine conferisce ragione e sanzione. Evidentemente è una esigenza etica quella da cui, sulle orme di Sant'Agostino e dello pseudo Dionigi, Sant'Anselmo prende le mosse per dedurne la concreta realtà di un principio assoluto di bene, che sottostà, in maniera frammentaria e precaria, alle attenuate partecipazioni che si espandono e si moltiplicano nella universale esistenza cosmica. Dalla presupposizione di questo attributo etico del primo essere, Anselmo procede alla individuazione degli altri suoi attributi metafisici: onnipotenza e sapienza.

Passate cosí in rassegna le principali proprietà di Dio, ipostatizzate e sublimate di su l'esperienza quotidiana delle realtà contingenti, Anselmo si dischiude la via alla suprema concezione dell'essere e adotta termini di pura speculazione antologica e metafisica.

Esiste dunque, egli dice, «una sostanza assoluta in virtù della quale esiste tutto ciò che esiste, la quale esiste di per sé ed è fra tutte la suprema realtà». Se infatti ogni cosa esistente esiste in virtú di qualche altra cosa, occorrerà pure risalire ad un principio unico di tutte le cose, esistente per virtú propria e pertanto maggiore di tutte le altre cose, le quali appariranno ad esso subordinate. Si giunge cosí per via di ascensione progressiva al concetto di una natura trascendente che esiste per sé e dalla quale dipende l'universa realtà. Ecco «nella sua ragione, una forma esemplare delle cose, preesistente alle cose stesse, destinate ad essere create». È in questa forma che si rinviene «una specie di articolazione razionale delle future realtà».

Sant'Anselmo si spinge anche piú in là ed esplora l'innestarsi ineffabile della potenza creatrice di Dio sulla sua inalterabile essenza. «Nella natura suprema, la quale tutto fece, e fece in virtú della sua imminente parola, nulla appare piú necessario che proclamare l'intima interdipendenza della parola stessa e dell'essenza». La speculazione anselmiana appare cosí come uno sforzo laborioso di tradurre in proposizioni logicamente concatenate le intime e misteriose verità della fede. È la postulazione di un sovrano bene nel mondo che sospinge Anselmo alla costituzione della sua teodicea; è la visione etica dell'universo che guida il processo del suo pensiero apologetico; è la soggiacente fede cristiana che regge ed ispira la sua visione cosmogonica.

Ad un certo punto della sua riflessione Anselmo stesso dovette avvertire le lacune e l'arbitrarietà della sua indagine razionale: dovette avere il sentore della aprioristicità dei suoi postulati. Egli si diede allora alla ricerca inquieta e affannosa di un argomento che, investendo direttamente le capacità raziocinative e facendo appello ai principi del procedimento dialettico, rivelasse e spiegasse virtú probative realmente cogenti.

Scrisse cosí un'opera che non aveva piú il carattere di una meditazione fatta dal fedele con se stesso (monologium id est soliloquium) ma si rivolgesse invece ad altri, come tentativo di vittoriosa persuasione. Nacque cosí l'Alloquium sive Proslogion.

Anselmo prende qui le mosse dall'aforisma del Salmo XIII della Vulgata: «Lo stolto sentenziò in cuor suo: Dio non esiste». Anselmo si prefigge appunto di convincere, senza possibilità di replica, questo incauto stolto ed insipiente e ragiona cosí: la nostra capacità cogitante ha in sé il potere di raffigurarsi un essere del quale nulla si possa concepire di maggiore. Ma d'altro canto è pur possibile pensare una cosa senza che questa esista effettivamente di per sé. Perché sono due dati radicalmente difformi l'uno dall'altro: il primo che una cosa sia nell'intelletto, il secondo che si sappia l'esistenza di una cosa. In pari tempo si deve riconoscere essere innegabile che l'esistere in sé ha qualcosa di piú che l'esistere solamente nell'intelletto. Ecco dunque tre presupposti fondamentali. Da essi si può e si deve necessariamente ricavare che quella realtà, sopra la quale non è possibile concepirne un'altra maggiore, non può essere una pura realtà di ragione, ma deve esistere anche in sé. Non è possibile in altre parole escogitare un principio veramente supremo senza raffigurarselo in pari tempo come dotato anche di esistenza reale, essendo ognora possibile, nel caso contrario, di pensare un principio non inferiore, esistente nella realtà: il che lo costituirebbe ad un livello superiore. Qualora l'ente al disopra del quale non se ne può concepire altro maggiore, esistesse nel solo intelletto, per questo stesso l'essere del quale non se ne può concepire un altro maggiore sarebbe invece tale da potersene concepire un altro maggiore: il che rappresenta una indiscutibile contraddizione in termini. E Sant'Anselmo può proclamare trionfalmente che la negazione di Dio si riduce ad una formale e tipica contraddizione.

Strano osservare come, nell'atto stesso di accingersi ad una dimostrazione razionale dell'essere reale di Dio, Anselmo premetta una fervida preghiera a Dio. «Insegnami a ricercarti», invoca Anselmo, «mostrati a chi ti desidera. Non mi è dato di cercarti se tu non mi ammaestri. Non mi è dato di trovarti se tu non ti mostri. Ti cerchi io dunque con desiderio, ti desideri nella ricerca, ti trovi nell'amore, ti ami nel trovarti».

E la conclusione del procedimento argomentativo è, non diversamente dal prologo, una invocazione, una preghiera, una professione di umiltà e di fiducia: «O Signore Dio mio, tu esisti con tale reale verità che a buon diritto non ti si può neppur pensare non esistente. Ché se ci fosse un intelletto umano capace di raffigurarsi qualcosa di piú grande di te, vorrebbe dire che la creatura sopravanzerebbe il Creatore e si atteggerebbe a giudice del Creatore: il che è l'assurdità spinta agli ultimi limiti».

E Sant'Anselmo non si accorgeva che già nella sua argomentazione egli dava all'intelletto umano una capacità se non di sopravanzare il Creatore, certamente di atteggiarsi a suo giudice.

L'apparizione dell'argomento che è stato definito «ontologico» per la dimostrazione apodittica ed invulnerabile dell'esistenza di Dio, segna in realtà una data capitale nella storia del pensiero cristiano e possiamo dire anche piú genericamente nella storia della speculazione mediterranea.

Ma è un errore ritenere che la grande e sovrana originalità di Anselmo e il rilievo della sua posizione storica debbano essere angustamente circoscritti nell'avere escogitato questo argomento. In realtà sono tutta la sua apologia e tutta la sua visione cristiana che racchiudono un imponente fermento innovatore.

Lo stesso argomento ontologico anselmiano deve essere collocato e proiettato sul piano di sviluppo della metafisica cristiana medioevale, perché assuma i suoi genuini connotati. Infatti, non solamente l'argomento ontologico costituisce la prima dimostrazione tecnicamente rigorosa che l'esperienza cristiana abbia voluto dare di Dio; non solamente tale argomento rappresenta la prima comparsa nella nostra storia di quella tendenza a condizionare e a subordinare il reale al pensato, che avrebbe avuto adagio adagio nei secoli applicazioni cosí estreme, fino a raggiungere il cosiddetto idealismo moderno; ma l'argomento ontologico si riannoda nel pensiero, anselmiano ad un complesso tale di visuali antropologiche e soteriologiche, da fare veramente dell'apparizione del Monologio, del Proslogion e del Cur Deus Homo, uno dei momenti capitali del processo di trasmigrazione del messaggio cristiano nel grembo della nostra civiltà.

Si può dire, senza esagerazione, che Sant'Anselmo è il vero e primo antiagostiniano, poiché in tanto Sant'Anselmo ha creduto di poter procedere ad una dimostrazione razionalmente rigorosa ed inoppugnabile dell'esistenza di Dio, in quanto egli aveva una concezione nettamente antiagostiniana cosí delle possibilità dello spirito umano come delle finalità che presiedono all'esistenza e allo sviluppo del genere umano stesso, cosí della natura della colpa d'origine come della necessità della propagazione umana nel mondo. Da questo punto di vista potrebbe dirsi che il Cur Deus Homo e il De conceptu virginali posseggono un'importanza anche maggiore di quella che non abbiano le operette in cui Sant'Anselmo formula e difende il suo argomento ontologico divenuto famoso e posto a base di tutte le successive speculazioni teologiche.

I dati centrali della sua antropologia e della sua filosofia della storia possono essere fissati a questo modo: l'umanità, secondo Sant'Anselmo, è stata creata da Dio affinché fossero colmati i vuoti determinati nelle schiere angeliche dalla defezione di Lucifero e dei suoi compagni nella ribellione a Dio. L'uomo pertanto è stato creato da Dio in una condizione di equilibrio spirituale e di organizzazione psichica, tali da rendere straordinariamente agevole e sicuro il tirocinio umano nel mondo. Di modo che, se tutto si fosse svolto normalmente, facilissimo sarebbe stato poi il passaggio di questa umanità cosí creata a quello stato di trasfigurazione che ne avrebbe consentito la inserzione nel coro angelico, chiamato a sciogliere intorno al trono dell'Eterno il canto ininterrotto della lode e della esaltazione.

La colpa adamitica lacerò e sconvolse l'equilibrio spontaneo e naturale che Dio aveva instaurato e inserito nel fascio armonico delle energie umane, attraverso il dono della giustizia originale. Ma non è da credere che tale colpa adamitica abbia sostanzialmente alterato e irrimediabilmente vulnerato la natura umana: in particolare, l'insubordinazione di Adamo non ha annullato nell'uomo la capacità naturale di raggiungere la verità e di praticare la giustizia.

L'incarnazione del Verbo è stata necessaria solamente per ripristinare nel consesso umano quella possibilità di bene che è il presupposto della trasfigurazione degli uomini da creature di terra in creature di cielo, degne di figurare convenientemente nella milizia degli angeli. Si potrebbe dire che la incarnazione del Verbo non ha fatto altro che ridare un ritmo regolare e uniforme a quel decorso delle umane generazioni che la colpa adamitica aveva esteriormente fuorviato. Sicché la piú ampia procreazione degli uomini è normalmente necessaria fino a quel giorno beato in cui sarà raggiunto il numero predestinato di eletti che occorre a Dio per reintegrare i quadri delle sue milizie angeliche, nei quali la ribellione di Lucifero aveva aperto vuoti e lacune cospicuissime.

Basta enunciare tali principî, che soggiacciono a tutta la speculazione anselmiana, per scoprire e valutare di colpo la importanza immensa della rivoluzione introdotta da Anselmo nella tradizione agostiniana. Tutto preso dal suo pessimismo antropologico, superstite traccia della sua iniziazione dualistico-manichea, Sant'Agostino in passi memorandi del De Civitate Dei aveva detto che la illimitata propagazione del genere umano non era piú necessaria dal momento che il Cristo era venuto al mondo e che quindi non occorreva piú moltiplicare le creature umane nell'attesa ansiosa che tra queste comparisse il predestinato ed atteso Figlio di Dio Salvatore.

L'antropologia agostiniana, la fosca teoria della profonda contaminazione subìta dalla natura umana a causa del peccato d'origine, che il vescovo d'Ippona patrocina e difende con tanta acredine e con tanta tenacia, avevano fatalmente trasmesso alla civiltà medioevale una visione della vita che era per natura un ostacolo a qualsiasi politica altamente demografica.

A distanza di secoli, mentre ora il mondo feudale cominciava ad essere minacciato e corroso da quello sviluppo demografico di cui i documenti cosí monastici come laici del tempo ci dànno la palese attestazione, l'antropologia anselmiana, col suo ottimismo e con la sua singolare escatologia, che vedeva sboccare automaticamente l'umanità in un beato coro angelico, veniva a soppiantare e ad annullare quel «complesso di inferiorità» in cui si potrebbe dire che l'antropologia agostiniana aveva mantenuto per secoli gli uomini di fronte alla grande legge della umana riproduzione.

Cosí veramente la teologia anselmiana rispecchiava le condizioni ambientali profondamente trasformate. Anselmo dischiudeva decisamente e risolutamente una nuova via alla speculazione cristiana in tutti i campi. Momento, quindi, il suo, di eccezionale importanza nello sviluppo della Cristianità mediterranea. È veramente, Sant'Anselmo, un iniziatore e un innovatore.

San Tommaso si porrà nettamente alla sua sequela. In quelle fondamentali questioni che egli dedica al peccato originale nella Prima Secundae Partis della Summa Theologica (Quaestio LXXII) prende precisamente lo spunto dalle enunciazioni centrali del De Conceptu virginali di Sant'Anselmo.

Anselmo aveva qui detto esplicitamente che il peccato originale non costituisce un'alterazione profonda e un pervertimento organico degli elementi costitutivi dell'uomo, ma segna semplicemente la perdita di una giustizia primordiale che Dio aveva elargito all'uomo nell'atto stesso di crearlo, perché fosse piú sicura ed avesse un esito infallibile la sua candidatura alla incorporazione nelle schiere angeliche, che la defezione di Lucifero aveva reso insufficienti ed incomplete.

A norma del pensiero anselmiano si poteva cosí per la prima volta pronunciare un'asserzione che in secoli piú tardi, e precisamente nello spiegamento delle polemiche giansenistiche e anti-giansenistiche, doveva ricorrere tanto di frequente. Si sarebbe cioè potuto sentenziare che la presente costituzione dell'uomo non ripugna in alcun modo alla bontà essenziale di Dio creatore. Sicché l'uomo sarebbe potuto uscire dalle mani onniveggenti di Dio quale egli è ora nelle sue attuali condizioni naturali.

Si deve osservare, perché la coincidenza merita effettivamente di essere rilevata, che nel momento stesso in cui la vecchia pessimistica dottrina agostiniana della colpa di origine veniva cosí attenuandosi e addolcendosi nella visione di Sant'Anselmo, con uno sconfinato corteggio di conseguenze morali e sociali, andava delineandosi all'orizzonte la dottrina dell'immacolato concepimento di Maria. È facile comprendere come ad un teologo agostiniano una dottrina simile sarebbe dovuta apparire necessariamente collegata ad una credenza parallela nel concepimento non soltanto immacolato, ma virgineo di Maria.

Alla teoria agostiniana infatti ripugnava radicalmente il concepire la possibilità che una creatura nata da un accoppiamento matrimoniale normale fosse esentata dalla colpa d'origine. E per Sant'Agostino infatti, e per la tradizione che a lui si ricongiunge, la colpa di origine si immedesima col fomite della concupiscenza, inseparabile da ogni atto sessuale si da costituire con esso una cosa sola. Tanto vero che, messo alle strette, Sant'Agostino aveva dovuto pencolare verso la visione traducianistica della origine dell'animo umano. Questo che noi osserviamo è tanto vero che, dovendo raffigurare e rappresentarsi la generazione di Maria, la leggenda medioevale sognò e l'arte medioevale rappresentò che Gioacchino ed Anna generassero la Madonna in virtú di un semplice, purissimo bacio scambiatosi sotto la porta del tempio.

Ora che la visione teologica ufficiale del peccato di origine e della sua trasmissione si veniva attenuando – e Sant'Anselmo della trasformazione profonda delle opinioni al riguardo è l'interprete e l'indice eloquente – l'immacolato concepimento di Maria cominciava a diventare un problema attuale e umano. La teologia scolastica doveva discuterlo a lungo.

Tommaso d'Aquino fu contrario a simile dottrina. Ma l'argomento che egli addusse per impugnarla non fu già il vedere una inerenza della colpa di origine al fatto stesso della normale generazione umana, come aveva visto Sant'Agostino e tutta la tradizione fedele a lui, ma semplicemente perché, secondo lui, ammettendo questo immacolato concepimento di Maria, si sarebbe tolta qualche cosa alla universalità assoluta e indiscriminata del merito salutifero del Cristo. Se Maria cioè fosse stata esente dalla trasmissione del peccato originale, essa si sarebbe venuta automaticamente a trovare fuori dall'ambito dell'opera redentrice e restauratrice del suo Divino Figliolo. Il che non poteva essere ammesso per la stessa dignità e sconfinata potenzialità della redenzione cristiana.

Il teologo francescano che sarà effettivamente l'anti- Tommaso, Duns Scoto, troverà il modo di eludere questa speciosa obiezione e sosterrà che con l'immacolato concepimento di Maria non si sottrae nulla all'opera universalmente ecumenica della salvezza operata divinamente da Cristo. Sosterrà piuttosto che il ritenere Maria concepita senza peccato significa dare alla potenza salvifera del Cristo una originale e peculiare applicazione. Poiché è appunto in vista dell'opera redentrice del Cristo, che Maria, destinata ad essere sua madre, è immunizzata nell'atto stesso del suo concepimento dalla contaminante trasmissione del peccato originale. Cosí il dogma della esenzione di Maria dal peccato originale sarebbe passato trionfalmente nel novero delle dottrine canonizzate della Chiesa.

Ma ci si può legittimamente domandare, tenendo presente la singolare e paradossale dialettica che presiede allo sviluppo della religiosità cristiana e delle sue trascrizioni teologali, se il riconoscimento di questa esenzione di Maria dalla universale eredità del peccato non fu possibile soltanto perché la visione originaria paolina ed agostiniana della colpa di origine si era frattanto affievolita e annebbiata per via. Noi possiamo cosí misurare in tutta la sua intensità il significato e la portata della comparsa di Anselmo nel mondo della speculazione religiosa medioevale.

Un'epoca con lui si chiude e una nuova se ne apre. L'agostinismo è ormai in piena decadenza e tutte le condizioni della vita tradiscono i nuovi orientamenti morali, religiosi, sociali.

Comparso agli inizi del quinto secolo con il còmpito formidabile di apprestare alla nascente creazione sociale del cristianesimo i dati delle sue direttive di marcia cosí sul terreno dell'antropologia, come su quello della sociologia, il vescovo d'Ippona, inconsapevolmente saturo ancora del dualismo manicheo, aveva, sulla scorta di San Paolo, esasperatamente proclamato il gravarne funesto della eredità peccaminosa di Adamo.

C'era qualche cosa di contaminante alle radici stesse della vita che si trasmette nel mondo.

C'era qualche cosa di attossicato nel complesso stesso elementare della vita associata.

Tutto è dualismo nella visione agostiniana. L'uomo è un composto squilibrato e inorganico di bene e di male. L'insidia di Satana è alle sue calcagna. L'eredità di Adamo pesa sinistramente sulla moltiplicazione degli uomini. C'è da temere, si direbbe, a trasmettere la vita, quasi dinanzi ad una responsabilità di male che nulla può, indipendentemente dalla grazia, riscattare.

Sarebbe arrischiato l'affermare che la dottrina agostiniana è una forma mistico-ascetica di limitazione delle nascite? Come tale, ad ogni modo, ha funzionato per secoli nel Medioevo.

Il medesimo dualismo Sant'Agostino trasporta sul terreno della sua visione della società e della storia. La città di Dio e la città di Satana sono come due correnti che si mescolano nella vita empirica del tempo, ma che rimangono fondamentalmente aliene e incomunicabili l'una di fronte all'altra. Procedono apparentemente mescolate nel tempo, ma sostanzialmente senza vicendevoli collegamenti. Il giorno del giudizio il ventilabro della giustizia di Dio separerà sull'aia finale il buon grano dalla pula. Su queste idee basilari di Sant'Agostino si costituí fra il 500 e il Mille l'economia cristiana della vita associata.

Ma tutte le grandi idee si consumano fatalmente ed automaticamente attraverso il loro uso. Anche l'agostinismo si logorò. La duplice visione dell'Impero e della Chiesa sembrò essere la realizzazione completa della sociologia agostiniana. Il feudalesimo ne doveva essere un riflesso inevitabile. Ma proprio nella costituzione stessa del feudalismo il Medioevo cristiano doveva trovare le ragioni del suo decadere. Perché forma economica chiusa e non suscettibile di espansione normale, il feudalesimo fu logorato e corroso dalla stessa impossibilità di provvedere ai propri nuclei demografici in sviluppo.

E quando questa turgidezza demografica cominciò ad incidere sui quadri circoscritti dell'organizzazione feudale, tutte le prospettive della tradizione cristiana furono prese violentemente in un processo inarrestabile di trasformazione.

La complessa teologia anselmiana venne a dare forma astratta e dottrinale alla insurrezione anti-agostiniana. Tale insurrezione non si sarebbe piú arrestata.

La Riforma, è vero, ha creduto di rivendicare l'agostinismo. Ma il suo è stato un agostinismo a metà. Perché, mentre ha riaffermato l'antropologia pessimistica agostiniana, ha combattuto l'ascetismo e non ha veduto che l'ascesi mistica medioevale fu della pessimistica antropolia agostiniana lo sbocco naturale e la contropartita logica.

Si è detto che la Riforma ha celebrato piuttosto una ascesi immanente nel mondo. Ma c'è qui una palmare contraddizione in termini. Perché l'ascesi è per essenza antimondana ed antiempirica. Ed una celebrazione ascetica del mondo, una ascesi cioè immanente nel mondo, non può essere logicamente che una visione totalitaristica della politica e dei suoi valori materiali.

Ecco perché si può dire che la vecchia insurrezione anselmiana contro la dottrina del peccato originale di Sant'Agostino e del Medioevo è giunta soltanto dopo ottocento anni alle sue ultime conseguenze, cosí nel mondo della speculazione filosofica come in quello della tecnica che presiede alla vita associata.

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