I I LONGOBARDI

La calata dei Longobardi in Italia, può dirsi effettivamente, aprí una nuova epoca cosí nella storia d'Italia come nella storia della comunità cristiana.

«Gens germanica ferocitate ferocior», la gente longobardica, trapiantandosi in Italia, modificava le condizioni di vita della penisola, molto piú delle precedenti invasioni. Non si trattava piú d'invasori che mantenessero le forme esteriori di un esercito romano e che rivestissero di fronte allo Stato la figura giuridica di foederati.

Sono nomadi e razziatori, che si impongono alla popolazione conquistata, ne prendono le terre, la riducono a condizione di vinta. La loro occupazione offre un appariscente e stridente contrasto con quella dei Goti di Teodorico. I loro duchi e i loro re, eletti dall'esercito, sono puramente germanici. Il popolo che straripa sulle campagne italiche vive ancora sotto il regime delle farae, vale a dire dei sippen. I suoi costumi, il suo diritto, non hanno ancora subito alcuna influenza dal diritto romano e il loro arianesimo di accatto è una colorazione epidermica di cristianesimo che può avere impresso un'orma sulle forme del culto, ma non ha intaccato la struttura intima della morale associata e non ha dato alcun orientamento alle aspirazioni della spiritualità collettiva.

Si direbbe che un decreto provvidenziale ha voluto che su questa massa vergine di popolo, su un territorio oramai profondamente scisso dalla capitale orientale dell'Impero, la Cristianità romana si accingesse a mettere in opera la paradossale tecnica sociale introdotta dal Vangelo, secondo la quale il modo piú efficace e piú infallibile per creare una civiltà nel mondo consiste nel partire da un presupposto duro e pessimistico, dal presupposto cioè che il mondo è tuffato nel male, ed è votato alla perdizione. Il Medioevo sarà appunto la riprova stupenda e impareggiabile della efficienza concreta e della virtú pedagogica sovrana di questa paradossale metodica sociale.

Le sedi piú antiche dei Longobardi, quelle sedi dove essi cominciarono a differenziarsi dagli altri popoli di comune origine germanica, furono probabilmente le regioni del basso Elba.

Sottomessi da Tiberio nel 5 d. Cristo, passarono forse dopo sotto il dominio dei Marcomanni, da cui si liberarono poi con l'aiuto di Arminio, re dei Cherusci. Ad un secolo di distanza appaiono razziatori in Pannonia. Dopo di che un gran silenzio si fa intorno alle loro nomadi e depredatrici scorribande.

È al tramonto del secolo quinto che la storia longobardica esce dalle ombre della leggenda.

Quando il loro re Alboino li conduce su territorio italico, essi già hanno avuto ragione dei Gepidi e hanno conosciuto i contatti col mondo bizantino.

La leggenda parla di una chiamata dei Longobardi in Italia spiccata da Narsete, l'eunuco successore di Belisario e ultimo generale di Giustiniano in Occidente. I Longobardi furono, come altre volte, i barbari chiamati a far le vendette dei comandanti imperiali delusi?

Sta di fatto che Alboino, nel patto stretto con gli Avari contro i Gepidi, aveva già pattuito la rinuncia al territorio di conquista in favore degli Avari, nutrendo probabilmente in animo, fin dal primo momento della lotta oltre i confini, il proposito di tentare l'impresa d'Italia.

E nella primavera del 568 valicava le Alpi.

Fu una feroce devastazione. In pochi mesi gli invasori raggiungono Milano, assediano Pavia, si rifrangono in numerosi gruppi minori che scendono, senza trovare efficienti resistenze, verso l'Italia centrale e meridionale.

Le fonti romane sono tutte unanimi nel testimoniare la crudeltà delle stragi longobardiche. Paolo Diacono ci dice che «per poter accrescere il numero dei combattenti, affrancano molti dalla schiavitú e li fanno liberi, ma soldati».

Il dominio bizantino in Italia è costretto a rinchiudersi in città fortificate. La mancanza di qualsiasi collegamento strategico e tattico fra i castra, in cui il governo bizantino aveva concentrato i nuclei delle sue forze armate, rende impossibile qualsiasi difesa organica e persistente.

Le epidemie, immancabile e lugubre retaggio di tutte le ostinate campagne militari, finiscono col decimare la popolazione dell'Italia settentrionale.

Paolo Diacono attesta: «Città e villaggi, poco prima densi di popolo, cadevano repentinamente nel piú letargico abbandono e nel piú squallido silenzio, per esserne fuggiti tutti gli abitanti».

L'organizzazione longobardica è un'organizzazione a base tipicamente e totalitariamente militare.

Per i Longobardi, lo Stato è nelle sue prime origini e nella sua funzionale struttura l'unione di tutti i liberi atti alle armi, la volontà dei quali si esprime nelle assemblee generali; in queste è la genesi di tutti i poteri, compreso quello regio.

Anche l'amministrazione longobardica risente dell'originario carattere militare dello Stato. Essa si basa su una serie di aggruppamenti familiari (farae) riuniti fra di loro in modo tale da costituire unità sempre maggiori, i capi militari delle quali esercitano, con il concorso degli uomini liberi e delle loro assemblee, funzioni giudiziarie e civili.

Naturalmente, installatisi in Italia e costituitisi in sedi stabili, i Longobardi innestarono la loro costituzione in farae su quel sistema di circoscrizioni territoriali che poteva naturalmente essere apprestato dai vecchi quadri dell'amministrazione romana.

Le civitates coi loro municipia, vici e pagi, al posto delle provincie oramai definitivamente scomparse, prestano alla organizzazione longobardica i punti di riferimento e i nuclei costitutivi.

Raggruppamenti di città additati e favoriti dalle esigenze del traffico e dai bisogni della difesa, servono di base alle nuove circoscrizioni territoriali dei ducati, a capo dei quali sono posti, in virtú di nomina regia, comandanti militari, che rivestono in pari tempo autorità giudiziaria e civile e appaiono come arbitri assoluti nel disbrigo degli affari delle assemblee locali.

Che cosa ne fu della popolazione italica, della sua tradizione, della sua proprietà, dei suoi diritti, sotto la pesante oppressione di questo avido e rapace governo barbarico?

Paolo Diacono ci ha tramandato un giudizio che ha aperto il varco a lunghe e irresolubili discussioni:

«Gli italiani superstiti alle stragi vennero divisi fra i vincitori accampatisi nelle terre italiane e furono costituiti tributari dei Longobardi con l'obbligo di pagare un terzo delle loro rendite ai dominatori».

I superstiti italiani dunque furono ridotti alla condizione di tributari nel senso preciso e indiscutibile di chi lavorava per altri.

Fuori di questa schematica e rudimentale organizzazione della società, nella quale una massa di servi fu dannata a trascorrere i suoi giorni in un lavoro che doveva andare a beneficio degli occupanti, rimasero i cittadini di Roma e di Venezia, le due città nominalmente ancora in potestà di Bisanzio, chiamate dal destino a ricostruire pazientemente ed eroicamente la civiltà latina cosí ferocemente sopraffatta e dispersa.

La facilità con la quale i Longobardi accolsero la lingua latina come l'idioma ufficiale dei documenti e delle leggi, e la prevalenza che acquistò relativamente presto il latino volgare come lingua parlata, sono fatti che dimostrano piú che a sufficienza l'assenza di un qualsiasi patrimonio spirituale presso le torme di Alboino.

Se mai qualche manifestazione letteraria rappresentarono i canti popolari, di cui è possibile rinvenire lievi tracce nei racconti di Paolo Diacono, questi canti popolari, una volta abbandonata la lingua nazionale e le vecchie pratiche rituali, andarono integralmente perduti.

I pochi avanzi di genere letterario dell'Italia longobardica giunti fino a noi e riducentisi a poche epigrafi, a qualche carme e a brevi pagine storiche, dimostrano di essere stati già il prodotto di elementi romanizzati ed ecclesiastici.

L'unico scrittore longobardico di notevole valore è Paolo di Varnefrido, il Diacono, che compare però negli ultimi tempi, quando l'abissale differenza fra elemento romano ed elemento longobardico si è andata ormai attenuando fino quasi a scomparire, e la Chiesa ha potuto stupendamente realizzare la sua opera di assimilazione e di formazione.

Il dramma dell'Italia durante il periodo longobardico è il dramma palpitante di un'assimilazione profonda che la civiltà romano-cristiana compie felicemente, al di là delle forme politiche e strettamente culturali, in quella zona impalpabile degli spiriti dove il Vangelo e la sua trascrizione filosofica e pedagogica costituita dal De Civitate Dei operano in virtú e a norma di una metodica pedagogica collettiva, che non ha parallelo altrove.

Inutile quindi ed insufficiente parlare di incolmabile abisso di conquistati e di conquistatori, di vincitori e di vinti, di dominatori e di dominati.

Non ci sono abissi e non ci sono soluzioni di continuità quando masse umane sono a contatto e una di esse si è collocata spiritualmente su una linea di schieramento e di azione alla quale non possono pervenire le brutali violenze della conquista e dell'oppressione militare.

Senza dubbio, l'installarsi delle popolazioni longobardiche in Italia aveva rappresentato lo scardinamento radicale di tutta la struttura economico-politico-sociale dell'Italia romanizzata.

La già sconvolta economia italiana soggiacque alle nuove rovine accumulate dalle fughe e dagli eccidi della popolazione urbana, dalle requisizioni forzate, dalle espropriazioni violente, dalle interruzioni irreparabili di comunicazioni fra le terre invase e quelle rimaste ai Greci.

I piú gravemente colpiti dalla rappresaglia e dalla cupidigia degli invasori furono i nobili, i grandi proprietari. Con ogni probabilità fu soprattutto nei latifondi del fisco e nei latifondi dei privati che i Longobardi si insediarono a gruppi, imponendo il contributo della terza parte dei raccolti e non la cessione di una parte delle terre.

Non si può parlare di un sistema tributario e finanziario presso i Longobardi.

Se il disorganizzarsi delle curie aveva già polverizzato il sistema delle imposte vigenti al momento dell'invasione, l'imposta cioè diretta fondiaria romana e l'imposta sul capitale impiegato nel commercio, che noi non troviamo piú ricordate, gli sconvolgimenti portati dalla invasione militare nella proprietà fondiaria, la penuria crescente della moneta, si aggiunga, la ripugnanza stessa germanica alle imposte dirette, fecero il resto.

In compenso si venne instaurando tutto un sistema di tasse e di imposte indirette che diventò il nerbo del sistema tributario dei Longobardi: diritti di transito e di approdo, diritti sui mercati, diritti di pascolo, di caccia, di pesca, oneri relativi alle opere pubbliche, mura, terme, vie, cloache, contribuzioni per l'esercito in moto, per il sovrano e la corte al loro passaggio, per i pubblici ufficiali recantisi sul posto per l'esercizio delle loro funzioni.

Il rassodamento della conquista importa un irrigidimento progressivo delle gerarchie politiche, un innalzarsi sempre maggiore del monarcato nella considerazione presso il popolo e nell'effettivo potere, un rafforzamento delle istituzioni giuridiche, un attenuarsi del carattere strettamente militaresco e bellico che le consuetudini longobardiche avevano portato con la calata armata del popolo.

I Longobardi continuarono per vari anni ad attenersi alle loro antiche leggi e alle loro tradizionali consuetudini. Solo con l'editto di Rotari, promulgato a Pavia il 22 novembre 643 e indirizzato a tutti i sudditi con evidente tendenza a dare alla legge carattere universale e territoriale, noi troviamo il vecchio giure longobardo sottoposto agli influssi potenti delle idealità cristiane, del diritto romano, del diritto volgare, degli usi quotidiani del popolo soggiogato.

Se il diritto penale conserva ancora la sua ispirazione germanica, fondato qual è sul concetto primitivo che il reato sia violazione dell'interesse particolare della parte offesa, la quale è tassativamente impegnata a reagire contro il colpevole, è evidente l'avviamento alla concezione romana del reato come violazione del diritto sociale.

Se il procedimento giudiziario rimane, nella sua essenza, germanico, è tramontata però la completa distinzione fra chi dirige il giudizio e chi pronuncia la sentenza, nella enunciazione della quale concorrono con il presidente dell'assemblea (il Duca, il Gastaldo, lo Sculdascio, o un loro messo) anche gli altri giudici.

Se il concetto delle capacità giuridiche rimane germanicamente legato alla prova giudiziaria della pugna, in pratica il libero inetto alle armi trova l'integrazione della sua capacità giuridica limitata nel presidio familiare e in quell'istituto germanico del mundio o tutela familiare, che sotto l'azione delle circostanti idee morali assume portata piú vasta e giustificazione piú alta.

Ma questa non è che la parte esteriore delle intercomunicazioni svolgentisi fra la struttura giuridica del mondo romano e la legislazione rinnovata del regno longobardico.

Il vero innesto delle due popolazioni in conflitto si è effettuato in una zona di molto maggiore profondità, attraverso la pedagogia originalissima dell'esperienza cristiana.

Il De Civitate Dei di Sant'Agostino aveva fatto consistere tutta la progrediente economia della vita associata nella coabitazione e l'incessante scambievole contrasto della città di Dio, il popolo cioè di coloro che pongono l'amore di Dio al disopra dell'amore di sé, con la città del demonio, l'esercito cioè di coloro che pongono l'amore di sé al disopra dell'amore di Dio.

Si sarebbe detto che le invasioni barbariche, e soprattutto la calata dei Longobardi, avessero avuto lo scopo di offrire alla Chiesa, che aspira e tende ad essere per eccellenza la città di Dio, la possibilità di esercitare la sua spirituale e carismatica azione su collettività umane, che per la violenza dei loro istinti, per la incapacità funzionale di sollevarsi spontaneamente ad una visione delle finalità della vita superante i grezzi bisogni quotidiani della corporeità e delle funzionalità organiche, sembravano in effetto essere irrimediabilmente dominio di Satana.

Questa azione la Chiesa assolse fra la metà del secolo sesto e la metà dell'ottavo in maniera superba e impareggiabile.

Tanto coloro i quali hanno sostenuto la nessuna propinquità e la nessuna intesa fra Longobardi invasori e Italici dominati, come gli altri che hanno parlato di puri avvicinamenti esteriori e di nudi rapporti economico-giuridici, sono stati incapaci di misurare con approssimata proprietà l'entità di quell'invisibile processo di osmosi che si è effettuato fra Longobardi e Italiani attraverso la parete comunicante delle realtà spiritua1i e delle esperienze religiose.

La Chiesa era nel pieno fervore delle sue creazioni ascetiche e sacramentali. Il monachismo, che trova appunto in Gregorio Magno il suo celebratore piú alto e il suo inculcatore piú operoso, rappresentava in quel momento l'arma strapotente del proselitismo e della pedagogia cristiana.

È pieno di significato il fatto che l'ingresso ufficiale del regno longobardo nel cattolicesimo per opera della burgunda Teodolinda trovi la sua espressione concreta nella costituzione e nella protezione del monachismo per opera appunto longobardica.

È il Duca Faroaldo che favorisce lo sviluppo del cenobio farfense a destra della Salaria; è Gilulfo, Duca di Benevento, che prende sotto la sua protezione il monastero di San Vincenzo al Volturno, diretta dipendenza di Farfa; è il Duca di Benevento Godescalco, che a pochi anni di distanza, nella prima metà dell'ottavo secolo, arricchisce il cenobio femminile di Santa Maria di Isernia, filiazione di quello di San Vincenzo; creazione longobardica è il convento di Nonantola presso Modena.

Alfredo Oriani ha visto come nessun altro e ha espresso, in forma scultorea, la trasformazione sostanziale che il cristianesimo romano ha operato nel momento del conflitto tra latinità e germanesimo longobardo, mercè gli strumenti della sua spirituale pedagogia:

«In questa epoca il vero capitano del popolo è già il vescovo, protettore delle moltitudini, elemosiniere dei poveri, semidio della città. La sua rivolta contro i duchi e gli esarchi, per seguire il Pontefice, è l'origine e la forza persistente di questa guerra federale di ispirazione e alimentata da alleanze, finché San Gregorio, nominato Papa, non la rianimi con entusiasmo di apostolo, dirigendola con vera sapienza di statista. Di carattere bizzarro, amministratore esatto, caritatevole fino alla prodigalità, poeta e cerimoniere cosí da regolare le decorazioni del rito e il canto degli altari, egli è il politico piú attivo del proprio secolo: e confedera tosto tutte le diocesi sfuggite ai Longobardi, le dichiara suburbicarie, da Tivoli a Siracusa, consiglia, dirige, sovrasta ai Franchi, scatena l'Impero contro Agilulfo. Quindi, reso piú forte dalle contraddizioni, si rivolta con agile tradimento contro la stessa unità bastarda di Ravenna e di Bisanzio, cui si appoggia; nomina i generali, ravviva quotidianamente la rivoluzione indigena, centuplica i miracoli della religione col miracolo di una coscienza capace di credere alla propria fantasia; mentre, miracolo maggiore di tutti quelli narrati nei suoi Dialoghi, l'Italia, riunendo i risultati politici e sociali di questa lotta, riesce a svolgere contemporaneamente in se stessa l'unità del regno e la libertà della federazione col grandeggiare simultaneo dei re di Pavia e dei Pontefici di Roma».

Al tempo di Teodorico, Cassiodoro aveva sintetizzato l'ideale di vita romano e la regola suprema del governo di cui Roma era il centro e il tipo: «Le altre genti abbiano le armi; la sola eloquenza accompagni sempre i Romani».

Aveva egli dovuto ad un certo momento rinunciare al suo posto e nel fatto stesso del suo allontanarsi dalla corte per ritirarsi sulle coste ioniche a costituire una comunità che volle essere nel medesimo tempo fraternità monastica e scuola di alta cultura, aveva dato la prova palese del fallimento del suo programma politico.

In un'ora di disperata disgregazione sociale, mentre i superstiti dell'organizzazione romana cedevano miseramente alla travolgente irruzione barbarica, «l'eloquenza», con il quale termine Cassiodoro indicava tutto l'insieme degli indirizzi e delle istituzioni culturali romane, doveva, per portare effettivamente la società a salvamento, significare qualche cosa di diverso e di drasticamente originale.

E questa era la metodica cristiana delle realizzazioni sociali attraverso il rinnegamento del mondo.

È il monachismo di San Benedetto, è il Pontificato apocalittico di Gregorio Magno, che soggiogano la violenza barbarica, e sul terreno fatto deserto dalla economia bellica, ricostruiscono, frammento a frammento, una società nutrita soprattutto di fervore mistico e di valori trascendenti.

Mai come in questo momento il cristianesimo ha la possibilità di spiegare le sue capacità costruttive.

Naturalmente la configurazione sociale che esce da questa azione spirituale della Chiesa sugli elementi eterogenei che cozzano gli uni contro gli altri sul territorio italico, non ha piú nulla di comune con la configurazione statale romana. Gli istituti capitali che avevano retto questa costituzione son caduti sotto l'uraganico passaggio dei barbari. La vecchia concezione quiritaria della società, la tradizionale nozione dello Stato romano, si sfaldano rapidamente e si decompongono.

Non esisterà piú un diritto di usare e di abusare; non esisterà piú qualsiasi tentativo di accentramento.

Sulla terra, forma primigenia e specifica del possesso, verranno a sovrapporsi una quantità di diritti armonici o elidentisi a vicenda.

L'autorità statale sarà automaticamente rifratta in una molteplice polarizzazione gerarchica, impedendo e neutralizzando qualsiasi tentativo di accentramento.

Molto tempo prima dell'Impero carolingico e di Quiercy, il feudalismo era già potenzialmente in germe nel tentativo grandioso compiuto dalla Chiesa di organizzare, di su le membra sparse delle popolazioni italiche soggiogate e delle popolazioni barbariche trapiantate in Italia, una società quale poteva nascere dal programma che il De Civitate Dei aveva additato ad una forma cristiana di vita associata nella quale le aspirazioni della città di Dio, assetata solo di pace, di giustizia, di carità e di grazia, sono poste continuamente a cimento dalle velleità di aggregati che non sognano altro nel mondo che il soddisfacimento dei loro istinti di avventura, di predominio, di spoliazione e di saccheggio.

Nei due secoli di storia dei Longobardi in Italia noi non dobbiamo cercare di misurare, si direbbe quasi con rigore meccanico e matematico, fino a quale livello la popolazione vinta sia stata sotto il giogo pesante dei vincitori e questi abbiano cercato di avvicinarsi ai vinti.

L'azione degli istituti religiosi nelle ore della loro piú concreta e operante virtú pedagogica non si misura dai connotati esteriori e non è registrabile con cifre statistiche.

All'Impero sconquassato, ai regni barbarici sopravvenuti, l'opera della Chiesa cerca di offrire spontanei punti di contatto e di collaborazione che, prima di tradursi in leggi e in forme di economia e di diritto, rappresentano germinazioni culturali e spirituali di cui si coglieranno solo piú tardi le ripercussioni e le propaggini; queste ultime esigenti sempre, prima di essere codificate, laboriose e inavvertite gestazioni.

C'è un personaggio che della laboriosissima epoca di transizione costituita dall'epoca longobardica in Italia sembra realizzare in sé tutti gli elementi simbolici e tutti i contrastanti elementi fusi in una nuova combinazione che è realmente l'espressione specifica del Medioevo precarolingico.

E questo personaggio è Paolo Diacono. Rampollo di una notabile famiglia longobardica in rapporto con la corte di re Rachis a Pavia nella prima metà dell'ottavo secolo, ha ricevuto una perfetta educazione retorica e letteraria.

Entrato dapprima nel chiostro di Civate, nelle vicinanze del lago di Como, passerà poi nell'abbadia di Montecassino che dopo essere stata una prima volta, nella seconda metà del sesto secolo, devastata dai Longobardi, troverà per opera dei Longobardi la sua nuova fioritura e la sua piú lucida prosperità. Vissuto nel momento in cui Franchi e Longobardi vengono a conflitto, sentirà da presso le conseguenze di questa lotta destinata a segnare il tramonto definitivo del popolo da cui egli sortiva.

Carlo Magno lo avrà nella sua protezione e la sua permanenza in Francia gli permetterà di conoscere la vita ecclesiastica d'oltr'Alpi altrettanto bene che la vita monastica ed ecclesiastica italiana.

Venuto al tramonto dell'opera politica longobardica in Italia egli raccoglierà le memorie del suo popolo dandocene l'unica storia che noi possediamo.

Il suo amore per la disciplina monastica, la sua devozione alle memorie romane, la sua pietà di omileta, le sue composizioni poetiche, i suoi commenti grammaticali ci dànno, nel loro complesso, una immagine adeguata e piena di spirituale eloquenza di quel che è stato il processo complesso e profondo mercè il quale, attraverso due secoli di tormentata istoria, latinità e germanesimo si sono accoppiati e immedesimati in una cultura unitaria, che conferirà all'Impero di Carlo Magno il suo splendore e la sua virtú normativa.

Nell'epitaffio dettato per il suo maestro Flaviano, Paolo Diacono ha, senza averne la consapevolezza, dettato l'epigrafe piú acconcia e piú espressiva di tutto il periodo che va dalla calata di Alboino alla catastrofe di re Desiderio.

«Quod logos et phisis moderansque quod ethica pangit – Omnia condiderat mentis in arce suae».

«Ciò che la ragione e la natura e quell'abito morale che è disciplina e moderazione, offrono, tutto egli accolse e tesaurizzò nella roccaforte del suo spirito».

Quel che Paolo Diacono cosí dice del suo maestro Flaviano, lo storico può dire dell'epoca longobardica in Italia.

Era stata inaugurata dal sopravvenire turbinoso e rovinoso di orde attratte soltanto dall'istinto della conquista e dalla consuetudine della depredazione. Queste orde avevano scampagnata e sovvertito fin dalle basi la già fatiscente e logorata struttura dell'Impero romano, cui i precedenti regni barbarici avevano già inferto colpi irreparabili.

Per due secoli parve che la civiltà romana avesse ceduto il posto ad uno squallore tenebroso, fatto di tragiche epidemie e di cruenti contrasti.

La Chiesa non aveva alle sue spalle che la tradizione del Vangelo perseguitata per tre secoli da imperatori pagani, manomessa poi per due da sovrani che non vedevano nella professione cristiana se non il mezzo mascherato e menzognero per esercitare piú insindacabilmente che mai un potere assoluto.

La Provvidenza aveva ben disposto che la vecchia antitesi neotestamentaria fra il secolo presente e il secolo futuro fosse stata tradotta nell'antitesi agostiniana fra città di Dio e città del mondo, perché, sulla base dell'equilibrio instabile suggerito da questa antitesi, la Cristianità romana potesse ora accingersi al formidabile lavoro della nuova costruzione sociale.

Il monachismo fu lo strumento di questa costruzione. Lentamente e silenziosamente, come sempre si conviene alle costruzioni faticose della spiritualità umana in cammino, la Chiesa dei secoli sesto e settimo, destreggiandosi fra Ravenna e Pavia, guardando oltr'Alpi alle possibilità di tutela offerte da quel popolo dei Franchi in cui sembrava essersi meglio trasfuso lo spirito della Gallia cristiana, compí il miracolo di amalgamare popoli abissalmente separati da consuetudini millenarie e da costumi inveterati, per cementarne le aspirazioni, nobilitate e trasfigurate, in vista di un'organizzazione sociale che è quella medioevale.

Ma anche la Chiesa ebbe bisogno per questo dei suoi consoli, non piú del popolo romano, ma di Dio: San Benedetto e San Gregorio Magno.

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