II GREGORIO MAGNO

Le grandi trasformazioni sociali di un'epoca e di un popolo sono sempre prefigurativamente vissute in anticipo da anime d'eccezione, nelle quali il passato sembra ricapitolarsi in una esperienza rinnovatrice e l'avvenire sembra essere precontenuto come in una sintesi embrionale.

Il ministero della Chiesa romana, chiamata dopo il trasporto della capitale imperiale a Bisanzio a prendere nelle proprie mani il destino dell'Europa occidentale e a rifoggiarlo sulla duplice categoria della idealità romana e del fermento cristiano, ebbe in una sorprendente figura di vescovo la sua personificazione perfetta: Gregorio, che la Cristianità ha battezzato il Grande, e che è senza dubbio il piú insigne e fattivo Pontefice che la serie dei presuli romani abbia registrato.

Come sempre, le circostanze lo hanno creato e ne sono state create. Tutta l'ossatura della romanità imperiale era in frantumi. Quasi tre secoli di dominio bizantino, e quasi due di sconvolgimenti etnico-politici, avevano miserabilmente abbattuto e dissipato la compagine giuridico-politica del mondo occidentale.

La Romània era in certo modo sopravvissuta alle catastrofi del quinto secolo e una certa vita unitaria circolava ancora per entro alle membra sparse del mondo mediterraneo. Ma a questa superstite unità mediterranea, puramente economica ed esteriore, erano venuti a mancare un'anima vivificatrice e un ideale normativo.

Agostino, è vero, aveva nel De Civitate Dei formulato una visione della dialettica che presiede allo sviluppo delle umane vicende, in armonia coi principî capitali del messaggio cristiano, applicati alla storia e al suo corso fortunoso. Si trattava di applicare i principî agostiniani ad una temperie storica e ad una situazione sociale di fatto, che sembravano dover offrire gli elementi a tutta una creazione originale e a tutta una nuova organizzazione del mondo, cui Roma doveva una parola originale e una consegna inconsueta.

E Roma diede l'uomo capace di pronunciarle.

Figlio del senatore Gordiano e della nobile Silvia, Gregorio era nato nella casa che i genitori possedevano a ridosso del Monte Celio, dinanzi al palazzo dei Cesari, lungo il saliente clivo di Scauro.

La fanciullezza pertanto di Gregorio, nato verso la metà del secolo sesto, si svolse dinanzi allo spettacolo grandioso dei monumenti del Palatino, ancora nel pieno fiore della loro opulenta magnificenza, e con a fianco le opere sorgenti della organizzazione caritativa cristiana.

Il fanciullo aveva avuto dinanzi ai suoi occhi negli anni della sua adolescenza il Settizonio, con i suoi tre ordini di colonne sovrapposti, con i suoi marmi preziosi, con la sua popolazione di statue, con ai piedi le mirabili fontane, la vecchia costruzione cioè imponente dell'imperatore africano Settimio Severo, il quale sembrava avesse voluto cosí che Roma desse il piú impressionante saluto ai provenienti dalla via Appia e dalla via Ostiense.

Dietro il Settizonio, sempre sui dossi del Palatino, il giovane Gregorio aveva potuto per anni contemplare le dimore imperiali. A sinistra il Circo Massimo stendeva la serie dei suoi archi trionfali, l'infinita serie di gradini per gli spettatori, i suoi due colossali obelischi. A destra i suoi occhi potevano aver contemplato l'ardito arco di Costantino, celebrante la vittoria del primo imperatore cristiano su Massenzio. E piú in là, la superba mole dell'Anfiteatro Flavio, testimonianza solenne della grandezza e dell'ardimento romani, negato oramai a quei cruenti spettacoli da circo che l'umanitario senso cristiano aveva fatto abrogare.

Questo era il volto della Roma pagana. Ma sul medesimo Celio il giovane Gregorio aveva familiari i primi monumenti cristiani: la grande basilica costantiniana del Laterano, l'Episcopium, dove i vescovi di Roma avevano preso la loro sede dopo la pace costantiniana, infine, proprio dall'altra parte del clivo di Scauro, la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, edificata sopra gli avanzi della loro antica abitazione, quando, due secoli prima, scomparsa l'effimera restaurazione pagana di Giuliano l'Apostata che, si diceva, li aveva contati martiri, l'edificio era stato consacrato a perpetuare quell'opera di assistenza fraterna che il senatore Pammachio aveva iniziato dopo avere rinunciato alla sua posizione nel mondo.

Con queste immagini nel cuore si era venuta formando la pensosa giovinezza di Gregorio.

Come già Sant'Ambrogio, anche Gregorio è, giovane, iniziato alla carriera degli onori civili.

Nei quadri dell'amministrazione bizantina di Roma sembra che egli occupasse la carica di pretore della città. Fu anche questo ottimo tirocinio. Ma l'ambiente intorno non era tale da incoraggiare un'anima grande di romano, capace di sentire quanto fossero caduche le forme della disciplina politica in momenti di universale sconquasso, a confronto con la meravigliosa e prodigiosa virtú disciplinatrice delle realtà carismatiche e dei valori soprannaturali.

Ci sono solenni momenti nella storia, nei quali, al cospetto del disfacimento irreparabile delle consuetudini politiche ed economiche logorate e vulnerate dal lungo uso e dalla loro incolmabile insufficienza di fronte alla imponenza dei nuovi fattori entrati nel tessuto della storia, gli spiriti chiamati alla guida delle masse avvertono la tanto superiore virtú educativa delle leggi non scritte nei codici, ma incise nelle tavole dell'umana coscienza.

Il cristianesimo già era stato alle sue origini un programma divino di disciplinare gli uomini, non sulla scorta delle fallibili leggi e dei perituri istituti della politica terrena, ma a norma di una visione innovatrice di palingenesi mondiale, sotto l'azione diretta e immediata di Dio.

Il cristianesimo aveva già largamente prodotto i suoi effetti. Aveva corroso l'impalcatura giuridica dell'Impero romano e l'aveva costretto a capitolare.

Ora era chiamato a costruire al suo posto, ma non avrebbe potuto, senza rinnegarsi, adottarne integralmente i metodi e praticarne pedissequamente la disciplina. La nuova età postulava nuovi metodi e nuovi criteri. Nato come rinuncia al mondo, aveva registrato una sorprendente fruttificazione nel mondo. Inconsapevolmente, questo grande creatore di civiltà che è Gregorio, si ricolloca, d'istinto, nella posizione dei cristiani iniziali.

E sente il mondo perituro, nell'atto stesso in cui lo ricrea e lo rinnova.

C'era alle sue spalle l'esempio recente di San Benedetto. Anche al suo spirito il sogno della solitudine e dell'effettivo allontanamento dal mondo si presentava seducente e allettante.

Ma c'era un'ascesi piú efficace e piú valida dell'ascesi dei contemplanti nel deserto. Ed era l'ascesi di chi, nel mondo, si sentiva straniero al mondo, per innalzarlo e purificarlo nei sublimi piani di Dio.

Scriverà egli una volta: «Vi sono alcuni che, insigniti di speciali doni divini, arsi dal solo desiderio ardente della contemplazione, rifuggono dal prestare aiuto al prossimo con la predicazione e l'assistenza. Preferiscono la quiete dei luoghi appartati e cercano la solitudine per meditare».

Era stato questo in fondo il sogno stimolante di San Benedetto. Ma la ricerca della solitudine materiale nascondeva dei rischi. Poteva diventare soddisfacimento egoistico di raffinate esigenze spirituali del singolo. Perché il monachismo, in una società in sfacelo, potesse assolvere piú abbondantemente il suo còmpito restauratore, occorreva mantenerlo a contatto col mondo circostante, farne veramente quel che il Vangelo ha detto dev'essere lo spirito cristiano nel mondo, fermento di una pasta in sviluppo, luce e faro in un mondo tuffato fino alla cima dei capelli nel Maligno e nelle Tenebre.

Gregorio abbandona la carriera degli onori civili, e fa della sua casa al Celio il primo cenobio romano, egli stesso monaco, istruttore di monaci, celebratore e propagatore del monachismo.

Ma quella che era stata la piattaforma prima della visuale cristiana del mondo, quella che era stata l'ispirazione originaria della vocazione monastica, cosí in Oriente, come in Occidente, si ripresentano nello spirito di Gregorio in tutta la loro determinante interezza.

Vale a dire, la sensazione precisa che nel mondo si nasconda un incessante conflitto di male e di bene, di Caino e di Abele, e che, abbandonato alle sue nude forze empiriche, il mondo non può avere altro destino imminente che la dissoluzione e la catastrofe, sole capaci di aprire il varco alla suprema rivelazione di Dio. Perché la storia drammatica della civiltà e della spiritualità mediterranea offre, indeclinabile, questa sorprendente e istruttiva constatazione: i veri creatori son coloro che han sentito piú da presso la precarietà delle forze umane, e i veri innalzatori della vita morale della massa son quelli che l'hanno sentita piú dolorosamente avvolta nel tragico destino di Caino.

La grandiosa concezione paolino-manicheo-agostiniana della doppia massa umana e cosmica, la massa che si incorpora in Cristo e quella che si incorpora nel Maligno, rivive in pieno nelle prospettive e nelle premesse gregoriane.

«Caino», scrive una volta Gregorio, «non vide il tempo dell'Anticristo, e tuttavia, a causa del suo fratricidio, fu egli stesso un membro dell'Anticristo».

E la società umana terrena è propaggine diretta di Caino, perché, su testimonianza della Bibbia, noi sappiamo che Caino andò ramingando sotto lo stimolo lacerante del suo rimorso, e che, non potendo piú resistere al martirio della sua coscienza gravata, costruí la prima città, quasi ad innalzare un sipario di marmo fra sé e la visione ossessionante del suo orrendo misfatto.

Gregorio ha di questa contaminata origine della città terrena una prova lacrimevole dinanzi ai suoi occhi.

La sua giovinezza è trascorsa a Roma all'epoca turbinosa degli ultimi Goti. Nella sua memoria si erano conservate, con straordinaria vivezza, le terribili angoscie di Roma sofferte nel 549 durante il secondo assedio di Totila.

Le sopravvenute iatture con la calata longobardica dovevano avere ancora piú oppresso di disperazione l'animo del giovane pretore. L'abbandono della carriera civile, l'aggregazione alla gerarchia ecclesiastica, l'istituzione monastica al Celio, la missione di apocrisiario a Costantinopoli, non avevano fatto altro che rendere piú cosciente e piú chiaro in Gregorio il convincimento che alle supreme distrette gravanti sul mondo non si potesse contrapporre altra via di liberazione e altra prospettiva di rinascita che l'attuazione del piú assoluto abbandono a Dio e la pratica della piú penitente vita morale e della piú assidua celebrazione liturgica.

La diuturna disciplina mistica fa Gregorio sempre piú sensibile al prodigio che è nel ritmo della natura e della vita. Il miracolo è il suo pascolo quotidiano.

Nulla di piú stolto che attribuire ciò a ristrettezza mentale e a credulità superstiziosa. Le anime profondamente religiose, specialmente se assillate dal senso inquietante del male che è nell'universo e della sua irresolubilità, sono tratte d'istinto a cogliere l'intervento necessario di Dio in ogni piú modesto episodio della vita.

In tale atteggiamento spirituale di attesa vigile e di ansia fiduciosa Gregorio, in questo spiegamento universale della lotta e della insidia che il Bene deve sostenere nel mondo, spia l'orizzonte intorno per cogliere l'azione preveggente e miracolosa di un Padre.

In fondo, a pensarci bene, la credenza nel miracolo non è l'origine della fede: è piuttosto il risultato della fede. L'uomo veramente religioso che vive nella certezza che il bene deve trionfare, scorge in ogni espressione di vita, in ogni vittoria cioè della vita sulla morte, l'orma di un immediato ed incessante intervento di Dio.

È soltanto un'esigenza razionale filosofica quella che ha suggerito la certezza di leggi costanti nel mondo, leggi di cui il miracolo rappresenta una deroga eccezionale.

Per lo spirito religioso non c'è che una legge nel mondo, la legge della nessuna legge e del permanente miracolo.

Gregorio era in questa disposizione di spirito. «Se un morto risorge», egli ha scritto una volta, «tutti ne rimangono stupefatti. Eppure, ogni giorno, l'uomo che non esisteva nasce. Nessuno ne stupisce, eppure tutti sanno che è molto piú difficile foggiare quel che non esisteva, anziché riparare quel che già esistette. Tutti furono colti da stupore quando verdeggiò l'arida verga di Aronne. Eppure ogni giorno, dalla terra arida, erompono alberi e piante.

«La terra dunque diviene legno. Perché nessuno ne è preso da stupore? Tutti sono sorpresi al racconto evangelico della moltiplicazione dei cinque pani che saziarono cinquemila uomini affamati. Eppure ogni giorno il grano seminato si moltiplica nelle spighe e nessuno ne è preso da stupore... Gli elementi stessi del mondo, lo stesso fulgore dell'universo, ci offrono una immagine sensibile della risurrezione. Il sole nasce e muore ogni giorno ai nostri occhi. Le stelle sembrano scomparire nelle ore luminose del mattino per risorgere a sera. L'estate ci dà gli alberi ricchi di foglie e di fiori e l'inverno ce li riduce nudi di tutto e secchi. Ma al tornare della primavera e del suo sole, quando gli alberi possono riattingere linfa dalle radici, si rivestono dei loro splendidi manti».

L'universo pertanto cosmico e umano non è che il poema eternamente prodigioso della paterna onnipotenza di Dio. Le piú gravi iatture sono il prodromo delle più luminose rinascite e il disfacimento del mondo è la grande e propizia occasione di Dio.

È questa fede che fa riguardare a Gregorio il mondo morente con occhio di fiducia e di aspettativa.

Il momento stesso nel quale Gregorio fu innalzato al vescovato romano sembrava il momento predestinato per un animo che solo dalla visione delle piú angosciose disavventure sapesse levarsi alle piú alte speranze.

Pelagio II era morto il 5 febbraio 590 vittima di quella pestis inguinaria che dopo aver devastato il territorio bizantino ad Oriente, il territorio dei Franchi ad Occidente, era scesa giú per la penisola disseminando la morte e il terrore.

La scelta di Roma per il successore cadde spontaneamente sul solitario del Celio riluttante a una dignità di cui, proprio perché solo capace di ricoprirla, calcolava tutta la responsabilità e tutta la efficienza.

La pressione del popolo fu piú forte delle resistenze del designato. Gregorio dovette accettare.

Il nuovo Pontefice pronunziava la sua prima omelia nella Basilica di San Pietro cadendo la seconda domenica dell'Avvento. Cantato il Vangelo che annunciava la fine del mondo, il neo-eletto saliva l'ambone. Dalle sue labbra uscirono parole la cui virtú di incoraggiamento e di sollievo era tutta raccomandata al contrasto abissale aperto fra le lacrimevoli circostanze dell'ora e la raggiante validità degli eterni valori di Dio.

«C'è forse ancora qualcosa al mondo che possa piacere? Dovunque scorgiamo lutti; dovunque ascoltiamo gemiti. Città abbattute, borghi schiantati, campi devastati, quasi nessun abitante piú nelle deserte città. Eppure i pochi ancora superstiti del genere umano sono in preda a nuovi colpi, sono, senza tregua, sopraffatti dalla amaritudine. Chi è tratto in schiavitú, chi è ucciso, chi barbaramente mutilato. Ecco, noi stessi qui possiamo constatare a che cosa mai sia ridotta quella Roma che fu un tempo sovrana e padrona del mondo. Oppressa da sconfinati e rinnovati dolori, spogliata di popolo, calpestata dai nemici, logorata dalle distruzioni. Dove piú il venerando Senato romano? A che cosa è mai ridotto il popolo dominatore del mondo? Roma ha visto la sua vita assottigliata e consunta. Ha visto dissipato ogni fasto terreno. Noi, sparuto nucleo superstite, minacciato da ulteriori guerre, da piú orrendi flagelli. Roma è uno squallido deserto. Come chiameremo noi mai le calamità che vediamo con i nostri occhi se non araldi dell'ira ventura? Dei segni intorno alla fine del mondo, notati nel Vangelo, alcuni sono ormai apparsi: temiamo che altri seguano a non lontana scadenza. Che i terremoti distruggano innumerevoli città da molte parti ci viene annunciato. Delle pestilenze soffriamo, di altre iatture abbiamo il sentore... Ebbene, quanti sono di buona volontà debbono rallegrarsi che aumentino le pressure del mondo, poiché vuol dire che si avvicina la distribuzione del premio al quale solamente vanno le aspirazioni dei giusti. Della distruzione del mondo possono affliggersi quei cotali che fissarono nelle sue sorti il loro lusingato cuore, che non hanno gli occhi per la vita futura. Ma noi che conosciamo i gaudi del nostro guiderdone celeste, dobbiamo affrettare col desiderio l'alba di quel giorno in cui, dissipata in perpetuo la nebbia delle nostre afflizioni, si inaugurerà per noi il ciclo eterno dei nuovi anni viventi».

Questa visione abbacinante della non lontana palingenesi, non solamente conferisce alla parola di Gregorio un suono cosí sconcertantemente suasivo, ma imprime al ritmo del suo lavoro una intensità e una celerità prodigiose.

L'attività di Gregorio Pontefice è come una eruzione ininterrotta di materia incandescente che investe in tante zone concentriche l'una piú vasta dell'altra il mondo cristiano circostante, dalla propinqua comunità romana ai paesi piú lontani di proselitismo e di ministero apostolico.

Gregorio comincia col riformare in radice la Curia dei suoi ministri. Esclude i laici dal servizio papale. Nel libro della Regola pastorale, Gregorio pone per la prima volta dinanzi agli occhi dei suoi lettori il quadro completo delle forme di vita a cui deve estendersi ed applicarsi la sollecitudine vigile e scrupolosa del pastore di anime.

Quella che era stata la Regola di San Benedetto per l'organizzazione monastica diviene il Liber Regulae pastoralis per il clero e per l'episcopato.

«Il vero pastore delle anime», scrive Gregorio, «è puro nel suo pensiero, intemerato nell'agire, sapiente nel silenzio, utile nella parola. Si avvicina ad ognuno con carità sorridente e con visceri tremanti di compassione. Si innalza sopra tutti gli altri in virtú del suo ininterrotto commercio con Dio. Si associa con umile disposizione di spirito a coloro che operano il bene. Ma si leva con fiammante zelo di giustizia contro i vizi dei contaminatori del mondo. Pur tuffato nel traffico delle cose esteriori, non abbandona un istante la sollecitudine delle cose spirituali. Ed è proprio in virtú di questa ininterrotta sollecitudine per le cose dello spirito che non abbandona mai la cura premurosa dei negozi esteriori».

Gregorio con intuito mirabile avverte la importanza sociale ed economica della professione monastica.

II monachismo non è per lui, come non era nell'intuito di San Benedetto, una forma chiusa e angusta di perfezionamento individuale. Senza pure averne la piena consapevolezza, Gregorio sente d'istinto che la professione monastica, per avere un significato e una giustificazione, deve essere una porta aperta alle trasformazioni delle classi e alla comunicazione scambievole dei ceti sociali.

Stabilisce pertanto che quanti fra i servi o i coloni della proprietà ecclesiastica vogliano passare allo stato di servi di Dio nelle file del monacato regolare, ne abbiano il pieno ed incontrastato diritto.

Era un modo cotesto di passare dalla servitú e dalla condizione di mancipi nelle grandi proprietà terriere, alla condizione di moralmente liberi nel servizio di Dio.

Gregorio Magno faceva cosí un istituto sociale di quel mirabile concetto cristiano primitivo per cui l'uomo è naturalmente e funzionalmente uno schiavo (di Satana, cioè del mondo, o di Dio), e secondo il quale non c'è che un modo di essere veramente liberi, quello di costituirsi schiavi di Dio.

Come siamo abissalmente lontani dal concetto moderno della libertà concepita alla kantiana quale assoluta autonomia! Il cristianesimo fa al contrario della libertà e dell'autonomia l'assoluta eteronomia.

Solo quando noi siamo completamente e totalitariamente legati alla schiavitú nelle mani di Dio, allora e solo allora noi siamo completamente ed assolutamente liberi.

Parecchi secoli piú tardi di San Gregorio, all'epoca di Gioacchino da Fiore, in una di quelle stupende reviviscenze dello spirito monastico benedettino che contrassegnano le tappe ascendenti della civiltà cristiana medioevale, il passaggio dalla condizione di servi della gleba a quella di aggregati alla famiglia monastica rappresenterà ancora una volta l'unica forma possibile di affrancamento e di libertà.

Tutto pervaso cosí dal senso della efficienza sociale e pubblica della religiosità cristiana oramai incanalata e disciplinata sotto l'egida dell'episcopato romano, Gregorio pone nel suo Sacramentarium l'ossatura del messale romano.

Troviamo già in esso la linea dell'attuale canone liturgico, con lo schema particolare di tutte le preghiere che lo costituiscono. Rinnovando ed integrando l'opera di Papa Gelasio, Gregorio fissa e schematizza nel suo piano liturgico le parti costitutive della messa cattolica: l'Oratio, la Secreta ed il Post-communio a seconda di ogni messa; non però le lezioni dell'Epistola e del Vangelo, le quali a quel tempo formavano particolari collezioni. Il medesimo dicasi delle antifone dell'Introibo, dell'Offertorio e della Comunione, che dovevano cercarsi nell'Antiphonarius missae, come dovevano cercarsi nel Liber gradualis i responsorii della messa.

Il canto religioso è nella estimazione di Gregorio una parte essenziale dello spiegamento liturgico. Noi abbiamo qui uno dei tratti piú eloquenti e una delle espressioni piú patetiche della finezza e della sensibilità con cui questo presule romano avverte la portata spirituale del culto associato.

Tale culto associato non può non essere accompagnato dallo sviluppo austero, piú solenne e in pari tempo piú organico, del canto collettivo. La musica è un complemento indispensabile della preghiera, e la comunicazione della comunità credente con Dio non può essere articolata in altra forma che mercè la modulazione canora della voce collettiva.

Secondo il biografo del Pontefice, Giovanni Diacono, Gregorio fin dagli inizi del suo governo pontificale volle che la sollecitudine della Casa del Signore andasse costantemente unita alla cura della musica sacra, «per la dolcezza della compunzione che questa insostituibile arte produce: propter musicae compunctionem dulcedinis, antiphonarium centonem cantorum studiosissimus nimis utiliter compilavit».

Il medesimo biografo ci attesta che Gregorio non solo mise insieme l'antifonario dei cantori, ma istituí quella schola cantorum che, due secoli e mezzo piú tardi, conservava ancora intatto lo spirito gregoriano.

È naturalmente molto malagevole e mal sicuro ricostruire oggi la forma primitiva di quelle che dovettero essere ai loro inizi le melodie gregoriane.

Una grave lacuna di due secoli almeno corre tra le copie giunte sino a noi dall'antifonario gregoriano e quello che fu il primitivo antifonario disciplinato dal Pontefice. Ma ancora oggi nella forma vigente il canto liturgico e associato che porta tuttora il nome del Papa della gente Anicia è una delle cose piú squisite e piú suggestive che siano rimaste, negli usi attuali del cattolicesimo universale, di quella tradizione che risale, attraverso vie non del tutto esplorabili, alle consuetudini romane degli inizi del settimo secolo.

Ed ecco il prodigio dell'attività gregoriana rispecchiante in maniera veramente cospicua, che appare quasi impareggiabile, quello che è il metodo di lavoro e la tattica di governo spirituale della tradizione cristiana.

Questo Pontefice, che si compiace di trascorrere gli istanti del suo riposo rievocando con compiacimento commosso i miracoli della ascesa solitaria del benedettinismo; questo vescovo che cura nei piú esili particolari la disciplina del culto e le espressioni dell'esperienza mistica associata; questo sognatore del Regno di Dio che egli vede venire a placazione delle inenarrabili iatture da cui vede circondata la sua sede vescovile; pone mano, si direbbe quasi senza averne la piena consapevolezza e la adeguata intuizione, ad un'opera di ricostruzione sociale ed economica che rappresenta di fatto il prodromo albeggiante e lucente della civiltà medioevale.

Gli strumenti della sua opera ricostruttrice sono i vescovi disseminati nel territorio su cui è spiegata l'uraganica razzia longobardica.

Rivestiti delle loro infule sacerdotali, insigniti di un còmpito che trae la sua pedagogica virtú positiva dalla stessa sua trascendenza carismatica, questi vescovi sono gli strumenti efficacissimi di una originalissima nuova organizzazione italiana, in cui tutto quello che è empirico e positivo sgorga e trae alimento dallo spirituale e dal trascendente.

Gregorio li convoca quando è possibile a Roma per dare ad essi le sue istruzioni e i suoi moniti accorati.

La forza delle sue ammonizioni nasce, si direbbe, dal fuoco bruciante della sua aspettativa apocalittica: «Ecco, ormai spunta il dí tremendo del giudizio e Cristo s'avanza terribile nella sua maestà e siede in mezzo ai cori degli angeli e degli arcangeli per giudicare l'intero mondo, che gli sta sotto ai piedi. Pietro gli offre la Giudea, da lui convertita; Paolo, sto per dire, gli presenta l'intero mondo, da lui tratto alla fede; Andrea e Giovanni l'Asia; Tommaso l'India; e una turba immensa di pastori d'anime recano il frutto dei loro ministeri. E noi che diremo? Quali saranno i nostri manipoli d'anime salvate pel cielo? Ovvero andremo noi con le mani vuote, e mentre qui sulla terra siam chiamati pastori, ci presenteremo colà non seguiti dal gregge?

«La divina misericordia salverà le pecorelle affidateci; pel nostro ministero ricevettero il battesimo, per le nostre preci la benedizione, per l'imposizione delle nostre mani lo Spirito Santo. Si salveranno, come spero; mentre noi pastori, negligenti della propria salute, saremo tratti al supplizio; simili all'acqua battesimale, che dopo aver mondata l'anima del catecumeno, cade all'intorno e nel terreno si sperde. Temiamo dunque, o fratelli, e il nostro ministero risponda alle nostre azioni. Ogni giorno rendiamoci conto dei nostri peccati; meditiamo senza tregua quel che siamo, quale sia il negozio nostro in questa terra, qual sia l'ufficio che sulle spalle ci pesa.

«E mentre questa cura abbiamo dell'anima nostra, gittiamoci con ardore alla salute del prossimo; si corregga ogni vizio, si ammonisca ogni persona di qualsivoglia grado od officio, secolare, chierico, monaco, e mentre non si trascura di trarre dal vizio il peccatore, si spinga il giusto a santità sempre maggiore. In questo modo soltanto renderemo a Dio onnipotente quel frutto che aspetta del nostro pastorale ministero».

Ed ecco il paradosso cristiano che il vescovo romano della gente Anicia vive in pieno, con ricchezza di risultati sorprendenti e prodigiosi.

Questo pastore di anime che scorge intorno a sé solo caducità e precarietà; che cerca di sollevare lo sguardo del suo gregge smarrito unicamente verso il cielo per spiare i segni preannuncianti l'avvento della temuta e insieme desiderata palingenesi; quest'anima di profeta che rivive in profondità tutte le esperienze, tutte le angoscie e tutte le aspettative della prima epoca cristiana, è capace in pari tempo di curare meticolosamente le pratiche piú minute dell'amministrazione temporale della Chiesa romana e di portare il suo provvido accorgimento concreto e realistico in tutto il fascio dei valori politici e degli eventi amministrativi che si svolgono su tutto il territorio europeo, da Costantinopoli alle isole britanniche.

L'amministrazione dei beni ecclesiastici era diventata già di per se stessa un còmpito complesso e malagevole.

In realtà noi siamo pochissimo informati sulle origini e lo sviluppo del patrimonio della Chiesa romana durante i primi quattro secoli. È soltanto all'epoca del Pontificato di Gelasio (492-496) che riferimenti al patrimonio nelle lettere papali o in documenti affini cominciano ad essere frequenti.

E quando nelle lettere di Papa Gelasio il velario è tolto, noi ci troviamo dinanzi ad un patrimonio già pienamente sviluppato e ad un'organizzazione simile fin nei piú esili particolari a quella che vediamo prevalere un secolo piú tardi sotto Gregorio, il grande «servo dei servi di Dio».

Questo pressoché ininterrotto silenzio mantenuto dai piú antichi scrittori cristiani in relazione ai possedimenti terrieri e alla ricchezza mondana in mano della Chiesa, non può del resto recare sorpresa.

Fino all'epoca di Costantino, richiamare in qualsiasi modo l'attenzione pubblica sulla proprietà immobiliare posseduta dalla Chiesa, non sarebbe stato prudente e non si sentiva alcun bisogno di farlo.

Che allusioni al patrimonio non si facciano piú frequenti dopo il riconoscimento legale del cristianesimo per opera di Costantino può essere ragione di piú viva e legittima sorpresa. Ma anche qui non si deve dimenticare che gli spiriti del quarto secolo furono predominantemente occupati dalle grandi contese teologiche, sí da eliminare dall'ambito degli interessi concreti argomenti di natura finanziaria.

La Chiesa d'altro canto non aveva ancora raggiunto una posizione di cosí sicuro rilievo da poter pensare ad una preservazione ufficiale di documenti di affari relativi alla propria consistenza economica. Questo non esclude che si possa raccogliere un certo insieme di informazioni al riguardo da allusioni sporadiche e da accenni occasionali.

Le benemerenze in fatto di generosità e di assistenza da parte della Chiesa romana fin dai primi periodi della propagazione cristiana sono ben note. Eusebio riporta una lusinghiera espressione di gratitudine contenuta in una lettera scritta da Dionigi vescovo di Corinto ai Romani nell'anno 161: «È stata vostra mirabile consuetudine dagli stessi inizi della nostra religione di mostrare animo benefico verso tutti i fratelli ed inviare aiuti per le necessità della vita a tante numerose chiese in tanto numerose città» (Storia ecclesiastica – IV, 23).

Le persecuzioni che la Chiesa subí durante i primi tre secoli dovettero verosimilmente impedire l'acquisto di una proprietà permanente, specialmente terriera, dal momento che essa poteva esser soggetta a confisca.

La conversione di Costantino aprí il varco ad un aumento spettacoloso dei quadri ecclesiastici. Un editto imperiale stabilí presto che la proprietà dovesse essere lasciata immune ed inviolabile alla Chiesa.

Donazioni cospicue sembra siano state fatte molto sollecitamente alla Chiesa dalla nobiltà romana. Ma fu durante il quinto secolo che queste donazioni raggiunsero il loro piú alto livello dal momento che il prestigio della Chiesa si era enormemente accresciuto, e d'altra parte le condizioni pubbliche della vita italica rendevano la proprietà piú un impaccio che un profitto, come suol succedere nelle grandi epoche di crisi.

Si può aggiungere che la Chiesa beneficiò in cospicua misura della generosità imperiale.

Il carattere spurio della cosiddetta donazione di Costantino e degli Acta Sylvestri non ha bisogno piú di essere dimostrato. Ma non ci si può sottrarre all'impressione che fa il curioso parallelismo fra la denominazione di Patrimonium Ecclesiae e l'altra di Patrimonium Principis.

È piú che logico pensare che dopo la rimozione della corte imperiale a Costantinopoli, cospicue porzioni del patrimonio imperiale siano passate alla Chiesa. Forse non è inopportuno segnalare a tal riguardo che il Liber Pontificalis ci attesta che quando Basso, il falso accusatore di Papa Sisto, fu condannato, i suoi possedimenti furono dichiarati incamerati e dati dall'imperatore Valentiniano alla Chiesa.

Il patrimonio venne anche accrescendosi mercè una sottile, ma ininterrotta corrente di possessi e di terreni che gli si aggregarono alla morte di dignitari ecclesiastici, di monaci, di schiavi.

In una sua lettera famosa al suddiacono Pietro, Gregorio accenna ai tentativi compiuti per rivendicare alla Chiesa la proprietà di quei conductores morti senza testamento, e proibisce per l'avvenire qualsiasi tentativo analogo di spogliare i parenti della loro legittima eredità.

In un'altra lettera egli accenna a molte proprietà indebitamente accaparrate in Sicilia durante il precedente decennio da Antonio defensor del patrimonio ecclesiastico colà, ed ordina che siano tutte restituite ai loro legittimi proprietari, non lesinando parole per bollare la rapacita degli impiegati ecclesiastici.

Non c'è dubbio pertanto che la proprietà della Chiesa romana durante il quinto e il sesto secolo avesse raggiunto una considerevole estensione. Ma informazioni minute e circostanziate sulle condizioni di tale vasto possesso patrimoniale sono scarsissime, e soltanto l'epistolario di Gregorio Magno ci permette al riguardo uno sguardo d'insieme.

Questa proprietà era denominata globalmente come Patrimonium Ecclesiae o Patrimonium S. Petri. Per i fini dell'amministrazione i possessi situati in provincie o paesi diversi erano raggruppati insieme, sí da costituire estesi territori, ciascuno contrassegnato dal nome della provincia in cui era situato.

Naturalmente la piú larga parte dei possessi ecclesiastici era situata in Italia e in Sicilia. Il patrimonio siciliano era, all'epoca di San Gregorio Magno, il piú vasto di tutti.

Quali fossero i criteri in pari tempo di alta spiritualità cristiana e di concreta accortezza amministrativa con cui Gregorio amministrava i possessi ecclesiastici può apparire, ad esempio, da quella lettera a Candido, rettore del patrimonio gallico, a cui il Pontefice impone, dato il minor valore della moneta corrente in Gallia in confronto con quella corrente in Italia, di non trasmettere a Roma le rendite in valsente, ma di spenderle a favore dei poveri nella Gallia stessa o nell'acquisto di schiavi inglesi, che cosí affrancati dovevano essere mandati a Roma per esservi educati in vista della missione apostolica in Anglia.

Si comprende come un possesso terriero di cosí vaste proporzioni e di cosí complesso giro amministrativo dovesse portare ad una organizzazione economica che tutte le circostanze spingevano a trasformarsi gradatamente in vero e proprio organismo statale.

C'è qui uno degli aspetti meno esplorati e anche meno esplorabili del passaggio insensibile del dominio ecclesiastico da puro fatto economico a fatto istituzionale, giuridico, politico.

Tra il quinto e il sesto secolo l'autorità ecclesiastica si viene progressivamente costituendo in potenza ed in indipendenza, cosí da far presentire l'affermarsi di quella concezione medioevale della Chiesa come umanità organizzata nel suo aspetto spirituale, che doveva sboccare fatalmente nella consapevolezza di una effettiva autonomia e di una ideale superiorità sull'organizzazione temporale del mondo, vale a dire sullo Stato.

Su quelli che sono i vari punti di contatto tra la Chiesa e i funzionari imperiali, quali vennero emergendo per il fatto che la Chiesa si trovò in possesso di larghe estensioni di territorio, le lettere di San Gregorio Magno sono una luminosa e preziosa fonte di informazione.

L'atteggiamento degli ufficiali ecclesiastici del patrimonio di San Pietro di fronte ai rappresentanti del potere imperiale appare, di regola, come un atteggiamento di circospetta e vigile indipendenza.

Era di capitale importanza per la Chiesa avere condiscendenti gli impiegati dello Stato e fare assegnamento sulla loro benevolenza dovunque e in qualunque momento fosse possibile, ma nel medesimo tempo far di tutto per evitare un atteggiamento servile.

Tale linea politica è eloquentemente illustrata dalle istruzioni date da Gregorio al suddiacono Pietro dopo che egli fu nominato rettore del patrimonio siculo.

Pietro è sagacemente e finemente avvertito di non assumere atteggiamenti arroganti, ma al contrario di comportarsi in modo che i burocrati e la nobiltà laica possano amarlo per la sua umiltà. In pari tempo però gli si raccomanda in tutti i toni di resistere a viso aperto quando essi si comportino in maniera contraria alla equità.

Era di prammatica presentare ai burocrati imperiali doni e gratificazioni, quatenus eos sibi placabiles reddant.

I rapporti, del resto, fra amministrazione ecclesiastica e autorità imperiale erano resi particolarmente frequenti e delicati sui territori appartenenti al patrimonio papale, per il fatto che questo patrimonio doveva contribuire alla provvista di grano per la capitale, entrata ormai nelle consuetudini dell'economia italica. Le requisizioni dirette a tale scopo erano minutamente disciplinate.

Altra materia in cui autorità politica ed autorità ecclesiastica venivano a trovarsi a contatto se non a conflitto nei possessi terrieri, era la materia criminale. Se non nei casi di omicidio e di tradimento, gli ecclesiastici dipendevano unicamente dalla giurisdizione vescovile.

Nell'amministrare questi cospicui possessi territoriali, la Curia non aveva ripudiato, come già abbiamo accennato gli antichi sistemi imperiali.

Una parte delle terre era data dalla Chiesa in enfiteusi, un' altra veniva coltivata direttamente dalla Chiesa per mezzo dei suoi coloni. Una grossa schiera di conductores era incaricata di raccogliere le rendite sia in natura sia in denaro. Il patrimonio siculo ne contava non meno di quattrocento. I tributi si riscuotevano tre volte l'anno: vale a dire a gennaio, a maggio, a settembre. Una lettera di Gregorio Magno ci consente di indurre che per ogni riscossione il totale finiva con l'ammontare a circa 500 soldi d'oro.

Cosí adagio adagio il Pontefice aveva finito con l'essere in tutto l'Impero il piú ricco proprietario, con sotto di sé un vero esercito di amministratori a cui non finiva mai di inculcare il senso della carità, al di sopra della giustizia.

Gregorio ci si rivela preoccupato di sostituire agli enfiteuti i coloni, quasi che nella sede romana s'insinuasse il timore che l'enfiteusi fino alla terza generazione potesse far correre il rischio al principio di proprietà di affievolire la propria inviolabile saldezza. Ai coloni che mettevano famiglia ridusse la quota del tributo. Temperò la condizione degli schiavi avvicinandoli a quella dei servi della gleba. È il caso di pensare che la situazione della servitú sui fondi ecclesiastici dovesse apparire piú propizia se, sempre su testimonianza dell'epistolario gregoriano, molti vi cercavano rifugio.

Sta di fatto del resto che la manomissione diviene frequentissima e Gregorio stesso ne dà una formula che sarà a lungo conservata nei secoli posteriori.

Questa sagace temperanza che Gregorio Magno porta nell'amministrazione del patrimonio pontificio, nucleo primordiale e centrale del sorgente Stato papale, è in pari tempo il contrassegno della sua azione politica e religiosa in Italia e fuori d'Italia.

Nell'anno stesso in cui Gregorio salí al Pontificato, Agilulfo, scelto da Teodolinda, succedeva ad Autari. Al principio del suo Pontificato Gregorio, che dal suo predecessore aveva ereditato la guerra coi Longobardi, la prosegue alacremente.

Da Roma, quasi suo quartiere generale, presiede alla difesa della città e del suo contado. Salito appena sul seggio vescovile ci si mostra nell'atteggiamento di un vero e proprio generale che, senza brandire la spada, spedisce ordini di guerra, nomina nuovi comandanti, concerta movimenti strategici, invia drappelli, riceve e dà informazioni, prevede e previene le mosse del nemico.

Era specialmente contro il Duca di Spoleto Ariulfo che Gregorio sosteneva la lotta. Parrebbe che costui si fosse millantato di voler entrare in Roma e di fare strage dei Romani il giorno stesso in cui si festeggiava il «Natale di San Pietro».

Ma l'11 giugno del 592 Ariulfo scriveva a l Pontefice una lettera di cui non conosciamo esattamente il contenuto, ma in cui, a quanto ci è dato arguire dall'andamento successivo del conflitto e da lettere papali, dovevano essere fatte proposte di pace a condizioni piuttosto sfavorevoli, cosí dal punto di vista pecuniario come militare, per Roma. Gregorio rifiuta e allora Ariulfo scende da Narni verso Roma. Era il mese di luglio. Gregorio deve cedere. Egli aveva necessità di conservare le porte intatte contro la minaccia dell'altro Duca longobardo, Arichi di Benevento. E la pace fu stipulata. Importante è segnalare che Gregorio la conchiude personalmente e sotto la propria responsabilità. L'esarca Romano di Ravenna, che vi era stato estraneo, la ruppe l'anno dopo scendendo a Roma per strapparla ai Longobardi e per sguernirla di ogni milizia.

Si direbbe che la gelosia del rappresentante imperiale per la crescente autorità del Pontefice fosse la vera ragione del conflitto che tornava ad imperversare in Italia.

Quando Agilulfo seppe della città occupata da Romano, mosse direttamente da Pavia, riprese Perugia, scese verso Roma. Gregorio interrompeva, con la piú cupa tristezza nell'animo, le sue mirabili omelie su Ezechiele. Fu in quell'occasione che Gregorio uscí dalle mura verso l'accampamento nemico e si portò incontro ad Agilulfo verso la Basilica di San Pietro che era allora fuori della cinta.

Agilulfo fu placato dalle forti invocazioni papali e si ritirò dall'Urbe. Donde la rappresaglia degli imperiali. A Ravenna si cominciò a gettare il discredito sul Pontefice, accusandolo di avere ucciso Malfo, vescovo dalmata di avere ceduto puerilmente alle lusinghe di Ariulfo, di avere fatto mancare di viveri Roma durante l'ultimo assedio.

Le voci calunniose furono propalate fino a Bisanzio e Gregorio, la cui politica è tutta nel destreggiarsi fra Longobardi e Imperiali, cercando di aprire sempre piú il varco all'autonomia anche politica della Roma papale, scriveva all'apocrisiario Sabiniano a Costantinopoli protestando con veemente energia contro l'accusa di avere fatto spargere sangue.

Una speciale lettera indirizzava all'imperatore Maurizio, documento questo importantissimo nella storia della costituzione dello Stato pontificio romano, perché mette a nudo la sottile tattica papale mirante a staccare il ducato spoletino dal regno longobardico per farne un alleato proprio e un fulcro alla crescente autorità politica del Pontificato.

«Sono accusato», scrive Gregorio, «di essere stato fatuo nelle trattative con l'astutissimo Ariulfo. In realtà, se lo stato di cattività della mia patria non crescesse di giorno in giorno, io potrei pur tacere, personalmente indifferente se non felice, di quel che potrebbe essere il disprezzo e l'irrisione contro la mia povera persona. Ma quel che mi affligge è che la ragione per la quale io sono accusato e tollero l'accusa di doppiezza e di fatuità è cosa che ogni giorno piú trascina l'Italia sotto il giogo longobardico. Sicché, mentre non si presta alcuna fede ai miei suggerimenti e alle mie raccomandazioni, le forze degli avversari vanno quotidianamente crescendo. Per cui al piissimo sovrano di Bisanzio consiglio che, pur pensando di me tutto il male che vuole, provveda molto piú con le opere che con le parole al vantaggio della cosa pubblica e alla causa dell'affrancamento dell'Italia. Non presti egli ascolto troppo facile alle vociferazioni di chicchessia. E ai costituiti nel sacerdozio non mostri la sua irritazione in nome della sua potestà terrena: presti piuttosto ossequio a causa di Colui di cui i costituiti in sacerdozio sono servi».

Tutte le informazioni di cui disponiamo dimostrano esaurientemente che se l'oppressione longobardica era feroce in Italia, il regime amministrativo di Bisanzio era anche dei piú gravosi.

L'abitudine invalsa di donare le cariche al migliore offerente faceva sí che gli ufficiali pubblici tentassero e praticassero tutte le vie per guadagnare le somme offerte sulle popolazioni amministrate. Le ingiuste esazioni, i balzelli sproporzionati e palesemente illegali erano una piaga universale. Gregorio ha una parola di conforto e di intercessione per ogni torto, per ogni iniquità. Non si rifiuta neppure di scrivere all'imperatore quando i reclami privati mancano di effetto. Molti abusi furono eliminati in séguito alle fiere rampogne del Pontefice, che appaiono condensate in questo solenne e memorando aforisma: «Questo è il punto di divario fra i sovrani dei pagani e gli imperatori dei romani, che i sovrani delle genti son padroni di schiavi, mentre l'imperatore dei romani è sovrano di liberi» (Ep. X, 51).

In queste parole, di cui può considerarsi come tutto un commento la corrispondenza del Pontefice, è racchiusa la visione gregoriana dell'autorità politica imperiale romana e quindi è contenuta in germe la sua dottrina circa l'armonia dei due poteri.

La questione dei rapporti tra autorità spirituale e autorità civile non era nuova: Papa Gelasio aveva scritto una volta al dogmatizzante imperatore Anastasio: «O imperatore augusto, due sono le colonne su cui principalmente questo nostro mondo s'innalza. La sacrosanta autorità dei Pontefici, l'augusta potestà regale. Tu sai, o figlio clementissimo, che sebbene tu presieda, per dignità, al genere umano, devi però sottoporre devotamente il tuo collo ai presuli delle realtà divine. È da loro che tu puoi attenderti i mezzi infallibili della tua eterna salvezza, è a loro che ti devi rivolgere per ricevere i sacramenti celesti. Per cui nell'ordine religioso tu sai molto bene di dovere piuttosto sottostare che comandare, accettare l'altrui giudizio, anziché ridurre i ministri dell'Altissimo alla tua volontà».

Possiamo riconoscere che Gregorio faceva un passo piú in là di Gelasio. Non escludeva assolutamente che il potere civile potesse avere facoltà di intervenire nelle cose religiose. Ma immediatamente soggiungeva che un intervento di questo genere non avrebbe potuto essere ispirato da altre idee che quelle della verità e della giustizia, di cui l'autorità religiosa era interprete e sanzione. Di modo che nell'atto stesso in cui sembrava che Gregorio esulasse in qualche cosa da quella che era stata la posizione assoluta ed intransigente di Gelasio, finiva col riprendersi con la destra quello che aveva concesso con la sinistra.

«In questo, infatti», egli scriveva ai rappresentanti dell'autorità politica, «voi avete la garanzia di piú vasto vostro successo se quei che sapete essere nemici di Dio, al giogo del vero Signore voi riportate. E tanto piú voi garantite energicamente al cospetto degli uomini i vostri interessi, quanto piú devotamente e sinceramente difendete in mezzo agli uomini la causa di Dio».

Ma quando il potere laico invadeva e manometteva le attribuzioni ecclesiastiche, Gregorio era lí pronto ad insorgere con tutte le sue forze. Rese cosí in pratica lettera morta una legge con cui l'imperatore Maurizio nel 592 cercava di impedire che un qualsiasi impiegato pubblico o un qualsiasi militare potesse evadere dalle sue mansioni per dedicarsi a vita ascetica e monastica. Cosí pure non riconobbe mai un vescovo di Salona, Massimo, contravventore alle leggi canoniche, sebbene protetto da Bisanzio, finché il ribelle non si sottomise a Roma.

In quanto alle formule umili adoperate sempre da Gregorio per indicare la propria persona e di cui la piú memoranda è quella rimasta poi nella designazione del Pontefice romano, servus servorum Dei, in un uomo che ha dato al mondo cosí palesi e clamorose prove di energia combattiva e di fierezza dignitosa, esse debbono spiegarsi col sentimento umile che questo grande Papa, «il piú romano dei Papi», aveva di sé e col desiderio di contrapporre al fastoso retorico ed immaginifico uso cortigiano di Bisanzio, la semplicità tradizionale di Roma e dei suoi costumi.

C'è, è vero, l'episodio di Foca.

Il 25 aprile del 603 giungevano a Roma le immagini del nuovo imperatore bizantino Foca e dell'imperatrice Leonzia. Tali immagini, che eran dette laurata, forse perché adorne di alloro, tenevano le veci delle persone imperiali, e il popolo doveva muovere incontro ad esse, in processione, per atto di riconoscimento pubblico e di ossequio devoto. Furono accolte dal Pontefice nella Basilica Julia, la piú vasta sala del Laterano, e deposte poi nell'oratorio del martire Cesario, sul Palatino. Gregorio scriveva poco dopo all'imperatore congratulandosi con lui: «Nel piano incomprensibile della economia con cui l'Iddio onnipotente regge il mondo, alterne e oscillanti appaiono le vicende da Lui volute della vita umana, e quando le molteplici colpe della massa giungono all'ora della nemesi, si leva qualcuno per la cui durezza tirannica i colli dei sudditi sono sottoposti al deprimente giogo della tribolazione. Ne abbiamo fatto l'esperienza ai nostri tempi. Quando invece l'Iddio misericordioso decide di riscaldare col fuoco della Sua consolazione i cuori dei molti, allora si innalza al culmine del potere qualcuno per le cui viscere di misericordia Egli, Iddio, fa rifluire nello spirito di tutti la grazia della Sua esultanza».

Come mai Gregorio ha potuto parlare delle viscere di misericordia di Foca, salito al trono in virtú di una ribellione di milizie e condannante a morte, a Calcedonia, il deposto Maurizio e martoriante, alla presenza di questi, i suoi cinque figli dei quali uno già proclamato Cesare, l'ultimo ancora poppante? Come ha potuto auspicare lieti giorni all'Impero, dal governo di questo crudele usurpatore, impassibile alla tremenda tragedia di un padre che assiste allo scempio della propria famiglia mormorando allibito le parole del salmista: «Giusto sei, o Signore, e pieno di rettitudine il Tuo giudizio»?

È un episodio che ha lasciato sempre perplessi e interdetti i biografi di Gregorio Magno: ci sono molte circostanze che impongono un grande riserbo prima di pronunciare un verdetto.

Noi sappiamo che quando giunsero le prime notizie della rivoluzione bizantina Gregorio era ammalato. Sappiamo pure che le notizie non dovettero pervenire per via di mare, perché ogni comunicazione navale fra l'Italia e Bisanzio era interrotta fra il novembre ed il marzo, e il pronunciamento militare di Costantinopoli aveva precisamente avuto luogo nel novembre del 603. In quel medesimo torno di tempo anche le comunicazioni di terra erano precarie, a causa delle scorrerie degli Avari. D'altro canto è perfettamente comprensibile che le prime notizie pervenute dovessero essere quali la vigile censura bizantina permetteva che si diffondessero in Occidente. Probabilmente Gregorio deve aver appreso vagamente che Foca era stato sollevato al trono per volontà dei soldati. Può non avere avuto il piú lontano sentore della orrenda tragedia calcedonese. È assurdo pensare che un uomo il quale ha tante volte mostrato la sensibile rigidezza del suo animo e la sua inflessibilità nel rispetto per la giustizia, abbia tratto confortanti auspici da un rivolgimento di corte così crudelmente sanguinoso.

Che il cambiamento di sovrano, di primo acchito, dovesse riuscire gradito a Gregorio, non c'è dubbio. Maurizio era stato un deciso e tenace favoreggiatore di quel suo patriarca Giovanni che aveva assunto il titolo di «ecumenico», costituendosi cosí in qualche modo ufficialmente rivale ed emulo di Roma. La scomparsa di Maurizio apriva a Gregorio prospettive piú rassicuranti nella lotta ingaggiata contro le pretese ecclesiastiche bizantine.

Risaliva molto indietro nel tempo questa contesa per il titolo di «ecumenico». Il cosiddetto latrocinio efesino lo aveva attribuito al patriarca Dioscoro. Calcedonia lo aveva adoperato designando il vescovo di Roma Leone Magno. Giustiniano ne aveva insignito il suo patriarca Epifanio. Adoperato in una significazione puramente onorifica, non aveva provocato da parte della sede romana alcuna protesta. Ma ora Giovanni, detto il Digiunatore, divenuto patriarca di Costantinopoli nel 582, cercava di valersene a giustificazione e a rincalzo di presunti effettivi privilegi della sua sede. Le relazioni epistolari fra Giovanni e Gregorio mostrano quale importanza il vescovo di Roma, con lungimirante presentimento, attribuisse a questa che potrebbe sembrare una pura controversia protocollare, se tutto quello che implica l'esplicazione del ministero ecclesiastico a Bisanzio in questa età di vera vigilia dello scisma, non avesse un significato che va ben oltre le apparenze.

Per comprendere come la durezza intransigente di Gregorio fosse ispirata da altissime e sensibili considerazioni delle esigenze del magistero romano, basta porre a confronto la corrispondenza di Gregorio con Giovanni e quella contemporanea con Eulogio di Alessandria e Anastasio di Antiochia, verso i quali il Pontefice romano spiega sentimenti di amicizia improntati alla piú deferente e affettuosa cordialità.

Le prime avvisaglie con Giovanni erano scoppiate nel 588. Il patriarca di Antiochia, Gregorio, era stato accusato di incitamento alla ribellione e di incesto. Il popolo credulo alle accuse aveva cominciato a svillaneggiarlo per le vie. L'antiocheno chiese di giustificarsi in pieno sinodo, a Costantinopoli, alla presenza dell'imperatore. Il sinodo fu convocato. L'accusato fu assolto. Il suo calunniatore condannato alla fustigazione. Preso da fatua vanità nel vedersi a capo di tanta assemblea al cospetto imperiale, costituito giudice niente meno che del patriarca della veneranda sede antiochena, prima metropoli cristiana dopo Gerusalemme, Giovanni aveva creduto di poter sanzionare il suo potere adottando nella firma apposta agli atti sinodali il titolo di «ecumenico».

Il vescovo romano del tempo, Pelagio II, non mancò di formulare immediatamente la sua protesta. Il titolo non voleva significare una autorità di primato giurisdizionale sui vescovi orientali, che Roma non aveva mai e non avrebbe mai potuto riconoscere?

Per allora la controversia non ebbe gran séguito. Gregorio ebbe occasione di scrivere per ben due volte all'imperatore a proposito del trattamento inflitto ad ecclesiastici e a monaci accusati di eresie dualistiche e di esagerati rigorismi ascetici. Gregorio avocava a sé il supremo verdetto disciplinare. Giovanni cedette a malincuore. Inviò a Roma gli atti del giudizio mentre gli imputati stessi giungevano alla capitale dell'Occidente cristiano, alla vecchia Roma, in attesa della suprema sentenza. Gregorio rinnovò pertanto il procedimento ecclesiastico e riconobbe innocenti gli imputati.

Ma frattanto aveva avuto occasione cosí di constatare che negli atti del procedimento costantinopolitano Giovanni aveva lasciato che si intercalasse ad ogni linea il titolo di «ecumenico» ogni volta che veniva registrato il proprio nome.

Quasi a delimitare e a dare risalto al valore concreto del titolo, un messaggio imperiale a Gregorio ingiungeva al vescovo di Roma, perentoriamente, di serbare a qualunque costo l'armonia e la buona intesa col patriarca ecumenico costantinopolitano. Era una sfida palese e una ingiunzione irrispettosa. Gregorio raccoglieva la sfida. Scrisse senz'altro messaggi all'imperatore, all'imperatrice, a Giovanni, al suo apocrisiario a Bisanzio, Sabiniano.

A Maurizio scriveva formulando una denuncia che era una personale argomentazione ad hominem: «Ecco: Pietro riceve le chiavi del Regno dei cieli. A lui viene conferita la potestà di sciogliere e di legare. A lui viene affidata la tutela sovrana di tutta la Chiesa. Eppure l'Apostolo non si chiama ecumenico. E invece questo santissimo uomo, mio fratello nel sacerdozio, Giovanni, osa prendere l'appellativo di vescovo universale (ecumenico). Sono costretto ad esclamare e a ripetere: o tempi, o costumi! Guardiamoci intorno: su ogni plaga d'Europa tutto è passato in dominio dei barbari. Le città giacciono a terra distrutte. Gli accampamenti sono devastati. Le provincie sono spopolate. Nessun agricoltore piú fende le viscere della terra col suo aratro. I cultori degli idoli infieriscono e svolgono quotidianamente la loro funesta autorità a distruzione dei fedeli. E ciò nonostante quei consacrati a Dio che dovrebbero prostrarsi a terra e piangere col capo cosparso di cenere, van ricercando nomi di vanità per sé e si gloriano di sconosciuti e profani vocaboli. O che forse, signore piissimo, parlando cosí io difendo una causa mia? O che forse vado cercando di vendicare qualche ingiuria a me inferta? No, no. Quella che io difendo è la causa dell'Iddio onnipotente, è la causa della Chiesa ecumenica. Chi è mai costui che in contrasto con tutte le prescrizioni evangeliche, contro tutti i decreti dei canoni, pretende di usurpare per sé un nuovo appellativo?».

All'apocrisiario Sabiniano Gregorio scrive: «Mentre noi cerchiamo invano di difenderci dalle spade dei nemici, e dopo che per amore dello Stato che ha a Bisanzio il suo centro abbiamo perduto oro ed argento, vesti e possessi, è ben vergognoso che per loro (e l'accenno è alla corte costantinopolitana e ai suoi servili dignitari ecclesiastici) noi corriamo rischio di perdere la fede».

Bisogna entrare nello spirito della concezione gregoriana della società religiosa, bisogna raffigurarsi dinanzi allo sguardo tutta la nobile visione che Gregorio si fa della economia dei valori religiosi ed ecclesiastici nel mondo, per calcolare convenientemente lo sdegno da cui il suo animo fu preso al cospetto delle smodate e temporalesche ambizioni dell'episcopato costantinopolitano.

Dall'insieme delle misure gregoriane risulta evidente nel Pontefice il concetto che l'arrogarsi da parte del patriarca il titolo di ecumenico sovverte in radice i presupposti stessi della disciplina gerarchica cattolica condensando e racchiudendo in un solo individuo l'autorità vasta e non circoscrivibile di tutto l'episcopato. Gregorio non volle neppure per sé, vescovo di Roma, il titolo di ecumenico. Quando il patriarca Eulogio vuole attribuirglielo, Gregorio lo rifiuta. E non è il suo rifiuto soltanto il gesto di una umiltà tanto piú profonda quanto piú intima e la consapevolezza del sovrano magistero della sede romana. Gregorio, pur nella coscienza della sua suprema autorità, ha limpidissima la sensazione di quel che sia la sacrosanta autorità vescovile in ogni singolo rappresentante dell'episcopato cristiano.

D'altro canto, Gregorio sembra conglobare in un unico capo di accusa al patriarca bizantino e la pretesa al titolo di ecumenico e il rifiuto di doverosa sudditanza a Roma.

C'era in lui vivissimo e nitido il presentimento di quella che sarebbe stata la china su cui si sarebbe venuta svolgendo la evoluzione dei rapporti tra episcopato romano ed episcopato bizantino.

Ed egli aveva il fiuto sicuro. Mentre nessuno ancora si meravigliava in Oriente dell'appello a Roma interposto dal prete Giovanni e mentre le stesse leggi giustinianee sanzionavano la dipendenza gerarchica di Costantinopoli dalla sede romana, Gregorio avvertiva anzitempo dove il prurito di preminenza del patriarca cortigiano d'Oriente sarebbe andato a finire.

Se al suo tempo i patriarchi bizantini non ancora osavano esporre palesemente alla luce tutta la sete di autonomia che fermentava sotto il fasto della procedura cortigiana, Gregorio presentiva quale sarebbe stato l'epilogo di quelle avvisaglie di insubordinazione.

Le sue resistenze furono vane. A Giovanni morto nel 595 succedeva il patriarca Ciriaco, il quale continuava ad usare il titolo tanto discusso.

Gregorio ha il merito indiscutibile di avere, con la sua sensibilità affinata di romano, colto a volo la tendenza dell'episcopato bizantino ad avvalersi della sua vicinanza alla corte per mettere a disposizione dell'imperatore l'autorità del suo magistero spirituale sottratto a qualsiasi effettivo controllo del Pontificato romano.

Si direbbe che quasi a compenso di questa progressiva defezione della Cristianità orientale, facente capo a Bisanzio, dalla subordinazione a Roma, Gregorio moltiplicasse le forme del suo proselitismo in Occidente.

Quando, nel 593, Edelberto di Kent ebbe conquistato una effettiva supremazia regale sopra tutta l'eptarchia sassone e quando, morto nel 596 Childeberto che aveva sempre conservato vigilantemente durante il suo governo l'alleanza coi bizantini, rendendo cosí impossibile attraversare il suo Paese e comunicare con la Britannia, fu possibile prendere la via dell'espansione oltre Manica, Gregorio colse l'occasione a volo per inviare colà dei missionari.

Proprio nel 596 i quaranta monaci scelti da lui con a capo Agostino partivano da Sant'Andrea al Celio e andavano ad impiantare una missione che doveva avere tanto vasti e duraturi successi.

Nella Gallia Gregorio cerca di rendere sempre piú effettiva l'autorità papale, di contro alla diffidente inframmettenza dei dinasti merovingici.

Nel 599 scrive a Vigilia di Arles e a Siagrio d'Autun, rimproverandoli di aver tollerato il matrimonio violento di una reclusa religiosa tratta fuori dal suo chiostro. In favore di un convento di Marsiglia interviene per garantire l'autonomia della vita cenobitica di fronte alle ingerenze episcopali. A proposito di un vescovo impazzito Gregorio stabilisce che, sacro rimanendo il canone che vieta qualsiasi nomina vescovile quando la sede sia occupata da un vescovo legittimo, si faccia in modo che il demente abbandoni volontariamente e formalmente il suo posto prima di provvedere alla successione, o gli si assegni un coadiutore. A Desiderio, vescovo di Vienna, rimprovera autorevolmente le soverchie simpatie classiche.

Infine, per estirpare i due vizi radicali della Chiesa franca, simonia cioè ed elevazione di laici all'episcopato, scrive nel 599 una lettera-circolare ai piú eminenti vescovi galli per invitarli a convocare un sinodo nazionale, sanzionando una buona volta il principio saldissimo della disciplina romana che vietava e considerava profanazione l'acquistare le dignità ecclesiastiche, e a condannare il brusco passaggio di laici all'esercizio di mansioni religiose.

Se i risultati su questo terreno non risposero alle aspettative del Pontefice, se la simonia e l'usurpazione da parte di laici di dignità vescovili continuarono ad infierire nella Francia dei Merovingi, ciò non toglie nulla al cospicuo fatto che Gregorio non lasciò occasione per affermare in territorio franco l'azione suprema del Pontificato romano.

Nell'estremo Occidente l'anima romana di Gregorio poté segnare imponenti trionfi della fede cattolica sull'arianesimo visigotico.

Reccaredo si convertiva al cattolicesimo nel 587 e sei mesi dopo succedeva al padre Leovigildo. Il che portava naturalmente alla conversione in massa della popolazione.

Un sinodo a Toledo salutava l'evento come instaurazione «di un solo ovile».

Nell'Africa, riconquistata da Giustiniano, Gregorio intervenne per spegnere le ultime propaggini del donatismo. Nel 594 ottenne che si radunasse un sinodo sotto la presidenza dell'arcivescovo di Cartagine, Domenico. In tale sinodo fu stabilito che i vescovi compissero in ogni centro le indagini piú minute per la segnalazione e la repressione dei superstiti gruppi donatistici.

Consapevole seguace di Sant'Agostino nella sua campagna antidonatista, Gregorio avvertiva il funesto danno che le presupposizioni donatistiche portavano alla dottrina sacramentale della Chiesa, con la loro pretesa di costituire la sola pura Chiesa e di sottoporre l'amministrazione dei carismi ad una valutazione morale delle qualità del ministro.

Era l'unico modo cotesto di portare, pur con i suoi inevitabili inconvenienti, la dottrina dell'ex opere operato a tutte le sue possibilità di applicazione. Non era forse su questa dottrina dell'ex opere operato che la Chiesa romana si avviava ad innalzare l'edificio del suo magistero universale?

Quando il Pontefice della gente Anicia era salito al Pontificato, l'Italia agonizzava sulle rovine accumulate dalle invasioni e dalle guerre.

In tutto il mondo occidentale i barbari esercitavano un vero dominio opprimente su quelli che erano stati i signori del mondo, e con la forma larvata di politeismo che era il loro arianesimo opponevano il piú formidabile ostacolo alla instaurazione di quella economia sociale insita nel messaggio cristiano, il cui caposaldo è la separazione netta tra valori politici e valori religiosi e la cui dialettica originale consiste tutta nel realizzare il progresso materiale mercè il rinnegamento del mondo e la visione del Regno di Dio.

Erano cessate oramai le rovinose scorrerie che avevano messo a soqquadro il territorio europeo negli ultimi due secoli e in fondo non dovevano esservi piú grandi spostamenti di popoli e larghi incroci di correnti migratorie.

Ed ecco che i romani e i romanizzati cominciavano silenziosamente e operosamente a riprendere il sopravvento sugli invasori. Il trapiantamento della capitale a Bisanzio, l'allontanamento cioè di tutto il pesante gravame burocratico, permetteva a Roma di svolgere quella sua azione spirituale le cui conseguenze politiche ed empiriche dovevano essere cosí cospicue e cosí nuove.

Gregorio Magno ha rappresentato, alimentato e moltiplicato questo anelito di rinnovantesi civiltà soffiato sui barbari. Qui la ragione e il contenuto della sua grandezza.

Egli ha dato, raddoppiati in efficacia, mercè la sua densa e affinata esperienza religiosa, gli strumenti del loro pacifico trionfo sui vincitori violenti di un'ora: il monachismo, la fede cieca, la speranza inconcussa, il timore tremebondo di Dio.

A lui è apparsa vana la pretesa di domare i barbari mercè la pura cultura e mercè le tradizioni letterarie. Nei momenti tragicamente solenni della storia umana ci vuole ben altra energia che non sia la scienza, per sollevare gli spiriti affranti e ricostruire quel che è stato abbattuto.

Il cristianesimo ha insegnato al mondo che oltre la pedagogia esteriore delle istituzioni politiche e delle organizzazioni sociali, esiste sotto la guida di Dio una pedagogia misterica e carismatica che trae i nuovi mondi dall'impalpabile certezza dei destini ultramondani dell'umanità.

Quel che Sant'Agostino aveva teoricamente sentenziato nel De Civitate Dei e in tutta la fortunosa polemica sua contro donatismo e pelagianesimo, Gregorio Magno, profondamente agostiniano nello spirito piú che nella lettera, ha messo in pratica col piú che decennale suo governo pontificio.

Ecco perché è un gelosissimo assertore, oltre tutto, della profonda dottrina agostiniana della efficacia sacramentale al di là e indipendentemente da qualsiasi benemerenza etica del ministro che amministra le realtà sacre.

Questo postulato, contro cui la Riforma avrebbe un giorno scagliato le sue piú violente invettive, non è altro che il riconoscimento fondamentalmente dualistico di una duplice circolazione sanguigna nell'organismo vivente della collettività umana.

C'è una circolazione di vita divina e c'è una circolazione di vita satanica. Impossibile all'uomo di fare la cernita netta e inconfondibile tra l'una e l'altra. Il credente sa soltanto che qualunque sia il conato di Satana per disperdere e frastornare la sovrana circolazione della grazia e dei carismi, Dio riesce a far pervenire agli eletti suoi la virtú dei suoi doni, in vista di quella progressiva costituzione della città di Dio, in cui è tutto il significato recondito e il valore misterioso della storia umana.

Al tramonto del sesto secolo, mentre si approssima sul mondo mediterraneo la bufera uraganica della irruzione islamica, e la sua costituzione unitaria, nota sotto il nome di Romània, sta per subire un attentato disgregatore che imporrà a tutta la vita del continente europeo nuove direttive di marcia e nuovi imprevisti orientamenti, Gregorio Magno, che ribatte con energia implacabile le velleità cesaro-papistiche della corte bizantina, che fra l'imperversare delle lotte politiche intorno a Roma conduce con mano sagacissima l'episcopato romano ad assolvere mansioni sempre piú vaste di magistero e di disciplina, che ha l'occhio teso a tutti gli angoli dell'orizzonte europeo occidentale per estendere il prestigio della Sede romana, appare veramente come il primo superbo disciplinatore di quella civiltà medioevale, in cui il cristianesimo era chiamato a realizzare la sua originale metodica organizzativa e le sue tipiche capacità di disciplina collettiva.

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