XX IL PAPATO POLITICO E IL NEOPAGANESIMO

Se il destino di tutte le istituzioni, come quello di ogni organismo vivente, ha sempre qualche cosa di drammatico, nessuna istituzione al mondo però rivela tanta drammaticità quanta il fatto cristiano nella storia. Non potrebbe essere diversamente. Il cristianesimo in genere, e il cattolicesimo in particolare, sono stati definiti una mirabile e paradossale complexio oppositorum. Complesso di antitesi il cristianesimo non solamente per il suo appello alle forze piú contrastanti dell'essere, per una trasfigurazione dell'essere umano nell'essere divino: non solamente per l'antitesi tra disciplina e autorità, che si è portato costantemente nel proprio grembo; ma soprattutto per i motivi irriducibilmente in contrasto e per le forze costantemente rivali che ne hanno retto e alimentato la evoluzione.

Era stato bandito nel mondo come religione di minoranza, ma in pari tempo come religione chiamata all'universale proselitismo e all'ecumenico apostolato. Era apparso nel mondo mediterraneo nel momento in cui l'unità delle sue rive si effettuava sotto la disciplina di Roma, ma si portava in cuore aspirazioni e visioni apocalittiche in contrasto aperto e confessato con le concezioni tradizionali della latinità, circoscritte e pedestri, se si vuole, ma tutte ugualmente intrise di sacralità. Aveva alle proprie spalle una mirabile evoluzione culturale a cui non sarebbe stato possibile non fare appello, qualora, affievolitosi e perduto il senso fascinoso del Regno di Dio e dei suoi valori, si fosse voluto dare consistenza concreta, pratica, sistematica e duratura alle esigenze della pedagogia collettiva e alla formazione della spiritualità associata. Noi sogliamo chiamare Rinascimento umanistico quello che fra il Trecento e il Quattrocento riporta in auge i testi della classicità. Ma il patrimonio culturale della classicità non era stato mai estraneo alle preoccupazioni ideali della società cristiana. San Girolamo non era stato uno squisito classicista ai suoi tempi, e il suo contemporaneo Sant'Ambrogio non aveva chiesto al De Officiis di Cicerone la trama del suo manuale pedagogico cristiano?

La verità è che dissociare il cristianesimo dalla cultura greco-romana è un andazzo delle nostre consuetudini scolastiche e del nostro bisogno istintivo di catalogazioni schematiche e di ripartizioni cronologiche. Noi dobbiamo piuttosto proporci il quesito perché mai ad un certo punto la cultura classica, che in sostanza non è stata mai assente dall'elaborazione progressiva del pensiero cristiano, diviene un elemento non governato e non corretto da quell'afflato cristiano, che aveva dato alle conoscenze umanistiche di un Girolamo, di un Ambrogio, di un Agostino, di un Gregorio di Nissa, di un Crisostomo, quell'anima mistica e quella virtú carismatica che avevano caratterizzato i secoli aurei della letteratura patristica.

Martino V entrava a Roma trionfante alla fine di settembre del 1420. Il Papato aveva riportato a Costanza una grande vittoria. Chiuso per il momento felicemente lo scisma, debellate le forti velleità conciliari, il Pontificato avrebbe potuto riprendere in pieno il programma della riforma e della resurrezione cattolica. Ma nel momento di esplicarsi e di tradursi in realtà, le idealità riformatrici sembravano colpite in pieno da una radicale incapacità di attuazione e da una letale paralisi. Invece di predicatori di rinnovamento religioso, di un rinnovamento religioso che potesse apparire come un pratico surrogato di quell'età dello Spirito che Gioacchino da Fiore aveva sognato, noi troviamo ben presto, al fianco di Martino V, letterati per i quali effettivamente la cultura erudita e la preziosità letteraria sembrano rivestire maggior pregio che la disadorna pedagogia delle beatitudini evangeliche. Già dal dicembre 1418 Martino V ripristinava Antonio Loschi nella carica di abbreviatore. E il Loschi lo seguiva a Roma nel 1422, rimanendovi fino alla fine del Pontificato e riprendendo poi le sue mansioni sotto Eugenio IV. Con lui noi troviamo, nell'ufficio di segretario apostolico alla corte di Martino V, Poggio Bracciolini, il libertino spensierato e giocondo, che possiede senza dubbio fra tutti gli umanisti del secolo XV incipiente genuine attitudini di artista.

Ma perché mai questo umanesimo della nostra Rinascita è incapace di elaborare saldamente la propria cultura in un organico sistema di apologetica cristiana? Noi affrontiamo cosí uno dei problemi piú seducenti e piú ardui che la storia del cristianesimo all'uscita dal Medioevo presenti.

Abbiamo già ampiamente considerato il significato della profezia gioachimita al tramonto del Medioevo. E abbiamo potuto vedere come essa, e soltanto essa, abbia rappresentato un grandioso tentativo di riforma, a norma dello spirito apocalittico che è stato sempre, nell'evoluzione del fatto cristiano, l'elemento fascinans e innovatore per eccellenza. Dobbiamo ora considerare in che modo, combattuto dalla Curia e soltanto in linea subordinata dalle autorità politiche, difformemente da quel che era capitato al cristianesimo primitivo, il bando gioachimita si sia progressivamente cristallizzato in movimenti filosofico-culturali presieduti da una dialettica intima sorprendentemente analoga a quella che aveva presieduto al raffreddarsi dell'escatologia cristiana primitiva e al suo rarefarsi in termini di speculazione teologico-razionale.

Noi cogliamo anche qui sul vivo la legge costante che regge lo sviluppo della religiosità mediterranea. Ogni no-stra grande reviviscenza religiosa è stata sempre come una fiammante eruzione vulcanica e come un vasto terremoto sussultorio. Ma la materia incandescente tende spontaneamente a raffreddarsi e a solidificarsi, e ai vasti terremoti succede sempre un periodo di assestamento. Il procedere della filosofia segna appunto un ciclo di assestamento e la sua dialettica è quindi immutabile. Lo constatammo alle origini del cristianesimo: lo possiamo constatare nel divenire della filosofia nel Rinascimento.

Lo gnosticismo del secondo secolo aveva, come abbiamo visto nel primo volume, rappresentato la prima crisi concettuale del cristianesimo. Alla visuale della palingenesi collettiva aveva sostituito la ricerca di una salvezza individuale, effettuata mercè l'assimilazione di una conoscenza misterica ed iniziatica. Concepí cosí un mondo trascendente di pienezza divina, il pleroma, una specie di «complicatio inexplicata», per usare una frase del Cusano, in cui sovrano era il Padre inconoscibile delle coppie eoniche. Il mondo finito appariva allo gnosticismo sorto dalla caduta di Sofia. Il Cristo era, nella gnosi, la ricapitolazione del mondo pleromatico, una specie di «assoluto contratto». E la elezione e la salvezza erano nella gnosi il risultato infallibile di una predestinazione conoscitiva alla reintegrazione nelle realtà trascendenti del mondo pleromatico.

Anche il nostro Rinascimento ha le sue grandi figure di gnostici, e al primo posto fra essi. va collocato il cardinale Niccolò Cusano, sulla cui adolescenza devono aver pesato le controversie ecclesiastiche chiusesi a Costanza. C'è qualcosa di abissalmente profondo nei suoi scritti, ma non è ardito evocare, per comprenderli, le figure di Valentino e di Basilide.

Egli è un avversario dichiarato della dialettica aristotelica, tutta basata sul principio di non contraddizione. Egli afferma esplicitamente nella sua Apologia della Dotta Ignoranza che il primo passo verso la teologia mistica è il riconoscimento della coincidenza dei contrari. La dotta ignoranza per lui è molto piú che una professione di umiltà e un riconoscimento della radicale insipienza umana. È la proclamazione che solo nelle tenebre è la luce, e che noi siamo condannati al destino dei pipistrelli, quello di farci accecare definitivamente dalla visione solare di Dio. San Tommaso aveva fatto della nozione di analogia il mezzo termine per salvare la conoscenza teoretica di Dio dalla insidia pericolosissima di un antropomorfismo irriverente o di una blasfema divinizzazione dell'uomo. Niccolò Cusano nega qualsiasi possibilità di comunicazione, anche analogica, fra il finito e l'infinito. Nega quindi qualsiasi reale conoscenza di Dio, che è per lui il Padre inconoscibile e il Sepolto nel silenzio, come l'Iddio della iniziale gnosi cristiana. Nel grembo di Dio è il semenzaio delle contraddizioni perché, se egli è il massimo, è anche il minimo, perché anche il minimo è un superlativo, e la complicazione infinita di Dio è l'intreccio sublime delle antitesi. Questo assoluto che tutto comprende è in un processo permanente di esplicazione. Il mondo è un assoluto contratto e in questo mondo Cristo è, come l'anthropos pleromatico degli gnostici, al centro dell'universale sussistente. Non c'è che un mezzo per il disvelamento del divino pleromatico in noi; per parlare di Dio e per nominare Dio senza violare quelle tenebre abissali in cui è la piena luce: ed è di sentire che «ogni creatura non è altro che un'infinità finita e un Dio creato», Aristotele e San Tommaso avevano avvertito il formicolio del movimento cosmico, e sulla base di questa catena di movimenti avevano innalzato l'edificio orizzontale del mondo nella sua lapidea, meccanica, matematica trascrizione. La visione del Cusano è invece una visione nella direttiva verticale. Il movimento non è che il riposo, ordinato a serie e a strati. Dio è quei che tutti gli strati riassorbe nel mistero del suo silenzio, perché tutto è in Lui e Lui è nel tutto. «Togli Dio dalla creatura ed hai il nulla. Togli la sostanza dal composto ed ogni accidente scompare e nulla rimane... La natura non è che lo spirito di Dio avvivante l'universo, diffuso e contratto in tutte le sue parti... Dio ha adoperato geometria ed aritmetica, musica ed astronomia per originare il mondo, e noi facciamo ricorso alle medesime arti quando indaghiamo le proporzioni delle cose, i rapporti degli elementi, la musica dei movimenti».

Quale il rapporto tra la fede e la conoscenza? Gli gnostici avevano negato qualsiasi distinzione fra esse. La gnosi è l'espressione e insieme lo strumento della salvezza predestinata. E il Cusano proclama: «La fede racchiude in sé ogni intelligibile e l'intellezione non è che l'esplicazione della fede... Per questo noi siamo salvati unicamente dalla fede e nel Cristo è la ricapitolazione dell'universo e dell'umanità». C'è una formula del Cusano che pare uscita dalla penna di Lutero, ed è questa: «La nostra giustificazione non nasce da noi, ma unicamente dal Cristo. Non c'è che un'umanità del Cristo, ed è quella che si ritrova in tutti gli uomini, e non c'è che uno spirito del Cristo, ed è quello che vive in tutti gli spiriti. Unus Christus ex omnibus».

Niccolò Cusano confessa nella lettera dedicatoria con cui accompagna il De Docta Ignorantia al cardinale Giuliano Cesarini, suo maestro di Padova, di avere scoperto il principio luminoso della dottrina che è nella professione della ignoranza, nel suo viaggio di ritorno dalla Grecia, quando ci si avviava al Concilio di Firenze per la riunione delle due Chiese, la orientale e la occidentale. Momento culminante non solamente nella storia spirituale del secolo decimoquinto, ma di tutta la storia moderna, quel Concilio di Firenze del 1439 che vide raccolti rappresentanti della Chiesa greca e della Chiesa latina per una riconciliazione che purtroppo si rivelò effimera e superficiale e che in pari tempo venne a consacrare in maniera ufficiale, al cospetto del mondo, la vittoria del Pontificato romano sulle estreme velleità delle tendenze conciliari!

Come si era arrivati a quel sinodo?

Nel momento di sciogliersi, il sinodo di Costanza aveva decretato che nel prossimo settennio un altro Concilio sarebbe stato convocato. Pur non nutrendo alcuna simpatia per tale eventualità, Martino V si era sentito astretto a convocare il sinodo a Pavia per la fine del 1423. Ma l'assemblea risultò talmente mingherlina di partecipanti che, dopo averne trasferito la sede, causa la dilagante peste, a Siena, il Pontefice poté impunemente discioglierlo, fissando però una nuova convocazione a Basilea. Dovettero passare altri sette anni prima che il nuovo Concilio potesse radunarsi. E quando questo si iniziò il 4 marzo 1431, Martino V era morto da quindici giorni, dopo aver nominato il cardinale Cesarini a presiederne le adunanze.

Gli succedeva Eugenio IV. Anche lui fu straordinariamente freddo nell'interessarsi alle sorti del Concilio, il quale si inaugurava cosí in una temperie di sorda indifferenza, tanto sembravano ancora tese le relazioni fra la suprema autorità pontificale e il collegio cardinalizio. I lavori si svolsero ad ogni modo con una certa intensità. Abolito il vecchio sistema di votazioni per nazioni, furono costituiti comitati (deputationes), ciascuno dei quali avrebbe dovuto trattare dei seguenti argomenti: restaurazione della pace nella Cristianità; materie di fede e di dottrina; riforma della Chiesa; affari generali.

La situazione agitata, che si era determinata in Boemia in séguito alle condanne di Giovanni Huss e di Girolamo da Praga, fece sentire le sue ripercussioni a Basilea. Il Cesarini, conoscitore perfetto della travagliata situazione boema, era stato d'avviso che i rappresentanti cechi fossero invitati al Concilio. Roma ne fu allarmata, e nel dicembre Eugenio IV emanava una Bolla sciogliendo il sinodo basileese e convocandone un altro a Bologna per l'estate del 1433. Il sinodo resistette alla sentenza papale. Si stava per ricadere nello scisma tanto deprecato nei decenni precedenti, e questa volta fu il Papa che dovette capitolare. Constatando l'unanime avversione dell'opinione pubblica, ritornava sulla sua precedente decisione e riconosceva, con una nuova Bolla, la legalità dell'adunanza e la validità dei decreti emanati. Anche ai Boemi furono date soddisfazioni. Furono loro concesse la libertà di predicazione, la comunione sotto le due specie, la non interferenza del clero in argomenti laici, la sottomissione del clero al diritto penale del paese. Erano notevoli successi per il Concilio e sembrava che dovessero pesare sulla ulteriore posizione della dottrina papale nella Cristianità. Era un'illusione. In realtà, già da Costanza il Pontificato era uscito vincitore e a Basilea non si trattò che di battere il passo. Stranissimo osservare che l'aiuto della Curia romana accentratrice venne proprio da quella Chiesa greca che altra volta aveva inferto al primato romano la piú grave delle lacerazioni.

Preoccupati dell'avanzata turca, i gruppi cristiani del Levante moltiplicarono le loro invocazioni sia al Papa che al Concilio. Finivano cosí col servire di arma di combattimento nel conflitto tra il partito del Concilio e il partito strettamente papale. Bisogna riconoscere che Eugenio IV agí con accortezza e con decisione. Poiché il sinodo gli si levava contro di nuovo cercando di arrogarsi la parte preponderante nel piano della riconciliazione con la Chiesa greca, Eugenio rompeva gli indugi e il 18 settembre 1437 scioglieva nuovamente, questa volta definitivamente, il sinodo basileese, convocandone un altro a Ferrara per il gennaio del 1438. E il Concilio si adunava regolarmente alla data fissata, sotto la presidenza personale del Papa. Doveva essere trasferito un anno dopo a Firenze a causa della peste dilagante. I rappresentanti greci vi parteciparono discutendo per lungo e per largo i vecchi punti di dissenso fra Roma e Bisanzio: la clausola del filioque nel simbolo, l'uso del pane fermentato, il primato papale.

Il 6 luglio 1439 fu sottoscritta una formula di unione che si rivelò in pratica destituita di qualsiasi concreta efficienza. Dal punto di vista però formale e coreografico dovette essere un gran giorno quel 6 luglio in cui nella chiesa di Santa Maria del Fiore, alla presenza di un Papa come Eugenio IV e di un imperatore greco come Giovanni Paleologo, si consacrava con una solenne cerimonia pubblica il trionfo del movimento ecumenico del tempo! Lo splendore della festa fu inaudito. Dovette superare quello delle cerimonie celebrate solo tre anni prima, quando Eugenio IV aveva consacrato in Santa Maria del Fiore la cupola meravigliosa. Vale la pena di evocare le circostanze ambientali e periferiche di quell'avvenimento perché, lo ripetiamo, quel sinodo sembra fosse stato veramente destinato a consacrare una data saliente nello sviluppo della spiritualità europea moderna. L'evento avvicinava infatti le figure piú eterogenee della cultura del Rinascimento, cosí occidentale come orientale.

Possiamo immaginare come i sentimenti dell'adunanza fossero contrastanti. Che cosa doveva pensare, ad esempio, di quella riconciliazione, ispirata unicamente da preoccupazioni di politica internazionale, come era per esempio per l'imperatore di Costantinopoli la minaccia incombente dei Turchi, Gemisto Pletone, avversario irreconciliabile del cristianesimo e sognatore di una reviviscenza sincretistica? Piú di un venticinquennio prima, quando sotto il nobile, pacifico Maometto I, i Turchi avevano segnato un trattato di pace con l'imperatore Emanuele e, cessato quindi l'incubo del pericolo esterno, era sembrato giunto il momento opportuno per una riforma capitale all'interno dell'Impero d'Oriente, Gemisto aveva indirizzato all'imperatore una orazione altisonante, in cui, oltre ad alcuni suggerimenti di tecnica militare difensiva, aveva dato il consiglio di ricostituire l'unità spirituale del popolo, abolendo la professione cristiana, e ritornando all'antica religione ellenica, a cui la Grecia di Platone aveva dovuto la sua impareggiabile grandezza. E pochi anni piú tardi Gemisto, con la sua opera capitale intitolata Leggi, era tornato alla carica, mostrando come ad una organica ed integrale riforma della struttura giuridica e sociale dell'Impero non avrebbe dovuto mancare una trasformazione completa della mentalità religiosa e delle tradizioni sacre. La riconciliazione ecclesiastica di Firenze non doveva apparire decisione propizia allo spirito del vecchio mistico platonizzante. Ed egli infatti, nelle discussioni che avevano preceduto la solenne cerimonia ecclesiastica, l'aveva osteggiata con tutte le sue forze. E i rappresentanti dell'ortodossia romana avevano dovuto far ricorso a tutte le loro risorse ideali, per rintuzzare gli attacchi agguerriti del platonico bizantino.

Ad ogni modo, l'unione era stata conclusa. Finita la messa secondo il cerimoniale stabilito, il cardinale Giuliano Cesarini, tra il silenzio solenne dei convenuti, lesse ad alta voce la redazione latina del decreto di unione. Dopo, il Bessarione lesse la redazione greca. A lettura finita, i due prelati si abbracciarono e il loro abbraccio parve il simbolo della grande riconciliazione tra le due parti contendenti della Cristianità. Dopo uno scisma di quasi sei secoli, le due grandi comunioni cristiane, l'orientale e la occidentale, si affratellavano di nuovo. Come doveva essere intensa la commozione del pubblico convenuto! Quel giorno, tra il popolo che si assiepava per assistere allo spiegamento del corteo inconsueto, non ci sarà stato quel medico Diotifeci di Figline, padre di Marsilio, che avrebbe preso come altro nome il diminutivo di suo padre, Ficino, e non avrà egli condotto anche ad assistere allo straordinario spettacolo il bambinetto, che doveva avere allora appena sei anni? Se sí, possiamo pur pensare che di quell'avvenimento straordinario dovette restare nel suo spirito e nella sua fantasia un ricordo indelebile. Il fantasma di quella pomposa riconciliazione della cultura occidentale e di quella orientale si doveva trasformare nello spirito del prodigioso giovane in una trasfigurazione mistica della tradizionale cultura cristiana. La Firenze che aveva ospitato i rappresentanti piú insigni della spiritualità religiosa del tempo, non stava per diventare, con i Medici mecenati e opulenti, l'Alessandria del Rinascimento italiano? E in questa nuova Alessandria la gnosi contemplativa del cardinale Cusano non era destinata a divenire la gnosi apologetica del nuovo Clemente e del nuovo Origene?

Aveva scritto il Cusano nel suo De ludo globi: «L'anima razionale è una forza che implica in sé tutte le possibilità nazionali. Implica cioè e la sintesi nazionale della moltitudine e la sintesi nazionale della grandezza. Implica la sintesi nazionale dell'uno e del punto. Poiché senza moltitudine e senza grandezza nessun discernimento e nessuna analisi sono possibili. Implica la sintesi nazionale dei movimenti, che è la quiete e il riposo, poiché null'altro c'è al fondo del movimento che il riposo. Movimento infatti è passaggio da riposo a riposo. Implica la sintesi nazionale del tempo, che è tutto nel presente e nell'ora. Poiché nulla si ritrova nel tempo se non l'adesso. Si dica il medesimo di tutte le sintesi nazionali di cui l' anima razionale è la quintessenza incomposita. La forza sublimissima dell'anima razionale implica nella sua semplicità l'infinita sintesi, senza cui è impossibile il lucido discernimento. Per cui, per discernere e individuare la moltitudine, si assimila all'unità, vale a dire alla sintesi complicata del numero, e trae fuori da sé il numero nazionale della moltitudine: allo stesso modo si assimila al punto per trarre da sé le linee nazionali che sono le superfici e i corpi. Si assimila al riposo, per riconoscere il movimento. Essa è veramente la sintesi delle sintesi».

Questa visione della potenza infinita dello spirito conoscente e cogitante, che realizza in sé a suo modo il mistero dell'Iddio non contratto, fa del Cusano un meraviglioso precursore gnostico dell'idealismo. «Sol che questa infinita potenza dello spirito conoscente si riconosca proveniente dall'Ottimo, sarà in grado di conoscere sé ottimamente. Ché tutto che esiste riposa nella sua natura specifica come realtà ottima dell'Ottimo. Qualunque dato naturale pertanto nell'essere è ottimo, emanato e proveniente dalla onnipotenza infinita».

Ci sono elementi divini nell'uomo e nell'umanità, e il mondo della conoscenza è un riflesso divino del superiore mondo pleromatico. Una medesima virtú fatta di conoscenza e di riposo circola attraverso l'universo e attraverso l'umanità. «L'unità dell'umanità esistendo umanamente contratta e rappresa, appare tutto comprendere a norma di questa stessa realtà di contrazione. La sua virtú unitiva attinge tutte le cose intorno a sé e nulla può sottrarsi alla sua potenza. Dio è l'uomo, ma non assolutamente parlando, perché uomo: è un Dio umano. E mondo è l'uomo e tutto è l'uomo, ma non in maniera contratta, perché uomo: l'uomo è un microcosmos o mondo umano. Il dominio, pertanto, dell'umanità, avvolge con la sua potenza umanale Dio e l'universo mondo. Può l'uomo dunque essere un Dio umano, un Dio umanamente, può essere un angelo umano, una bestia umana, un leone o un orso umano o qualunque altra cosa consimile. Poiché tutte le cose sussistono a lor modo nell'ambito dell'umanità. Nell'umanità pertanto tutte le cose si sono esplicate umanamente, come nell'universo si sono esplicate universalmente. E l'umanità è una unità, perché è una infinità umanamente contratta. E alla creazione dell'umanità non è prefisso altro fine che l'umanità stessa. Non esce di sé mentre crea, ma esplicando da sé la sua virtú, a se stesso ritorna, né nulla di nuovo fa, ma tutto esplicando, crea, e avverte già esistente in se stesso». In questa forma solenne di monismo ciclico idealistico il Cusano aveva chiuso la sua fede e la sua filosofia. Il Cristo per lui è il simbolo della contrazione finita di Dio e la Chiesa è il simbolo del simbolo. Subordinata pertanto al Cristo, non può arrogarsene i poteri, non può esaurirne il mistero. E in ogni fedele cristiforme è in una forma contratta il mistero infinito della vita, del bene e della salvezza. Che cosa mancava a questo misticismo gnostico per divenire una filosofia idealistica scolastica? Non mancava che calcare piú la mano sul problema della conoscenza, sul problema dell'essere, sul problema dell'uno.

Ed ecco il còmpito dell'accademia platonica fiorentina.

Due date segnano egregiamente i momenti salienti nello sviluppo della filosofia religiosa del Rinascimento. L'andata da Padova a Firenze di Pico della Mirandola, tra la fine del 1483 e gli inizi del 1484. E l'andata di Galileo Galilei a Padova, al declinare dell'autunno del 1592. Aristotele che va a Platone prima, Platone che va ad Aristotele dopo. È la scienza dell'uomo, la forma piú alta della filosofia e della cultura, che si trasforma e diviene la grande scienza della natura.

Aveva scritto Giannozzo Manetti fin dal 1452 nel suo De Dignitate et Excellentia Hominis: «Sono nostre, sono cioè cose umane, perché fatte dall'uomo, tutte le cose che noi vediamo e le case e i castelli e le città e tutti gli infiniti edifizi disseminati sulla superficie della terra. Nostre sono le pitture, nostre le arti, nostra la scienza, nostra la sapienza. Nostre sono tutte le scoperte e nostri sono tutti i generi delle lingue e delle varie lettere. Piú ne consideriamo la virtú e il magistero, e tanto piú siamo costretti a trasalire di ammirazione e di stupore». La grande rinascita artistica era cominciata con la riforma cistercense, con la predicazione di Gioacchino da Fiore, col movimento francescano. Nel giro rapidissimo di pochi decenni, San Bernardo aveva veduto i cenobi della sua riforma disseminati da un capo all'altro dell'Europa, dalle rive della Norvegia alla Sicilia, e con la disseminazione della riforma cistercense l'arte gotica aveva fatto balzare su dal territorio europeo le forme piú elette dell'architettura sacra. Aveva voluto essere un'arte austera e priva di simboli iconografici. La escatologia gioachimita e la mistica francescana avevano ispirato l'arte di Giotto e tutta la successiva arte toscana. Quando Giannozzo Manetti spiegava il suo ammirato encomio delle possibilità umane, la sua Firenze era già tutta un superbo museo. Le figure di Masolino e di Masaccio rilucevano là nella chiesa del Carmine.

Ma che cosa significava quella potenza creatrice dell'uomo e quali ne erano la fonte prima e la garanzia continuativa? La riflessione dell'accademia platonica è tutta concentrata nell'analisi di questa ineffabile capacità creatrice dello spirito e della delimitazione dei suoi rapporti con Dio. Problema non diverso era quello che nell'Alessandria del terzo secolo incipiente si era imposto all'attenzione di Clemente e di Origene. Di questo mistero, che è l'esercizio della conoscenza nell'uomo, Marsilio Ficino si costituisce ierofante, e il suo sacerdozio cristiano è un vero sacerdozio misterico. Possiamo ben credere che quando egli, come prete cattolico, celebrava la messa, pensasse di compiere né piú né meno che un rito orfico. Non diversamente Clemente Alessandrino aveva ai suoi tempi celebrato Cristo Logos, dettando inni a modo delle tradizioni poetiche dell'Orfismo.

Si illudeva Marsilio Ficino di riprodurre Agostino, ma l'Agostino dell'Accademia platonica fiorentina è l'Agostino di Cassiciaco, l'Agostino iniziato alla conoscenza di Plotino dall'anonimo amico milanese, cui si accenna vagamente nelle Confessioni. L'Agostino che aveva dato una teologia e una filosofia della storia al Medioevo era, invece, l'Agostino della polemica antipelagiana e del De Civitate Dei. Con il rinato dualismo Agostino si era costituito dottore della grazia. Attenendosi unicamente all'Agostino dei Dialoghi e delle opere antimanichee, Marsilio Ficino registrava l'atto di morte del cristianesimo costruttivo del Medioevo. In realtà il sincretismo filosofico è la caratteristica dell'insegnamento ficiniano. «Ermete, il massimo filosofo, sacerdote e re dell'antico Egitto», sono sue parole, «condivise appieno l'insegnamento di Mosè e fece sua in ciò la sapienza ebraica. Platone era cosí penetrato di lui che può essere designato come un Mosè che parli greco. Zoroastro, considerato da molti come maestro della teurgia, della Cabbala e della magìa, non aveva altro di mira che conoscere ed adorare Dio... Numenio, Ammonio, Plotino, Amelio, Giamblico, Proclo, avendo tutti letto il Vangelo di Giovanni e oltre questo i libri di Dionigi l'Areopagita, ne presero cose arieggianti il mistero della Trinità e ne derivarono nomi e ordini di angeli, come cose perfettamente coerenti all'insegnamento di Platone, discepolo di Mosè, per cui Aurelio Agostino, già altra volta platonico e argomentante in cuor suo di una possibile confessione cristiana, avendo trovato tutto ciò nei libri platonici e avendo constatato come le sacre realtà cristiane avevano trovato suffragio nelle imitazioni di costoro, rese grazie a Dio e apparve pronto ad accogliere la verità cristiana... Non è senza decreto della Divina Provvidenza, la quale ha voluto tutto chiamare a sé a norma del genio di ciascuno, che si è verificato che una certa pia filosofia nascesse prima presso i Persiani e gli Egiziani, si nutricasse presso i Traci per opera di Orfeo, raggiungesse la sua adolescenza presso i Greci e gli Italici sotto Pitagora, per giungere con Platone alla sua piú alta manifestazione».

Cosí agli occhi di Marsilio Ficino una linea ininterrotta corre dalle prime manifestazioni della scienza sacra presso i Persiani per giungere con Platone alla piú alta forma di sé. Il cristianesimo agostiniano, il cristianesimo dei primi anni della cosiddetta conversione dell'ipponese, è per Marsilio Ficino l'unica interpretazione del Vangelo. Egli pretende di battere le vestigia del grande africano. E batte solo le vestigia di un breve periodo della sua vita, unicamente per porre sotto la tutela della salvaguardia agostiniana il suo puro ed esclusivo platonismo: il platonismo dei libri ermetici. Egli ripete veramente, come propria formula di fede, le parole del Poimandro, nelle quali il divino proclama: «Riempio, penetro, contengo il cielo e la terra: riempio, senza esserne riempito, perché io solo sono la pienezza. Penetro senza esserne penetrato, perché io solo ho la potestà di penetrare. Contengo, ma non ne sono contenuto, perché io solo sono la virtú che contiene». In questa professione di fede Marsilio Ficino si sente trasfigurato dall'Iddio che lo ha generato come anima, in angelo, e convertito in Dio stesso. Nessun mistero reale di salvezza, se non quello della conoscenza del Logos, già celebrata in termini poetici da Clemente Alessandrino, come da Origene.

La filosofia di Marsilio Ficino non è altro che una trasformazione religiosa del fatto conoscitivo. È la capacità conoscente che fa dell'uomo la mediazione naturale e provvidenziale fra Dio e il mondo sensibile. «Si deve supporre», proclama Marsilio nella sua Theologia Platonica, «nell'universo, che è opera diretta di Dio, una tale connessione di parti, che ogni sezione di questo universo sia diretta operazione sua. Gli estremi di questo immenso poema cosmico sono Dio e il corpo. Legame fra loro non è l'angelo, perché l'angelo tutto si erge verso la contemplazione di Dio, trascurando completamente i corpi. C'è invece un'altra sostanza che tiene veramente il posto intermedio tra i due, sí da attingere le realtà superiori, senza abbandonare le inferiori: l'anima. Essa è immortale e mortale: come immortale è collegata alle realtà superiori, come mortale è collegata alle realtà inferiori. E poiché ha convenienza con entrambe, entrambe desidera. Tratta da un tal quale naturale istinto, ascende verso il mondo dei valori superi; è capace di discendere nel mondo inferiore. E mentre ascende, non abbandona il mondo inferiore, e mentre discende verso il mondo inferiore, non abbandona il mondo trascendentale, ché abbandonando l'una o l'altra zona delle sue naturali appetizioni precipiterà verso l'uno o verso l'altro polo, senza essere quel che dev'essere, per natura, il connubio di entrambi».

Arieggiando e riecheggiando l'antropologia mistico-cosmica del Cusano, anche Marsilio Ficino, come Clemente Alessandrino aveva fatto dal canto suo riutilizzando a suo modo la visione cosmico-teologica ed antropologica degli gnostici, assegna alla mente umana la funzione stessa di Dio di fronte all'universo contratto. «La mente umana divide i corpi in molteplici parti e in particelle delle parti e i numeri moltiplica sopra i numeri senza fine. Scopre i modi delle figure e le loro scambievoli proporzioni e dei numeri gli innumerevoli rapporti, prolungando le idee al di là del cielo, oltre le linee, da ogni parte. Prolunga il tempo nel passato senza principio, lo protrae nell'avvenire senza fine. Né solamente pensa qualcosa di piú antico al di là di ogni tempo, ma al di là di ogni spazio altro ne pensa d'indefinito. E c'è qualcosa che secondo me ne dimostraula capacità illimitata, ed è che questa mente scopre la stessa infinità e tenta di definire che cosa sia e quale sia. E poiché attraverso la cognizione si realizza una tale equazione tra la mente e le cose, bisogna pur riconoscere che, scoprendo l'infinità, la mente umana si adegua all'infinità stessa. Ché se il tempo, il quale mercè una certa successione misura il movimento, pare essere infinito, se il movimento è infinito, tanto piú dovremo dire che sia infinita la mente, che non soltanto misura il movimento ed il tempo, mercè una nozione statica, ma misura la stessa infinità». Questa altissima, audace, superba valutazione delle possibilità conoscitive dello spirito umano si traduce automaticamente, nell'insegnamento del Ficino, come già si era tradotta nella morale e nella soteriologia della scuola alessandrina, in una visione ottimistica delle capacità umane, in quella stessa visione della impassibilità e della perfetta ed integra dignità della natura umana, che già avevano fatto della scuola alessandrina il preannuncio del pelagianesimo.

Secondo Marsilio Ficino, Dio ha creato l'uomo libero, capace di realizzare in pieno il suo destino e la sua salvezza. E l'opera della redenzione non è opera di trasfigurazione e di riscatto: è soltanto opera di corroboramento e di addestramento. Come nella visione di Niccolò Cusano, cosí anche nella visione di Marsilio Ficino il Cristo non è che l'espressione simbolica perfetta di quel che si realizza nell'anima di ogni credente gnostico, il congiungimento perfetto dell'umano col divino. «Dappoiché Dio si uní all'uomo senza bisogno di altro mediatore, sarà bene ricordare che anche la nostra felicità consiste tutta nel congiungerci a Dio, senza alcun bisogno di mediazione. Finiscano dunque una buona volta gli uomini di diffidare della loro divinità, perché è soltanto a causa di questa diffidenza che finiscono coll'immergersi disperatamente nelle cose mortali».

Di fronte a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola non fa che portare all'estremo limite possibile il senso della divinità congenita dello spirito umano contemplante, non fa che cantare in termini di piú alta vena mistica il poema della divina espressione che è nell'universo sensibile, non fa che realizzare in una forma neo-pitagorica perfetta la tendenza ascetica già implicita nel misticismo ficiniano. Quale ragione c'è di pensare che Girolamo Savonarola sia lui il responsabile delle aberranti forme ascetiche del giovane prodigioso, venuto a Firenze a cercare l'ambiente adeguato al suo bisogno di speculazione mistica? Girolamo Savonarola non era probabilmente neppur capace di afferrare e di comprendere i voli sincretistici del suo giovane e portentoso amico. Ma li legava l'uno all'altro quel desiderio consumante di un affrancamento da tutte le profane cure empiriche, che potessero frapporre ostacoli al loro miraggio di trasfigurazione spirituale nell'infinito e nel divino. Avevano cantato i libri ermetici che Dio fa il tutto per far tutto a se stesso, che facendo le cose Dio fa se stesso, e che nel fare è inesauribile ed incessante, perché Egli è inesauribile ed instancabile. Avevano cantato i libri ermetici la virtú e la capacità prodigiosa dell'uomo: «grande miracolo l'uomo, essere vivente adorabile e onorando. Capace egli è di passare nella natura di Dio, quasi che egli sia Dio. Egli sa discernere ogni genere di demoni e sa conculcare in se stesso quel che v'è in lui d'umano, per poggiare unicamente su quel che v'è in lui di divino».

Rivendicando la dottrina sincretistica delle sue proposizioni, Pico della Mirandola esalta in termini di un lirisma irrefrenabile l'infinita dignità dell'umana natura. Egli immagina che Dio stesso parli all'uomo e lo stimoli col suo monito imperioso: «Tu, da nessuna strettoia vincolato alla mercè del tuo arbitrio, nel cui potere ti collocai, ti prefiggerai la natura che vuoi. Non ti ho fatto celeste o terreno, mortale od immortale. Ma tu, arbitro e forgiatore e vincitore di te stesso, tu ti darai la forma che tu vuoi. Potrai cadere degenere nei bruti che sono a te inferiori. Potrai, se vorrai, trasfigurare e rigenerare te stesso, sol per decisione dell'anima tua, in quelle realtà superiori che sono le realtà divine». Secondo un assioma gettato là in una lettera ad Aldo Manuzio, Pico della Mirandola fa della filosofia la ricerca della verità, della teologia il suo rinvenimento, della religione il suo possesso; in pratica unifica nella intensa vibrazione dell'anima sua le tre forme di attività spirituale, e la sua filosofia è una teologia, come la sua teologia è la piena realizzazione dell'unione col divino. C'è forse altra felicità che questa mistica immersione nell'oceano della divina contemplazione? «Come le gocce d'acqua non conoscono altra felicità che quella di confondersi nell'oceano che è pienezza delle acque, cosí noi non abbiamo altra felicità che quella di immergerci, porzioni quali siamo del lume intellettuale, nella luce totale di Dio e nella pienezza oceanica della sua realtà sussistente».

La stessa polemica sulla interpretazione del Parmenide platonico e sulla precedenza concettuale della nozione dell'essere o dell'uno, che divide Marsilio Ficino da Pico della Mirandola, non è altro che l'espressione di un processo di affinamento che la speculazione platonica viene subendo, per intima virtú di chiarificazione e di approfondimento. Secondo Pico, al Parmenide di Platone presiede un motivo dialettico. Secondo Marsilio invece, il Parmenide platonico esige una interpretazione teologica. Se Pico preferisce risalire alla nozione primordiale dell'uno, anziché arrestarsi alla nozione dell'essere, è per bruciare qualsiasi possibile residuo di dualismo, è per eliminare dalla sensazione dell'universo, che è il poema di Dio, qualsiasi presenza estranea e qualsiasi insidia di concretezza del non essere. Con Pico della Mirandola lo sforzo di cristianizzare il cristianesimo, di spogliarlo cioè di quel drammatico contenuto dualistico che esso si porta nella concezione del divino sofferente nel mondo, ha raggiunto sul terreno della mistica e della ascesi il suo vertice piú alto. Se il Medioevo cristiano era stato soprattutto la concreta formazione storica di Sant'Agostino, tornato ad essere manicheo nella dottrina della grazia e nella filosofia della storia, ora la rinascita dell'Accademia fiorentina era veramente una reviviscenza di quel neoplatonismo agostiniano dei Dialoghi di Cassiciaco, che, piú che cristianesimo, era la forma estrema di una speculazione ellenica, con una esteriore e superficiale etichetta evangelica.

Passiamo l'Appennino e trasferiamoci all'altra sede della rinascita filosofica italiana: Padova. Era stato l'Appennino che aveva portato sulla sua dorsale il messaggio di Gioacchino da Fiore dalla Sila al Subasio, dall'Ordine cistercense alla religio francescana. È ora sul crinale dell'Appennino che si dividono le due forme della speculazione italica della Rinascita, la platonica fiorentina e la scientifico-aristotelica padovana.

A Firenze si era discusso a lungo sul valore gerarchico rispettivo, dal punto di vista della speculazione filosofica, di Aristotele e di Platone. All'Università di Padova le discussioni teoretiche cedono il posto alla pratica, e tutto lo zelo e tutto lo sforzo della ricerca dello Studio sono consacrati alle discoperte della scienza e all'analisi dei fenomeni naturali. Scienza non è ricerca di cause e la filosofia non è la ricerca delle supreme cause?

Un quadro mirabile del Giorgione, uscito direttamente dalle preoccupazioni intellettuali del mondo veneto, I tre filosofi, conservato al museo di Vienna, ci mostra chiaramente il transito della cultura dalla intransigente e sospettosa dialettica scolastica e dalla disdegnosa e rassegnata via media degli arabisti, all'analisi diretta della natura, misurata con la squadra e col compasso. Due dei tre filosofi sono ritti. Sono il passato che parte. Il terzo è seduto, «sentato», e guarda il paesaggio, volgendo agli altri indifferentemente la schiena. Il capolavoro giorgionesco «rappresenta lo svolgersi della cultura libresca dell'età di mezzo, in quella di osservazione del Rinascimento; il passaggio della mente umana dal Medioevo teologante all'umanesimo naturalistico, attraverso la fase mediana della prerinascenza arabo-latina. Tale trapasso è dal pittore simbolicamente raffigurato in tre uomini, di tre generazioni successive, personificanti tre successive età dell'aristotelismo: la teologica, l'averroistica, l'umanistico-naturalistica. Un laudator temporis acti, un vecchio furibondo teologo, cerca invano di ingaggiare una disputa all'uso medioevale; un arabizzante di mezzo tempo, assorto in una sua scorata perplessità interiore, ascolta ma non risponde; un giovane umanista, sprofondato nella contemplazione della natura, volta ad ambedue, con serena e obliosa noncuranza, le spalle».

Ma l'intransigente e inquisitoriale teologia non è soltanto sulla tela dell'artista. E la nuova scienza della natura aristotelica e stoica va ad incappare nella repressione feroce del Santo Ufficio Romano.

Una apologetica religiosa che fa appello a forze razionali, per costituirsi e tenersi su basi presunte incrollabili, è condannata a fare appello e a fare ricorso alle repressioni feroci. Solo l'apologetica religiosa che vive di spirito e di carismi è automaticamente e senza violenze conquistatrice. La Inquisizione è nata nella Chiesa cattolica quando la Chiesa ha creduto di poter dimostrare apoditticamente l'esistenza di Dio e la ragionevolezza del mistero! Mistero dei misteri della umana psicologia associata!

Una fede che è veramente tale, che vive cioè delle proprie risorse e del proprio prestigio, senza aver bisogno di ricorrere alle grucce della ragione per sostenersi, ha, nella sua forza, la sua violenza, la santa violenza. Domina per virtú propria, piega e fiacca col suo peso e il suo fascino irresistibili. La ragione è completamente impotente di fronte ad essa. Ma quando la fede cessa di esser fede e dubita di se stessa e chiede alla ragione il soccorso, per vincere i propri dubbi, la fede è spacciata. Perché la ragione, che a volte è la manutengola di Satana, venderà caro il suo soccorso, e dopo aver prestato ipocritamente alla fede la sua man forte, prenderà beffardamente la sua rivincita e caccerà la fede, intronizzandosi al suo posto. E allora la fede non potrà difendersi in altro modo, da quella di cui avrebbe voluto fare la sua cooperatrice e che diviene fatalmente la sua rivale, che con i cavalletti e le torture dei processi inquisitoriali.

Aveva chiamato Aristotele al proprio soccorso la fede traballante del Medioevo cadente. E la dialettica aristotelica la cacciava di seggio. Con la sua tesi dell'unità dell'intelletto, l'averroismo latino aveva negato la molteplicità dei soggetti, l'imputabilità delle azioni, la sopravvivenza della personalità responsabile. Ma c'era un nemico piú insidioso ancora al fondo della dialettica aristotelica, ed era la visione orizzontale dell'universo, il concatenamento delle cause, la visione meccanicistica della vita, la prospettiva algida del motore immobile.

È a Padova che l'aristotelismo conseguente, e con esso la visione scientifica dell'universo, farà il suo ingresso nel mondo. È un ingresso trionfale. È l'ingresso degli dèi nel Walhalla. Pietro Pomponazzi ne è il piú audace e conseguente dei corifei. Egli parte dalla visione antropologica: se l'anima è la forma del corpo, è l'atto della potenza fisica, si può forse immaginare che l'anima possa comunque esercitare la sua azione indipendentemente dall'involucro sensibile, che è il suo strumento e il suo mezzo, naturali e indeclinabili? Pico della Mirandola aveva combattuto l'astrologia e difeso la magia. È impossibile, secondo lui, porre qualsiasi limite cosmico astrale alla infinita esplicazione e alla divina iniziativa dello spirito umano. Ma non è assurdo pensare che, vibrando all'unisono con l'universo, vivendo in un collegamento impalpabile di simpatia trascendentale con tutte le divine energie del cosmo, lo spirito dell'uomo possa magicamente operare quei miracoli che nel mondo dell'assoluto sono l'espressione permanente di Dio. È ancora una visione mistica della causalità universale. Nel dominio dell'esperienza sensibile, nell'inquadramento della visione del mondo disciplinata dal concetto di causa, la magia diviene la scienza. Applicate al mondo il concetto che Pietro Pomponazzi ha applicato all'uomo, e voi avrete la filosofia naturalistica della grande triade meridionale: Telesio, Bruno, Campanella.

Cosí, per una singolarissima coincidenza, intorno a quel medesimo sinodo fiorentino del 1439 che vedeva con una effimera conciliazione fra l'Oriente e l'Occidente l'affermarsi sempre piú vigoroso dell'accentramento curiale e papale, si muovevano le figure per la cui opera filosofica e mistica il cristianesimo europeo si avviava a tornare una pura e umanistica speculazione platonica.

Frattanto a Basilea i superstiti sostenitori della superiorità del Concilio sul Pontefice, si ostinavano a difendere i loro principi e a tentare di mantenerli in vita. Proprio dieci giorni prima che l'atto di unione fosse firmato a Firenze, a Basilea la sparuta sopravvivente rappresentanza conciliare dichiarava Eugenio IV eretico e il Papato vacante, procedendo all' elezione di un nuovo Pontefice, andando a pescarlo sulle rive del lago di Ginevra, a Ripaille. Là viveva una vita eremitica, insieme a pochi vecchi compagni d'armi che avevano preso il nome di cavalieri di San Maurizio, Amedeo VIII conte di Savoia. E Amedeo accettò la piuttosto curiosa elezione, assumendo il nome di Felice V, non senza palesi intenti di politica realistica, ché, quando a cinque anni di distanza si rese vacante il vescovado ginevrino, Felice V, che già da conte e da duca non aveva mai mancato di tenere l'occhio fisso su Ginevra, pensò bene di garantirlo a se stesso.

Talché, quando nel 1449 fu indotto pacificamente a dare le sue dimissioni da Pontefice in favore di Niccolò V, si acconciò alle dimissioni a patto però che la nomina di vescovo ginevrino gli fosse mantenuta. Il che permise ai possessi dei Savoia di conglobare la lungamente vagheggiata Ginevra.

Ad Eugenio IV era infatti stato dato come Pontefice successore legittimo Tommaso Parentucelli di Sarzana, che aveva preso appunto il nome di Niccolò V. L'umanesimo classicista saliva con lui ancor piú in alto. Mentre i decreti di unione sottoscritti a Firenze nel 1439 si rivelavano sempre piú inefficienti, e mentre nel 1453 Costantinopoli cadeva in potere dei Turchi di Maometto II, il Papato si ingolfava sempre piú nella sua politica terrena e nel suo fasto cortigianesco e mondano.

Eugenio IV, agli inizi del suo Pontificato, aveva fruttuosamente fatto ricorso alle energie e all'abilità del cardinale Giovanni Vitelleschi, schietta anima di condottiero sotto la porpora cardinalizia, per il ristabilimento della pace e dell'ordine dello Stato papale. Quando egli nel febbraio 1447 si spegneva, Roma aveva ripreso la sua floridezza, per tanto tempo avvizzita. Niccolò V, suo successore, poteva registrare nel suo bilancio attivo cosí la stretta amicizia con Cosimo dei Medici a Firenze, come la visita dell'imperatore Federico III, con la sua giovane sposa Eleonora del Portogallo. Entrambi erano coronati a Roma dal Pontefice il 19 marzo 1452, ultima occasione in cui Roma poté assistere ad una cosí solenne cerimonia.

I successori di Niccolò, Callisto III e Pio II, il molto discusso Enea Silvio Piccolomini, cercarono di dare una colorazione religiosa alla loro pompa mondana bandendo il programma di una nuova Crociata, che accorresse a frenare l'impetuosa capacità espansiva dei Turchi. Ma ormai la mondanità, la profanità, le cure terrene, lo sfrenato nepotismo, contrassegnavano la vita della corte papale romana. Il successore di Pio II, Paolo II, il veneziano cardinale Barbo, portava al massimo limite possibile la pompa cerimoniale del Pontificato. E col suo successore Sisto IV, il nepotismo parve dover perdere ogni limite. Fra i suoi nepoti, quegli che egli piú favorí, Giovanni della Rovere, sposava la figlia di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, e fondava una propria dinastia, mentre Girolamo Riario sposava Caterina Sforza ed era trucidato a Forlí nel 1488. Due altri furono precocemente annoverati nel sacro collegio dei cardinali: Pietro Riario e Giovanni della Rovere, il futuro Giulio II. Sotto il suo Pontificato il conflitto fra la corte papale e i Medici di Firenze raggiunse il momento piú drammatico.

Il successore di Sisto IV, Innocenza VIII, non ne continuò la politica. La riconciliazione coi Medici fu sanzionata mercè il matrimonio del figlio del Pontefice, Franceschetto, con una figlia di Lorenzo. In questa occasione fu innalzato alla porpora l'altro figlio di Lorenzo, Giovanni, allora giovanetto quattordicenne, il futuro Leone X. Innocenzo e Lorenzo morivano entrambi nel 1492; in quel medesimo anno 1492 in cui all'alba del 12 ottobre un marinaio delle tre navi comandate da Cristoforo Colombo salutava per la prima volta le rive dell'attuale isoletta di Watling nelle Lucaie. La scoperta dell'America doveva dare a tutta la civiltà e a tutta la spiritualità europea un orientamento sconfinatamente rivoluzionario.

Con Alessandro VI i Borgia salivano al trono papale. E con questo Papa, la cui elezione non fu esente da simonia, la cui vita privata fu uno scandalo inenarrabile, il Papato poteva rivelare al mondo quale paradossale istituto fosse la Chiesa. Il vecchio articolo del simbolo apostolico che esprime la fede dei credenti nella «comunione delle cose sante», e non già, come è detto nella versione volgata che costituisce una errata traduzione dell'originale greco, «comunione dei santi», può essere ben ricordato a questo punto. L'indegnità delle persone non aveva offuscato e depauperato nel Medioevo la consapevolezza profonda e vivida delle realtà sante, di cui vive la società dei fedeli di Cristo. Al tramonto del secolo decimoquinto Papa Borgia sembrava designato dal destino a significare nel mondo come queste superiori realtà, di cui la tradizione cristiana viveva ancora, si direbbe, per forza di inerzia, potessero esercitare prestigio ed efficienza sugli uomini, indipendentemente dalle qualità personali di coloro che le amministravano. Era il vecchio principio che aveva guidato al tempo di Sant'Agostino la polemica antidonatista. E sempre nei secoli successivi, la dottrina agostiniana della presenza operosa e diretta del Cristo dovunque si celebrassero misteri religiosi e si amministrasse vita sacramentale, aveva rivelato la sua piena virtú normativa. Ma perché questo si verificasse era stato sempre costantemente necessario che la grande comunità dei fedeli, unita nello spirito, sentisse la concreta e augusta validità del mondo trascendente che il cristianesimo aveva rivelato agli occhi degli uomini, ponendo a fondamento della vita spirituale la visione della regalità di Dio e il rispetto dei valori che sono, in questa nozione del Regno di Dio, conglobati.

Da un certo punto di vista, per quanto paradossale possa apparire l'affermazione, fu proprio il Savonarola a battere in breccia il principio tradizionale della disciplina cristiana, scagliandosi contro la persona indegna del Papa di Roma e coinvolgendo quindi in un solo verdetto di condanna e di ribellione la persona del Papa e la dignità pontificale, ravvivando ancora una volta le presupposizioni conciliaristiche che avevano fermentato a Basilea. Lo hanno additato, il Savonarola, come un precursore della Riforma luterana. Nulla di piú miope e di piú anacronistico. Sebbene si debba dire d'altra parte: nulla anche di piú contraddittorio che gli improperi scagliati da Lutero contro i «grossi cacciatori» della «riserva di caccia» papale. Poiché, se a norma dei principî della giustificazione per fede, accumulare colpe nella propria vita è un render possibile alla prodigiosa virtú giustificatrice di Cristo di spiegare piú vasto campo d'azione, nessun Papa, dai tempi di Giovanni XII, si sarebbe potuto dire che avesse offerto al Cristo la possibilità di esercitare tanto vasto campo di virtú riscattatrice, quanto gliene attribuí la vita scandalosa di Alessandro VI.

È che la originale dottrina cristiana ha sempre camminato e navigato fra due scogli ugualmente letali: lo scoglio dello stoicismo pelagiano e lo scoglio del predestinazionismo gratuito. La forza operosa del cristianesimo è consistita sempre nel tentativo irresolubile di conciliare cosí due posizioni logicamente irreconciliabili. Il cristiano, a norma dell'insegnamento neo-testamentario e particolarmente paolina, vive nella sicurezza permanente dell'assistenza della grazia. Ma in pari tempo tende fino all'esasperazione l'arco di tutte le umane energie, per fare dell'uomo il vero strumento di Dio nell'opera del bene. Il Medioevo, l'epoca della grande creazione cristiana, non aveva badato affatto a introdurre ordine dialettico e chiarezza concettuale in queste posizioni antitetiche, che costituiscono il binario mobile dell'esperienza e della condotta disciplinata dal Vangelo.

La Scolastica aveva tentato di tradurre in schemi logici le paradossali posizioni della pedagogia e della vita carismatica cristiane. Ma aveva lasciato un largo residuo all'ineffabile e vivente profondità del mistero evangelico. Ora il tramonto delle grandi idealità unitarie medioevali poneva allo scoperto le intime contraddizioni della pratica cristiana e la cultura che si andava laicizzando veniva automaticamente a perdere il senso inviolabile della permanente conversione e della ininterrotta rinascita, in cui sono i connotati specifici della esperienza bandita dalla parola di Cristo. Il Papato mondanizzato non era piú in grado di farsi perdonare, in nome della superiore amministrazione carismatica, le pecche del suo governo terreno. Per uno stranissimo paradosso, che è in armonia con tutta l'immensa paradossalità del fatto cristiano, la riforma dei costumi, diventata argomento di predica e di minaccia, anziché forza istintiva della stessa universale comunità credente come era stata consuetudine nel Medioevo, veniva ad essere testimonianza della logorata vitalità intima della Chiesa.

Fu nel 1492, un anno prima della morte di Innocenzo VIII, che per la prima volta Girolamo Savonarola, ormai quarantenne, richiamò la piú larga attenzione su di sé nelle sue prediche al Duomo di Firenze. La sua austerità, la sua fiera rampogna contro i costumi della città sottilmente corrotta dai Medici, ne fecero ben presto l'araldo di una larga corrente popolare, recalcitrante al giogo prepotente della famiglia dominante. Due anni piú tardi i Francesi invadevano l'Italia. Con la loro calata, dovuta in gran parte a Ludovico di Milano, cominciava per l'Italia un triste periodo di contese, destinato a durare tre secoli. Mentre per molti, in Italia, l'invasione francese appariva come la piú grave minaccia alla libertà nazionale, Savonarola vedeva nell'avvento di Carlo il compimento di una profezia, e non esitava pertanto ad elargirgli quel suo appoggio che appariva come il sostegno di un rappresentante di Dio.

Alla espulsione dei Medici da Firenze era seguita la signoria del monaco e dei suoi sostenitori. Con una parodistica restrizione della concezione evangelica del Regno di Dio, completamente sordo a tutto quello che c'è di trascendente e di metempirico nella nozione stessa della divina regalità, Savonarola procedeva ad una instaurazione puritanica di rigori claustrali. I carnevali fiorentini del 1496 e del 1497 furono trasformati in feste religiose, nel corso delle quali si procedé all'abbruciamento di quelle che agli occhi del durissimo frate apparivano disdicevoli e riprovevoli vanità. Il contrasto del Savonarola con Alessandro VI procedé per varie fasi. Finché la predicazione del monaco sembrò restringersi ad argomenti morali e a programmi riformatori privati, il Papa non sembrò darsene per inteso; ma quando gli accenti savonaroliani assunsero il tono di una rampogna profetica e dell'invettiva minacciosa, quando soprattutto il suo comportamento politico sembrò rompere l'unitaria linea di difesa in Italia, altri fattori vennero a pesare sulle decisioni curiali.

Nel 1495 Savonarola era citato a presentarsi a Roma. Si rifiutò di obbedire, adducendo due ragioni: la sua salute malferma e il bisogno della sua presenza a Firenze. Accettò però di sospendere la propria predicazione: ma la sospensione doveva essere temporanea. Nel febbraio del 1496, su richiesta della Signoria, egli la riprendeva, ancor piú dura ed aspra, contro il Papa e contro Roma. Le stesse opposizioni incontrate dal Savonarola a Firenze e a Roma fra gli Ordini rivali, spingevano il Papa alle misure risolutive. Nel maggio del 1497 Alessandro VI scomunicava il Savonarola. Questi sembrò esteriormente rispettare il verdetto pontificio astenendosi cosí dalla predicazione come dalla celebrazione rituale. Ma non ristava dal dichiarare che la sentenza era nulla perché basata su accuse false. Poi, spinto dai suoi partigiani, riprendeva la celebrazione della messa e la predicazione.

Nel frattempo la sua posizione a Firenze, dopo la rapida e uraganica ventata del favore popolare, si era andata raffreddando, come suole sempre accadere a tutti coloro che, partendo da propositi e da principi strettamente religiosi, non sanno mantenersi immuni dalla rovinosa contaminazione degli interessi politici.

Nell'aprile del 1497 un complotto si apprestava per la restaurazione dei Medici e molti degli avversari di Savonarola furono, senza potersi appellare al popolo, tratti a morte. Il Papa colse l'occasione a volo per minacciare Firenze di interdetto e di cattura dei suoi mercanti nei territori papali, qualora Firenze non avesse costretto il suo apocalittico profeta al silenzio.

Venne poi, nella Quaresima del '98, la prova del fuoco. Si svolse a dispetto delle proibizioni ecclesiastiche e non poté avere il suo compimento per una futile e banale circostanza climaterica. L'animo del popolo già alienato dal frate ne fu deluso e disingannato. E quando, alla successiva domenica delle Palme, il Savonarola, sfidando il divieto della Signoria, si presentò a predicare, la folla invase il suo convento ed egli stesso con due compagni fu arrestato. Seguí un processo in cui la tortura e la falsa testimonianza spiegarono una parte cospicua. Gli imprigionati furono condannati per eresia, per scisma, per inganno teso al popolo e per incitamento alla ribellione. Essendosi opposto un rifiuto alla richiesta del Papa che gli fossero consegnati i condannati, questi furono bruciati il 23 maggio 1498, dopo che il Savonarola fu pubblicamente degradato dal vescovo. Come si sa, il vescovo avrebbe voluto dichiararlo anche scisso dalla Chiesa trionfante, e il Savonarola aveva protestato.

L'implacabile giudice delle pecche papali diede con la sua vita la testimonianza suprema alla rettitudine dei suoi propositi, all'altezza dei suoi ideali. Se c'era stato qualche cosa di angusto nella stessa ortodossia della sua dottrina cristiana, questa angustia era l'angustia di tutta la teologia ufficiale del tempo, che sulle tracce di quella scolastica, che era destinata ad essere canonizzata al Concilio di Trento, aveva ormai inquadrato definitivamente la esperienza cristiana in formule troppo schematiche e troppo teoretiche per rappresentare e disciplinare in maniera pragmaticamente valida quel fermento che il cristianesimo aveva portato nel mondo.

Di fronte al Savonarola l'universale potestà di Alessandro VI grandeggiava in un alone di luce che gli eventi avevano portentosamente allargato. Quel medesimo anno 1492, che si era inaugurato con la caduta dell'ultima roccaforte dei Mori in Spagna, si chiudeva con la scoperta delle terre d'oltre Atlantico. Il Papa spagnolo era chiamato ad assidersi arbitro nella contesa spagnolo-portoghese per la distribuzione delle terre scoperte.

Era veramente un gesto che simboleggiava la chiusura di un'epoca e l'apertura di una nuova. Sconfinate possibilità si aprivano ora al proselitismo cattolico. Roma aveva dinanzi a sé possibilità insperate di uscire dal marasma in cui il frazionamento europeo, il logoramento delle vecchie idealità unitarie medioevali, la calcificazione della teologia ufficiale, minacciavano di fare ristagnare il suo magistero. La primitiva consegna evangelica, che aveva fatto del messaggio cristiano un còmpito di minoranze chiamate ad assurgere in mezzo al mondo tenebroso ed insipido come sale, luce e fermento, trovava una improvvisa e imprevedibile virtú di piena reintegrazione. Dinanzi alla immensa estensione dei nuovi continenti e delle loro popolazioni, la Cristianità cattolica veniva a presentarsi come apportatrice di una luce e di un sapore, fino allora ignorati.

Purtroppo il proselitismo dei nuovi Ordini religiosi non sarebbe stato il proselitismo delle prime generazioni cristiane, andate alla conquista del mondo, partendo dal rinnegamento ideale del mondo. Cominciava per la società cristiana una nuova fase storica non meno paradossale delle precedenti. Ma questa volta il paradosso non sarebbe stato un paradosso di conquista, ma un paradosso di tramonto.

Mentre l'Europa si avviava alla delineazione delle unità nazionali e le piú vigorose fra queste unità si apprestavano a fare anche della religione un valore nazionale, Roma levava il suo sguardo verso le terre d'oltre mare come terre di proselitismo e di conquista. Ma i suoi Apostoli nuovi avrebbero avuto la virtú di trapiantare nei nuovi mondi quel messaggio del rovesciamento dei valori e del veniente Regno di Dio, che aveva dato al cristianesimo primitivo la virtu di creare un tipo di civiltà inconfondibile, di fronte a tutte le altre? Se si, essi avrebbero assicurato per secoli il successo della civiltà cristiana nel mondo. Se no, essi non avrebbero fatto altro che instaurare oltre mare una forma puramente fittizia di esperienza cristiana, che un giorno, a distanza di qualche secolo, si sarebbe rivelata non difforme sostanzialmente dalla esperienza dei popoli che si volevano convertire.

Quel giorno la superiorità dell'Europa cristiana sugli altri continenti avrebbe rivelato tutta la sua inconsistenza...

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