XIX IL GRANDE SCISMA

Ci sono scene storiche che riassumono, nei loro tratti vivi e drammatici, conflitti di idee e rivalità di istituti, in una maniera patetica e impressionante.

Tali nel Medioevo la scena di Canossa, che vide un imperatore penitente ai piedi del Pontefice, e la scena di Anagni che vide un Pontefice oltraggiato e vilipeso da uno sgherro regale. Per quale sviluppo storico si passa, nel giro di due secoli, da una scena all'altra?

Il Pontificato di Innocenzo III aveva visto l'apogeo del magistero e della potenza spirituale del Pontificato in Europa. Con la sottomissione di Giovanni Senzaterra, la Sede romana aveva riportato uno dei suoi piú clamorosi successi. Ma in questa stessa sua esplosione di strapotenza erano i germi di un fatale declino.

La potenza politica del Papato a norma dei principî cristiani non poteva essere che una potenza indiretta e una gestione per procura. Per questo, nel momento culminante della sua conquista spirituale, il Pontificato romano aveva, con gesto piú inconsapevole che consapevole, consacrato dinanzi a sé la universale potestà imperiale, perché si avesse cosí il simbolo pieno della subordinazione della politica terrena alla politica carismatic.a del Regno di Dio.

Ma una disciplina cosí cristianamente distribuita di poteri politici e di poteri religiosi non poteva essere basata che su categorie universali. Il Papato e l'Impero non potevano essere di fronte l'uno all'altro che come potestà universali, ugualmente obbedienti all'unico tendenziale governo di Dio. Il giorno in cui il potere papale si fosse arrogato i diritti di preminenza politica e di investitura civile su singoli sovrani e su singoli Stati, sarebbe sceso automaticamente al livello di questi poteri circoscritti, mutandone tutte le debolezze, tutta la profanità, tutta la empirica precarietà. Era con questo stesso il primo passo verso una commistione con i valori profani che, codificata piú tardi nei bilaterali patti concordatari, avrebbe fatto smarrire al magistero ecclesiastico il suo fascino trascendente e la sua virtù normativa.

Di fronte alla Curia di Innocenzo III, lo spiritualismo gioachimita e francescano aveva tentato disperatamente di riportare in auge la inviolabile eterogeneità degli ideali cristiani. La storia ecclesiastica del secolo XIII è la storia della drammatica contesa fra lo spirito cristiano, che tende a rivoluzionare se stesso nei suoi principî nucleari, e la progressiva profanazione della Chiesa curiale, a cui lo stesso suo potere impone fatalmente una crescente alienazione dalla spiritualità intransigente delle origini.

Quel medesimo cardinale Ugolino, salito poi al trono pontificale col nome di Gregorio IX, che si era costituito protettore di San Francesco, inducendolo però a mitigare il suo sogno di palingenesi cristiana e a circoscrivere la propria opera alle modeste proporzioni di un nuovo Ordine religioso, è il grande avversario di Federico II e il vero inauguratore dell'Inquisizione ecclesiastica. Noi siamo stati abituati da un pregiudizio culturale corrente a vedere nella Inquisizione un tratto specifico del Medioevo. In realtà l'istituto inquisitoriale è una delle manifestazioni della decadenza del Medioevo e della inaugurazione di una nuova età della società cristiana. È tutto il pullulare di eresie che dà uno speciale senso di inquietudine e di disagio alla vita religiosa cristiana dell'Europa occidentale nel secolo XIII incipiente e infonde la consapevolezza nella Curia della insufficienza ormai palesemente constatata dei tradizionali tribunali diocesani alla tutela della fede; è la ingerenza dell'autorità politica imperiale in materia religiosa e confessionale, culminante all'epoca di Federico II, che vede in ogni eretico un sovversivo, ad indurre Gregorio IX a delegare, per proprio conto, personaggi speciali chiamati a inquisire, dovunque la sospettata presenza di correnti ereticali faccia sentire un pericolo per l'ortodossia. Per la prima volta nel febbraio del 1231 i Capitula Anibaldi senatoris a Roma, menzionano gli «inquisitores ab Ecclesia datos». E subito dopo, nello spazio di pochissimi anni deleghe inquisitoriali sono concesse da Gregorio IX per quasi tutte le regioni d'Europa. Nel 1235 egli affida definitivamente l'Inquisizione degli eretici all'Ordine domenicano e undici anni più tardi, con mossa sottilissimamente accorta, Innocenzo IV estende il medesimo privilegio all'Ordine dei frati minori.

Sottrarre i giudizi sulla fede all'autorità civile è lo scopo della Curia, che con questo stesso però si arroga poteri empirici. Era una maniera infallibile di determinare d'altro canto nelle file stesse dell'Ordine uscito dal sogno serafico di Francesco d'Assisi la piú crudele delle guerre fraterne. Era infatti l'Ordine francescano il piú intimamente e piú largamente pervaso da spirito gioachimita: da quello spirito gioachimita che, proprio in quel torno di tempo, suggeriva ad un francescano di Borgo San Donnino, educato a Parigi, di raccogliere da tutta l'immensa produzione di Gioacchino da Fiore una specie di sommario programmatico, che servisse da breviario e da Vangelo ai sognatori della nuova età dello Spirito. Aveva scritto Gioacchino da Fiore nei suoi Commentari evangelici che il giorno in cui fosse comparsa al mondo la nuova economia spirituale la funzione della Curia romana avrebbe dovuto esser quella del vecchio Simeone del racconto evangelico, là dove si dice che egli accolse nelle sue braccia il neonato Messia, e lo salutò col cuore gonfio di esultanza e di riconoscenza, dicendo che ormai a lui non restava altro che ritirarsi dal mondo. E nel medesimo passo Gioacchino da Fiore aveva preannunciato che l'avvento dello spirito avrebbe alfine rivelato quel che era eterno e sostanziale nella predicazione del Cristo, isolandolo e sceverandolo da tutto quello che vi era stato di empirico, di precario e di transitorio, durante i secoli del governo ecclesiastico.

Perché questa volta veramente il trasfigurato annuncio evangelico sarebbe stato il Vangelo di cui è detto nell'Apocalissi al Capo XIV: «Vidi un angelo traversare volando il cielo, e vidi a lui consegnarsi il Vangelo eterno».

Gioacchino aveva commentato: «Il Vangelo che ci è stato consegnato dal Cristo e dagli Apostoli, a norma della fede sacramentale, per tutto ciò che riguarda gli stessi Sacramenti, è transitorio e temporaneo; per quanto riguarda la realtà significata attraverso i Sacramenti, è eterno». E Gherardo da Borgo San Donnino, facendosi forte del presagio gioachimita, aveva appunto intitolato la sua silloge: «Introductorius in evangelium aeternum». Una commissione di cardinali condannava ad Anagni, proprio ad Anagni dove un cinquantennio piú tardi Bonifacio VIII avrebbe subìto l'atroce affronto, il 23 ottobre 1255, l'opera di Gherardo. La Chiesa romana chiudeva bruscamente le porte a qualsiasi aspirazione ad una reviviscenza di pura spiritualità evangelica. Ne avrebbe amarissimamente sopportato le conseguenze.

Nel conflitto con Federico II la Chiesa non logorava rapidamente quel prestigio che aveva ancora sfolgorato pochi decenni prima nel Pontificato di Innocenzo III? La enigmatica figura di Federico II trae la complessa eterogeneità dei suoi elementi e dei suoi significati precisamente dalla complessità del travaglio che accompagna lo sviluppo della Cristianità cattolica in questo densissimo periodo di tempo. Di modo che le interpretazioni contraddittorie che si son date e si dànno della figura suggestiva e sfuggente di Federico, tradiscono la loro unilaterale lacunosità proprio per il fatto che non vanno ad attingere in profondo le ragioni per cui la dialettica dei rapporti fra Papato ed Impero, fra cultura religiosa e cultura profana, fra istituti laici ed istituti ecclesiastici, nel corso del secolo decimoterzo, si fa improvvisamente cosí strana e cosí nuova, da sconvolgere le nostre capacità di valutazione.

Noi ci troviamo effettivamente ad un'ora di trapasso della pedagogia sociale del cristianesimo. Abbiamo visto, attraverso il lungo svolgimento di questa nostra trattazione, che il cristianesimo era nato come un tentativo originalissimo di addestrare gli uomini a disciplinare i loro rapporti scambievoli, cosí individuali come collettivi, mercè categorie che non avevano nulla di comune con le forme consuete, esteriori, palpabili e realistiche, della convivenza politica e sociale. Il cristianesimo aveva introdotto, come categorie capaci di disciplinare la collettività umana, realtà carismatiche e soprannaturali: la paternità di Dio; la trascendenza assoluta del suo Regno; la realizzazione e la conquista della vita mercè il suo rinnegamento; la consapevolezza dell'atmosfera di sacralità e di mistero in cui respirano e vivono le grandi realtà umane dell'amore, del dolore, del rimorso e della morte; l'adesione ad un organismo soprannaturale e sacramentale, che è, col nome di Chiesa, il corpo mistico del Signore, che si forma progressivamente nella storia. C'era tendenzialmente nel messaggio cristiano un deprezzamento radicale, se non addirittura una condanna pregiudiziale, dei valori politici e della loro organizzazione statale.

Il passaggio dell'Impero al cristianesimo con Costantino aveva inferto il primo colpo alla visione sociale del cristianesimo. E la comunità cristiano-universale se ne era rifatta, affermando vieppiú il carattere misterico della sua dogmatica e della sua disciplina. Sulla base di questo carattere misterico del pensiero e della prassi cristiana, la cattolicità d'Occidente aveva costituito la sua unità medioevale. La creazione carolingica aveva rappresentato il tentativo arditissimo di dare espressione tangibile alla dualità delle discipline, empirica l'una, carismatica l'altra, da cui il cristianesimo vedeva per definizione retta la convivenza degli uomini.

Era un equilibrio doppiamente instabile. Era innanzi tutto un equilibrio instabile perché la zona su cui si esercitava il dominio dell'un potere e dell'altro era la medesima, la grande, ecumenica famiglia cristiana. Ma era soprattutto instabile perché, imponendo all'Impero la sua consacrazione, la Chiesa veniva in qualche modo ad obliterare che alle origini il cristianesimo aveva considerato i poteri di questo mondo, tutti senza distinzione, come una manifestazione demoniaca, su cui dovevano esercitarsi a brevissima scadenza la rivalsa e il trionfo regale di Dio.

Era fatale che della sua investitura religiosa l'Impero facesse titolo per manomettere quelle funzioni ecclesiastiche che piú da presso erano coinvolte nella empiricità della economia collettiva. Ed era altrettanto fatale che, per salvare il suo governo universale, la Chiesa andasse a chiedere alla ragione e alla politica le armi del suo potere. Non senza profonda ragione il secolo XIII, che vede piú aspro il conflitto dei due poteri, vede anche il sorgere della organizzazione universitaria.

Abbiamo constatato come movimento gioachimita e francescanesimo primitivo fossero la rivendicazione del fascinans e del tremendum che sono alle basi stesse dell'esperienza cristiana. Curia e Impero, che si combattevano a vicenda, erano poi in pratica complici l'uno dell'altra nella estinzione di quello che è il fuoco inconsumabile del cristianesimo: la rivendicazione intransigente delle realtà soprannaturali e carismatiche. È per questa commistione di interessi umani e di interessi soprannaturali nell'esercizio della potestà ecclesiastica come nello spiegamento dei poteri imperiali; è per questa obliterazione della linea divisoria fra politica e religiosità che diviene difficile giudicare il comportamento di Papi e di sovrani nella vita europea del secolo decimoterzo, che diviene soprattutto difficile dare una raffigurazione esatta dei grandi attori del dramma.

Federico II combatte gli spirituali francescani che appaiono, dal punto di vista della politica realistica, pericolosi sovversivi. Ma lo fa in nome non della politica, bensí delle esigenze ecclesiastiche. E i Pontefici di rimbalzo debbono calcare la mano nella lotta contro lo spiritualismo intransigente, facendo ricorso a mezzi inquisitoriali nel timore che l'Impero creato dal Papato sottragga al Papato le ragioni stesse della sua esistenza e del suo governo. Le Crociate avevano finito col rappresentare una provvidenziale valvola di sfogo alla contesa fra Papato ed Impero. Ma avevano costituito fin dalle origini un compromettente allontanamento da quella concezione dell'apostolato cristiano e dal proselitismo religioso che rifugge per definizione, sul terreno della esperienza cristiana, da mezzi coercitivi e da sconfinamenti bellici.

Il francescanesimo, sulle orme delle previsioni enunciate da Gioacchino da Fiore, aveva iniziato la missione, come surrogato evangelico della conquista e della rivalsa armate. Federico II, persecutore di spirituali francescani, era però in quest'ordine di idee quando concepiva la Crociata piú come opera diplomatica che come opera militare. Il Papato si vedeva cosí strappare di mano una delle sue armi raffinatamente offensive contro le invadenze imperiali e colpiva Federico proprio per questa sua disposizione a trattare diplomaticamente con i poteri islamici del Vicino Oriente.

In questo groviglio di situazioni e di compromessi una cosa è chiara, ed è che la politica corrode l'impalcatura spirituale della Chiesa e prepara alla Curia di Roma le piú amare delusioni e le piú perigliose disdette. Il grande scisma è in germe nella stessa lotta di Gregorio IX e di Innocenzo IV contro Federico II.

Aveva sperato Federico II, i cui rapporti con il cardinale genovese Sinibaldo Fieschi erano stati improntati a cordialità, che la sua assunzione al Pontificato, il 22 giugno 1243, avrebbe arrecato un periodo di tregua e di riconciliazione. In pratica, Innocenzo IV continua l'asperrima lotta contro Federico. Da Lione, dove si rifugia per sicurezza, lancia nel 1245 una nuova scomunica contro il sovrano siculo. Il Papa era uscito da un Conclave su cui Federico aveva cercato di esercitare tutte le sue pressioni e tutte le sue violenze.

La nuova scomunica papale risuscitò sentimenti guelfi nel Settentrione d'Italia e Federico dovette correre alla riscossa. La morte, nel dicembre del 1250, lo coglieva in piena campagna restauratrice del suo potere. E la successione, incerta e difficile, con la lotta fra Manfredi e Corrado, figlio legittimo di Federico, i cui diritti e le cui pretese erano ereditati nel 1254, alla sua repentina morte, dal giovane Corradino, offriva il destro al Pontificato, quando questo passò nelle mani energiche e pronte di Urbano IV, di avviarsi a quel rischiosissimo piano di chiamare in Italia chi potesse neutralizzare l'azione degli eredi svevi, tagliando quel collegamento fra Impero e regno siculo che rappresentava l'incubo permanente del potere territoriale della Curia romana. Carlo d'Angiò era coronato cosí a Roma il giorno dell'Epifania del 1266. Seguivano la disfatta e la morte di Manfredi nei campi di Benevento e a due anni di distanza la rotta di Corradino e il suo supplizio a Napoli.

Era un trionfo del Pontificato o era una sua disfatta? Gli eventi successivi inducono a ritenere per piú aderente alla realtà storica la seconda alternativa. È il destino del cristianesimo che solo attraverso le prove si consumino e si celebrino i suoi veri trionfi spirituali.

Il giorno in cui Gregorio X, uscito Papa da uno dei piú laboriosi Conclavi che la storia ricordi, entrò a Roma, il 27 marzo 1272, Carlo d'Angiò era al suo fianco. L'angioino non si atteggiava a protettore del Papato, emulo cosí in qualche modo e aspirante a raccogliere dagli Svevi qualcosa di piú che il regno siculo? Ma troppo forti erano le tradizioni imperiali in Germania perché il Pontificato, indeclinabilmente bisognoso di avere dinanzi a sé una autorità politica altrettanto ecumenica, potesse permettersi a suo libito di autorizzare una qualsiasi trasmigrazione della corona imperiale quando i principi germanici erano là, gelosi dei loro privilegi e della loro eredità.

Nel settembre del 1273 questi príncipi, sotto la presidenza di Guarniero vescovo di Magonza, radunati a Francoforte, eleggevano re dei Romani Rodolfo di Absburgo. Si iniziava con lui una dinastia destinata a un grande avvenire. Era stato tenuto al fonte battesimale da Federico II e aveva combattuto sotto i vessilli svevi. Ma la sua esperienza gli aveva insegnato quanto fosse rischioso resistere alla Curia e combatterla per le pretese territoriali che, se potevano nascondere avidità egoistiche terrene, rappresentavano però, per un singolarissimo paradosso della situazione medioevale, una certa garanzia di autonomia nell'esercizio dei suoi poteri carismatici. La sua fu pertanto una politica conciliatrice che ebbe nella situazione politica italiana imponenti ripercussioni.

Quando nel maggio del 1274 si adunò a Lione il grande Concilio che Gregorio X vi aveva convocato, non furono affrontate soltanto le questioni dei rapporti fra la Chiesa di Roma e la Chiesa orientale; non si fissarono soltanto le nuove norme destinate a rimanere valide per sempre per la elezione canonica e regolare dei Pontefici; ma fu cercato di costituire su basi pacifiche e durature i rapporti fra il Papato e l'Impero. I messi di Rodolfo di Absburgo re dei Romani furono accolti dalle piú clamorose espressioni di deferente cordialità. Il candidato alla dignità imperiale mandava a dichiarare nuovamente che avrebbe riconfermato tutti i privilegi dello Stato ecclesiastico, rinunciando a qualsiasi pretesa sulla Sicilia. Il vecchio programma papale di scindere recisamente i possessi del Mezzogiorno italico dalla corona imperiale e dal germanesimo aveva cosí una sua attuazione insperata. In conseguenza di che, Gregorio X non esitava a riconoscere Rodolfo nella dignità a cui l'avevano innalzato gli elettori tedeschi e palesava pubblicamente il suo proposito di incoronarlo imperatore, nel piú breve lasso di tempo possibile. Ma le velleità pacificatrici del Pontefice non poterono avere piena realizzazione. Sulla via del ritorno verso Roma, Gregorio X moriva ad Arezzo nel gennaio del 1276.

A norma delle recenti prescrizioni che al Concilio di Lione avevano disciplinato lo spiegamento dei Conclavi, il successore fu eletto ad Arezzo stesso a pochi giorni di distanza e fu un savoiardo, Pietro di Tarantasia, arcivescovo di Lione, domenicano. Proclamato col nome di Innocenzo V, riprese subito la via di Roma. La sua patria ne faceva automaticamente un patrocinatore di Carlo di Angiò, che fu confermato nell'ufficio di senatore di Roma e fu designato alla dignità imperiale di vicario di Toscana, all'insaputa di Rodolfo che non poté esserne lusingato. La politica papale riprendeva a pencolare verso l'Angioino. Ma Innocenzo V moriva il 22 giugno dello stesso anno, senza aver potuto spingere piú innanzi la sua politica filo-francese. Fu eletto a succedergli un nipote di Innocenzo IV, un altro genovese di casa Fieschi, che prese il nome di Adriano V. Non fu Papa che per trentanove giorni.

A distanza di tanto poco tempo dalle discipline conciliari di Lione, il nuovo Conclave si svolse a Viterbo, in mezzo ai tumulti cittadini. Ne uscí nel settembre del '76 Papa l'unico portoghese che sia salito sul soglio di Pietro, l'arcivescovo di Braga, che prese il nome di Giovanni XXI. Anch'egli fu un Papa di brevissima durata. Il crollo del tetto di una stanza del palazzo papale a Viterbo lo seppelliva sotto le rovine il 16 maggio 1277.

Per mezzo anno i cardinali amministrarono da Viterbo la Chiesa. Fra loro si andavano sempre piú accentuando le divergenze fra Italiani e Francesi che avrebbero avuto, a distanza di pochi decenni, risultati cosí clamorosamente funesti per il decoro e il regolare funzionamento della vita curiale. Anche questa volta la popolazione pesò sulla volontà dei cardinali, costringendoli ad una decisione che essi, lasciati alle loro discordie, avrebbero procrastinato chissà di quanto. Il 25 novembre era acclamato Pontefice Giovanni Gaetano Orsini, figlio di Matteo Rosso, che prese il nome di Niccolò III. Profondamente romano di spirito, appartenente ad una famiglia che ormai da quasi un secolo occupava in Roma le piú alte cariche civili ed ecclesiastiche, Niccolò III svolse una politica sagace e lungimirante che, mentre tentava di fare del suo meglio per ripristinare nella loro interezza i rapporti ideali fra Papato ed Impero, mirava in pari tempo all'ampliamento e al consolidamento dello Stato papale, senza dimenticare gli interessi cospicui dei propri consanguinei. All'epica lotta svoltasi in passato fra Papato ed Impero sulla base di contrasti idealmente giurisdizionali, stava per succedere una tregua che era resa possibile e dall'incipiente sfaldamento dell'universale governo imperiale, e dal profilarsi delle nuove monarchie nazionali, e contemporaneamente dal degenerare sempre piú appariscente del Papato in una funzione principesca, capace di aprire il varco e di dare soddisfazione alle piú audaci ambizioni nobiliari romane.

Ai Romani; Niccolò III riconfermava il diritto elettivo del Senato. Si sforzò, non senza risultato, di eliminare da Roma la oramai grandeggiante pressione francese. Con una costituzione del 18 luglio 1278, riproclamando al cospetto del mondo la derivazione del diritto papale su Roma dall'imperatore Costantino, Niccolò III stabiliva che da allora in poi nessun sovrano o nobile straniero potesse diventare senatore, capitano del popolo, patrizio, o rettore od ufficiale della metropoli del Tevere né temporaneamenne né vita natural durante. Simile dignità doveva essere riservata a cittadini romani. Carlo d'Angiò dovette fare buon viso a cattivo giuoco e depose nelle mani dei Romani la sua dignità senatoriale, che fu raccolta da un fratello del Pontefice.

Con abilissima diplomazia, Niccolò III, ottenuto questo intento, che doveva stargli particolarmente a cuore, riguardando la sua città nativa e la sua famiglia, si dié a riconciliare Carlo con Rodolfo e riusci anche qui nell'intento. Il re dei Romani riconobbe Carlo come re di Sicilia, Carlo dal canto suo si impegnò a non ledere in alcuna maniera i diritti imperiali, ricevendo in cambio, come feudo dell'Impero, la Provenza.

Ma il successo piú cospicuo Niccolò III lo riportò ottenendo da Rodolfo, in nome delle vecchie concessioni carolingiche mai effettivamente tradotte in pratica, la concessione di quelle terre di Romagna, «orto dell'Impero», su cui fino a pochi decenni prima si erano cosí accanitamente esercitate le velleità degli imperatori svevi.

Papa Orsini, che Dante ha condannato nell'Inferno come simoniaco e nepotista, fu senza dubbio figura di principe temporale esageratamente intento agli interessi terreni della Santa Sede e, di piú, ai vantaggi materiali dei suoi parenti. Ma è precisamente la caratteristica del regime pontificale in questa turbinosa età di transizione, mentre gli allori raggiunti dalla politica papale appaiono piú pingui e piú floridi, che la stessa fatalità delle situazioni porti i rappresentanti della Curia ad allargare l'ambito dei propri poteri empirici, nell'atto stesso in cui si tenta di far sopravvivere le grandi idealità politiche e religiose unitarie del Medioevo.

La Chiesa avrebbe potuto esser salvata dalla degenerazione mondana e fastosa verso cui fatalmente pencolava, da una reviviscenza incontrastata e da un riconoscimento ufficiale di quel nuovo spirito profetico, che era sembrato voler di nuovo rifluire per entro all'organismo ecclesiastico sulla ispirazione del messaggio gioachimita e della religio francescana. Ma come albergare nel medesimo organismo due realtà cosí profondamente antitetiche e cosí insanabilmente incompatibili, quali l'annuncio della terza età dello Spirito Santo e la rivendicazione papale del suo universale governo e del suo potere politico? Che nelle file della Chiesa, nonostante gli ostracismi e le ufficiali condanne, la ispirazione profetica allargasse i suoi echi e le sue ripercussioni, apparirà all'ultimo declinare del secolo dalla improvvisa elezione di Celestino V al Pontificato, quasi tentativo di evasione da uno stato di marasma ufficiale apparentemente irresolubile. Ma d'altro canto la struttura politica della Curia, con le sue esigenze empiriche, pesava sempre piú sinistramente sulla consapevolezza delle leggi che regolano le realtà carismatiche nel piano della vita cristiana.

La Chiesa era effettivamente ad un bivio tragico e la opzione avrebbe finito col dare agli avvenimenti ecclesiastici del secolo decimoterzo cadente il valore di un compendio simbolico e prefiguratore di quella che sarebbe stata la successiva evoluzione della Cristianità europea. Le grandi idealità religiose uscite dal Vangelo come devono essere tutelate e salvaguardate? Gli spirituali francescani, eredi dello spirito di Gioacchino da Fiore, non vedevano nella società dei credenti che realtà soprannaturali e carismi sacramentali. La Chiesa, nella loro concezione, non può fare appello, per il proprio magistero e per il proprio governo, che alle sacrosante realtà dello Spirito. La Curia d'altra parte si era troppo a lungo e troppo fortunatamente assuefatta a fare assegnamento piuttosto sulle arti rischiose della propria diplomazia. E avrebbe finito con l'attenersi a questa, preponderantemente. Ne avrebbe avuto i piú atroci disinganni. Ma sarebbero dovuti passar secoli perché della rovina, preparata a questo modo, si vedessero i risultati irreparabili.

Fra l'ascensione al soglio pontificio di Gregorio X nel 1271 e quella di Celestino V nel 1294, corre un periodo nel quale otto Papi occuparono la sede papale. Ad eccezione di Niccolò III, non può dirsi che questi Papi siano figure di prima grandezza. Ciascuno di essi è soprattutto preoccupato di provvedere alle fortune della propria rispettiva famiglia. Il nepotismo è agli inizi della sua età aurea e parecchie delle nobili famiglie romane dei tempi piú tardi debbono a questo periodo la prima traccia del loro ascendente successo. Niccolò III rassoda definitivamente la fortuna degli Orsini. I Savelli molto dovettero ad Onorio IV e molto i Colonna a Niccolò IV.

Alla morte di questo Papa si ebbe nuovamente uno di quegli interregni nel governo papale che avevano cosí ripetute volte, durante il corso del secolo, riflesso la profonda scissione di spiriti e di propositi che divideva la società cristiana.

Niccolò IV era morto il 4 aprile 1292; l'elezione di Celestino V non si ebbe che il 5 luglio del 1294, e fu senza dubbio la piú eccentrica e imprevedibile nomina che si fosse mai avuta nella storia tanto movimentata delle elezioni pontificie. Corroso dalla piú disparata eterogeneità di aspirazioni e di propositi; profondamente inquieto di fronte ai problemi che sembravano addensarsi sull'orizzonte oscuro della vita cristiana europea; il collegio dei cardinali aveva dovuto constatare la impossibilità di trovare il terreno dell'accordo su uno qualsiasi di coloro che ne facevano parte. E nella disperata consapevolezza di una discordia che investiva le basi stesse del regime e della prassi ecclesiastici, improvvisamente, sotto la subitanea ispirazione di un diversivo che non può essere stato a prima vista escogitato senza un sentore di ironico presentimento del peggio, riuscirono ad effettuare lo scambievole consenso sul nome di un asceta e di uno spirituale ad oltranza, che viveva in una solitudine montana degli Abruzzi presso Sulmona, in un sogno di apocalissi gioachimita: Pietro da Morrone.

Già altra volta, nella prima età florida del monachismo occidentale, non era stata cosa inconsueta che un riluttante eremita fosse tratto fuori a forza dalla sua cella per essere collocato, non senza violenza, su un seggio episcopale. Anche il seggio papale aveva conosciuto di queste elevazioni imperative. Gregorio Magno, al tramonto del sesto secolo, non era stato costretto a lasciare la quiete del suo cenobio per essere installato sul trono di Pietro? L'esperimento che si voleva effettuare con la proclamazione di Pietro da Morrone avrebbe voluto ripristinare in pieno secolo decimoterzo la gloria del vecchio Papa degli Anici. Il mondo morale era attraversato da angosciose aspettative apocalittiche che facevano vagheggiare i sogni meno realizzabili. Avrebbe potuto la Chiesa rifiorire mercè il Pontificato di uno spirituale a oltranza, schivo da tutte le pompose fastosità di cui si era venuto ammantando il Pontificato romano nei secoli del suo trionfo medioevale? L'esperimento era troppo audace per non finire in malo modo. La Chiesa curiale era ormai troppo intimamente mescolata alle vicende del secolo per poter far sentire solamente la voce della sua intransigenza ultraterrena. Celestino V si rivelò un ingenuo trastullo nelle mani di Carlo II d'Angiò e il cardinale Benedetto Caetani al suo fianco parve non avesse altro còmpito che quello di spiare il momento per istituire l'atto notarile di rogito della impossibilità per la Chiesa di bandire mai piú in pieno, tuffata com'era ormai nei valori della terra, la spiritualità pura del messaggio evangelico.

La leggenda ha largamente ricamato sui rapporti personali di queste due figure che simboleggiavano l'una di fronte all'altra le due anime conviventi nella Cristianità del Duecento in declino. Ma non occorre davvero fare ricorso alle amplificazioni leggendarie per avvertire tutto quello che di patetico e di suggestivo c'è nello stare a fronte di questi due personaggi. Celestino è il sognatore della nuova palingenesi messianica. L'economia della seconda età, l'economia del Figlio, è in procinto di essere scavalcata e superata dalla nuova economia dello Spirito Santo. Il mondo delle realtà sensibili e dei simboli sacramentali sta per ceder il passo al mondo delle pure realtà carismatiche e dei valori eterni. La Chiesa deve abbandonare una volta per sempre tutto l'armamentario della sua disciplina canonizzata, per fare appello unicamente alla forza interiore della spiritualità e alla fiamma bruciante della rivelazione evangelica. Di fronte al sognatore, il canonista. Benedetto Caetani ha avuto una lunga e insigne carriera ecclesiastica e curiale. Probabilmente ha formato a Parigi la sua perizia giuridica e canonica. Ad ogni modo, il paziente tirocinio nelle mansioni di Curia e nelle missioni diplomatiche ha sviluppato in lui un cosí acuto e pronto senso della funzione diplomatica insurrogabile della Chiesa, da provar fastidio – e questo fastidio piú volte espresse con parole iraconde e irritate – dinanzi a quel vaneggiare di aspettanti l'economia dello Spirito, la cui fede era un aperto oltraggio al magistero visibile e burocratico della Chiesa. La rinuncia di Celestino V, che Dante ha bollato per l'eternità con un verdetto rovente, può essere stata o no suggerita e pazientemente instillata dall'arte raffinata di Benedetto Caetani. Sta di fatto che le grandi palingenesi nello Spirito non vengono mai dagli alti seggi. E la rinuncia riprovevole di Celestino non è quella che questi ha compiuto abdicando al Papato: è quella che egli aveva in anticipo compiuto, abdicando al suo sogno spirituale nel momento di assumere la tiara pontificia.

A buon conto, il Conclave, adunatosi nel Castello Nuovo di Napoli, il 23 dicembre 1294, dieci giorni dopo l'abdicazione di Celestino V, dava, al terzo scrutinio, a ventiquattro ore di distanza, la maggioranza dei voti al sessantenne Benedetto Caetani che, eletto appena, diede inequivocabili segni di voler intraprendere una sua politica energica e personale. Tornato immediatamente a Roma, il Caetani era solennemente consacrato e incoronato col nome di Bonifacio VIII il 23 gennaio 1295. Grande e impressionante figura di Pontefice! Gli spirituali ne misero in dubbio la canonica legittimità. Dante l'ha fulminato col suo rancore politico. Gli storici si sono arrestati perplessi di fronte alla sua imponente figura, incapaci di un verdetto che fosse in pari tempo oggettivo e aderente. In realtà il Pontificato di Bonifacio VIII cade in uno di quei momenti in cui il giudizio sulle persone coinvolge cosí direttamente e cosí profondamente le istituzioni da esse impersonate, che si finisce sempre col far torto all'individuo per estollere l'istituto, o viceversa.

Il Papato era al suo bivio. Sulla base della paradossale filosofia politica che è implicita nei dettati evangelici, esso aveva creato la stupenda armonia dei poteri che caratterizza inconfondibilmente la civiltà cristiana medioevale. Universalista per natura, il cristianesimo non aveva potuto adagiarsi politicamente che su una diarchia ecumenica: Papato ed Impero. A norma dei principi evangelici, come gerente e garante del complesso dei valori spirituali che il Nuovo Testamento aveva designato con la qualifica di Regno di Dio, il Papato avrebbe dovuto tenersi in una gelosa e incontaminata indipendenza da qualsiasi potere empirico. D'altro canto era stato tratto d'istinto a cercare in una inviolabile sovranità territoriale, per quanto angusta, la garanzia e il segno della sua autonomia nello spirito. Era la prima contaminazione. E altre questa ne aveva chiamate. Costretto logicamente a difendere questa minuscola potestà temporale, di cui aveva voluto fare scudo alla propria indipendenza spirituale, aveva cominciato a sentire il gravosissimo impaccio e la insostenibile ambiguità della propria situazione il giorno in cui, sui fianchi del proprio potere territoriale, venne a premere un potere politico e territoriale propinquo, aggregatosi alla universalità della dignità imperiale. Per sottrarsi a questo gravame insopportabile, il Papato aveva invocato principi francesi come suoi alleati e come possibili rivali dei sovrani del Mezzogiorno d'Italia. Quel giorno del gennaio 1266, in cui un Pontefice francese coronava in San Pietro, non piú un imperatore, ma un semplice sovrano del regno siculo, la Curia abdicava implicitamente al carattere ecumenico delle consacrazioni papali per venire automaticamente a patti, e quindi in servitú, con sovranità circoscritte e potestà limitate. E per un singolare, ma non illogico paradosso della soprannaturale dialettica cristiana, abdicando alla universalità il Papato si rendeva mancipio della regalità consacrata. Avignone era già implicita nel gesto consacratore di Clemente IV. Perché Roma sola è universale e la consacrazione di un piccolo re non può essere che per parodia celebrata sotto le vòlte di una basilica romana.

Bonifacio raccoglieva pertanto una eredità oberata e compromessa. Lasciamo stare le contese familiari con i Colonna e le sfortunate vicende dell'intervento papale nelle competizioni con gli Aragonesi per il reame siculo. Quel che rende grande nella storia la figura di Bonifacio VIII è il suo epico conflitto con Filippo IV il Bello e i disperati tentativi da lui compiuti durante questo conflitto per rivendicare la sconfinata universalità della potestà spirituale del Papato. Non che le violente competizioni nobiliari fra Papa Bonifacio VIII e i Colonnesi non si rifrangessero e non destassero ripercussioni su tutto l'orientamento generale del governo ecclesiastico, in un'epoca cosí turbinosamente movimentata come quella in cui si svolge il Pontificato del Caetani. Non per nulla, il giorno 10 maggio 1297, in cui i Colonnesi e con essi Jacopone da Todi risposero a Lunghezza alla deposizione loro decretata da Bonifacio con un manifesto in cui si appellavano al Concilio (prima avvisaglia di quelle polemiche sulla struttura costituzionale interna della Chiesa che alimenteranno lo scisma d'Occidente), essi mandarono copia del proclama a Filippo IV di Francia. Ma sta di fatto che è nel conflitto con Filippo che Bonifacio esprime piú clamorosamente le sopravviventi idealità universali della potestà pontificale. Si direbbe che sia legge costante nella Chiesa che i suoi programmi piú alti abbiano possibilità e logica convenienza di essere enunciati anche quando l'occasione esteriore sembra meno proporzionata. Sarebbe venuto giorno in cui alla grandiosità dei fatti esteriori sarebbe stata irrimediabilmente impari la virtú visiva del Papato romano.

La Francia è in questo momento un potere ragguardevole in Europa. L'abbattimento della nobiltà feudale, la secolare collaborazione tra politica e religiosità cristiana, lo sviluppo crescente della cultura universitaria, avevano dato alla Francia, nel quadro globale della vita europea, una posizione di riconoscibile preminenza. Il lunghissimo regno di Filippo IV doveva imprimere sul posteriore sviluppo della vita francese un'orma non cancellabile. La lunga guerra con l'Inghilterra aveva costretto Filippo a gravose esazioni fiscali. Il clero gallicano non aveva per questo mancato di fare ricorso al Pontefice e Bonifacio rispondeva alle sue rimostranze con la Bolla Clericis Laicos del 25 febbraio 1296. Era la vecchia questione delle investiture che rinasceva, ma solo nel suo aspetto crudamente economico, e circoscritto al territorio di un reame anziché all'universalità del regime imperiale.

Sotto la sanzione della scomunica, che da questo momento comincia a divenire un'arma sempre piú usata ed abusata della Curia romana, Bonifacio vieta cosí agli ecclesiastici di pagare e di promettere contributi alle potestà laiche, come a queste di imporne e di accoglierne, senza espresse ed esplicite autorizzazioni papali. Per ritorsione Filippo IV emanava un'ordinanza con la quale vietava l'esodo dal reame di qualsiasi somma in denaro o di qualsiasi contributo in natura. Era il proposito aperto di vulnerare la Curia di Roma in quella che era la zona piú sensibile e la piú sostanziale del suo regime ecumenico: la zona finanziaria. Il conflitto non ebbe però occasione e modo in quel torno di tempo di giungere al suo piú esasperato epilogo. Le difficoltà della guerra del Vespro in Sicilia, gli imbarazzi propinqui creati dal conflitto con i Colonna, imposero al fierissimo Pontefice resipiscenze e condiscendenze. La Ineffabilis Amor del 20 settembre 1296 temperava l'asprezza dei precedenti divieti. La Romana Mater del febbraio dell'anno successivo autorizzava il clero francese a donazioni volontarie in favore del sovrano e la Etsi de Statu del luglio del medesimo anno sottraeva alle proibizioni formali della Clericis Laicos tutte quelle imposizioni fiscali che le necessità pubbliche avessero suggerito al re. Era in pratica l'annullamento completo della Bolla precedente.

In questa temperie di temporanea bonaccia Bonifacio VIII poteva cosí procedere alla preparazione di quell'anno giubilare del 1300 che, accentrando a Roma il perdono fino allora concesso ai Crociati di ogni genere e da San Francesco, invece, in uno stranissimo modo captato per una visita ad una chiesa vicina, che nella fattispecie era la chiesa della Porziuncola, apriva un nuovo adito a quel complesso sistema delle indulgenze e dei perdoni, che già da tempo ormai era venuto funestamente a pesare su tutto l'andamento della spiritualità e delle comunicazioni carismatiche nell'ambito della Chiesa cattolica.

La politica accorta di Filippo il Bello, tendente a stringere alleanza con Alberto d'Absburgo nella prospettiva di riaffermare la potenza imperiale a danno della politica antiimperiale della Santa Sede; la rincrudita durezza fiscale del re francese di fronte al suo clero; infine la cattura e la condanna per alto tradimento di Bernardo Saisset, vescovo di Pamiers, figura particolarmente cara a Bonifacio; determinavano, durante il corso del 1301, una ripresa dello spirito aggressivo di Bonifacio e delle sue affermazioni sull'intransigente ed ecumenico primato morale e politico del Papato. La Bolla Salvator Mundi del 4 dicembre 1301 e l'Ausculta Fili del 5 dicembre successivo non furono che la preparazione della memoranda Bolla Unam Sanctam, emanata il 18 novembre 1302, con la quale Bonifacio VIII affermava, si potrebbe quasi dire per l'ultima volta, con un forte sentore di anacronismo, la concezione solenne e trascendente del Pontificato medioevale.

Abbiamo detto con un certo sentore di anacronismo. E dobbiamo spiegare il significato di questa frase. Si suol dire infatti che l'anacronismo dell'Unam Sanctam è dato dalla sproporzione esistente ed evidente fra le altissime affermazioni di Bonifacio VIII sulla universalità e sovranità dell'autorità pontificale al cospetto di tutti i potentati della terra da una parte, e la reale consistenza dei poteri pontificali in Europa dall'altra, in un momento in cui la ecumenicità pontificale, quale aveva avuto all'epoca di Innocenzo III la sua epifania veramente grandiosa, tradiva con chiarissimi segni il suo fatale e irreparabile logoramento. Ma diremmo quasi che questa sproporzione anacronistica è cosa del tutto esteriore e formale. Il vero anacronismo delle affermazioni fiere e superbe della Unam Sanctam di Bonifacio VIII è costituito da un contrasto ben piú profondo e sostanziale tra queste affermazioni teocratiche del Pontefice di casa Caetani e l'impalcatura dottrinale che esse presuppongono alla loro base.

Pochi mesi prima della emanazione dell'Unam Sanctam, e precisamente nel concistoro del 24 giugno 1302, ambasciatori francesi venuti a Roma a comunicare le decisioni della Dieta convocata a Parigi da Filippo il Bello e pronunciatasi in favore del sovrano, Matteo di Acquasparta e Bonifacio VIII stesso avevano proclamato la divisione dei poteri, come esplicito ordinamento di Dio, che presupponeva la sudditanza assoluta e totalitaria di tutta la comunità credente al Pontefice, «ratione peccati», vale a dire a causa del corrompimento iniziale della massa umana, in séguito alla colpa d'origine. Ma quando cosí, a mezzo il 1302, la Curia, ufficialmente e canonicamente convocata, faceva appello alla vecchia dottrina paolina della colpa d'origine e della sua contaminante trasmissione per giustificare l'universale sudditanza degli uomini al Pontificato, una vera sproporzione si era già delineata fra la integrità tradizionale della dottrina agostiniana della colpa d'origine e la visione ufficiale della teologia cattolica circa il male nel mondo e la sua inflessibile legge.

Il Papato, al cospetto delle usurpazioni e della rivendicata autonomia di un potere politico nazionale e regale di Filippo il Bello, riaffermava la insindacabilità e la superiorità dei propri poteri e la necessità di subordinare ogni potere alle regole dello Spirito, a causa appunto della funzionale perversità umana, frutto del peccato di origine. Ma un'osservazione anche superficiale dimostra palesemente come noi fossimo ormai sensibilmente lontani da quella visione squisitamente e irriducibilmente dualistica, e da quella prassi politica che aveva retto la grande organizzazione sociale e politica del Medioevo, autentica e inconfondibile creazione dello spirito evangelico nel mondo. Il dualismo antropologico e storico da cui era partito Sant'Agostino per enunciare e lanciare la sociologia di cui è impregnato il De Civitate Dei, aveva presupposto una netta distinzione fra l'opera di Dio e l'opera del peccato, cioè di Satana, nel mondo. Aveva immaginato la coesistenza di due città attraverso il corso empirico della storia umana, in vista di una finale reintegrazione nel bene. In questa profonda consapevolezza della duplicità degli elementi, nella cui dialettica invalicabile si celebra e si concreta il dramma della storia, era completamente superflua una rivendicazione esplicita della superiorità della città spirituale sulla città degli interessi empirici. Era parimenti completamente superflua qualsiasi rivendicazione della subordinazione di tutti i poteri statali ai poteri della Chiesa, di cui il Pontificato romano appariva l'espressione suprema e indefettibile. Queste non erano che conseguenze di un presupposto dualistico praticamente e intensamente vissuto. La necessità di simili rivendicazioni nasceva proprio dal fatto che nella coscienza pubblica e comune della comunità cristiana si era affievolito il senso dualistico, su cui si era innalzata e basata l'impalcatura grandiosa della sociologia agostiniana.

È strano osservare che, rivendicando la subordinazione di tutti i poteri politici ai poteri spirituali della Chiesa in nome e a causa del peccato corrodente le viscere stesse dell'umanità, Bonifacio VIII non faceva che affermare un principio che noi ritroveremo nelle dottrine politiche di Calvino. La realtà è che ci sono stati d'animo generali di una società religiosa che valgono, per la disciplina della vita collettiva, molto piú che qualsiasi solenne assioma teologale e qualsiasi perentoria definizione curiale. Sono stati d'animo determinati da complessi psicologici basati su sensazioni vaghe, ma profonde, di quella che è la sacralità dei grandi fatti umani: l'amore, il dolore, il rimorso, la morte; annebbiandosi i quali e ottundendosi, cedono il posto a proclamazioni teoretiche in cui l'anacronismo è palese per il fatto stesso che vengono, tarde e postume, quando la cambiata temperie spirituale ne rende vano il suono e nulla la efficienza.

Proclamava Bonifacio VIII nella sua Unam Sanctam: «Sotto la pressione della fede noi siamo tenuti a ritenere che la Chiesa è una, santa, cattolica, apostolica. E noi fermamente lo crediamo e con semplicità lo confessiamo.

Al di fuori di questa Chiesa non c'è né salvezza né remissione dei peccati, perché ha proclamato lo Sposo nel Cantico dei Cantici: – Una è la mia colomba, una è la mia perfetta, una è la creatura della sua madre, l'eletta della sua genitrice. – E questa rappresenta un solo corpo mistico, di cui è capo Cristo, mentre di Cristo lo è Dio. E in questa Chiesa uno è il Signore, una è la fede, uno è il battesimo. Cosí, al tempo del diluvio, unica fu l'arca di Noè, prefigurante l'unica Chiesa, la quale tutta conchiusa in un cubito, un solo governatore ebbe e rettore, vale a dire Noè. Fuori di questa arca tutte le cose sussistenti sopra la terra noi leggiamo che furono distrutte. Questa unica Chiesa noi veneriamo, proclamando il Signore nel profeta: – Sottrai, o Dio, dal precipizio l'anima mia e dal morso del cane la mia tunica. – Per l'anima, infatti, vale a dire per se stesso, pregò, per il capo e per il corpo, ché corpo nominò l'unica sua Chiesa, data l'unità dello Sposo, della fede, dei Sacramenti, della carità ecclesiastica. Questa è quella tale tunica inconsutile del Signore che non fu lacerata, ma tratta a sorte. Per cui uno solo è il corpo della Chiesa una ed unica, un solo capo, non due capi, quasi la Chiesa fosse un essere mostruoso. Cristo cioè e il Vicario di Cristo, Pietro, e il successore di Pietro, di quel Pietro a cui il Signore disse: – Pasci le mie pecore. – Le mie, disse, e non parlò genericamente e non designò singolarmente questo o quello, per cui dobbiamo intendere che egli volesse additare come affidate a lui tutte. Fatuamente quindi i Greci od altri dicono di non essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori. Confessino piuttosto di non appartenere al novero delle pecore di Cristo, poiché ha detto il Signore nel Vangelo di Giovanni: – Uno è l'ovile e unico è il pastore. – In questa potestà dunque del medesimo, noi siamo edotti dalla parola evangelica esistere due spade, la spirituale cioè e la temporale. Poiché quando gli Apostoli dissero: – Ci sono qui due spade – (vale a dire nella Chiesa perché erano gli Apostoli che parlavano) non rispose il Signore che due fossero troppe, ma disse semplicemente che erano sufficienti. Indubbiamente pertanto, quei che negasse essere nella potestà di Pietro la spada temporale, mal comprende la parola del Signore quando dice: – Riponi la tua spada nel fodero. – Entrambe dunque le spade, la spirituale e quella materiale, sono nella potestà della Chiesa. La spirituale, adoperabile dalla Chiesa, la materiale, adoperabile in suo favore. La spirituale nella mano del sacerdote, la temporale nella mano del re e dell'esercito, ma al cenno e alla sopportazione del sacerdote. È pertanto necessario che una spada sia soggetta all'altra e l'autorità temporale sia sottoposta alla potestà spirituale. Poiché dicendo l'Apostolo: – Non essere potestà che non derivi da Dio, e le potestà esistenti son tutte ordinate da Dio, – e potendo noi arguire che non potrebbero dirsi ordinate se una spada non fosse subordinata all'altra, se ne deve concludere che la inferiore deve essere riportata, attraverso la superiore, alla suprema. Secondo Dionigi, è legge divina che le cose infime siano riportate alle supreme attraverso le mediane. A norma pertanto dell'ordine universale non tutte le cose indistintamente e immediatamente sono ridotte a conformità alla norma, bensí le infime in virtú delle medie e le inferiori in virtú delle superiori. È necessario pertanto che noi tanto piú chiaramente confessiamo la potestà spirituale e per dignità e per nobiltà eccellere sopra qualsiasi potestà terrena, quanto riconosciamo superiori le realtà spirituali alle realtà temporali... Sicché, qualora la potestà terrena esca dal suo legittimo cammino e devii, sarà naturalmente giudicata dalla potestà spirituale. Qualora devii la potestà spirituale minore, essa sarà giudicata dalla sua superiore. Qualora poi devii la potestà suprema, questa non potrà essere giudicata da uomini, ma solamente da Dio, a norma del verdetto dell'Apostolo: – L'uomo spirituale giudica tutte le cose mentre da nessuno può venir giudicato. – E questa tale autorità suprema, anche se sia data ad uomo e sia esercitata da uomo, non è umana, bensí divina, dalle labbra divine affidata a Pietro, confermata in lui e nei suoi successori come basata su quella pietra che egli Pietro riconobbe e proclamò. Chiunque pertanto resista a questa potestà da Dio cosí mirabilmente predisposta, resiste all'ordine di Dio, a meno che, come Mani, non concepisca due principî, il che noi pensiamo falso ed eretico. Poiché su testimonianza di Mosè non sulla base di due principî, ma di un solo principio, Dio creò il cielo e la terra. In conclusione dunque dichiariamo e proclamiamo essere assolutamente necessario alla salvezza sottostare al romano Pontefice».

Quell'accenno alla dottrina manichea come ad una ipotetica giustificazione teorica della dualità e della reciproca autonomia dei poteri spirituali e politici nel mondo, concepiti come due parallele destinate a non incontrarsi mai, è veramente una di quelle argomentazioni capziose la cui presenza dà uno stranissimo sapore alla Bolla solenne proclamante, nel momento stesso in cui il potere pontificio cominciava a subire le prime corrosioni, l'accentramento universale, diretto e indiretto, dei poteri umani nelle mani del Pontefice romano. Si sarebbe potuto piú che logicamente obiettare che era appunto quella forma di mal celato e di appena mascherato dualismo manicheo, da Sant'Agostino riaffermato nella polemica antipelagiana e nella conseguente sociologia del De Civitate Dei, che aveva mantenuto la sovrana ed invulnerabile superiorità dei poteri spirituali nei primi e costitutivi secoli del Medioevo. Si sarebbe potuto soggiungere che era appunto il logoramento di quella visione dualistica dell'universo che induceva ora, mentre la superiorità dei poteri spirituali su quelli politici cominciava ad essere discussa e manomessa, a riaffermare la superiorità dello spirituale su quello politico. Le istituzioni storiche vivono molto piú di impalpabili orientamenti collettivi di spiriti, che di formulazioni giuridiche e teologiche canonizzate. Ora che dopo la teologia di Sant'Anselmo, e molto piú dopo quella di San Tommaso, la nozione del male aveva perduto tanto della sua drammatica forza e il senso tragico da cui era stata in origine pervasa l'esperienza cristiana si era cosí affievolito, era molto piú difficile salvare la concezione della inconguagliabile superiorità della città di Dio sulla città del mondo; e si apriva sempre piú il varco a quella laicizzazione e profanizzazione dei valori della vita, che sempre consegue all'indebolita coscienza della superiore e carismatica natura degli interessi a cui è legato il destino degli uomini e del mondo.

Bonifacio VIII poteva, nel suo senso vigile di responsabilità pontifìcale, proclamare alti i vecchi principi papali e poteva lanciare scomuniche contro il recalcitrante Filippo il Bello. I profondi dissensi che avevano lacerato la vita ecclesiastica per tutto il secolo decimoterzo fra le aspirazioni degli spirituali e le oramai strettamente diplomatiche esigenze della Curia, offrivano il destro al re francese di lanciare contro il Pontefice romano le piú basse ed infamanti accuse. Bonifacio VIII non vide Filippo il Bello prostrato dinanzi a sé come Enrico IV a Canossa dinanzi a Gregorio VII. Piuttosto gli emissari di Filippo, in combutta con gli avversari papali di casa Colonna e dell'alta nobiltà della campagna, invida e gelosa di casa Caetani, scesero ad Anagni il 7 settembre 1303 esercitando sulla persona del vecchio e fiero Pontefice la piú brutale delle violenze. Cosa avrà pensato in quei giorni tragici il Pontefice di casa Caetani che aveva creduto, sostituendosi allo spirituale Celestino V, di poter affidare le sorti della Chiesa e del Papato unicamente alle arti della politica e alle accortezze della diplomazia? Il suo disinganno fu amarissimo. Rientrato a Roma da Anagni, Bonifacio VIII vi moriva l'11 ottobre 1303.

Ma il Papato doveva subire affronti ben piú gravi, perché meno personali. Al posto di Bonifacio VIII fu eletto un domenicano, il cardinale Boccasini. La situazione era talmente tragica che occorreva indeclinabilmente correre ai ripari. Con una Bolla del 12 maggio 1304 il nuovo Papa, Benedetto XI, annullava gli ultimi atti di Bonifacio in vista di una riconciliazione con la Francia. Il Papato si avviava verso la sua prigionia avignonese.

Morto nel luglio del 1304 il mite Pontefice Benedetto XI, il Conclave che si apriva a Perugia subito aveva dinanzi a sé un còmpito reso tanto piú difficile dalla divisione profonda esistente nel Sacro Collegio. La politica di Bonifacio VIII doveva essere proprio ripudiata e condannata senza mercè? O si doveva persistere nella intransigenza di Papa Caetani al cospetto di Filippo il Bello, ora specialmente che la prepotente invadenza del re francese aveva arrecato cosí duro affronto alla dignità pontificale? Si può facilmente immaginare quali vaste e sottili pressioni fossero esercitate sui cardinali. Filippo il Bello in particolare aveva tutto l'interesse perché la nuova nomina papale alleggerisse la situazione tesissima stabilitasi durante il Pontificato di Bonifacio VIII fra il reame e la Curia romana.

Il prescelto fu Bertrando de Goth, un guascone che per ragione della sua dignità di vescovo di Bordeaux era suddito inglese, ma di riconosciuti sentimenti di simpatia per il sovrano francese. Era dunque l'uomo meglio adatto a risanare con una condiscendenza diplomatica, che si pensava potesse non essere troppo spinta, una situazione politico-religiosa difficile e carica di incognite. Il neo-eletto assunse il nome di Clemente V e decise che la sua incoronazione sarebbe avvenuta a Vienna nel Delfinato. Era già questo un segno della sua decisione di scegliere la residenza oltre Alpi? Vienna non era in quel momento soggetta al re di Francia: rientrava invece nella zona giurisdizionale dell'Impero, come situata in quell'eccentrico residuo dell'età carolingica che era il regno di Arles e di Borgogna, il quale appunto durante il secolo XIV si scinde dall'organismo imperiale per entrare a far parte del territorio francese. In realtà la incoronazione non si tenne neppure a Vienna, bensí a Lione il 14 novembre del 1305. Il re francese vi assistette di persona. Il Sacro Collegio dovette tutto trovarsi colà per l'incoronazione, e in questo viaggio dei cardinali fu il segno simbolico del trasmigrare della sede papale nel rifugio di Avignone dove però la Curia papale non si fermò prima del 1309, nel minuscolo territorio che la Chiesa possedeva in Provenza, sotto l'alta dominazione imperiale, territorio però infeudato agli Angioini di Napoli.

Si iniziava cosí la cosiddetta cattività avignonese. Per circa un settantennio sette Pontefici, tutti francesi, avrebbero risieduto pressoché senza interruzione in Francia, orbando Roma di quella residenza papale che aveva potuto subire momentanee interruzioni, mai aveva subìto una sospensione di tale durata e di tale significato. Non occorre qui trattare per disteso delle conseguenze politiche, morali e spirituali di questo nuovissimo fatto nella storia del Pontificato romano. Proclamatisi i vescovi romani, fin dall'epoca di Papa Callisto, successori di Pietro, e investiti della sua dignità carismatica secondo le memorabili parole legate sempre da quel tempo al riconoscimento fatto da Pietro della messianità di Gesù nel territorio di Cesarea di Filippo; stabilito indissolubilmente un rapporto capitale fra la venuta di Pietro a Roma e la dignità primaziale dell'Urbe; fatto del vescovado romano il centro e la norma assoluta della disciplina ecumenica del cattolicesimo; si comprende come un trapiantamento diuturno della Sede papale in terra di Francia dovesse sortire conseguenze di altissimo rilievo.

Quale valutazione dare di questo periodo nel quadro della storia del Papato? Rappresentò il soggiorno in Avignone una battuta d'arresto, una pagina oscura, una deviazione di tale storia, oppure fu esso un evento provvidenziale che salvò in certo modo il Papato, sottraendolo agli arbitrî della popolazione di Roma e dei potentati italiani, e gli permise di compiere, nella tranquillità d'un sicuro rifugio, la sua evoluzione storica di Stato temporale, e di perfezionare la propria organizzazione, per cui, partito da Roma ancora tutto nell'indeterminatezza di contorni di una potenza universalistica, vi farà ritorno come organismo statale ben definito e differenziato? Noi non crediamo affatto che rientri nella linea storica, che ci siamo proposti di seguire in questa trattazione, indugiarci sul significato politico territoriale della settantennale residenza del Pontificato ad Avignone.

Quanto la spiritualità italiana abbia sofferto di questo allontanamento, è ben risaputo. Attraverso quali laboriose vicende siano passati la città di Roma e il suo territorio durante questo burrascoso periodo, e quanto ansiosamente anime di poeti ed anime di Santi, dal Petrarca a Santa Caterina, attraverso il sogno mirabolante di Cola di Rienzo, abbiano vagheggiato il ritorno del Pontificato e la restituzione a Roma della sua dignità pontificale, è ben risaputo. Noi reputiamo piuttosto in armonia con i propositi pregiudiziali e con i criteri direttivi che hanno guidato fin qui e vogliono continuare a guidare la nostra trattazione, porre l'accento su quelle decisioni del Papato avignonese che veramente hanno sortito conseguenze di universale portata in tutto l'orientamento posteriore del pensiero e della disciplina nella società cristiana organizzata. Dobbiamo ricordare cosí innanzi tutto la condanna e la soppressione dei Templari, decretate al sinodo di Vienna del 1311, di quell'Ordine dei Templari che, sorto nella prima metà del secolo duodecimo col proposito di fiancheggiare a mano armata la riuscita e la salvaguardia della impresa crociata, aveva rappresentato una cosí eccentrica fusione di spirito militare e di ascetismo monastico. I Templari erano cresciuti in imponente forza finanziaria e militare, ed erano elementi che dovevano rappresentare, in quell'alba del secolo decimoquarto che segnava in Europa il delinearsi sempre piú netto delle unità nazionali, un fattore di disgregazione e di pressione a cui un sovrano come Filippo il Bello non avrebbe saputo acconciarsi. Fu lui a volere la condanna dell'Ordine inviso, e il Papa gliela concesse.

Ma è il successore di Clemente V, Giovanni XXII, il caorsino cosí violentemente bollato da Dante, che porta al cospetto della storia cristiana la responsabilità di provvedimenti decisivi dal punto di vista di quell'alta cultura religiosa che è in sostanza la norma del vivere cristiano aggregato. Se nel 1323 Giovanni XXII procede alla canonizzazione di Tommaso d'Aquino, non bisogna mai separare questo atto solenne da quello che lo seguí sette anni dopo.

È stato di recente autorevolmente riconosciuto che la filosofia idealistica germanica del secolo decimonono incipiente ha avuto le sue prime, ma autentiche origini nella filosofia del domenicano tedesco allievo di San Tommaso, Maestro Eckehart. Ora il medesimo Papa che ha canonizzato San Tommaso ha condannato il suo discepolo. Ma quali sono veramente i rapporti fra l'insegnamento dell'uno e le idee dell'altro?

Il 27 marzo 1329, con la Bolla In agro dominico, Giovanni XXII condannava ventotto proposizioni del domenicano Maestro Eccardo, diciassette come apertamente eretiche, le rimanenti come temerarie e sospette di eresia. Fra le eretiche, erano annoverate le seguenti: « Dio non poté produrre il mondo, prima dell'istante in cui lo fece: onde, non appena fu, Dio immediatamente creò il mondo. Per questo si può concedere che il mondo è stato creato dall'eternità... In ogni atto, anche malvagio, malvagio cosí in ragione della pena come in ragione della colpa, si rivela e riluce ugualmente la gloria di Dio... Anche bestemmiandolo, Dio lo si loda. Chi implora da Dio una grazia, chiede malamente il male, perché non fa altro che chiedere il rinnegamento del bene e di Dio. Dio è eccellentemente onorato in coloro che non cercano sostanze, onori, utilità, devozione interna, santità, premi, Regno dei Cieli, che invece rinunciarono a tutto, anche a quello che è di Dio... Noi siamo integralmente trasformati e convertiti in Dio, a simiglianza di quel che avviene nel Sacramento, dove il pane si converte nel corpo di Cristo... Tutto ciò che Dio Padre elargí al proprio Figlio nella natura umana, diede anche a me, senza far eccezione per l'unione o per la santità... Tutto quel che la Scrittura dice del Cristo, vale anche per ogni individuo buono e divino. Tutto ciò che è proprio della natura divina, è proprio anche dell'uomo giusto e divino. Un tale uomo opera tutto che Dio opera, creando con Lui il cielo e la terra, generando il Verbo eterno, sí che senza un tale individuo Iddio non avrebbe saputo che fare. L'uomo pio deve conformare la propria volontà a quella divina, sí da volere tutto ciò che Dio vuole; e dappoiché Dio ha voluto in qualche modo che io peccassi, io non vorrei non aver peccato: qui anzi la vera penitenza. Qualora un uomo abbia commesso sia pur mille peccati mortali, se egli è piamente disposto, non può volere di non averli commessi... V'è qualcosa nell'anima umana di increato e di increabile: se tutta fosse cosí, sarebbe tutta increata ed increabile».

Fra le proposizioni temerarie figuravano le seguenti: «Dio propriamente non comanda atti esteriori... Fruttifichiamo, non già atti esterni, incapaci di farci buoni, ma atti interni, operati dal Padre che ospita in noi... L'uomo pio è l'unigenito figlio di Dio... Dio è uno in tutti i modi e secondo ogni punto di vista, sicché sia impossibile rinvenire in Lui una qualsiasi molteplicità concettuale e extra-concettuale. Perché chi scorge una dualità o una distinzione, non vede piú Iddio. Perché in Dio non può sussistere o scorgersi alcuna distinzione... Quando è detto: – Simone, mi ami piú di costoro? – (Jo. XXI, 15, ss.) si vuol dire: mi ami piú che tu non ami costoro, ed è detto bene, ma non perfettamente. Perché là dove c'è un primo e un secondo, piú o meno, c'è graduatoria e c'è un ordine, ma dove c'è l'uno solo, non c'è graduatoria né ordine. Chi adunque ama Dio piú del prossimo suo, è nel bene, ma non ancora nella perfezione. Le creature tutte sono un puro nulla; e si badi che non dico già che siano un qualcosa, comunque esigua; no: dico che sono un puro nulla».

Eccardo era premorto alla condanna pontificia. Ma già due anni innanzi, il 13 febbraio 1327, in pieno svolgimento del processo canonico imbastito contro di lui, egli, dall'alto del pergamo del duomo di Colonia, aveva, alla presenza di un notaio, rivendicato la propria ortodossia, professandosi pronto a chiarire, a correggere, a disdire perfino, tutte le enunciazioni che avessero offerto il fianco a una riprensione ecclesiastica. In verità uno sconcertante contrasto si delinea fra il contegno umile del monaco, docile alla disciplina e fedele alla vocazione religiosa, e le audaci e rudi affermazioni condannate nella Bolla di Giovanni XXII. Il contrasto non sembra agevolmente sanabile: risulta anzi piú grave e piú singolare quando, per risolverlo, ci si avvicini alle opere superstiti del contemplativo, per chiedere ad esse una indicazione sicura sulla sua genuina posizione dogmatica. E probabilmente il problema oscuro che questo predicatore di comunità religiose e questo sottile speculativo, il cui lessico ha fornito alla filosofia tedesca la terminologia piú felice, si è portato con sé nella tomba, non può essere risolto mercè un appello unilaterale all'una o all'altra delle serie dei suoi scritti superstiti, i latini e accademici o i volgari e predicabili, bensí mercè la sua esperienza e gli orientamenti che si incontrarono e si fusero attraverso il calore del suo temperamento.

Nato a Hochheim in Turingia da cospicua famiglia verso il 1260, Eckehart era entrato, giovane, nell'Ordine di San Domenico, l'Ordine recente che per la qualità della sua vocazione intellettuale, per l'indirizzo della sua attività pubblica, sembrava riscuotere le simpatie piú fervide delle classi elevate. Dopo aver percorso tutto il curriculum degli studi nell'Ordine, i due anni di studium logicale, i due anni di studium naturale, il periodo di tirocinio teologico nello studium provinciale a Strasburgo, Eckehart fu consacrato sacerdote e, in vista delle sue rimarchevoli qualità, inviato allo studium generale di Colonia. Doveva toccare la quarantina quando lo troviamo priore ad Erfurt e vicario della Turingia. Un documento del 1302 ce lo mostra licenziato in teologia a Parigi; donde passava provinciale in Sassonia: di qui vicario generale in Boemia. Tornava poi a Parigi, a conchiudere probabilmente la sua formazione teologica, e si stabiliva a Strasburgo, dove, per un ciclo indeterminato di anni, svolgeva la sua opera di predicatore in seno alle comunità religiose, maschili e femminili, del suo Ordine.

Il meglio della sua produzione, cosí oratoria come teologica, va assegnato a quel tempo. Fra tutte le città religiose della Germania, Strasburgo, in quel momento, era ai fastigi del fervore e dell'emulazione. Maestro Eckehart predicava di frequente nei conventi femminili. Ne troviamo la prova nel poema di una suora domenicana, che celebra i meriti di tre predicatori: il primo, «il prezioso lettore», non è designato a nome; il secondo è Maestro Dietrich, «l'alto maestro», che vuole rivelarci il volo dell'aquila, tuffar l'anima nel fondo senza fondo; il terzo infine è il saggio Maestro Eckehart: «Il quale vuoi parlare del nulla: chi non lo comprende, non è stato mai visitato dalla luce divina. Egli predica la dottrina dell'annientamento, della vita nell'increato, della perdita di se stessi, della realtà assoluta dell'essere e della contemplazione che si smarrisce in essa». Non sembra che la predicazione di Eckehart provocasse censure a Strasburgo. A Colonia, dove egli si trasferisce in epoca indeterminata, la situazione cambia. Nel 1326 l'arcivescovo della città iniziava un procedimento disciplinare contro di lui. L'Ordine sembrò voler fin dagli inizi estinguere l'incipiente scandalo. Il visitatore Nicola di Strasburgo, la cui competenza di fatto non avrebbe potuto estendersi a tanto, cercò di sottrarre la cosa alla giurisdizione vescovile, appellandosi alla Santa Sede. Maestro Eckehart dal canto suo spiegava dal pergamo in senso ortodosso le proposizioni che gli venivano incriminate. Ma l'appello era, in termini aspri e grossolani, respinto dai giudici e dagli accusatori. La sentenza, di condanna, doveva venire ugualmente dalla Curia: ma non doveva trovar piú Eckehart fra i viventi.

Quando, appena venticinquenne, Eckehart era stato mandato la prima volta allo studium di Colonia; e quando, una dozzina d'anni piú tardi, era passato al corso di perfezionamento teologico a Parigi, la Mecca della vita intellettuale del tempo, Tommaso d'Aquino si era spento solo da pochissimi lustri nel cenobio cistercense di Fossanova. Per una di quelle singolari coincidenze della storia che sembrano voler simboleggiare, abbinando uomini e orientamenti disparati, il superamento progressivo delle forme in cui si esplica la spiritualità associata, quegli al quale la dialettica e la metafisica aristoteliche dovevano la piú ardita consacrazione, era venuto a chiudere i suoi giorni all'ombra protettrice di colui che alla penetrazione di Aristotele nella teologia cristiana aveva opposto la piú fiera resistenza. Nelle scuole teologiche le Sentenze di Pier Lombardo rappresentavano ancora il testo ufficiale. Ma è lecito supporre che, a Colonia specialmente, l'insegnamento di Alberto Magno e dell'Aquinate dovesse aver lasciato tracce profonde. Le giovani reclute dell'Ordine domenicano dovevano essere soprattutto orgogliose di battere le orme dei primi maestri propri, che in quell'ardente crogiuolo di tendenze e di concezioni, in cui si veniva fondendo la nuova teologia ufficiale, qual è la vita universitaria del secolo decimoterzo, avevano gettato il metallo della loro sintesi personale.

Chi, come il Denifle, si dà a credere di poter rivendicare l'ortodossia di Maestro Eckehart solo perché l'insegnamento teologico affidato all'opus tripartitum trova i suoi spunti nella speculazione delle Summae tomistiche e ha l'andatura di una disquisizione scolastica, dimentica che il pensiero stesso dell'Angelico è saturo di elementi extraconcettuali, tenuti a freno da una intelligenza geometrica d'eccezione, e non tiene conto del fatto che questi elementi, filtrati in un'anima non altrettanto bene equipaggiata in fatto di capacità dialetticamente disciplinatrici, dovevano automaticamente sboccare in una raffigurazione del divino e dei suoi rapporti con l'umano, ambigua e arrischiata.

La speculazione filosofica di Eckehart sembra prendere lo spunto da una capitale Quaestio tomistica. Nel prologo all'opus tripartitum egli premette, «ad evidentiam dicendorum»: «lo stesso essere e tutto ciò che con esso appare convertibile, sopravvengono alle cose come dati posteriori, che al contrario sono anteriori a tutta la realtà. L'essere infatti non tollera di essere in qualcosa, o di essere da qualcosa, né in virtu di qualcosa, né sopravviene su qualcosa. È un prius al cospetto di tutte le realtà. Per cui l'essere di tutte le realtà è immediatamente dalla causa prima e dalla causa universale. Dall'essere, mediante l'essere e nell'essere sono quindi tutte le cose. L'essere invece non è in altro né ad altro, perché l'altro dall'essere è il nulla. E l'essere è, per le cose, l'atto, la perfezione, l'attualità di tutto, anche delle forme». Considerato cosí nella sua essenza «innaturata» l'essere non ha misura nel tempo: ha una sola misura, la smisurata eternità. È Dio.

Fu qui la pietra d'inciampo per Eckehart. Egli si professava creazionista. Ma spingendo l'atto della creazione alle origini stesse dell'essere, che è Dio, finiva col sopprimere ogni barriera fra l'Assoluto e il condizionato, e abbinava le azioni ad intra di Dio e i misteri della sua esistenza ipostatica, col processo del divenire nell'universo. E ansioso di ricongiungere lo spirito finito con lo spirito infinito – anzi, trascinato prevalentemente da questo suo innato bisogno – dimenticava che fra l'uno e l'altro c'era stato, prima, l'abisso del nulla, e poi la barriera del peccato.

È nelle opere predicabili che questa latente esigenza del suo pensiero e della sua dialettica, trapelante appena di su le enunciazioni secche e geometriche dell'opus tripartitum, si spiega e si afferma trionfalmente. Dinanzi al suo uditorio affezionato, Eckehart effonde senza reticenze e senza limitazioni il sentimento profondo della comunanza ineffabile fra il divino e l'umano. Sgombro di preoccupazioni scolastiche e metafisiche, dominato da intenti edificativi, egli non pone piú freni alla celebrazione del connubio, che l'anima celebra con Dio negli strati piú profondi della sua intimità vivente.

L'essere, di cui Eckehart ha nelle opere latine esaltato il carattere divino, anzi la divinità propria e reale, è l'essere assolutamente indeterminato, il nulla quindi di ogni singola specificazione, il superamento di ogni individuazione accidentale, l'assoluta e trascendente possibilità di comunicazione dell'essere. Con una distinzione che ricorda da presso Gilberto de la Porrée, ma che probabilmente è una pura coincidenza col suo presupposto, Eckehart parla della divinità, come della realtà «che racchiude in sé l'energia del tutto e la forza delle tre persone nella sua misteriosa semplicità». La natura innaturata rassomiglia ad un deserto silenzioso, che nessuna traccia di movimento lacera o interrompe: un sonno tenebroso, che sarà rotto unicamente dal pullulare delle forme, nella moltiplicazione delle ipostasi prima (un prima puramente ideale, s'intende), nella disseminazione dell'essere cosmico poi, attraverso il rifrangersi di successive immaginazioni trascendentali.

San Tommaso aveva invocato, a dilucidazione del mistero trinitario, il fatto conoscitivo e la generazione del Logos mentale. Eckehart lo prende in parola. Le persone divine rappresentano i movimenti essenziali della conoscenza: ma poiché non è lecito scoprire in Dio una molteplicità di processi conoscitivi, l'universo non si distingue dalla realtà dei tipi, che nel Verbo prefigurano le esistenze finite. Onde, se il mondo è in movimento, ciò è dovuto all'illusione ed al fantasma. C'è un vincolo di quiete e di pacificazione nel tutto: Dio, che è amore di sé, nella serie delle sue espressioni.

La mediazione di Dio con se stesso, del Nulla trascendentale con la molteplicità delle sue forme, è esercitata dall'anima. Come Dio, essa è nulla e tutto, silenzio e rumore, impassibilità e passione, quiete e movimento, eternità e tempo. «Esiste una forza nell'anima; piú che una forza, anzi: un essere; piú che un essere, anzi: qualcosa che libera l'essere; qualcosa di cosí puro, di cosí alto, di cosí nobile in sé, che nessuna creatura può giungervi, e solo Dio può dimorarvi. Anzi, Dio stesso non può attingerla in quanto ha una forma; bensí solo in quanto è semplice natura divina». Ché il fondo dell'anima tocca e s'immedesima con Dio stesso. E come Dio, l'anima si ripercuote nelle mille possibilità delle sue attitudini e delle sue energie. Il suo fondo spirituale è il grembo della generazione divina. La sua ragione è la stessa luce divina, la scintilla increata, dove brilla l'immagine di tutte le creature, senza piú immagine e al di là di ogni immagine.

Il suo intelletto è la capacità universalizzatrice, che genera le idee. I sensi offrono il materiale grezzo all'intendimento. Onde tutte le capacità dell'anima possono ripartirsi in due fasci, diversamente orientati. Ché «l'anima ha due volti: l'uno rivolto verso il mondo e verso il corpo, l'altro verso Dio».

Il tirocinio spirituale consiste tutto nell'educare l'anima a ritrarsi sempre piú e sempre meglio verso le scaturigini supreme della sua beatitudine, nel nulla di Dio. Perché essa è dovunque sono il suo desiderio e il suo amore, la pedagogia spirituale spingerà l'anima a ricercare, nella contemplazione, l'unità del suo essere e l'immaterialità della sua genesi. Dio si dà all'anima che gli si abbandona.

L'esortazione morale alla Gelassenheit raggiunge in alcune prediche di Eckehart un'altezza lirica impareggiabile. Ed è in queste prediche, a non dubitarne, che il maestro di Strasburgo ha rivelato la ragione prima della sua mistica e lo schema primordiale della sua speculazione. Le quattro prediche sulla Natività sono indubbiamente fra le sue piú significative. Traendo lo spunto dalla commemorazione natalizia, Eckehart disegna il dramma mirabile della generazione del Verbo eterno nello spirito. L'incarnazione del Cristo sembra smarrire nella sua riflessione mistica il realismo soteriologico di cui è impregnata la cristologia del pensiero patristico, per svaporare in una pura rappresentazione simbolica della eterna generazione del Verbo nell'anima contemplante.

«Noi commemoriamo oggi quella nascita eterna che Dio Padre ha compiuto e senza interruzione nella eternità compie, e in pari tempo il fatto che questa nascita si è compiuta anche nel tempo, nella natura umana. Sant'Agostino dice che simile nascita avviene in permanenza. Ma se non avviene in me, che cosa mi giova ciò? Tutto sta che essa avvenga in me. Per questo vogliam parlare ora del come tale nascita accade in noi o del come si compie in un'anima buona, del come cioé e del dove nell'anima perfetta Dio Padre esprime la sua eterna parola. Perché quel che io dico ora si deve intendere di un uomo perfetto, il quale ha marciato e tuttora marcia sulle vie del Signore, e non già di un uomo naturale e primitivo: poiché un cotale è ancora lontano dalla nascita e non ne comprende nulla. Scrive la Sapienza: – Mentre tutte le cose erano sprofondate nel silenzio, scese dall'alto, in me, dall'eccelso trono del Re, una segreta parola. – La mia predica deve trattare di questa parola. Si deve ora riflettere a tre cose: in qual parte dell'anima Dio Padre pronuncia la sua parola, qual è la culla di questa nascita ineffabile, qual è la sede acconcia al compimento di opera sí mirabile. Si deve trattare della zona piú pura, piú nobile e piú preziosa che l'anima possa offrire. Perché, in verità, se Dio Padre nella sua onnipotenza avesse potuto dare all'anima, in virtú della sua natura, qualcosa di piú nobile, e se l'anima dal canto suo avesse potuto ricevere qualcosa di piú nobile, Dio Padre avrebbe dovuto attendere che questo grado piú alto fosse stato raggiunto. Perciò deve l'anima, che è predestinata ad assistere a tale nascita, mantenersi del tutto monda, vivere nobilmente, tutta raccolta nel suo intimo isolamento, non dissipata, attraverso i cinque sensi, nella molteplicità delle creature. Questa zona purissima, che è la sua vera sede, ha a sdegno ogni cosa inferiore. La seconda parte di questa predica tratta del modo in cui l'uomo deve comportarsi, al cospetto di simile operazione, di simile enunciazione, di simile generazione. Si tratta di vedere se sia per essergli vantaggioso il cooperarvi, lo sforzarsi cioè e il meritare che la prodigiosa generazione si effettui in lui, suscitando nella sua ragione e nei suoi pensieri un'immagine di Dio ed esercitandosi meditando: Dio è sapiente, Dio è onnipotente, Dio è eterno... O se non piú tosto debba sfuggire ad ogni pensiero, ad ogni parola, ad ogni immagine concettuale, affrancandosene, mantenendosi in uno stato di perfetta passività al cospetto di Dio completamente inerte, a Dio lasciando la piena responsabilità dell'azione... La terza parte (della predica) sarà consacrata al vantaggio che scaturisce dalla nascita mirabile e al come si debba intendere».

Il mistico designa la sede profonda dell'anima dove, in ogni uomo, si consuma il mistero della divina genitura: è là dove l'anima, indipendentemente da ogni mediazione sensibile, attinge, nel silenzio e nell'oscurità, la realtà per essenza. Ogni tirocinio e ogni sforzo naturale è d'impaccio, anziché di giovamento, alla celebrazione dell'ineffabile nascita. Ma il mistico non si dissimula le difficoltà, di ordine morale, che possono accamparsi contro simile concezione naturale della trasfigurazione e della rinascita nella grazia. «Perché simile generazione si effettua nell'essere profondo dell'anima, nella sua essenza intima, essa si realizza ugualmente bene in un peccatore e in un giusto: quale grazia mai o quale profitto ne scaturisce per me? Il fondo della natura è in entrambi il medesimo: ché anzi la nobiltà sua rimane in eterno, pur nell'inferno!». E il mistico risponde: «È caratteristico di questa nascita che essa mandi dinanzi a sé una luce sempre nuova. Essa accende di continuo una luce chiara nell'anima, perché è proprio del bene che si effonda, dovunque si trovi. In questa nascita Dio si espande con la sua luce nell'anima, in modo che si fa nel fondo e nell'essenza dell'anima una tale pienezza di luce, che ne rimangono investite tutte le energie sue e tutto l'uomo esteriore. Orbene: il peccatore è refrattario a questa luce, ricolmo com'è di iniquità e di peccato, vale a dire di tenebre, le quali precludono e occupano le vie per cui la luce dovrebbe penetrare ed irraggiarsi. Perché la luce e le tenebre non possono coesistere e dove è Dio, non può essere la creatura... Perché il fondo dell'anima sia inondato dal soprannaturale splendore, occorre che esso gli si offra come una parete tersa, libera e immacolata».

Eckehart procede sottilmente piú innanzi nella analisi delle condizioni che accompagnano la nascita del Verbo nello Spirito. «Dal momento che Dio Padre genera solamente nell'essenza e nel fondo dell'anima e non già nelle sue virtú ed energie, che ne importa a queste? A che pro' il loro servizio, se debbono restarsene oziose e solo rallegrarsene?... Legittimo quesito. Del quale ecco la soluzione. Ogni creatura opera per un fine. E la causa finale è sempre la prima nel concepimento, l'ultima nella attuazione. Dio ha di mira un beatissimo fine in tutte le sue opere, e, precisamente, se stesso. Anche l'anima, con tutte le sue energie, Egli vuole condurre ad un fine, se stesso. È per questo intento che Dio compie le opere sue: per questo intento genera il proprio figlio nell'anima. È il mezzo onde tutte le facoltà attingono l'altissima meta. Dio ha innanzi al suo sguardo tutto che è nell'anima e tutto fa convergere a simile convito e a simile corte. Ora l'anima è disseminata e dissipata con le sue molteplici facoltà nel mondo esterno, ciascuna intenta al còmpito suo... Ma ogni facoltà dissipata è per questo stesso imperfetta. Per cui, se l'anima vuole spiegare una imponente attività nel suo foro intimo e nel suo mondo interiore, deve raccogliere e convocare dalla dissipazione esteriore le sue forze paralizzate. Sant'Agostino ha detto: l'anima si trova piú là dove ama, che là dove dà vita al corpo. Noi dobbiamo isolarci da tutte le cose, dobbiamo chiamare a raccolta tutte le nostre disperse forze, onde figgere lo sguardo sull'unica, infinita, increata, eterna verità».

Eckehart previene la difficoltà che si può muovere in nome della vita attiva. Se tutto lo sforzo della spiritualità cosciente deve consistere in tendere verso la sottrazione delle proprie energie sensibili al fascino della esteriorità e alla dissipazione delle occupazioni sensibili, perché mai e come piú si potrà e dovrà operare il bene tra i propri fratelli? E risponde, con abilità piú grande della verità, appellandosi a San Tommaso: «San Tommaso dice: – La vita attiva è migliore e superiore della contemplativa, quando si riversa dall'amore nelle opere quel che si è guadagnato nella contemplazione. – In verità si tratta di una cosa sola, poiché si attinge unicamente dalla contemplazione e si traduce concretamente ed efficacemente nell'azione. Cosí il fine della contemplazione viene praticato nelle opere... Dio ha abbinato e saldato alla contemplazione la feracità delle azioni ché se con la contemplazione servi a te stesso, con l'opera virtuosa servi alla collettività».

La risposta ha qualcosa d illusorio e di accidentale. Nella nascita di Dio nell'uomo ogni raggio di azione della ragione umana scompare: «Tutto quello che la ragione attiva porta ad effetto in un uomo naturale altrettanto e molto piú Dio opera nell'uomo spogliato e isolato: Dio in lui caccia la ragione attiva e si pone al suo posto e opera quanto la ragione attiva avrebbe dovuto operare dal canto proprio».

Ed allora, a che pro' anche le opere buone? «Ascolta quel che io rispondo. Quando tu sia uscito completamente da te stesso, da tutte le cose, da ogni tua qualsiasi proprietà; quando tu ti sia affidato a Dio, unito a Lui, abbandonandoti a Lui nella pienezza della fiducia e dell'amore; allora tutto che nasce in te, o sopravviene in te, dall'esterno o dall'interno, gioia o pena, dolce o amaro, non è piú tuo, ma di quel Dio a cui ti sei abbandonato... Le opere esteriori sono fissate e comandate, onde in virtú di esse l'uomo esteriore sia rivolto verso Dio, sia guidato verso la vita spirituale e la buona condotta; onde non si allontani da se stesso verso una direzione non corrispondente alla sua essenza, e abbia un freno che lo trattenga dal perdersi nelle realtà estranee e caduche. In altre parole affinché Dio, quando vuole accingersi ad operare, trovi l'uomo preparato, e non debba preliminarmente trarlo via dalle realtà tenebrose e grossolane. Perché quanto piú è intenso e inveterato il compiacimento che si prova nelle cose esterne, altrettanto piú arduo riesce lo staccarsene; quanto piú grande l'amore, tanto piú lacerante il dolore della separazione. Tutte le buone opere, sia il pregare, sia il leggere, sia il cantare, sia il vegliare, sia il digiunare, sia il far penitenza, sono state tutte escogitate ed imposte per imprigionare in certo modo l'uomo e per immunizzarlo dalle realtà estranee, non divine. Pertanto, allorché l'uomo acquista la coscienza che lo spirito di Dio non opera in lui e che l'uomo interiore è abbandonato da Dio allora soltanto è necessario che l'uomo esteriore si applichi a tutte le opere buone, e particolarmente a quelle che riescono per lui piú efficaci e salutifere. Non già però per acquistare qualcosa di proprio, ma per rispetto della verità, onde non essere circuito o sedotto dalla grossolanità, e restare invece cosí unito a Dio; sicché questi non debba andare a cercarlo lontano, quando sopravviene per compiere l'opera sua. Quando invece l'uomo si trova tuffato nella vera interiorità, lasci coraggiosamente tutti gli esercizi esteriori, si tratti pure di quelli a cui si fosse astretto, con qualche voto, di quelli da cui né Papa né vescovi possono dispensare. Poiché i voti che un uomo emette al cospetto di Dio, son questi che nessuno può revocare: costituiscono un vero contratto con Dio. Chi per esempio avesse votato di digiunare, è esonerato dai suoi voti, perché nella professione religiosa egli è legato a tutte le virtú e a Dio stesso. Applico il medesimo al caso nostro. Comunque un individuo si sia impegnato a tutte le possibili cose, quando egli pervenga alla piú profonda interiorità, è affrancato da tutti gli impegni. E finché dura simile vita interiore – una settimana, un mese, un anno – nulla omette il monaco o la monaca, poiché Dio, a cui sono astretti, deve rispondere per essi... E quel che è compiuto da Dio è sempre migliore di qualunque cosa possano compiere le creature».

L'antropologia e la soteriologia di Eckehart sono qui portate alle loro ultime conseguenze. Il contatto col divino si realizza negli abissi meno esplorati della vita spirituale, nel silenzio, nel raccoglimento e nell'amore. Chi lo ha raggiunto è, per questo stesso, esonerato da ogni còmpito di bene operare esteriore. La salvezza è automaticamente in lui. Le opere buone hanno un puro valore pedagogico: il contemplante ne può fare a meno. «Esse aiutano ad imprigionare il corpo. Ma chi vuole imprigionare e legare mille volte meglio, deve stringerlo nelle ritorte dell'amore. L'amore lo doma perfettamente: l'opprime duramente. Perché Dio chiede a noi sopra tutto l'amore. L'amore è come l'amo del pescatore: porta l'anima sospesa».

A due secoli di distanza, un monaco avrebbe, delle arrischiate conclusioni eckehartiane, fatto il vessillo di una esperienza religiosa associata extraecclesiastica. La evoluzione era logica e coerente. E tre secoli ancora piú tardi, l'immanenza del divino nello spirito cogitante, che Maestro Eckehart aveva temerariamente ricavato da quella celebrazione della ragione che San Tommaso aveva implicitamente consacrato con la sua propedeutica, avrebbe trovato la sua sistemazione organica, in terra tedesca, nel grande movimento dell'illuminismo idealistico. E in esso sarebbe stata la completa evasione del pensiero filosofico ufficiale europeo nell'ambito della tradizione cristiana.

Per questo il Pontificato di Giovanni XXII ci appare veramente di grande rilievo, ben piú che per le aberranti avidità del suo nepotismo, per la persecuzione spietatamente condotta contro gli spirituali francescani, per le sue paradossali idee sulla visione beatifica, idee sulle quali non deve aver mancato di esercitare il suo influsso l'avversione radicale ad ogni escatologia gioachimita.

Il periodo della cattività avignonese, se aveva posto cosí il magistero curiale piú dappresso alla mercè dei movimenti universitari parigini e se aveva permesso la costituzione sempre piú fastosa della corte papale, veniva anche preparando la profonda crisi costituzionale della Chiesa, che sboccò nel grande scisma d'Occidente.

Nella sua lotta contro Ludovico il Bavaro, Giovanni XXII proclama i medesimi principî sulla assoluta superiorità papale su tutte le autorità della terra, che Bonifacio VIII aveva con tanto violenta asseveranza creduto di poter ribadire nell'Unam Sanctam. Ludovico il Bavaro replicava accumulando anche lui, come già aveva fatto Filippo IV il Bello contro Papa Caetani, le piú velenose accuse, irridendosi della scomunica che per l'ultima volta cadeva sull'imperatore. Ma la situazione offriva ora, in confronto con quella esistente ai tempi di Bonifacio, tratti differenziali di cospicua importanza. Alla corte di Ludovico il Bavaro si erano rifugiati, strano connubio!, i rappresentanti dello spiritualismo francescano e il maestro nominalista Ockham. E i documenti imperiali tradivano l'influsso di teorici della politica, come Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun. È contro questi teorici che Giovanni XXII nel 1327 scendeva, si potrebbe dire, a discussione, sfìdandoli a trovare «nella storia approvata qual mai Papa cattolico fosse stato investito e consacrato dall'imperatore».

Queste nuove circostanze di fatto mostravano veramente come la temperie spirituale del mondo cristiano europeo si fosse profondamente e multiformemente alterata. Se la cultura si andava laicizzando sotto la stessa pressione logica dei presupposti scolastici, se la diversa visione della vita offriva tanto minore sussidio alla efficienza della potestà spirituale e alla sensazione dei valori carismatici, il logoramento delle vecchie idee unitarie ed universali attraverso il delinearsi sempre piú pronunciato delle collettività nazionali apriva il varco a trattati politici nei quali le origini del potere non erano piú individuate in investiture soprannaturali dirette o indirette, ma nella collettività umana, cercante la propria disciplina.

Nel Defensor Pacis, che Marsilio da Padova compone nel 1324 in collaborazione con Giovanni di Jandun, è proclamata l'assoluta sovranità del popolo, vera fonte di legislazione. Chi esercita il potere è semplicemente un esecutore, e pertanto può essere deposto. E poiché lo Stato è composto di cristiani, la sua autorità è suprema in tutte le questioni. E la piú alta autorità della Chiesa è il Concilio generale, formato insieme di laici e di chierici raccolti dallo Stato. Il clero deve essere sottomesso alle medesime leggi degli altri cittadini e deve limitare la propria potestà all'esercizio delle funzioni spirituali. La reale proprietà dei beni ecclesiastici spetta alla comunità o al patrono, come rappresentante degli originari donatori. La Chiesa pertanto non ha altro diritto che quello dell'usus e non ha quello del dominium. Marsilio da Padova nega la pretesa papale alla rappresentanza di San Pietro e nega quindi tutti i privilegi curiali basati sulle tradizioni gerarchiche romane. Il clero, nell'assolvimento dei suoi còmpiti, non può usare alcuna potestà di coercizione e la scomunica deve essere un'arma riservata all'uso dei Concili generali. Gli stessi Concili generali non possono emettere decisioni in tutte le questioni, perché la verità o l'erroneità del pensiero sono al di là di qualsiasi possibile riconoscimento di ogni umano organo di giudizio. In materia religiosa pertanto la piú larga tolleranza deve essere praticata finché le libere credenze non appaiono esiziali e pregiudizievoli alla vita collettiva.

Cosí, attraverso un groviglio eccezionale di condizioni storiche mai per l'innanzi verificatesi, nell'ora drammatica della cattività avignonese, venivano foggiandosi correnti spirituali che avrebbero avuto nel successivo sviluppo dello spirito cristiano europeo conseguenze incalcolabili. L'allontanamento da Roma appariva veramente funesto agli interessi della Cattolicità.

Il programma del ritorno a Roma, ventilato e caldeggiato dalle piú varie parti della Cristianità europea, patrocinato con virile, indomito entusiasmo da Caterina da Siena, andava sempre piú guadagnando terreno. Urbano V lo realizzava una prima volta nell'ottobre del 1367 per breve ora. I disordini cittadini, le inquietudini non domate, lo inducevano a tornare ad Avignone, nel settembre del 1370. Moriva colà tre mesi piú tardi. È il suo successore Gregorio XI che ritorna sul Tevere nel gennaio del 1377.

Ma tutto l'organismo della collettività cristiana era talmente inquinato, gli strascichi della cattività avignonese ancora cosí validi e persistenti, che lo stato di marasma e di crisi in cui tutta la disciplina cristiana era stata ridotta degenerò in quel che è stato chiamato il grande scisma occidentale. Una parentesi tragica si apre nella storia del cristianesimo, durante la quale si viene effettuando una cosí profonda, anche se non confessata, scissione fra la concezione mistica della Chiesa come corpo aggregato dei fedeli e la concezione della disciplina strettamente curiale e papale, che per parecchi secoli il concetto paolina primitivo della Chiesa, vero elemento fascinans dell'esperienza cristiana, sarà obliterato a vantaggio della disciplina strettamente burocratica, con conseguenze deleterie per tutta la spiritualità del mondo europeo. E in questa dissociazione dell'elemento mistico dall'elemento burocratico nella concezione della Chiesa e nella pratica della sua disciplina, verranno maturando quelle idee della giustificazione individuale per fede in cui è il nucleo centrale dei movimenti riformatori del secolo XVI.

Quando Gregorio XI moriva alla fine del 1378, lasciava ventitré cardinali, dei quali soltanto sette si trovavano a Roma. Per la prima volta, dall'epoca dell'elezione di Benedetto XI, il Conclave si teneva a Roma. Poiché undici sui sedici cardinali che si raccolsero insieme erano francesi, parve probabile che la scelta fosse per cadere nuovamente su un francese. Ma tra i francesi stessi non c'era accordo. Il popolo romano, dal canto suo, fece sentire la sua pressione, e 1'8 aprile era designato Papa Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, napoletano. II riconoscimento fu, dal primo momento, generale.

Il carattere del nuovo Pontefice non era tale certamente da conciliargli simpatie. Santa Caterina da Siena dovrà implorare da lui maggiore condiscendenza e maggior commiserazione in nome del Signore crocefisso. Ma si può essere sicuri che, anche se egli avesse avuto un carattere meno intrattabile, l'anormale situazione e la conturbata temperie che la prolungata cattività avignonese aveva lasciato in eredità nella Curia, avrebbero ugualmente sfociato in un'aperta divisione. La Francia si era ormai abituata a considerare il Papato come suo retaggio, con tutto quell'accompagnamento di animosità nazionali e di latenti idiosincrasie che sono inerenti al temperamento francese.

Si andò automaticamente formando nel gruppo dei cardinali francesi l'idea che essi avessero subìto violenza nella scelta del Prignano e che quindi l'eletto non fosse il legittimo Papa. Nel mese di agosto questo gruppo di cardinali francesi si trasferí a Fondi, e in tale convinzione pregiudiziale che Urbano VI non fosse legittimo Papa, procedeva, con dodici voti su tredici, alla designazione di un nuovo Pontefice, che fu Roberto di Ginevra, col nome di Clemente VII.

Si erano veduti Papi proclamati da sovrani politici e si erano veduti Papi rappresentanti di fazioni romane in conflitto. Ora per la prima volta era una parte del Sacro Collegio cardinalizio che opponeva un Papa ad un altro, sotto il pretesto di aver subìto violenza nella precedente designazione papale. E poiché la nuova elezione aveva avuto soprattutto cause politiche e nazionali, anche la divisione della sudditanza disciplinare fra i paesi cattolici seguí una linea prevalentemente politica. A Urbano andarono il sostegno e l'adesione del maggior numero dei paesi europei. A lui conservarono fedeltà l'Inghilterra, la piú gran parte della Germania e delle Fiandre, come l'Italia, ad eccezione di Napoli, con la cui regina Giovanna Urbano era già venuto in contesa. Ludovico d'Ungheria si schierò naturalmente dalla parte contraria a quella con cui si era schierata Napoli, come la Scozia si rivolse a Clemente precisamente perché l'Inghilterra aveva aderito ad Urbano.

Senza l'aiuto francese molto probabilmente lo scisma sarebbe nato morto. Ma la Francia oramai si era troppo a lungo abituata a risentire i vantaggi dell'ospitalità data alla Curia romana perché non dovesse speculare su uno scisma nato precisamente dall'ormai inveterato contubernio tra Francia e Pontificato. Alla morte di Urbano, nell'ottobre del 1389, si offrí una eccellente opportunità per imporre un termine al disgraziatissimo scisma. Ma i cardinali italiani continuarono a mostrarsi riluttanti a sottomettersi al Papa avignonese e procedettero all'elezione papale di un altro napoletano, Pietro Tomacelli, che prese il nome di Bonifacio IX.

Cominciarono le reazioni alla incresciosissima situazione scismatica. L'Università di Parigi nel gennaio del 1394 cominciò col patrocinare l'idea di un'abdicazione concorde di entrambi i Papi rivali. La morte di Clemente sopravvenne al momento opportuno per dare possibilità di realizzazione a simile voto. Ma questa volta furono i cardinali francesi a non approfittare dell'opportunità e ad insistere nella scissione. Procedettero all'elezione di un nuovo Papa avignonese, che fu Pietro di Luna col nome di Benedetto XIII. Sebbene egli avesse promesso di dimettersi qualora fosse stato invitato unanimemente a ciò, fu invece il piú pertinace sostenitore della sua posizione scismatica.

Alla morte del Papa romano Bonifacio IX, nell'aprile del 1404, i cardinali italiani gli diedero per successore ancora un napoletano, Cosimo dei Migliorati, che prese il nome di Innocenzo VII. Non fu Papa che per un biennio. Il successore, Gregorio XII, riprese con maggiore ardore i negoziati per una concorde dimissione, che avrebbe ristabilito la lacerata pace ecclesiastica.

Queste rivalità personali, queste contese di partiti nazionali offuscanti cosí pericolosamente la dignità del magistero ecclesiastico e la normalità della disciplina sacramentale, diedero istintivamente adito alla visione di un intervento conciliare come unico mezzo di uscire dalla piú inverosimile delle insurrezioni che la comunità cristiana avesse mai attraversato. Ma la convocazione del Concilio universale in una condizione di cose tanto profondamente e vastamente turbata, avrebbe dovuto esser fatta da qualsiasi altra autorità che non fosse quella dei Papi contestati. E la deposizione di uno o di entrambi i Papi non avrebbe potuto essere logicamente decretata che per cause diverse da quella di eresia. Ora l'una e l'altra erano, dal punto di vista ecclesiastico, illegali. Ma d'altro canto il diritto ecclesiastico avrebbe mai potuto contemplare l'eventualità di un prolungato scisma nella sede stessa della unità ecclesiastica, il Papato? Il dovere di ristabilire l'unità ecclesiastica avrebbe dovuto spettare ai cardinali, ma proprio i cardinali erano divisi fra loro. I tentativi di riconciliazione furono sul principio tutti abortivi. L'Università di Parigi fu la piú attiva nel patrocinare e raccomandare la soluzione conciliare.

Una copiosa letteratura si venne formando per rivendicare al Concilio il diritto di deporre Papi rivelatisi di impedimento alla normale funzione della unitaria disciplina cattolica. Noi abbiamo cosí nel De Congregando Concilio tempore Schismatis, scritto nel 1380 da Corrado di Gelnhausen, il primo trattato teologico in materia. Secondo l'autore il Papa, dopo tutto, non è che in un significato secondario il Capo della Chiesa. Il Capo reale è Cristo, e poiché il Cristo è sempre nella Chiesa, la Chiesa non può essere mai acefala. L'unità è sempre conservata misticamente nella partecipazione sacramentale. Ad un anno di distanza Enrico di Langestein difendeva le medesime opinioni nel suo Consilium Pacis: anch'egli riguarda il Concilio ecumenico come la sola autorità infallibile, in quanto rappresenta tutta la Chiesa.

Gli scrittori posteriori seguono la medesima linea di pensiero e di argomentazione con leggere modificazioni. Tra questi le figure piú eminenti sono Pietro D'Ailly e Giovanni Gersone. Il primo afferma perentoriamente che la concreta unità della vita ecclesiastica è nel Cristo, che è il vero capo, e non nel Papa. La situazione eccezionale, secondo lui, esige la convocazione di un Concilio ecumenico, e il dovere di convocarlo ricade sui cardinali. Qualora essi manchino al loro còmpito, è tutta la comunità cristiana che deve prenderne il posto. Al cospetto di tale Concilio ecumenico i contendenti Papi dovranno rispondere delle loro azioni e dovranno obbedire se richiesti di dimettersi.

Gersone va piú in là e sostiene a spada tratta che cosí la legge divina come la legge naturale autorizzano lo sforzo di andare al di là del diritto canonico nei momenti di crisi. Succeduto nel 1395 a Pietro D'Ailly nel cancellierato dell'Università parigina, Gersone, in quest'ora di trambusto della vita ecclesiastica europea, è forse il personaggio piú significativo. Egli non è soltanto il polemista ardito e instancabile che spiega la sua opera indefessa per la riconquista della unità ecclesiastica, cosí minacciosamente dilacerata dal conflitto papale, ma è quegli che nell'ora della crisi del magistero esteriore avverte e intuisce piú da presso la gravità del problema religioso, che si nasconde nella contesa di due Papi rivali. Lutero lo annovererà fra i suoi «consolatori» insieme a San Bernardo e a Guglielmo di Parigi. Gersone infatti non è soltanto uno dei maestri in teologia consacratisi alla dilucidazione delle questioni che lo scisma ha posto sul tappeto, ma è lo spirito sensibile che nella crisi del magistero esteriore si chiude piú intimamente nel problema della grazia, della salvezza, nella giustificazione, in contatto diretto con Cristo e la sua opera salutifera. Fra i suoi scritti, due in particolare ci dànno la possibilità di cogliere sul vivo il formarsi di quello che sarà il principio cardinale dei movimenti riformatori del secolo XVI, il principio cioè della giustificazione per fede, quale si delinea già in questa esplosione di dissensi scismatici, che fanno sentire acutamente la caducità e la precarietà della ufficiale burocrazia curiale.

Questi due scritti sono: il De Remediis Pusillanimitatis e il De Consolatione Theologiae. Il primo è una fervida ed ingegnosa esortazione agli scrupolosi, dei quali vuole calmare le ansie e le «tentazioni», intese queste ultime nel senso di dubbi sulla possibilità della salvezza. Il secondo vuole offrire risposte, ispirate a serenità e a fiducia, ai quesiti che possono presentarsi agli ansiosi della loro predestinazione e della loro salvezza. Nell'uno e nell'altro la pedagogia mistica è improntata al piú ampio sentimento di longanimità e di larghezza. Si può dire che egli mira quasi esclusivamente a infondere un senso di imperturbabile tranquillità a quanti, nella pratica umanamente consentita del bene, riguardano alle incognite del loro destino spirituale.

«Le anime timide e timorate», prescrive Gersone, «debbono scrupolosamente guardarsi dall'eccessivo timore. Il timore infatti sgomenta e tiene in allarme. Ma se il timore sopravvenga nelle anime già trepidanti, le condurrà fatalmente al peccato. Anime di tal genere pertanto ricercheranno piuttosto fonti di consolazione e di dolcezza. Alcuni, solo a causa di una pusillanime ristrettezza di cuore, credono di versare nella disperazione, mentre non disperano affatto. Sono infatti presi da movimenti di disperazione a causa della loro pusillanimità, e tali movimenti scambiano per consenso. Ma comunque violenta sia la sensazione di tali movimenti, quand'anche siano per essere sommersi da tale tentazione, fino a che la ragione resiste e rifiuta il suo assenso, costoro non perdono la carità. Il fuoco acceso di giorno si suoi coprire di notte con la cenere, da cui rimane affievolito, sí però che all'alba successiva qualche scintilla se ne rinvenga. È latente: ma sussiste, e dalla piú esile scintilla si può ripristinare un fuoco pari in ardore al precedente. Lo stesso vale della scintilla della carità: comunque essa appaia dissimulata dalla tentazione, se permane l'intenzione di aderire a Dio e si rifiuti il proprio consenso ad un qualsiasi peccato mortale, vivo sopravvive il fuoco della carità, che si risolleverà, dopo, altrettanto impetuoso che prima». Gersone continua poi raccomandando che di fronte alla canea incalzante delle tentazioni, sotto l'attacco serrato ed avvolgente di tutte le nostre potenze inferiori congiurate ai nostri danni, lo spirito assuma, imperterrito, l'atteggiamento della donna caparbia e linguacciuta, che il marito non riesce a ridurre al silenzio e che allo sforzo di lui per soffocarla, gli getta sdegnosamente in faccia, fino all'ultimo secondo, la parola della irrisione e del sarcasmo. Il redento da Cristo, pertanto, deve sfidare e vincere il turbine accecante delle tentazioni con la persistente saldezza della propria volontà. Comunque violenta si levi la minaccia e l'insidia delle forze inferiori che oscuramente fermentano in noi, l'incrollabile proposito di rimanere nella intenzione e nell'ideale della salvezza sarà sufficiente, secondo Gersone, a redimerei e a immunizzarci da ogni possibile contaminazione.

La valutabilità etica e religiosa di una azione non è in ragione di una sua assoluta rispondenza ad un canone e ad una graduatoria esteriori, bensí unicamente in ragione del consenso e della acquiescenza razionali che noi deliberatamente vi portiamo. Gersone enuncia, in tutte lettere, con una impressionante crudezza, un audace aforisma: «Ascolta una parola di ancora piú ampia consolazione. Peccato veniale è, in genere, ogni peccato commesso senza deliberazione della ragione, qualunque esso materialmente sia, anche se sia l'odio o l'ira contro Dio o una orrenda bestemmia. In altri termini, il peccato è veniale quando l'atto è tale da non sopprimere la debita sudditanza dell'uomo a Dio, da non soffocare la sua amicizia e il suo amore, e da non lacerare il vincolo della sociale fraternità che lega al proprio prossimo. Non diversamente dai regimi secolari e politici, nei quali alcuni delitti sono puniti con la morte, altri no, sebbene tutti costituiscano delle infrazioni ai comandi e alle costituzioni legali: perché non tutti annullano la dovuta sudditanza al sovrano o la socievolezza col prossimo». L'etica mistica gersoniana effettua qui uno spostamento radicale delle valutazioni morali delle umane azioni. Purché si mantenga desta e solida l'intenzione di aderire a Dio, e non si infrangano i vincoli fraterni del singolo con la collettività, ogni peccato, anche se gravissimo, non è mai irrimediabilmente mortale. Si possono anche dare azioni radicalmente difformi dalle norme consuetudinarie dell'etica e dai principî teorici della moralità, e pure non imputabili e non nascenti da una responsabilità consapevole. Gersone non indietreggia dinanzi al riconoscimento della possibilità che la colpa erompa dalle attività inferiori del nostro essere composito, «in virtú di una sorpresa e indipendentemente da un consenso esplicito della ragione. Poiché un tal consenso non è simultaneo dei primi movimenti, e non può non susseguire ad una deliberazione o vera e propria o interpretativa. La quale deliberazione in alcuni ha un processo piú sollecito, in altri piú lento e tardo».

Ma Gersone si spinge piú innanzi nell'indagare il collegamento fra l'operare umano e la salvezza spirituale. Nel De Consolatione Theologiae egli affronta in pieno il problema della predestinazione. Come spiegare e giustificare il fatto che di su la massa peccatrice degli uomini alcuni sono chiamati, in virtú di un decreto eterno di predestinazione, alla beatitudine immortale, altri sono dannati all'eterno supplizio? Si dovrà forse considerare questa diversità nel giudizio di Dio «quasi che Egli faccia distinzione di persone, alcuni salvando, altri condannando»? Si dovrà parlare empiamente di «una tal quale sua crudeltà raffinata, indegna assolutamente della sua somma bontà»? Gersone, pur dichiarando insolubile la questione, dati i limiti circoscritti ed esigui delle nostre capacità speculative, ha fede nella volontà assoluta e insospettabile degli eterni decreti di Dio. Ma, soprattutto, premunisce dal riporre esagerata fiducia nelle opere dell'uomo, quando si vogliano definire i rapporti fra Dio e la creatura finita. Perché tali opere sono funzionalmente insufficienti e non possono mai pretendere di strappar qualcosa alla prodigiosa ed ineffabile gratuità del dono celeste. «Non è da fare appello ai meriti o alle opere di coloro che Dio dalla eternità ha predestinato: ché se la loro salvezza sia in funzione delle opere, non sarà piú in funzione della grazia». L'anima che si uniforma veramente ai dettami eccelsi della umanità cristiana si ritrae sempre dalla fiducia presuntuosa in se stessa, per collocare invece unicamente in Dio le energie della sua riposante speranza. «Il vero umile, quanto piú fievole speranza ha in sé, quanto piú circoscritta fiducia nutre nel soccorso straniero, quanto meno si preoccupa di costituire un'effimera giustizia propria, tanto piú fortemente concepisce speranza e fiducia in Dio e tanto piú si costituisce tributario della giustizia di Dio».

Cosí, per un abbinamento a prima vista strano, ma non difforme dalla dialettica consueta del progredire cristiano nella storia e profondamente ricco di significato normativa, mentre la crisi dell'autorità pontificale squassava piú rovinosamente l'organismo unitario della società visibile ecclesiastica, piú vigorosamente si spingeva l'esperienza credente verso la Chiesa invisibile e il mistero intimo della salvezza. E poiché tutto è indissolubilmente legato nell'evoluzione cristiana attraverso i secoli, la scandalosa lacerazione dell'unità cristiana sotto la pressione delle divergenze politiche e nazionali portava di rimbalzo a interiorizzare individualmente il mistero della salvezza, scindendolo da quell'apporto della solidarietà carismatica collettiva, che è l'unico elemento della visibilità del corpo mistico di Cristo nella sua traiettoria nel tempo.

Lo scisma d'Occidente, risultato ineluttabile dell'affievolirsi della consapevolezza dei grandi valori cristiani che avevano retto la società medioevale cristiana, poteva essere provvisoriamente sanato, ma le ragioni che lo avevano provocato e che avevano fruttificato in direzioni impensate, avrebbero continuato a pesare sinistramente sul decorso del cristianesimo.

Fu necessario proteggere militarmente i cardinali e i dignitari ecclesiastici convocati per l'apertura del Concilio a Pisa il 25 marzo 1409. I due Papi rivali furono invitati a presentarsi anch'essi, e poiché non obbedirono all'intimazione furono dichiarati contumaci e deposti. Al loro posto fu nominato il vecchio Pietro Filarghi, nativo di Creta e già membro dell'Università di Oxford. Prese il nome di Alessandro V. Ma la morte lo incolse a meno di un anno dalla elezione, che del resto non aveva fatto altro che aggiungere un Papa ai due preesistenti. Ebbe ad ogni modo un successore, che fu Baldassarre Cossa, il terribile Giovanni XXIII, il cui prestigio fu unicamente raccomandato al sostegno di Sigismondo re dei Romani.

È sotto la designazione di questi che Costanza fu scelta per sede del nuovo Concilio, convocato da Giovanni XXIII con Bolla emanata il 1° novembre 1414. Per l'ultima volta il cristianesimo latino unito era, cosí, convocato per la risoluzione della questione disciplinare, come anche per l'esame delle varie teologie autonomistiche serpeggianti nell'organismo cristiano europeo, e per provvedere alla riforma dei costumi ecclesiastici. Già un sinodo romano del 1413 aveva condannato le opere di Wycliff. piú tardi, né il sinodo di Basilea né il sinodo di Firenze sarebbero stati riconosciuti da tutto l'Occidente. E il Concilio di Trento sarebbe stato tenuto quando già l'unità cristiana europea era stata spezzata. Ora Costanza segnava in qualche modo l'ultima epifania dell'unità della società uscita dal Vangelo. Vi parteciparono 29 cardinali, circa 200 prelati, un centinaio di abbati, 200 preti.

Giovanni XXIII non mancò d'intervenire e ricevette accoglienze serene, sebbene apparisse ben chiaro che l'assemblea non nutriva alcuna intenzione di riconoscerlo come legittimo Papa. L'interesse precipuo di Sigismondo era quello che fosse solennemente condannato Giovanni Huss, e quel partito religioso autonomo boemo di cui egli era il corifeo. Nella sua quarta sessione il Concilio proclamava la superiorità del Concilio ecumenico al Papa. Sotto la pressione di Sigismondo, procedeva alla degradazione e alla condanna di Giovanni Huss nella seduta del 6 luglio 1415, condanna alla quale doveva seguire, ad un anno di distanza, quella di Girolamo da Praga.

Molto parsimonioso nella introduzione delle vagheggiate riforme, il Concilio di Costanza riusciva però a vedere chiuso lo scisma. All'abdicazione di Gregorio XII e alla deposizione di Giovanni XXIII seguiva la deposizione di Benedetto XIII. Si procedette quindi, dopo avere stabilito con un effimero decreto che Concili generali sarebbero tenuti a periodi regolari, alla convocazione del Conclave che avrebbe dovuto nominare il nuovo Papa. E poiché la costituzione del Sacro Collegio cardinalizio era delle piú anormali, facendone parte cardinali eletti dai vari Pontefici in lotta tra loro, si decise che il Conclave, questa volta, non fosse costituito soltanto da cardinali, ma anche da un numero di trenta membri, scelti, sei per ciascuna, dalle cinque nazioni rappresentante al Concilio.

Con questa procedura inusitata il Conclave, l'11 novembre 1417, innalzava al Pontificato il cardinale Oddone Colonna che prese il nome di Martino V. Quella famiglia Colonna che Bonifacio VIII, ultimo rivendicatore della concezione medioevale del Papato, aveva cosí crudamente perseguitato e disperso, dava a Roma il restauratore del Papato, all'indomani della luttuosa crisi scismatica. Non fu grande riformatore di costumi: fu piuttosto restauratore della Roma in rovina. Il troppo lusinghiero epitaffio lateranense l'avrebbe esaltato all'ora della sua morte, nel 1431, «temporum suorum felicitas». In realtà, dopo la uraganica bufera della cattività e dello scisma, il suo Pontificato non faceva che inaugurare un periodo di bonaccia temporanea, attraverso il quale avrebbero oscuramente fermentato quei germi di dissolvimento che il precedente periodo aveva apprestato e che, ad un secolo di distanza, avrebbero definitivamente portato all'espressione clamorosa quel che già era stato consumato nell'intimo della coscienza cristiana europea: il rinnegamento pratico dei principi su cui il cristianesimo si era retto nella età della sua originale creazione, il Medioevo.

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