XI LA RIFORMA GREGORIANA

Per una singolarissima coincidenza storica che può anche apparire simbolica in una tradizione spirituale implicante, dall'epoca di Zarathustra in poi, attraverso la letteratura profetica biblica e l'antica escatologia cristiana, un trascendentale valore di sacralità per il periodo di mille anni, il primo millennio della storia cristiana aveva segnato l'attuazione sociale completa dei principî che il Vangelo aveva introdotto nel mondo per la disciplina della vita associata.

Nato dall'aspettativa del Regno di Dio imminente, il cristianesimo non aveva nutrito alle sue origini alcuna diretta, immediata e concreta preoccupazione sociale. Gli occhi delle primissime generazioni cristiane erano tutti rivolti verso il secolo veniente. Il secolo presente non aveva per essi alcun significato e non esercitava su di essi alcuna attrattiva. Ed era stato proprio in virtú di questa allucinata ed allucinante speranza del Regno, che il cristianesimo aveva sovvertito, corroso e trasformato tutta la struttura e tutta la compagine della società empirica circostante.

Il giorno in cui la conversione ufficiale di Costantino aveva automaticamente costretto la società dei credenti ad entrare a contatto con i poteri costituiti e a mescolarsi con il loro funzionamento quotidiano, un grande maestro di spiritualità cristiana, Agostino, aveva tracciato le linee di una sociologia normativa cristiana, basata essenzialmente sulla prospettiva delle due città, quella di Dio e quella di Satana, che procedono mescolate nel corso della storia, non conoscendo l'una dell'altra i confini e l'ampiezza, ma destinate ugualmente ad essere passate al vaglio del giudizio futuro del Signore.

L'assoluta eterogeneità di valori politici e di valori religiosi, di vita empirica e di vita spirituale trascendente, che aveva accompagnato l'esperienza religiosa della primitiva Cristianità, tutta protesa verso l'imminente giorno del Signore, era stata trasportata da Sant'Agostino sul terreno della sociologia. Se il cristiano post-costantiniano non è piú, secondo l'inciso graficamente insorpassabile della lettera a Diogneto, «quegli che procede nella vita coi passi sulla terra, ma con le visuali nel cielo», perché cielo e terra si sono disposati e fusi nella professione cristiana dello Stato, il credente, a norma dei principî agostiniani, è sempre colui che deve titubantemente interpellare il proprio cuore, per domandare se il suo amore vada a Dio prima che al mondo o al mondo prima che a Dio, perché i due mondi possono avere delle interferenze, ma rimangono fondamentalmente antitetici e contrastanti.

Le parallele dottrine antropologiche di Sant'Agostino avevano dato a tutta la società medioevale un carattere di ascetico pessimismo che si era espresso in tutte le forme organizzative della società.

La creazione dell'Impero cristiano per opera di Leone III era stata, a suo modo, un riconoscimento ufficiale e un audace tentativo di realizzare in pieno, nelle forme concrete della ecumenicità europea, il postulato cristiano della separazione incolmabile e funzionale dei poteri politici e dei poteri religiosi.

Il Sacro Romano Impero era venuto a dare forme visibili a quel dualismo delle città, terrena l'una, celeste l'altra, il cui commercio scambievole Sant'Agostino aveva definito irriducibilmente invisibile ed empiricamente insanzionabile.

Nel momento stesso in cui la creazione del Sacro Romano Impero voleva dare forma assoluta e realistica alla visione agostiniana della storia, veniva ad annullarla in radice, volendo fare una realtà palpabile di quella che, agostinianamente, era una realtà impalpabile, riconoscibile e disciplinabile soltanto da Dio.

È il destino di tutti gli sforzi umani tendenti a concretare il non concretabile, a rendere profano il sacro, a trasformare in fatti visibili le auguste realtà carismatiche. Gli inconvenienti dovevano rivelarsi ben presto e moltiplicarsi rapidamente sul cammino delle nuove istituzioni.

Era grande pregio di queste schiudersi in un ambito universale e tendere alla unificazione delle società umana e civile.

Tanto l'Impero che la Chiesa dovevano essere due idee madri illimitate, destinate a infondere negli uomini la consapevolezza della loro unità di famiglia, cosí nella sfera dei valori empirici come in quella dei valori religiosi.

Ma è uno dei segni paradossali della ineffabile trascendenza del consorzio umano, del consorzio cioè dei figli di Dio e della grazia, che la piú valida maniera di disciplinare i loro rapporti sia quella che fa meno appello alle categorie empiriche e ai connotati esteriori.

La Cristianità medioevale era vissuta di Sacramenti e di misteri, piú che di canoni e di codici. Il monachismo, col suo disdegno del mondo, aveva fatto per il mondo piú di qualsiasi legislazione giustinianea. Il giorno in cui, anziché fare appello alle pure forze dello spirito, la Chiesa volle dar forma concreta ai suoi rapporti con le istituzioni umane, si espose pericolosamente a perdere una notevole parte del suo fascino e del suo magistero.

Il dramma cristiano entrava in una sua nuova fase, straordinariamente movimentata. All'ombra dell'istituto imperiale, si era sviluppato rigogliosamente il feudalesimo. Noi abbiamo già tentato di mostrare come alla formazione prima del feudalesimo non fosse in qualche modo estraneo l'istituto monastico. Come sempre suole accadere, le grandi istituzioni religiose tendono automaticamente nel decorso del tempo a trasformarsi in istituzioni profane, a mantenere cioè i quadri gerarchici e disciplinari dei fatti economici e giuridici, indipendentemente e astrazione fatta dai coefficienti spirituali e religiosi che primi li hanno generati.

Ed ora di rimbalzo il feudalesimo, che è un insieme di cellule monastiche laicizzate, veniva imperiosamente e pericolosamente ad introdursi nella sfera delle istituzioni religiose, da cui era in qualche modo germinato e derivato. Il feudalesimo laico tenta cioè di manomettere l'autonomia della gerarchia episcopale e della clausura monastica, sforzandosi di livellare vescovati e monasteri al proprio funzionamento civile e al proprio dominio laicale.

Il cospicuo sviluppo demografico che si realizza palesemente dopo il Mille, viene esso stesso a rendere piú rapido e tumultuoso il processo di trasformazione degli istituti pubblici e a porre alla Chiesa, quale era stata raffigurata e ispirata dalla sociologia agostiniana, problemi nuovi e còmpiti inattesi.

La grande lotta per le investiture, su cui giganteggia la figura di Gregorio VII, è ben altra cosa, è ben piú vasto problema, che la semplice sottrazione dell'investitura ecclesiastica all'arbitrio dell'Impero e che la pura rivendicazione dell'autonomia spirituale dell'amministrazione dei Sacramenti. È il tentativo di far sopravvivere, al naufragio in cui corrono rischio i vecchi postulati della sociologia agostiniana, le idee basilari della visione cristiano-evangelica della vita, del mondo e della storia. Noi possiamo constatarlo di primo acchito nel fatto stesso che alla grande rivoluzione morale di cui Gregorio VII è il corifeo e il condottiero, partecipano figure di monaci e di asceti che riportano in auge tutte le antiche e irriducibili opposizioni dello spirito cristiano alle deformazioni e alle contaminazioni del secolo.

Se il secolo XI declinante è dominato dalla imponente figura di Ildebrando, Pier Damiani è inseparabile dal suo fianco, inferiore a lui come uomo d'azione, superiore a lui come uomo di propaganda e di pensiero. Nulla di piú drammatico che il rapporto di queste due forti personalità religiose. Ildebrando chiede ad ogni pié sospinto la corroborante collaborazione del solitario di Fonte Avellana. E il solitario di Fonte Avellana recalcitra al pungolo del Pontefice amico chiamandolo suo «Satana» e sua «piccola tigre».

Pietro confessa di preferire il piangere allo scrivere, tanto penosamente e angosciosamente sente le iatture morali del secolo. Come tutte le grandi anime religiose, non vive che dei valori trascendenti del cristianesimo. È proprio questa sua sprofondante esperienza religiosa che lo fa strumento di propaganda e di apologia piú efficace sotto le direttive del grande uomo d'azione che ne dirige e ne ispira da Roma l'attività appassionata.

Il pericolo incombente sulla trasmissione dell'economia cristiana esigeva rimedi efficaci e provvidenze salutari. Il regime feudale aveva automaticamente portato ad una contaminazione rovinosa di poteri politico-laicali e di poteri religiosi. Abituati a considerare i propri dipendenti come strumenti docili del proprio predominio, i grandi signori feudali, e al vertice della loro gerarchia lo stesso imperatore, non riuscivano piú a fare distinzione fra quello che era l'ambito del loro potere politico-economico e quella che era la zona inviolabile delle autorità gerarchiche sacramentali.

D'altro canto, entrati a far parte automaticamente del frazionato potere politico-feudale, i vescovi erano naturalmente indotti a scambiare le loro mansioni strettamente religiose con mansioni politico-economiche. E poiché la dignità vescovile non aveva mai cessato di essere una dignità elettiva, si comprende come l'abuso consuetudinario di ogni procedimento elettivo, il mercimonio, cioè, che assumeva in questo caso carattere simoniaco, si fosse insinuato funestamente negli alti gradi della gerarchia ecclesiastica.

Ma che la crisi della vita ecclesiastica non fosse circoscritta a questo già di per sé grave inconveniente, che investisse tutta la sottostante concezione della spiritualità e del sacerdozio, lo si vede ben chiaro dalla recisa rivendicazione della vita celibataria per il clero, che figura tra i capisaldi del programma riformatore.

Se nei secoli precedenti la stessa visione agostiniana della vita, improntata a cosí fosco pessimismo antropologico, aveva di per sé, senza ininterrotto bisogno di pressioni e di sanzioni gerarchiche, raccomandato, specialmente per il clero, la vita continente, ora che l'antropologia agostiniana si era offuscata e il prestigio se ne era affievolito, occorreva, quanto meno sul terreno della gerarchia sacerdotale, tassativamente fare dello stato celibatario la condizione indeclinabile del ministero sacramentale.

Era stata la primitiva regola delle elezioni vescovili, che queste fossero effettuate in pari tempo dal clero e dal popolo. Ben presto il clero delle cattedrali, quello che piú da presso e piú sollecitamente poteva constatare la vacanza della sede ed essere interessato ad essa, cominciò ad assumere una parte direttiva nelle nomine. Il clero della campagna circostante e il laicato venivano cosí a costituirsi automaticamente come un corpo separato, con interessi propri e con finalità diverse da quelle del clero delle cattedrali. Si aggiunga che tutte le autorità politiche, dalle piú alte alle piú circoscritte, tutte avevano particolari interessi da tutelare di fronte alla gerarchia episcopale. Non erano forse i vescovi i consiglieri spirituali della Corona e non potevano rappresentare un pericolo e una concorrenza qualora non se ne fosse assicurata la docile soggezione?

Abusi della piú varia natura si erano già venuti introducendo nella amministrazione ecclesiastica. Le chiese parrocchiali venivano largamente considerate come semplici proprietà private e in molti casi assegnate all'incanto. Gli edificatori di chiese come i loro patroni trattavano i preti in cura d'anime quali propri vassalli.

Là dove i sovrani mantenevano il potere di nominare vescovi, la simonia divenne, in un regime come il feudale, cosa naturale e consuetudinaria. Sinodi locali, dalla metà del secolo X in poi, tornano costantemente sui divieti fatti alle autorità laicali di intromettersi nell'amministrazione e nel regime gerarchico della Chiesa. Silvestro II aveva già proclamato che la simonia è la piú grave iattura della vita cristiana. I predicatori dell'ascetismo e i rappresentanti dello spirito monastico insistevano d'altro canto, e se ne comprende la ragione, sulla necessità preliminare di raddrizzare e di innalzare la vita morale del clero.

Si possono ricordare a grandi linee le tappe di sviluppo della disciplina celibataria ecclesiastica. A Nicea, nel 325, i vescovi adunati, mentre vietavano ad un prete di tenere nella propria casa altra donna che non fosse la madre o la sorella, si erano però astenuti, principalmente indotti dalla protesta calorosa di Pafnuzio, dall'imporre il celibato ecclesiastico. E l'Oriente si mantenne sempre piú condiscendente e largheggiante in materia.

L'Occidente invece, attraverso i sinodi cartaginesi del tramonto del IV secolo e degli inizi del V, e i sinodi di Toledo e di Orléans della prima metà del VI secolo, sulla falsariga di decretali dei Pontefici romani dall'epoca di Damaso, attraverso quella di Siricio, fino ad Innocenzo I, si era sempre piú nettamente pronunciato contro il matrimonio dei preti. Leone I fu ancora piú rigoroso nell'estendere la pratica celibataria anche ai gradi inferiori dello stato ecclesiastico. E il codice teodosiano dichiarava illegittimi i figli dei membri del clero.

Ma di periodo in periodo e da località a località le consuetudini locali si erano molto di frequente allontanate dalla disciplina canonizzata. Durante l'epoca carolingica i costumi si erano fatti ancora piú liberi e il feudalismo del X e dell'XI secolo era venuto a porre piú scandalosamente allo scoperto le conseguenze perniciose della vita matrimoniale del clero. I sacerdoti coniugati, non diversamente dai laici, non avevano altra preoccupazione che quella di impinguare i loro figli e di manomettere a loro vantaggio benefici ecclesiastici. Preti e vescovi per eredità vengono a rappresentare un'imminente minaccia alla stessa consistenza della proprietà ecclesiastica.

Ed ecco che noi vediamo come nei sinodi del X e dell'XI secolo il celibato ecclesiastico e la simonia compaiono come argomenti di attuale e cocente interesse.

Roma non si era sottratta alla contaminazione universale. Anche lí il feudalesimo aveva gettato e steso le sue propaggini. Famiglie come quella dei Crescenzi e quella dei conti di Tuscolo avevano finito col fondare altrettante dinastie feudali, ciascuna delle quali si sforzava di manomettere e di captare a proprio profitto le dignità ecclesiastiche. Quando Sergio IV nel 1012 moriva, le case rivali accamparono ciascuna un Pontefice di propria elezione: Gregorio sostenuto dai Crescenzi, Teofilatto sostenuto dalla propria famiglia, i conti di Tuscolo.

L'Impero, che era nato come salvaguardia della divisione cristiana fra poteri politici e poteri religiosi, veniva automaticamente, in virtú stessa delle deviazioni imposte dalle infiltrazioni feudali al potere papale, ad essere indicato come arbitro sulla legittimità stessa della dignità pontificale.

Stava per avvenire in Occidente qualcosa che avrebbe creato situazioni del tutto diverse da quelle che il cesaro-papismo aveva creato in Oriente, dove il patriarcato bizantino si era costituito spontaneamente docile strumento nelle mani del potere politico, e di rimbalzo l'Impero aveva fatto risentire la sua azione preponderante e la sua manomissione irriverente sulla dignità vescovile. In Occidente era la deformazione feudalistica dell'episcopato che portava l' Impero ad assumere, di fronte al potere papale conteso fra famiglie nobili romane, atteggiamento di arbitro e di giudice.

Roma era in questo momento nettamente divisa fra partiti gentilizi. Teofilatto aveva scelto come sede il Laterano e Gregorio, la creatura dei Crescenzi, aveva dovuto prendere il largo.

Nel Natale del 1012 egli si presentava come un questuante alla corte dell'ultimo discendente della dinastia sassone, Enrico II il Santo, a Pohlde, chiedendo, quasi si trattasse di una investitura feudale, il riconoscimento delle sue infule sacerdotali. Enrico, nonostante tutta la sua deferenza per le autorità religiose, si astenne da qualsiasi verdetto immediato e promise di esaminare personalmente la posizione reciproca dei due rivali. A buon conto prese sotto custodia il pastorale pontificio, quasi si trattasse di una pura e modesta insegna vescovile. D'altra parte, pur da lungi Teofilatto aveva fatto alla sua amata sede di Bamberga un trattamento di tale privilegiata benevolenza che il favore di Enrico non poteva mancargli. Scesi in Italia nel febbraio del 1013, Enrico II e la sua sposa Cunegonda erano incoronati da Teofilatto a Roma nel febbraio dell'anno successivo.

Teofilatto aveva assunto il nome di Benedetto VIII. Pontefice fino al 1024, si mostrò consenziente con l'imperatore nelle sue idee di riforme ecclesiastiche. Nel sinodo di Pavia del 1018 denunciò apertamente le piaghe del clero: concubinato e simonia. La principale sua preoccupazione sembrava essere quella di salvare ad ogni costo la proprietà ecclesiastica, che rischiava di essere rovinosamente alienata attraverso accaparramenti familiari.

Enrico II fece propri i decreti sinodali, bandendoli per tutto il suo territorio imperiale al sinodo di Goslar. Si direbbe, a giudicare dalle piú appariscenti enunciazioni esteriori, che mentre all'imperatore preme la riforma morale del clero, sapendo che un clero piú direttamente e intensamente volto alle sue mansioni spirituali lascerebbe campo libero alla illimitata sua autorità politica, al Pontefice stiano a cuore soprattutto la dignità esteriore e la potenza economica del clero stesso, avvertendo d'istinto che solo una salvaguardia materiale può garantire un esercizio piú incontrollato dei poteri spirituali e carismatici. Cosí arduo è nella pratica quotidiana della vita mantenere quella linea confinale tra spirituale e materiale che è alla base della esperienza evangelica.

A Benedetto VIII, morto nel giugno del 1024, succedeva suo fratello Romano che prese il nome di Giovanni XIX. Due anni dopo egli coronava in San Pietro il nuovo imperatore della casa Salica, Corrado, e la sua sposa Gisea.

Dopo otto anni di Pontificato Giovanni XIX moriva. Ne prendeva il posto un altro Teofilatto della famiglia dei conti di Tuscolo, che assunse il nome di Benedetto IX. La sua figura compare nella cronaca del tempo sotto il gravame delle piú dure accuse di depravazione e di immoralità. Politicamente, spinse all'estremo limite possibile la sua condiscendenza al potere imperiale. Nel 1038 egli scomunicava l'arcivescovo di Milano, Ariberto, solo reo di fomentare movimenti di incipiente ribellione all'autorità imperiale.

A Roma Benedetto IX non riesce, o per la sua indegnità o per i conflitti partigiani di famiglia, a mantenere indisturbato il suo potere. Una ribellione del 1044 lo caccia dalla città. Il popolo elegge al suo posto Giovanni vescovo di Sabina, che assume il nome di Silvestro III. Ma Benedetto riesce a rioccupare la sede dove si mantiene per poco tempo.

Costretto dalla irriducibile opposizione romana, abbandona la dignità pontificia per cederla al suo padrino Giovanni Graziano, arciprete di San Giovanni a Porta Latina, che prese il nome di Gregorio VI.

La situazione generale della Chiesa e della moralità ecclesiastica appariva sempre piú chiaramente tale da esigere una ricostituzione ab imis della contaminata disciplina morale.

Al fianco di Gregorio VI noi vediamo per la prima volta comparire la figura di Ildebrando. Si vociferò che alla sua elezione non fosse estranea l'azione simoniara di Pietro di Leone, il nipote del banchiere ebreo Baruch che era passato al cristianesimo qualche decennio prima e ricevendo il battesimo aveva gettato le basi della fortuna della propria famiglia, costituendosi:finanziatore del Pontificato nella lotta che il Pontificato stesso era venuto ingaggiando per le investiture.

Si poteva prevedere che una delimitazione di rapporti e di giurisdizioni tra Papato ed Impero, nei riguardi della disciplina clericale in genere e dell'autonomia episcopale in specie, sarebbe divenuta ben presto una necessità per entrambe le parti.

Nel 1039 all'imperatore Corrado succedeva Enrico III. Con questo nuovo sovrano veramente l'Impero veniva a schierarsi di fronte al Pontificato in un programma di rivalità e di sopraffazione che non poteva non provocare dall'altra parte una reazione tenace e irriducibile.

Nel 1045 Enrico scendeva in Italia. E in un sinodo tenuto a Pavia il 25 ottobre, denunciava pubblicamente e solennemente quell'accusa di simonia contro tutti gli alti dignitari ecclesiastici che doveva dare alle sue relazioni con la Chiesa un carattere saliente.

Come primo suo gesto egli ricostituí Ariberto sulla sua sede milanese. Era una riparazione a cui si sentiva spinto dal suo desiderio di apparire al cospetto del mondo immune da qualsiasi risentimento e da qualsiasi interesse strettamente dinastico, in procinto com'era di purificare le elezioni vescovili per avere, si potrebbe dire, mano piú libera nel designare egli i vescovi.

Sotto di lui le elezioni vescovili e abbaziali per opera dei Capitoli delle chiese cattedrali divengono cosa completamente ignorata. Enrico fa direttamente e personalmente le nomine e nella cerimonia dell'investitura non solamente conferisce il pastorale, ma anche l'anello. Convoca sinodi a suo piacimento e in essi spiega quella medesima parte che altra volta l'imperatore Costantino aveva spiegato a Nicea.

Dopo il sinodo di Pavia Enrico III si trasferiva a Piacenza dove Gregorio VI venne ad incontrarlo. Di là scesero insieme a Sutri dove si tenne un nuovo sinodo. Il contatto personale dei due personaggi mise senz'altro allo scoperto la profonda irriducibilità delle reciproche prospettive.

Le vociferazioni sul mercimonio che avrebbe contaminato l'elezione di Gregorio portarono forse ad una deposizione. Sta di fatto che dopo Piacenza le relazioni di Enrico e di Gregorio cambiano radicalmente. Se Enrico si lascia influenzare dalle voci di elezione simoniaca propalate contro Gregorio, Gregorio d'altro canto si prende la rivincita rifiutandosi di legittimare il matrimonio di Enrico con Agnese di Poitou, come viziato da gravame illecito di consanguineità. Gregorio fu esiliato in Germania, dove rimase fino alla sua morte nel 1047. Ormai Enrico dava apertamente a divedere il suo modo di concepire i rapporti fra Pontificato e Impero.

All'epoca di Carlo Magno, Roma, spinta dalla tradizione piú pura della dottrina evangelica sulla separazione dei poteri religiosi dai poteri politici, aveva, data la circostante temperie storica, ben provveduto all'organizzazione unitaria del mondo occidentale, creando di fronte a sé, e mercè l'investitura carismatica, un potere politico universale, chiamato a riassumere nelle proprie mani tutto quell'esercizio di mansioni ordinarie che la Chiesa non poteva assolvere direttamente e che d'altra parte erano naturalmente subordinate alla universale realtà della Chiesa, corpo mistico di Cristo. Non era stato necessario allora, nella piena consapevolezza del significato da attribuire al gesto santificatore del Pontificato, definire l'ambito rispettivo dei due poteri.

Nello sviluppo dell'esperienza cristiana, cosí sul terreno

dottrinale, come in quello disciplinare, le definizioni troppo minute e troppo precise sono sempre il sintomo di una deficiente o impoverita coscienza religiosa.

Soltanto dopo che lo sviluppo crescente del feudalesimo, con le sue esorbitanze del potere religioso sul terreno della ricchezza e della potestà laica, e del potere laico sul terreno religioso, era venuto ad ottundere il senso riverente e il rispetto istintivo delle reciproche giurisdizioni, la necessità di una esplicita definizione in materia si fece sentire.

In due secoli e mezzo di convivenza fra Papato ed Impero, l'Impero era venuto smarrendo la sensazione della propria subordinazione, ed era giunto ormai a considerare il Papato alla stregua di un qualsiasi vescovado, su cui l'Impero potesse accendere la sua ipoteca ed esercitare la sua manomissione. Le posizioni sembravano rovesciate. Un Papa aveva creato l'imperatore. Gli imperatori avevano imparato a non rifuggire dal creare essi i Papi. Enrico III non solo confina Gregorio VI in fondo alla Germania, ma non riconosce i diritti né di Benedetto IX né di Silvestro III. Per suo volere Suigero di Bamberga fu nel Natale del 1046 proclamato Papa e col nome di Clemente II coronò Enrico ed Agnese.

I romani si lasciano spogliare di qualsiasi partecipazione nei diritti elettorali e conferiscono ad Enrico il titolo di patrizio.

L'anomalia della situazione salta agli occhi. In un sinodo tenuto a Roma nel gennaio del 1047 Clemente II, che frattanto aveva conservato la sua sede vescovile di Bamberga, pronuncia decreti di deposizione contro i rei di simonia, quasi una nomina al Pontificato per volere imperiale non fosse essa stessa viziata in radice, anche se non mercanteggiata a suon di valsente.

Ma la reazione alla indebita ingerenza dell'imperatore non poteva mancare. C'era qualcuno in Italia che poteva ormai levarsi contro l'intollerabile predominio dell'imperatore teutonico, deciso a trattare il Pontificato come uno dei suoi vescovadi d'oltre Alpe. Ed era il marchese Bonifacio di Toscana, il cui avo Azzo e il cui padre Tedalda, appoggiati del resto dagli imperatori teutonici, favorevoli al sorgere di una grande signoria feudale in Italia che potesse tenere in scacco le indocili famiglie romane, erano venuti successivamente arrotondando i propri domini con le città di Mantova e di Ferrara e con la Marca della Toscana. Fu Bonifacio che alla morte di Clemente II, nell'ottobre del 1047, favorí la reintegrazione di Benedetto IX. Ma non fu in grado di mantenerlo sul seggio pontificale, ché Enrico mandò a Roma un suo nuovo candidato: Poppone, vescovo di Bressanone, che prese il nome di Damaso II.

Il quale tuttavia non fu Papa che per ventitré giorni. Questa volta Enrico nominava un suo consanguineo, Brunone di Toul, il quale veramente, nonostante l'origine cosí poco irreprensibile del suo potere pontificio, assunse come Papa una linea di condotta che doveva felicemente portare le aspirazioni alla riforma al loro vittorioso coronamento. Era nato nel 1002 e destinato fin da fanciullo alla carriera ecclesiastica. Educato nelle migliori tradizioni del monachismo benedettino, era poi passato alla corte imperiale donde era stato destinato alla sede vescovile di Toul nel 1027. Designato dall'imperatore alla sede papale, agli inizi del 1049, scendeva verso Roma accompagnato da Ildebrando.

La formalità dell'elezione romana era indispensabile: ebbe luogo, e il neo eletto, preso il nome di Leone IX, cominciò subito a spiegare la sua prodigiosa attività. Il suo Pontificato è scaglionato da sinodi tenuti non soltanto a Roma, ma anche altrove. Dovunque, egli bandisce i suoi decreti contro la simonia e contro il matrimonio ecclesiastico, dichiarato solennemente e ripetutamente una forma intollerabile di concubinato. Particolarmente notevole il sinodo tenuto a Reims nell'ottobre del 1049. In Francia la simonia era ormai consuetudine invalsa. Il Pontefice la condanna solennemente, appellandosi ai canoni di Calcedonia ribaditi nei sinodi parigini dell'epoca carolingica. Da Reims il Papa passava a Verdun, a Metz, a Treviri, a Magonza, dove nell'ottobre del medesimo anno fu parimenti tenuto un numeroso sinodo, nel quale di nuovo la simonia e il concubinato ecclesiastico furono solennemente riprovati.

Scendendo poi in Italia, Leone teneva sinodi a Roma, a Salerno e a Siponto, in territorio ormai già divenuto possesso normanno. Dovunque i vescovi simoniaci erano deposti e sostituiti sulla libera designazione del popolo. Dall'Italia il Pontefice risaliva attraverso la Borgogna e la Lorena in Germania, donde tornava per il sinodo pasquale da tenersi nel 1051 a Roma.

Mano mano che si veniva cosí svolgendo, per opera di un Pontefice designato dall'imperatore, il programma della riforma morale alla quale l'imperatore non poteva che fare buon viso ripromettendosene una piú larga autonomia giurisdizionale, mentre in realtà preparava la grande riscossa religiosa contro il proprio stesso predominio, gli orizzonti della politica pontificia si ampliavano e si precisavano nello spirito del Pontefice.

Già i piani della Crociata in Levante, mentre il Mezzogiorno d'Italia diviene feudo normanno e il potere politico pontificio sente dinanzi a sé profilarsi una pericolosa minaccia, vengono spiegandosi nello spirito del Pontefice. Egli avrebbe voluto, per i fini del riscatto d'oltre mare, l'appoggio cosí di Enrico come dell'imperatore Bizantino, Costantino IX. Il Pontificato ripristinato nella sua interezza morale non avrebbe dovuto estendere la sua supremazia su quell'Oriente troppo a lungo e troppo pericolosamente ormai scisso dall'Occidente? Di qui sorgono nello spirito di Leone i propositi di una campagna antinormanna e di negoziati con Costantinopoli, che spiegano le oscillazioni della politica bizantina all'epoca di Michele Cerulario.

È in questo stesso momento, nel 1052, che i possessi temporali della Santa Sede acquistano piú preciso e definito carattere giuridico, quando Benevento, che aveva cacciato i superstiti Longobardi, si dà al Pontefice che riceve conferma del nuovo dominio dall'imperatore stesso a Worms, in cambio della sua Bamberga. Attraverso questa stessa incorporazione di Benevento nei dominî pontifici, il Pontificato veniva a trovarsi ancor piú direttamente a contatto con i Normanni.

In realtà la calata dei Normanni nel Mezzogiorno d'Italia e la loro organizzazione civile dopo il periodo del fortunato iniziale brigantaggio, avrebbero potuto rappresentare per i Papi un'ottima pedina nel loro scacchiere politico-territoriale, se la vicinanza dei nuovi signori e soprattutto il loro metodo disinvolto e sbrigativo per dirimere le controversie non avessero costituito una incognita troppo minacciosa. Non c'era davvero da star sicuri dinanzi ad uomini come Roberto il Guiscardo che, iniziate le sue fortune come comandante di una piccola guarnigione, lasciata a guardia della valle del Crati dopo la penetrazione nella Calabria cosentina, aveva mostrato di saper magnificamente vivere a prezzo di ricatti e di ruberie.

Le ragioni pertanto che inducevano Papato ed Impero a coalizzarsi ora nella lotta anti-normanna e piú largamente nella rivendicazione del Mediterraneo, erano chiare e impellenti. Con i Normanni che, scesi nel Mezzogiorno, ne avevan fatto il teatro delle loro brigantesche imprese, c'era da temere il peggio.

Sicché Leone IX aveva preso tutte le sue precauzioni, quando si decise a fronteggiare la situazione meridionale e a salvaguardare l'effettivo esercizio di quelle donazioni imperiali che fino allora erano un po' rimaste lettera morta. Ma male gliene incolse, nonostante i preparativi della vigilia. Alla battaglia di Civitate sul Fortore, il 17 giugno 1053, Leone IX era fatto prigioniero dalle truppe normanne.

Fu per il Papato un'umiliazione terribile, che i cronisti partigiani riescono male a dissimulare. Il Pontificato, che aveva iniziato la sua campagna per la purificazione della vita ecclesiastica, sostenuto dall'Impero che sentiva di poter fare assegnamento su un clero celibatario e morigerato piú che su un clero trascinato dalla stessa sua degenerazione morale ad assumere parvenza di ingorda e violenta casta feudale, si trovava ora d'altra parte impegolato nelle competizioni belliche e territoriali, imposte dalla sua posizione di sovrano terreno e dal suo troppo intimo collegamento con l'Impero.

I Normanni seppero essere per il Pontefice prigioniero cavallereschi. Lo lasciarono in libertà. Ma Leone IX non sopravvisse alla umiliante indicibile amarezza e rientrava a Roma nell'aprile del 1054 per morirvi.

La vittoria di Civitate fu per i Normanni il punto di partenza di tutta una nuova serie di conquiste. Il successore di Leone IX, Vittore II, Gebeardo di Eichstadt, già consigliere di Enrico, e ancor meno i Papi che succedettero a lui, Stefano IX e poi, dopo il breve Pontificato di Niccolò II, Alessandro II, non riuscirono a mantenere la politica papale a quel medesimo livello di operosità insonne e vigile a cui l'aveva portata la mirabile solerzia di Leone. Si direbbe che la situazione fosse cosí irta di contraddizioni e di difficoltà, e d'altro canto gli interessi in contrasto fossero ancora cosí intimamente collegati ed aggrovigliati, da non permettere una linea di condotta sempre ferma, lucida, chiara, diritta.

È soltanto Ildebrando che appare compiutamente consapevole di quella che deve essere la rotta da seguire nel programma della purificazione ecclesiastica, e conscio del fatto che, come semplice consigliere, egli non può spiegare in pieno le sue attitudini e la sua adamantina volontà.

In fondo c'era un'insidia nascosta nella stessa rivendicazione del celibato ecclesiastico e della eliminazione di qualsiasi elemento simoniaco nella acquisizione delle dignità ecclesiastiche, troppo facilmente confuse con le profane dignità feudali. Il fatto che il sovrano imperiale fosse cosí caldo e pronto patrocinatore della purificazione del clero quando in pari tempo tendeva ad approfittare del suo favore presso i Pontefici per accaparrare per sé il diritto di designazione e di investitura vescovile, doveva suscitare nell'animo accorto e sensibile di Ildebrando il quesito tormentoso se sotto la rivendicazione morale della dignità ecclesiastica non si nascondesse da parte del potere politico un sinistro e subdolo proposito di manomissione, a danno della piena autonomia dei poteri carismatici e sacramentali. Questi Pontefici, che sono scelti tra le file dei cortigiani e che nell'attuazione del programma riformatore chiedono e ottengono la cooperazione imperiale, corrono rischio di porsi a servizio di questo potere, anche quando sembrano mirare a null'altro che alla reintegrazione del costume celibatario del clero.

La riforma viene palesando di momento in momento tutte le sue piú riposte esigenze e tutte le sue piú vaste postulazioni.

E il programma riformatore avrà la sua piena attuazione solo quando Ildebrando, innalzato al Pontificato, potrà mandare avanti di pari passo il miglioramento dei costumi ecclesiastici a cui avevano dato opera esclusivamente, si direbbe, i suoi predecessori, e la lotta fiera, irriducibile, pronta al martirio, contro le inframmettenze dei poteri imperiali nella gestione dell'amministrazione della grazia.

Senza dubbio l'opera sinodale e l'attività disciplinatrice di Leone IX erano state insigni. Egli aveva portato i vescovi ad un piú intimo e costante contatto con Roma e aveva rinnovato e amplificato il controllo papale sui paesi europei. Una grande cosa soprattutto egli aveva fatto, nell'innalzare la potestà del collegio cardinalizio. I suoi molteplici viaggi, i numerosi sinodi lontani da Roma che egli aveva presieduto, avevano fatto sentire a distanza la giurisdizione pontificia, di modo che quando il diritto canonico venne a sanzionarne le mansioni, la situazione era già matura. A questi sinodi partecipavano ormai non soltanto i vescovi, ma anche gli abbati in numero crescente. Essi venivano a costituire una solida falange di riformatori e il nucleo pronto della maggioranza pontificia.

Il Pontificato di Leone IX pertanto appare ricco di spunti e di principi che avrebbero avuto un religioso sviluppo. Anche il suo successore Vittore II fu poco e raramente a Roma. I suoi viaggi lo portarono di nuovo in Germania. Si trovò cosí al letto di morte di Enrico, che egli stesso seppellí a Spira. E ad Aquisgrana egli insediava sul trono il giovane Enrico IV. La sua presenza e la sua esperienza furono elementi preziosi per l'imperatrice Agnese, ora reggente. Egli moriva ad Arezzo il 28 luglio 1057 e a pochi giorni di distanza, nel dí commemorativo del Papa Stefano I, era nominato a succedergli Federico di Lorena col nome di Stefano IX. La sua elezione fu completamente libera. Soltanto nel dicembre successivo una deputazione fu spiccata da Roma per informare della sua nomina la corte imperiale.

Era stato canonico di Liegi e le sue ricchezze, accresciute dai doni ricevuti a Costantinopoli in occasione di una sua legazione, ne avevano fatto popolare il nome. Ma la sua anima era profondamente monastica. Il suo breve Pontificato non merita di essere segnalato che per la palesata ostilità ai Normanni e per la scelta di Pier Damiani alla dignità di vescovo di Ostia: un posto che il solitario di Fonte Avellana non amò gran che, e da cui chiese di essere nel 1070 esonerato da Papa Alessandro II. La morte di Stefano IX il 29 marzo del 1058 diede alla nobiltà romana una possibilità da lungo vagheggiata. L'Impero e il Papato erano in quel momento privi di qualsiasi contatto scambievole. Nuove potenze, la toscana e la normanna, si erano profilate in Italia. Gerardo, conte di Galeria, formato un partito solo con i conti di Tuscolo e con i Crescenzi, mise a movimento la città il 5 aprile 1058, riuscendo a fare acclamare dal popolo e dal clero, non senza corruzione simoniaca, Giovanni Mincio, cardinale vescovo di Velletri, che prese il nome di Benedetto X.

Mancavano i cardinali piú in vista: Umberto che era a Firenze, Ildebrando che era sulla via del ritorno dalla Germania dove si era recato ad annunciare l'elezione di Stefano. Gli altri però non si lasciarono sopraffare dalle mene del conte di Galeria e preferirono abbandonare la città e raccogliersi in Toscana. Giudicando radicalmente illegittima la nomina di Benedetto, nominavano a Siena nel dicembre 1058 Gerardo, vescovo di Firenze, che prese il nome di Niccolò II. Si trattava ora di eliminare l'intruso Benedetto X. A tal fine un sinodo fu tenuto a Sutri. Dopo di che, con l'appoggio dei Normanni di Riccardo di Aversa, Niccolò II poteva entrare a Roma nel gennaio del 1059. Benedetto fu catturato, deposto, spogliato delle vesti e imprigionato nell'hospitium annesso alla chiesa di Sant'Agnese sulla via Nomentana.

L'ascesa di Gerardo veniva a segnare l'evasione della nomina pontificia dalla sfera strettamente romana e d'altro canto l'alleanza dei Normanni guadagnata mercè l'azione di Desiderio, abbate di Montecassino, era venuta a dare al Pontefice un sostegno indipendente cosí dall'Impero come dalla popolazione dell'Urbe. Nell'intervallo di tempo intercorso fra la sua installazione sul seggio pontificio e il sinodo di Pasqua, Niccolò visitava Spoleto, Farfa, Osimo, dove il 6 marzo 1059 sceglieva Desiderio come cardinale.

Siamo ad un momento capitale nello sviluppo del programma riformatore ecclesiastico e nel medesimo tempo nella legiferazione dei rapporti politici tra Papato, potenza romana, Impero. Per una felice convergenza di circostanze, il Papato sente di potere, in un momento di largo respiro e di relativa autonomia di movimenti, cogliere l'occasione per innestare il programma integrale della riforma cosí morale come giuridica sulla propizia temperie circostante. L'Impero è lontano e rappresentato da un minorenne. Quei Normanni che erano apparsi al Papato come un pericolo e una minaccia a sud, hanno prestato man forte nella soppressione del piccolo scisma provocato dalla nomina abusiva e irregolare di Benedetto X.

Può darsi benissimo che l'idea di fare ricorso ai Normanni per imporre il vero Papa Niccolò II non sia balenata che occasionalmente alla mente di Ildebrando, che frattanto aveva ripreso il suo posto a fianco del Pontefice. Ma d'altro canto l'occasione era troppo propizia perché non la si cogliesse a volo per imporre senz'altro, con atto brusco e risolutivo, una disciplina definitiva all'elezione pontificia, sottraendola a qualsiasi ingerenza dell'imperatore che si era troppo facilmente accostumato a considerare la sede vescovile romana come uno dei suoi vescovadi nazionali e feudali, cercando in pari tempo di mettere in salvo e al sicuro un simile provvedimento con una duratura alleanza con i Normanni, di cui si accaparrava cosí la cooperazione.

C'è qui un sottile e complicato giuoco politico, che ci fa vedere come il Pontificato fosse ormai sceso cosí addentro nel groviglio dei contrasti terreni da non potersene piú facilmente districare. Si era venuta consumando, fino ad estinguersi, quella visione dei trascendenti fini dell'amministrazione ecclesiastica e quella sensazione della caducità irrimediabile del mondo che avevano sostenuto altra volta, all'epoca per esempio di Gregorio Magno, la politica supernaturale della Chiesa di Cristo. Ma ad ogni modo la consapevolezza rigida e fiera della inviolabilità e della incomunicabilità del magistero religioso era ancora alla base della complessa diplomazia pontificia.

Il 14 aprile del 1059 un gran sinodo era tenuto da Niccolò II al Laterano. Vi partecipavano 113 vescovi.

Precedenti decreti avevano regolato l'elezione del Papa. Stefano III nel 769, Stefano IV nell'816, avevano lanciato l'anatema contro chiunque avesse contestato la legittimità di una elezione pontificia fatta concordemente dal clero al completo della Chiesa romana. Ottone I dal canto suo aveva rinnovato il provvedimento di Lotario I nell'824, con cui la canonica e legittima elezione di un Papa attraverso il consenso del clero e della nobiltà del popolo di Roma doveva portare alla consacrazione solo se il neo eletto avesse giurato fedeltà all'imperatore.

Ecco dunque una disciplina canonica completa. Ma l'esperienza aveva mostrato come le ambizioni dei nobili, la pressione imperiale, le sollevazioni popolari, il flagello della simonia, avessero inquinato Roma non meno delle altre Chiese.

I Papi di nomina germanica avevano patrocinato la riforma morale del clero, ma a prezzo della libertà ecclesiastica. Ora che il programma della rivendicazione etica della disciplina ecclesiastica era in pieno sviluppo, bisognava garantire l'assoluta libertà della nomina pontificia.

Ed ecco che il sinodo lateranense dell'aprile del 1059 emanava un solenne decreto sulla nomina papale. Riportandosi agli avvenimenti romani svoltisi alla morte di Stefano IX e denunciando apertamente «la simoniaca eresia» che aveva messo a repentaglio con la nomina di Benedetto X la purezza della Sede Apostolica, il sinodo annuncia di volere prudentemente immunizzare la Sede pontificia da altri disordini del genere e mettere al sicuro da ogni rischio e da ogni contaminazione la santità della trasmissione del potere apostolico. Ed ecco quel che sanziona: «Non appena venga a mancare il Pontefice di questa Chiesa romana universale, i cardinali vescovi, dopo avere scambievolmente esaminata con lo scrupolo piú vigile la situazione, aggreghino a sé i cardinali chierici, dopo di che il rimanente clero e popolo sarà ammesso ad esprimere il proprio consenso per la nuova elezione. Onde evitare qualsiasi varco al malanno della venalità, solo i ceti religiosi dovranno essere i promotori nella elezione pontificia e gli altri dovranno venire dopo in linea subordinata. Nomineranno uno del loro grembo, se ve n'è di idoneo. Qualora nella Chiesa romana non si ritrovi una personalità ritenuta veramente meritevole della nomina, si sceglierà da altra Chiesa. Ché se la perversità di male intenzionati minacci di prevalere sí che una sincera e gratuita elezione non sia possibile nella città, i cardinali vescovi con rappresentanti del clero e del laicato avranno il diritto di eleggere il Pontefice della Sede Apostolica laddove lo avranno giudicato piú conveniente».

Consapevole però della delicatezza del momento e della gravità della decisione presa, il sinodo non manca di aggiungere alle prescrizioni riguardanti la libera nomina pontificale una clausola che vuole salvaguardare le suscettibili pretese imperiali. Nel decreto è detto esplicitamente che quanto si stabilisce vuole lasciare «salvi ed intatti l'onore e la riverenza per il diletto figlio nostro Enrico, che è attualmente re e si spera possa essere con la concessione di Dio futuro imperatore, come già in passato fu concesso, e per i suoi successori che abbiano impetrato il medesimo diritto da questa Sede Apostolica».

Niccolò, e molto piú probabilmente Ildebrando, non dovettero dissimularsi affatto le sfavorevoli ripercussioni che questo ardito decreto poteva suscitare alla corte imperiale, ed immediatamente si diedero a cercare un alleato che potesse in qualche modo salvaguardare alle spalle la sede romana.

Nel mese di agosto il Papa si incontrava a Melfi con i due capi normanni Riccardo di Capua e Roberto il Guiscardo. I Normanni avevano già tentato di ottenere da Leone IX il riconoscimento della loro sovranità sugli Stati meridionali d'Italia, dove si erano installati. Ora Niccolò II concesse questo riconoscimento in nome della donazione carolingica. Roberto il Guiscardo otteneva il ducato di Capua. In cambio i due Normanni giuravano fedeltà al Pontificato romano. Un intreccio felice di circostanze aveva permesso cosí repentinamente al Pontificato di costituire su basi precise ed incrollabili il libero svolgimento della elezione pontificia.

Il successore di Niccolò II morto nel 1061, Alessandro II, che occupa la sede pontificia fino al 1073, non può dirsi che fosse in grado di sfruttare in tutte le sue possibilità la politica cosí tenacemente mandata innanzi da Leone IX prima, da Niccolò II poi. Invece di perseverare nella via tracciata dagli ultimi Pontificati sotto l'assidua e costante operosità di Ildebrando, invece cioè di rivendicare sempre piú e di mantenere intatta l'indipendenza della Santa Sede al cospetto del potere imperiale, egli si lasciò dominare palesemente dalla regalità germanica. Prima sollecitò l'arbitrato della corte imperiale per metter fine allo scisma che accompagnò il suo avvento al soglio pontificio. Di piú, non seppe conservare alla Chiesa romana le alleanze che le aveva procacciato la sagacia accorta di Niccolò II. E troppo spesso, per riuscire grato ad Enrico IV e alla sua corte, Alessandro chiuse troppo benignamente gli occhi sui traffici a cui continuò ad essere in preda la nomina dei vescovi. La simonia e la corruzione continuarono a spiegare le loro fila, approfittando della attenuata vigilanza papale. Questo dodicenne Pontificato va considerato pertanto come una breve parentesi destinata quasi a preparare piú spedita la via e la ripresa a Ildebrando che, proclamato Papa alla morte di Alessandro nell'aprile del '73, doveva cosí eroicamente portare a compimento la lunga lotta papale per la libertà e la dignità del clero.

Alessandro II era morto il 21 aprile 1073. Proprio il giorno dopo Ildebrando, arcidiacono della Chiesa romana, era innalzato alla dignità pontificia col nome di Gregorio VII. Come si svolsero gli avvenimenti repentini e carichi di avvenire? Le versioni dei cronisti non sono concordi. Intorno alla figura del neo eletto dovevano ardere cosí prepotenti le pressioni politiche e religiose, che la leggenda si impadroní prestamente di quella data solenne accumulandovi su versioni contrastanti, attraverso le quali non è facile ricostruire con esattezza il corso degli eventi. D'altro canto, si tratta di sapere se in questa elezione precipitosa furono rispettate le clausole contenute nel decreto sull'elezione papale di Niccolò II.

In una lettera indirizzata solo due giorni piú tardi all'abbate Desiderio di Montecassino, Gregorio VII racconta egli stesso come sarebbero andate le cose: «Dopo aver preso consiglio, noi avevamo prescritto un digiuno di tre giorni e prescritto la recita delle litanie affinché Dio ci aiutasse a decidere quel che apparisse il partito migliore per l'elezione pontificale. Ma ecco che, mentre si procedeva nella chiesa del Salvatore alla sepoltura del defunto nostro signore Papa, si determinò in mezzo al popolo un grande tumulto e frastuono. In modo insensato si gettarono su di me senza darmi il tempo o la possibilità di parlare o di riflettere. È con la violenza che mi è stata imposta la dignità apostolica troppo pesante per me, sí che io posso dire col profeta: – Sono stato trasportato in alto mare e la tempesta mi ha sommerso: io ho penosamente gridato, sí da fare inaridire la mia gola –».

La testimonianza autobiografica naturalmente non illumina tutti i lati oscuri della situazione. Noi abbiamo veduto come il decreto di Niccolò II del 1059 avesse fissato le regole da seguire nella elezione pontificia. È stato esso applicato rigidamente alla morte di Alessandro II? A norma di tale decreto, il vescovo di Roma doveva essere designato dai cardinali vescovi, confermato dagli altri cardinali, acclamato dal resto del clero e dal popolo. Ora, sulla base della stessa testimonianza di Gregorio, appare chiaro che l'elezione del 1073 si è svolta in un ordine che è precisamente l'inverso di quello prescritto dal solenne atto pontificio di Niccolò II. Infatti le acclamazioni popolari hanno preceduto e in qualche modo determinato il voto dei cardinali.

Possiamo pertanto prender nota di questa strana anomalia: il Pontefice, il cui nome è indissolubilmente legato alla grande riforma ecclesiastica e politica dell'XI secolo, è stato innalzato al soglio pontificio da un movimento popolare. E quasi ciò non bastasse, sembra che questo medesimo Papa, cosí valido e pertinace difensore dell'autonomia primaziale romana ed in genere dell'autorità vescovile al cospetto di tutte le potenze laiche, avrebbe chiesto la conferma della sua dignità religiosa al re tedesco. Dal complesso infatti delle testimonianze superstiti, piuttosto contraddittorie l'una con l'altra, pare di dover desumere che, se Gregorio VII non ha direttamente notificato la propria elezione al re di Germania, che del resto in quel momento era in una condizione ecclesiasticamente irregolare, come recalcitrante all'applicazione in pieno dei provvedimenti romani sul clero simoniaco e concubinario; se non ha ricevuto la conferma reale, quanto meno ha ad ogni modo accettato la presenza di un rappresentante di Enrico IV alla propria consacrazione.

Bisogna tener conto della delicatezza della situazione generale e della provvida e duttile accortezza dell'uomo. Gregorio VII non è l'intransigente per partito preso, il nemico dichiarato e ostinato della regalità germanica e di ogni potere temporale.

Il 6 maggio 1073, a pochi giorni dunque di distanza dalla sua elezione, Gregorio scriveva a Goffredo di Lorena: «Per quanto riguarda il re, voi conoscete le nostre idee e le nostre aspirazioni. Nessuno, noi lo diciamo al cospetto di Dio, ha piú cura di noi della sua gloria presente e futura: nessuno la desidera con piú ardente brama di noi. Noi ci proponiamo, alla prima occasione, di trattare con lui, attraverso i nostri legati, in termini affettuosi e paterni, di quanto si riferisce alla prosperità della Chiesa e all'onore della dignità regale. Se egli ci ascolta noi saremo altrettanto felici della sua salvezza che della nostra. Ora egli sarà certamente salvato se, come giusto, egli dimostrerà la propria docilità ai nostri moniti e ai nostri consigli. Se al contrario, cosa che noi deprechiamo, egli dovesse renderei odio per amore, se egli dovesse bistrattare la dignità che ha ricevuto non è di certo su noi che ricadrà, per volontà divina, la sentenza: – Maledetto l'uomo che trattiene la propria spada dal versare il sangue –». C'è in questa dichiarazione, severa e longanime nel medesimo tempo, la dipintura completa dell'uomo che non per nulla, a mezzo millennio di distanza, sembrava riprendere il nome e l'azione di Gregorio Magno della gente Anicia.

Mancherà a tutto il comportamento pontificale di Gregorio VII quel senso apocalittico della caducità delle cose terrene e della precarietà di tutte le potestà umane che aveva avvivato, al declinare del secolo VI, l'opera del primo Gregorio. Ma a parte questa unica differenza, risultato inevitabile della cambiata temperie storica, per tutto il resto si direbbe che Gregorio VII ripristini in pieno secolo XI la gesta mirabile del suo predecessore.

Non per nulla l'uno e l'altro uscivano da una fine e penetrante formazione monastica. Gregorio Magno era stato il celebratore di Benedetto e della sua istituzione, Gregorio VII porta sul soglio pontificio l'ideale lucente della riforma benedettina cluniacense. Era stato forse personalmente a Cluny: aveva ad ogni modo certamente amministrato quel cenobio benedettino di San Paolo oltre le mura dove lo spirito della riforma aveva dovuto essere imperiosamente introdotto. Ed è un'esperienza fondamentalmente monastica, vale a dire squisitamente mistica, quella che regge la grande opera ildebrandiana. Eppure, attraverso le similarità, quanta differenza fra lo spirito monastico di Ildebrando e quello di Gregorio Magno! È la stessa differenza fra il primitivo benedettinismo e il monachismo della riforma cluniacense: quello, creatore di un tipo nuovo di vita aggregata, tutto concluso nella clausura della curtis religiosa, questo, tutto intento a salvare il feudalesimo monastico dalla degenerazione in un feudalesimo laico, che è la riduzione a stato profano di uno stato generato e cresciuto sotto l'egida di un'ispirazione spirituale, unicamente volta a Dio e ai fini trascendenti della sua regalità.

In Gregorio Magno, la metodica di governo come la pietà individuale sono costantemente sostenute e illuminate da una visione palingenesiaca del mondo, che è l'equivalente perfetto della febbrile aspettazione escatologica in cui si era mossa l'esperienza del cristianesimo primitivo. In Gregorio VII, nulla di tutto questo. La sua pietà è profonda e convinta. È una pietà squisitamente cenobitica. Ma è basata su una visione intima e carismatica che si regge indipendentemente da qualsiasi senso oscuro di imminenti catastrofi e di vaste palingenesi miracolose.

La devozione cristiana, anche nelle sue forme migliori, è entrata già in quelle forme di pietà individuale, a costituire la quale hanno contribuito le aspirazioni ascetiche della migliore spiritualità extra-cristiana.

Senza dubbio il tratto dominante del carattere di Ildebrando è una fede ardente illuminata da un potente calore mistico. Credente nel pieno senso della parola, Ildebrando scopre in tutti i fenomeni la mano provvidente e perseverante di Dio. Egli proclama in tutte lettere che, abbandonato a se stesso, l'uomo è debole e fragile. Ogni operazione sua è in funzione della volontà divina, e in Dio solo occorre collocare qualsiasi speranza di salvezza cosí in questo mondo come nell'altro.

Precursore di quel che a breve scadenza sarebbe stato il tratto differenziale della religiosità e della devozione cistercensi, Gregorio è un fervidissimo inculcatore della devozione a Maria «innalzata al disopra di tutti i cori degli angeli, onore e gloria di tutte le donne, salvezza e nobiltà di tutti gli eletti, che sola ha meritato di essere in pari tempo vergine e madre, e di nutricare, secondo la natura, un Dio e un uomo».

Le asprezze e le traversie della sua vita fanno sentire a Gregorio il peso del suo schiacciante fardello, reso tollerabile soltanto dalla fiducia incrollabile nell'assistenza divina. Fede profonda, pietà ardente, sentimento della propria nullità umana e in pari tempo sconfinata fiducia in Dio, umiltà che non esclude la fierezza istillata dalla coscienza di difendere il grande patrimonio ecclesiastico, carità, bontà, misericordia, amore della pace e passione della giustizia, tali sono i tratti piú cospicui del carattere di Gregorio VII.

Se in momenti drammatici della sua carriera pontificale egli ha mostrato una durezza che ha sorpreso e in certo modo scandalizzato i piú intimi; se il sovrano spirituale ha pencolato anche lui in certi momenti verso l'esercizio di una autorità che troppo si rassomigliava a quella dei sovrani terreni, ciò è dovuto in pari tempo e alla avvertita responsabilità di rappresentante del corpo mistico di Cristo nel suo inviolabile cammino nel mondo; e alla peculiare temperie storica in cui il Pontificato si trovava nel secolo undecimo, bisognoso di premunirsi dagli inconvenienti creati dagli stessi suoi istinti e in pari tempo incapace di riportarsi ormai piú a quella intransigente dialettica che aveva retto la Chiesa nel primo periodo della sua conquista.

Gregorio non tarda un giorno ad assumere in pieno l'esercizio del suo potere. All'indomani stesso della sua consacrazione pontificia, il 1° luglio 1073, scrive ai fedeli lombardi per esigere da loro che non riconoscano il loro arcivescovo Goffredo, investito dai precedenti decreti di anatema contro il clero simoniaco e concubinario.

Attraverso la voce di Gregorio VII si avverte la consapevolezza del Papato di essere giunto ad una svolta della sua storia. La creazione dell'Impero cristiano ha rappresentato una salvaguardia e un programma di unità europea. Ma l'Impero e in genere le autorità laiche hanno esorbitato dai loro poteri, immaginandosi che l'investitura papale avesse conferito all'Impero stesso, e quindi in linea subordinata alle potestà inferiori, diritti nella sfera della religiosità, negati dalla natura stessa della vita carismatica e dalla logica della sua disciplina.

Se l'Impero aveva assecondato gli sforzi del monachismo cluniacense e dei Papi che ne rappresentavano lo spirito, compiuti per la purificazione dei costumi ecclesiastici, qui l'Impero aveva portato con sé le sue mire ed i suoi interessi. Quando si era trattato invece di affrancare la dignità vescovile da ogni taccia di simonia e di mercimonio; quando si era trattato parallelamente di affrancare le nomine a dignità ecclesiastiche, sia episcopali sia pontificie, da ogni indebita ingerenza laicale e politica, l'Impero, avvertendo la menomazione alle sue pretese totalitarie, aveva recalcitrato e si era irrigidito nella sua opposizione. Questa opposizione occorreva vincere ad ogni costo.

Il sinodo del 1059 aveva tassativamente proscritto l'investitura laica delle dignità ecclesiastiche. «Nessun ecclesiastico», aveva sentenziato il suo sesto canone, «riceva in alcuna maniera una Chiesa dalle mani di un laico, sia gratuitamente sia mercè un versamento di denaro». Poiché questo canone, sotto il Pontificato di Alessandro II, era rimasto piuttosto lettera morta, Gregorio VII non ne intraprende l'applicazione con brusca e violenta rigidezza. Le prime manifestazioni della sua politica di fronte ad Enrico IV rivelerebbero piuttosto un proposito condiscendente di trattative amichevoli. Anche col re di Francia e col re d'Inghilterra Gregorio VII cerca di instaurare relazioni di cordiale armonia. E in pari tempo si sforza di raggruppare intorno alla Santa Sede gli Stati italiani, il concorso dei quali può riuscirgli utile.

L'Italia meridionale, occupata dai principi normanni, aveva veduto i suoi collegamenti con Roma disciplinati dal sinodo di Melfi. Ma poiché Alessandro II aveva sacrificato questi suoi alleati italiani per riconciliarsi con la Germania, Gregorio VII, ascendendo al soglio pontificio, trovava qui una situazione nuovamente offuscata e si accinse a rasserenarla. Alla fine del luglio 1073 si recava a Benevento, dove l'abbate di Montecassino, Desiderio, avrebbe dovuto procurargli un abboccamento con Roberto il Guiscardo. L'incontro però non ebbe luogo. Ad ogni modo l'andata del Papa valse a rafforzarne la posizione presso i rivali del Guiscardo stesso.

È in questo momento che le figure di Beatrice e di Matilde di Toscana si levano al fianco del Pontefice, come sue confidenti e sue alleate. Cugina di Enrico IV, Beatrice aveva sposato Bonifacio III, marchese di Toscana, assassinato nel 1052, ed in seconde nozze Goffredo di Lorena. Matilde, nata dal primo matrimonio nel 1046, aveva ereditato gli Stati di suo padre e sposato a propria volta un principe lorenese, Goffredo III il Gobbo, che, data l'influenza di cui disponeva nell'Impero, avrebbe potuto rendere alla Santa Sede i piú utili servigi. Gregorio vuol farsene un amico dirigendogli una Bolla nel 1073: egli spiega tutti gli argomenti che militano a favore di una esaltazione sempre piú operosa dell'autorità del Cristo attraverso la Chiesa: «A causa dei nostri peccati il mondo intiero è sotto il dominio dello spirito maligno. Tutti, e specialmente coloro che rivestono alte funzioni nella Chiesa, pensano molto piú a sovvertirla che a difenderla e glorificarla con una pietà filiale. Tutti, presi dalla cupidigia del guadagno e della gloria mondana, si oppongono come nemici a qualsiasi iniziativa che possa riuscire favorevole alla religione e alla giustizia di Dio. Di qui il nostro cruccio, messi nella impossibilità, in mezzo a tanto gravi difficoltà, di amministrare come converrebbe la Chiesa universale e di lasciarne andare il governo in piena sicurezza di coscienza». Erano i primi approcci alle definitive mosse per il trionfo dell'ideale riformatore.

Nel sinodo convocato per la Quaresima del 1074 Gregorio procede a provvedimenti radicali. Fa riconoscere, come legittimo arcivescovo di Milano, Attone, di contro all'investito dall'autorità laicale, Goffredo. Scomunica Roberto il Guiscardo, reo di incursioni nel territorio pontificio. Tre Bolle dirette ai vescovi di Magonza, di Magdeburgo e di Costanza portano la esplicita e solenne dichiarazione di Gregorio: «Ho ritenuto tassativo dovere della mia carica porre termine alla eresia simoniaca e imporre la continenza del clero». I decreti sinodali rispecchiano la medesima ferrea volontà di recidere in radice la simonia e l'incontinenza ecclesiastica, che prende il nome di nicolaismo.

Gregorio interdice ai preti concubinari di celebrare la messa e decreta la deposizione dei prelati che acquistano con denaro la loro dignità, proibendo ai fedeli di assistere alla celebrazione sacramentale di coloro che avranno meritato l'una o l'altra di queste sentenze.

Per far poi rispettare tali decreti, nomina legati incaricati di esercitare dovunque, in suo nome, l'autorità pontificia. L' azione di questi legati non si può dire che fosse accolta con entusiasmo dovunque. In Germania specialmente le difficoltà incontrate, proprio da parte del clero, furono gravi e scoraggianti. Al ritorno dei legati Gregorio in persona cerca di intervenire con lettere dirette. Invano. Cosí in Germania, come in Francia, come nello Stato anglo-normanno, gli ecclesiastici unanimi rifiutano la legge celibataria che la Santa Sede vuole ad ogni costo ripristinare nel suo vigore. L'opposizione si trasforma in ribellione all'autorità primaziale romana. Sull'animo del Pontefice si abbattono anche le amarezze che gli procura la situazione romana.

Lo sguardo di Gregorio, alla ricerca di alleati o forse di diversivi, si affissa lontano. Sogna di ricondurre alla obbedienza della Santa Sede il patriarcato bizantino e si persuade che il miglior modo di avviare i bizantini a riconoscere l'autorità e il magistero di Roma è quello di aiutarli a ricacciare i barbari che minacciano le frontiere imperiali. In una lettera del luglio 1073 a Michele VII prospetta simile eventualità e in pari tempo si adopera per organizzare una spedizione di cui il comando dovrebbe esser preso da Goffredo il Gobbo, da Guglielmo di Borgogna e da Amedeo II di Savoia.

Il tentativo naufraga in pieno. Gregorio non si scoraggia per questo. Anzi, trae forza, si direbbe, dalle delusioni e inclina sempre piú a decisioni drastiche e a provvedimenti radicali.

Nel sinodo del febbraio 1075 egli sanziona una serie di provvedimenti disciplinari, contro i vescovi ribelli alle decisioni pontificie. Rinnova la proibizione di ricevere la designazione episcopale da una potestà laica e fa divieto ai metropolitani di consacrare chi abbia accettato in tali condizioni il «dono» dell'episcopato. Può darsi che tacitamente, però, Gregorio permettesse al vescovo neo eletto di prestare nelle mani del sovrano il giuramento di fedeltà e l'omaggio per le terre su cui il sovrano stesso pretendesse di mantenere il suo «dominium eminens».

Ma l'importanza speciale di questo sinodo, di cui del resto non possediamo gli atti completi, è data dal fatto che, a quanto ricaviamo dal registro di Gregorio, conservato al Vaticano e oggi concordemente riconosciuto come il registro originale, Gregorio VII colse l'occasione per l'emanazione di ventotto proposizioni (Dictatus Papae), miranti a definire la potestà del romano Pontefice.

Da secoli e secoli, dal giorno in cui, al tramonto del secondo secolo, per opera di Egesippo, il vescovado romano era venuto ad assumere un predominio di cosí vasta efficienza, in nome di una iniziale investitura del Cristo su San Pietro, il Pontificato romano, sotto l'imperio di una serie di circostanze prodigiosamente convergenti che avevano dato alla vecchia capitale occidentale un rilievo spirituale sempre piú alto e vasto, si era andato progressivamente costituendo centro e punto di riferimento della comunità cristiana universale.

Agli albori del secolo nono, per provvedere convenientemente ad una situazione generale che esigeva la ricostituzione di una unità mediterraneo-continentale, surrogato in qualche modo della unità imperiale romana, il Pontificato romano aveva creato di fronte a sé una autorità imperiale dotata di universale giurisdizione, quasi a realizzare nella piú palpabile concretezza la visuale agostiniana delle due città operanti nel mondo.

Il tentativo era stato quanto mai rischioso. Sant'Agostino aveva parlato in nome di una filosofia della storia, tutta impregnata di sensazione mistica delle forze operanti in profondità nell'aggregato umano. Era possibile tradurre quelle visuali mistiche in istituti politico-giuridici? L'iniziativa rischiosa aveva prodotto del bene, aveva messo allo scoperto gravi inconvenienti.

I due poteri, da gerarchicamente ordinati, si erano fatti rivali. Il feudalesimo, che si era rigogliosamente sviluppato all'ombra dell'istituto imperiale, aveva invaso ed inquinato la gerarchia ecclesiastica. È forse agli uomini possibile fare un taglio netto fra quel che è diritto e quel che è carismatico, fra l'organizzazione politica e l'organizzazione sacramentale? L'Impero era giunto a defraudare la Chiesa e il suo potere centrale di una delle sue virtú capitali e piú delicatamente invulnerabili: quella di nominare i pastori del gregge cristiano.

Roma reagiva. E reagendo, non poteva fare altro che proclamare, rafforzare, porre al sicuro da ogni invadenza le sue potestà primaziali.

I Dictatus Papae proclamano: «La Chiesa romana è stata fondata dal solo Signore. Solamente il Pontefice romano merita di essere chiamato universale. Solo il Pontefice può deporre od assolvere vescovi. Il suo legato in un sinodo è al di sopra di tutti i vescovi, anche se sia di rango inferiore, e solo egli può pronunciare sentenze di deposizione. Solo il Pontefice può usare insegne imperiali; il Pontefice è il solo uomo di cui i principi bàcino il piede. Il suo nome è unico nel mondo, a lui è permesso di deporre gli imperatori. Nessun sinodo può essere chiamato generale senza il suo ordine e nessun testo canonico esiste al di fuori della sua autorità. Non può essere giudicato da alcuno. Le cause importanti di qualsiasi Chiesa debbono essere sottoposte a lui. La Chiesa romana non ha mai sbagliato e, come attesta la Scrittura, non potrà mai sbagliare. Se ordinato canonicamente, il Pontefice romano diviene indubbiamente santo, in virtú dei meriti di San Pietro. Il Pontefice può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto ad individui ingiusti».

Evidentemente Gregorio VII ha voluto offrire ai compilatori delle future raccolte canoniche una specie di schema su cui si sarebbero venuti mettendo insieme gli estratti della Scrittura e dei Padri, dei Concili e delle decretali.

Da questo momento prende inizio l'imponente lavoro di ricerche testuali che avrà la sua fioritura nelle grandi raccolte, alla fine di questo Pontificato memorando. Quella di Anselmo da Lucca sarà divulgata nel 1083 e quella di Detisdedit due anni dopo: in preparazione di quella che sarà la grande raccolta di Graziano.

Da questo punto di vista Gregorio VII appare il primo dei Papi riformatori, che dal principio del primato romano ha tratto tutte le conseguenze piú valide per la disciplina della società ecclesiastica.

Il cardinale Umberto aveva già enunciato la tesi della superiorità del sacerdozio sull'Impero: «Come», aveva egli scritto nell'Adversus simoniacos, «l'anima presiede al corpo e comanda ad esso, cosí la dignità sacerdotale è superiore alla dignità regale come il cielo alla terra. Perché tutto nell'organismo umano si svolga in ordine, il sacerdozio deve, come l'anima, determinare quel che conviene fare, dopo di che la regalità, simile alla testa, comanderà a tutte le membra dell'organismo e le guiderà per laddove conviene esse vadano. Cosí i re debbono seguire gli ecclesiastici e ricercare l'utilità della Chiesa e della patria. Uno dei due poteri educherà il popolo, l'altro lo dirigerà».

Ma quel che in Umberto è affermazione teorica, in Gregorio e nei suoi Dictatus diviene norma concreta e codice di governo. Tutta la precedente tradizione ecclesiastica viene, si direbbe, a solidificarsi nelle sentenze romane. E scendendo piú minutamente nella concreta applicazione delle sue regole generali, Gregorio moltiplica l'invio dei suoi legati attraverso cui la centralizzazione romana si fa sempre piú rigida.

Nei sinodi degli anni successivi, i decreti sull'investitura laica saranno ribaditi, assumendo forma sempre piú stringata e perentoria. Siamo al momento piú drammatico del conflitto. L'Impero non poteva non reagire ad una proclamazione cosí solenne dei diritti primaziali romani, che veniva ad imporre alla potestà imperiale una posizione cosí palesemente subordinata e una soggezione cosí duramente inviolabile. Esso era nato, è vero, dal gesto consacratore di un Pontefice. In virtú di questa stessa circostanza nulla poteva legittimamente fare equiparare questa nuova creazione cristiana al vecchio Impero di Roma. Ma i nomi suscitano fantasmi e l'Impero cristiano era tratto d'istinto a dimenticare che, appunto perché cristiano, non avrebbe potuto arrogarsi nessuna ingerenza nel dominio inviolabile delle realtà sacrali, amministrate direttamente ed esclusivamente dai vari gradi della gerarchia sacerdotale. La tentazione però era troppo forte perché l'Impero teutonico potesse resistere ad essa. Se il calcolo dei futuribili fosse mai consentito sul terreno della vita concreta degli uomini, ci sarebbe da domandarsi se in terra di Francia, dove l'Impero cristiano era per la prima volta nato, l'insurrezione rabbiosa e iraconda di Enrico IV sarebbe stata possibile.

La Germania, che non era stata mai toccata dalla conquista romana, che aveva ricevuto il messaggio cristiano tardi e per una buona parte sotto la pressione della conquista carolingica, non aveva evidentemente delle realtà carismatiche cristiane la medesima sensazione che ne avevano i popoli piú direttamente sottoposti all'influsso della vecchia latinità cristianizzata. Tanto vero questo, che a spingere Enrico IV alla reazione e alla resistenza furono precisamente quei vescovi e quegli abbati germanici che sono grandi proprietari di terre e che quindi sono piú docili strumenti nelle mani della regalità, la quale d'altro canto, proprio per la pinguedine del dominio ecclesiastico, è piú riluttante a rinunciare alla propria prerogativa dell'investitura, senza rischiare di impoverire la propria autorità.

La rottura non fu immediata. Ancora dopo la vittoria del 9 giugno 1075 sui Sassoni Enrico inviava a Gregorio VII un messaggio cordiale e deferente. Ma non passano pochi mesi e la rottura è consumata. L'occasione è il vescovado milanese, questa longa manus della potestà imperiale in Italia, che viene un po', nell'attuale momento, ad assumere di fronte al Papato e nel governo spirituale della Chiesa la medèsima posizione che Milano aveva tenuto nella metà del secolo IV, quando Costanzo aveva condotto cosí pervicacemente innanzi in Occidente la sua campagna arianeggiante.

Il 30 marzo 1075 Milano fu preda di un vasto, rovinoso incendio. Si mormorò che l'incendio fosse stato doloso: fosse stato cioè provocato dai Patari. La reazione fu violenta. In una sommossa popolare il vescovo Erlembardo fu assassinato. Gli avversari della Pataria chiesero ad Enrico IV la designazione di un nuovo arcivescovo. Ed Enrico IV nominò il diacono milanese Tedalda, che in quel momento era a corte.

Si sarebbe potuto immaginare provocazione piú audace? Evidentemente Enrico IV passava sopra alle decisioni pontificie. Allo stesso modo si comporta in Germania. Gregorio VII ne fa ad Enrico le sue rimostranze in una lettera tutta intessuta di enunciazioni dottrinali dirette ad ammonire il sovrano «perché voglia riconoscere la potestà del Cristo e non voglia paralizzare la libertà della Chiesa che il Cristo, mercè un celeste connubio, ha degnato di fare propria sposa».

Avrebbe dovuto essere un documento pacificatore. Fu invece la scintilla che provocò la catastrofe. Enrico IV deve aver creduto di poter sfidare e dominare la situazione. Egli sa molto bene che il suo alto clero è ostilissimo al Papa e che lo seguirà in caso di rottura con l'autorità romana.

A Roma un attentato a Gregorio VII aveva fatto correre un mortale rischio al Papa. Non era dunque il momento di agire? Egli convoca pertanto a Worms per il 24 gennaio 1076 una solenne assemblea. Le decisioni dell'assemblea sono l'aperta risposta ai Dictatus Papae. I vescovi ribelli accumulano contro Gregorio VII le accuse calunniose che fin dagli inizi del suo Pontificato non avevano mancato di circolare. Rimproverano al Papa l'eccessiva centralizzazione che ha impresso al governo della Chiesa. Enrico IV dal canto suo rimproverava al Pontefice di avergli voluto strappare la dignità regale. Non si parla qui della questione particolare delle investiture: è tutto il problema dei rapporti tra politica e religione che viene affrontato e risolto con una rivendicazione indiscriminata dell'autonomia politica di fronte all'autorità religiosa.

L'episcopato germanico al fianco del suo sovrano disconosceva cosí Gregorio come Papa. Sarebbe stato possibile isolarlo in tutta la Chiesa? Si cercò di guadagnare l'adesione dell'episcopato italiano: anzi del popolo romano.

Un ecclesiastico parmense, Rolando, fu incaricato di andare a Roma a notificare al sinodo convocato per la Quaresima del 1076 la sentenza, emanata a Worms e confermata a Piacenza, di deposizione contro Papa Ildebrando. Ma Rolando ebbe la peggiore delle accoglienze, e, se Gregorio VII non avesse spiegato il suo intervento, non avrebbe neppur salvato la propria vita.

Roma non ne voleva sapere di ingerenze reali ed imperiali nell'amministrazione del tesoro di Cristo. Il registro di Gregorio VII reca a questo punto un'allocuzione pontificia che è una solenne asserzione dei diritti cristiani. In virtú del potere di legare e di sciogliere, che il Pontefice ha ereditato da Pietro, Gregorio VII si considera investito del diritto di deporre i sovrani temporali.

Per la prima volta nella storia della società cristiana, l'autorità suprema della Chiesa riteneva di poter avvalersi della sua potestà spirituale per disporre praticamente dei poteri e degli affari temporali.

Anche prima di procedere alla scomunica di Enrico IV, Gregorio VII interdice a questi di governare in Germania e in Italia. Si ha l'impressione che l'interdizione abbia un carattere provvisorio: debba cioé ritenersi valida fino al momento in cui Enrico IV non abbia sollecitato e praticato le penitenze previste dalla Chiesa, dopo di che egli potrà essere ammesso di nuovo alla partecipazione dei Sacramenti e al governo del suo regno.

Questo sinodo del febbraio 1076 segna effettivamente una affermazione clamorosa della supremazia romana. Procedendo logicamente nello sviluppo delle idee politico-religiose che si erano venute formando a Roma attraverso tre secoli di rapporti con l'Impero, Gregorio VII, con una rudezza impressionante, rivendica al Papato, per il fatto stesso che ha consacrato l'Impero, una potestà di repressione che ha il medesimo ambito che la potestà di consacrazione. Per il fatto stesso che l'autorità religiosa cristiana si era introdotta sul terreno delle realtà politiche, autorizzandosi a coronare sovrani, non aveva accettato di impegolarsi in tutte quelle competizioni empiriche e giuridiche che sono l'appannaggio indeclinabile delle funzioni statali?

La visione agostiniana delle due città, che aveva offerto le linee maestre della struttura politica medioevale, in tanto poteva essere normativa in quanto rimaneva nella sfera delle pure realtà carismatiche e spirituali. Trasportata sul terreno bruciante delle rivalità politico-statali, minacciava di far degenerare i poteri della Chiesa nella zona delle contaminanti gelosie politico-sociali. Cominciava per la storia della Chiesa un periodo veramente nuovo. Quella che era stata la vecchia dialettica della virtú pedagogica del cristianesimo, basata essenzialmente su una legge di progressive realizzazioni sociali, attraverso e in virtú di valori che implicano il rinnegamento del mondo, si andava trasformando in una dialettica fatta tutta di interventi diretti e di rapporti paritetici.

Uno scambio di questo genere avrebbe importato conseguenze gravissime, vulnerando e depauperando l'azione del magistero ecclesiastico, proprio a causa di quei mezzi e provvedimenti pratici nei quali tale azione credeva di poter ora scoprire i suoi strumenti piú validi.

La sentenza, ad ogni modo, del sinodo romano ebbe ripercussioni gravissime per Enrico. Parecchi vescovi defezionano. Questo però non impedisce ad Enrico IV, che il 26 marzo aveva ricevuto notizia della sentenza romana a Utrecht, di rispondere con un gesto collerico, in cui, costituendosi, da accusato, accusatore, denuncia la illegalità del potere di Gregorio VII, contrapponendogli la legittimità della dignità regale, proveniente direttamente dalla volontà di Dio.

Le parti sono cosí invertite. Nel sinodo del 1076 Gregorio VII aveva celebrato la supremazia dell'autorità sacerdotale romana, chiamata a reggere in pari tempo la società laica come la società ecclesiastica. Enrico IV gli oppone la monarchia di diritto divino, indipendente ed autonoma, al cospetto della potestà spirituale.

A Roma Gregorio VII aveva rivendicato in ogni cosa e per tutti gli uomini il suo potere di legare e di sciogliere, ereditato dall'Apostolo Pietro. A Utrecht, Enrico IV afferma che nessuno, neppure il Papa, può portare attentato alla sua autorità, che ha la sua fonte in Dio. Canonisti e polemisti battaglieranno ormai lungamente e aspramente intorno a queste due tesi.

Ma una lettera non poteva rappresentare la risposta adeguata al sinodo romano. Il sovrano laico aveva bisogno di mostrare al cospetto del mondo che anche lui poteva contrapporre ad una convocazione di vescovi una similare convocazione di dignità di ecclesiastici. E a Worms, per la Pentecoste del 1076, un'assemblea di vescovi tedeschi si trovò intorno all'imperatore.

Nella lettera circolare con la quale li aveva convocati, Enrico IV aveva esposto anch'egli i principi che ispiravano la sua azione. «Ildebrando», egli diceva, «ha usurpato per sé, all'insaputa e a dispetto di Dio, la regalità e il sacerdozio. Ciò facendo egli ha tenuto in non cale la suprema ordinanza di Dio, il quale ha voluto che questi due valori, la regalità e il sacerdozio, non si confondessero in uno solo, ma rimanessero separati l'uno dall'altro. O che forse il Salvatore, durante la sua passione, non si è espresso in maniera non ambigua sulla utilità delle due spade? Quando gli si disse: – Signore, ecco due spade; – egli rispose infatti: – Ciò è sufficiente. – Ha insegnato cosí che bisognava portare nella Chiesa la spada spirituale e la spada carnale per recidere la semenza di ogni cosa nocevole, perché tutti gli uomini dovevano essere costretti dalla spada sacerdotale all'obbedienza al sovrano dopo Dio e dalla spada regale alla lotta contro i nemici del Cristo, e in pari tempo all'obbedienza al sacerdozio, affinché la carità fosse il cemento dell'una e dell'altra spada, e il regno non fosse privato dell'onore del sacerdozio né il sacerdozio dell'onore del regno. Ora voi sapete, se volete saperlo, come la follia di Ildebrando ha confuso le due cose».

Anche Enrico IV dunque aveva la sua teoria da spiegare al cospetto della Cristianità. Il conflitto veniva a mostrare in una maniera impressionante quanto fosse difficile mantenere, nella concretezza della pratica quotidiana, la distinzione evangelica di Cesare e Dio. Può darsi che nella formulazione della sua dottrina politica Enrico IV fosse influenzato a suo modo da quella che era stata la tradizionale nozione dell'Impero di Roma anche dopo la conversione di Costantino. A Bisanzio il cesaro-papismo, la identificazione cioè e la incorporazione dell'amministrazione religiosa nell'amministrazione politica, aveva trovato il modo di trasferire, ex novo, in un regime cristiano la prassi tradizionale dell'Impero totalitario romano. Comunque, il suo ragionamento è al riguardo perentorio. «Ildebrando», dice Enrico IV, «ha voluto privare della regalità me che Dio stesso ha chiamato a questa regalità, mentre egli non è stato chiamato da Dio al sacerdozio. E se Ildebrando ha fatto ciò, è stato perché egli ha visto che io volevo regnare in nome di Dio e non in nome suo, perché non lui mi ha creato re».

In verità l'episcopato germanico non rispose con quella concordia e con quella prontezza che Enrico aveva sperato. D'altro canto, Gregorio, piú preoccupato della solenne e inequivocabile affermazione di principî, che della contesa personale, non dissimulava il suo desiderio di vedere il sovrano recalcitrante sottoporsi ad una resipiscenza e quindi ad una riabilitazione. Gli avvenimenti si svolsero in modo da agevolare la realizzazione di questa speranza. L'opposizione germanica ad Enrico IV, l'opposizione di Rodolfo di Svevia, di Guelfo di Baviera, di Bertoldo di Carinzia, si faceva piú serrata. Ed Enrico IV comprese a volo la necessità di una sottomissione, che unica avrebbe potuto rafforzare il suo trono traballante.

Due documenti, l'uno conosciuto sotto il nome di Promissio, l'altro noto col nome di Edictum, fecero noto al Papa e ai príncipi che egli era disposto ad obbedire alla Sede Apostolica e a fare penitenza. Furono i segni preannunciatori di quella riconciliazione del gennaio 1077, legata al nome del Castello di Canossa in quel di Reggio Emilia. Dopo parecchi giorni di aspettativa penitente, Enrico IV fu di nuovo riaccolto da Gregorio VII «nella grazia della comunione e nel seno della Chiesa».

Son passati nove secoli. La storia, scrisse una volta padre Luigi Tosti, contempla ancora Enrico IV penitente ai piedi del Pontefice, e non lo fa levare. Fu gesto grandioso di fiera misericordia, anche se gli avvenimenti a breve scadenza ne mostrarono illusoria l'aspettativa e la fiducia.

Ma è proprio detto che Gregorio VII dovesse seguire la via dell'assoluta intransigenza? Pochi mesi prima, nell'agosto del 1076, il grande Pontefice, ribattendo l'obbiezione di quei vescovi timorati i quali andavano dicendo essere stato gesto esorbitante e oltracotante scomunicare un sovrano, aveva sviluppato ampi argomenti patristici ricordando come Gregorio Magno avesse scomunicato i duchi ribelli ai suoi ordini e Sant'Ambrogio avesse interdetto a Teodosio di assistere ai sacri misteri, dopo il massacro di Tessalonica. Secondo Gregorio la potestà di legare e di sciogliere si estende a tutti, ai re come ai semplici mortali.

Era veramente la politica di Gregorio VII in armonia con la tradizione patristica ed ecclesiastica? In fondo non ci sono nella storia della società cristiana momenti che si rassomiglino. Poiché l'azione della fermentazione cristiana nel mondo ha seguìto una sua parabola ascendente prima, discendente poi, non è da pensare che scrittori di Chiesa e teologi siano perfettamente nel vero quando si citano a vicenda e si rimandano l'uno all'altro, per giustificare la propria circoscritta maniera di applicare i principi evangelici. Come mettere a fronte con Gregorio VII l'atteggiamento di un Ambrogio e di un Gregorio che si trovano dinanzi a sovrani o eterodossi o non da loro consacrati nella sovranità politica?

Aveva detto Sant'Ambrogio, ai suoi tempi, che l'imperatore è nella Chiesa, ma non al disopra della Chiesa. Ma un assioma di questo genere evidentemente non aveva piú il suo valore quando il sovrano con cui il Papa si trovava a conflitto era un sovrano investito di un'autorità regale che in qualche modo si ricollega, come a premessa o a complemento, ad una consacrazione imperiale effettuata dal vicario di Cristo, successore di Pietro.

Ora il problema si poneva dunque in tutt'altri termini. Poiché il regime feudale aveva cosí intimamente mescolato gli interessi politici e gli interessi religiosi; poiché esso aveva fatto dell'episcopato cattolico una sezione della gerarchia temporale, a causa dei cospicui possessi, legati ad ogni sede vescovile; era fatale che i limiti confinali fra giurisdizione papale e giurisdizione imperiale si fossero attenuati fin quasi a scomparire.

Si trattava effettivamente di rivendicare la superiore validità dei valori religiosi al cospetto dei valori politici. E anche se nella polemica Gregorio VII ha esagerato nella rivendicazione dei suoi diritti pontifici, in realtà egli è stato costretto ad esagerare per tutelare l'incolumità religiosa da un totalitarismo politico che veramente minacciava di cancellare dall'istituzione di Leone III il carattere preminente, cioè il carattere cristiano.

Questa consapevolezza della subordinazione della tecnica politica agli interessi del Regno di Dio e della Chiesa è presente in tutte le istruzioni che, nel medesimo torno di tempo in cui Gregorio VII si riconciliava con Enrico IV, egli indirizzava alle corti spagnole: «Noi non abbiamo qui uno stabile diritto di cittadinanza», scrive egli riportandosi alla lettera agli Ebrei, «ma noi cerchiamo di raggiungere la città futura, di cui Dio è l'artigiano e il fondatore. Voi sapete e voi vedete ogni giorno come fragile e precaria è la vita dei mortali, come fallace e ingannevole è la fiducia nelle cose presenti. Lo vogliamo o no, noi corriamo ogni giorno verso la nostra fine. Occorre dunque pensare al nostro vero destino».

L'autore della lettera agli Ebrei aveva parlato di questo diritto di cittadinanza nei cieli, di cui è insignito e privilegiato il cristiano, nutrendo quell'aspettativa affascinata del Regno di Dio veniente, che è la temperie spirituale di tutta la Cristianità primitiva. Ora Gregorio VII adopera le parole dello scrittore neo-testamentario unicamente per porre in rapporto la precarietà della vita presente e la immortalità della vita futura. L'elemento «fascinans» si è affievolito nel corso dei secoli. E quell'attesa del Regno di Dio che per i cristiani primitivi costituiva una vera forza rivoluzionaria, in quanto faceva dei valori attuali un insieme di non valori, al cospetto dei valori futuri da realizzarsi per virtú miracolosa di Dio in un universo trasformato, ha perduto già la sua efficienza sociale, depauperata com'è nella individualistica preoccupazione del proprio destino oltre tomba.

È per questo che l'epico duello di Gregorio VII con Enrico IV, magnifica pagina nella storia della spiritualità cristiana mediterranea, è una pagina che annuncia un tramonto, un lentissimo tramonto, non un'alba. La conciliazione di Canossa fu una effimera tregua di armi.

Quando Rodolfo di Svevia fu contrapposto a Enrico e fra i due rivali alla dignità regale si leva conflitto, Gregorio VII si profferisce arbitro. Pericolosa responsabilità di cui il Papa stesso dovette fare tutta l'amara esperienza. Conformandosi a quelle che erano le informazioni trasmessegli dai suoi legati sulla situazione in Germania, Gregorio VII, nel sinodo romano del marzo 1080, riconosceva Rodolfo come legittimo re e scomunicava di nuovo Enrico IV.

Questa volta la situazione si era aggravata fino ad essere veramente irreparabile. Un'assemblea vescovile radunata da Enrico IV a Bressanone il 25 giugno 1080 dichiarava, sotto la pressione dello scomunicato, Ildebrando decaduto dalla dignità pontificia, e proclamava Pontefice Guiberto arcivescovo di Ravenna, che prendeva il nome di Clemente III. Anche questa volta ad ogni mossa del Pontefice corrispondeva un'analoga mossa del sovrano ribelle. Gregorio aveva riconosciuto a Roma il competitore di Enrico IV come re di Germania. Analogamente a Bressanone, come già a Worms, Enrico non si contenta di annullare gli atti del Papa, ma gli oppone un antipapa, da cui si ripromette di ottenere ben presto la corona imperiale, oggetto delle sue aspirazioni.

Gli eventi sembravano svolgersi favorevolmente al sovrano audace. A quattro mesi di distanza dall'adunata di Bressanone, Rodolfo moriva all'Elster nel combattimento ingaggiato contro di lui da Enrico IV reduce dall'Italia. Ma anche questa volta le disavventure esteriori non fiaccano l'anima del Pontefice. Ancora nel marzo 1081 Gregorio VII, scrivendo a Ermanno di Metz, espone per lungo e per largo la sua visione dei rapporti che devono sussistere fra autorità religiosa e autorità politica. «Come», si domanda il Pontefice in questa lettera «una dignità quale quella regale e laica, inventata dagli uomini del secolo che a volte ignorano Dio, non dovrebbe essere sottoposta alla dignità che la Provvidenza dell'Iddio onnipotente ha costituito per la propria gloria ed elargito al mondo per effetto della sua misericordia?». Il figlio di Dio, Dio e uomo, a norma di una indubitabile credenza, è anche il Pontefice supremo, capo di tutti i sacerdoti, assiso alla destra di suo Padre e costantemente in atto di intercedere per noi. Egli ha disprezzato il regno del mondo, di cui si inorgogliscono i figli del secolo, e si è spontaneamente rivestito del sacerdozio della croce. Chi non sa che i re e i capi temporali hanno avuto per antenati uomini che, ignorando Dio, si sono sforzati, con una passione cieca e una presunzione intollerabile, di esercitare dominio sui loro uguali, vale a dire sugli uomini, attraverso l'orgoglio, la rapina, la perfidia, l'omicidio, in una parola attraverso un'infinità di mezzi criminali, probabilmente per istigazione del principe di questo mondo che è il demonio? A chi potremo noi paragonarli, quando i sacerdoti del vero Signore si sforzano di farli camminare sulle loro tracce, se non a colui che è il capo di tutti i figli dell'orgoglio e che volendo tentare il Pontefice supremo, capo dei preti, figlio dell'Altissimo, a cui promette tutti i reami del mondo, gli dice: – Ti darò tutto ciò se tu ti prosternerai e se tu mi adorerai? – Chi potrebbe mettere in dubbio che i preti del Cristo debbono essere considerati come i padri e i maestri dei re, dei principi e di tutti i fedeli?».

Nessun inciso piú notevole di questo per illuminare il singolare stato d'animo in cui Gregorio VII ha combattuto la sua epica battaglia e ha escogitato la sua dottrina. È uno stato d'animo nel quale le vecchie reminiscenze agostiniane e gregoriane, tutte soffuse di un latente dualismo che mantiene intatta la sensazione neotestamentaria e cristiana primitiva fra le due città e i due poteri che governano il mondo, si accoppiano in una maniera strana, che non è una conciliazione, con quella coscienza del potere sovrano del Pontefice, che si è venuta costituendo attraverso secoli di governo unitario religioso e di ascendente potere morale.

Le decretali pseudo-isidoriane correggono qui e deformano la concezione evangelica del dare a Dio quel che è di Dio, per lasciare al mondo solamente quel che è del mondo.

Nella Cristianità primitiva veramente la città di Dio operava mescolata alla città del mondo, non accampando diritti sovrani inviolabili, ma prestando soltanto l'opera del caritatevole ministero. Ma ormai da tre secoli le circostanze della civiltà mediterranea avevano fatto del Pontificato un creatore di imperi. L'Impero resuscitato non voleva però sentire gioghi sul proprio collo. Chi derivava piú da Dio, l'Impero o il Papato? Pure ricevendo da Roma la consacrazione, l'Impero pretendeva esercitare totalitariamente il proprio dominio. Gregorio VII dové constatare quanto fosse difficile mantenere in atto una cosí drammatica e intimamente contraddittoria posizione spirituale.

Il 21 maggio del 1081 Enrico IV era alle porte di Roma. L'assedio non spaventa l'animo dell'indomito Pontefice. Gregorio VII è abbandonato dai Romani, è abbandonato dagli amici piú cari. Deve raccomandarsi alla tutela di Roberto il Guiscardo che, col pretesto di proteggere il Pontefice, mette a soqquadro e a saccheggio la città. Gregorio VII si trasferisce a Salerno e muore in esilio il 25 maggio del 1085.

Il suo panegirista Paolo de Benried pone sulle sue labbra di morente queste memorande parole: «Ho sempre odiato l'iniquità e amato la giustizia. Per questo muoio in esilio». Sono parole che ben riassumono la gigantesca opera compiuta dal Pontefice. Egli aveva affrancato la Chiesa dal gravame insostenibile dell'investitura laica. Aveva estirpato in radice la simonia. Aveva cancellato dalle infule sacerdotali le macchie del nicolaismo. La centralizzazione ecclesiastica aveva compiuto uno dei suoi passi decisivi.

L'esilio era il suo guiderdone. Ma al tramonto del secolo undecimo i Papi sapevano ancora affrontare l'esilio per la rivendicazione, sia pure a volte spinta oltre i limiti di quella spiritualità che sola garantisce la perfetta legittimità delle rivendicazioni religiose, di quella autonomia del magistero nelle realtà religiose, per la cui instaurazione nel mondo la buona novella è stata, una volta per sempre, bandita.

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