XII LE CROCIATE

Il cristianesimo era nato paradossalmente come un pacifismo, ma un pacifismo spiritualmente bellicista.

Le guerre del mondo compaiono, nella predicazione e nei preannunci di Gesù, come segni precorritori e premonitori della palingenesi che sconvolgerà la Terra e aprirà, attraverso le prove piú dure e le angosce piú inenarrabili, il varco al veniente Regno di Dio. Ma in pari tempo Gesù proclama di essere venuto a portare nel mondo una spada spirituale, che deve recidere fin nel piú intimo chiuso della famiglia vincoli di sentimento e di colleganza. San Paolo dirà dal canto suo che la parola e lo spirito del Signore sono come una lama tagliente, che giunge alle fibre piú riposte della natura umana. E prenderà a prestito dalle contese dell'agone ginnastico e della vita militare le immagini piú appropriate per simboleggiare quell'intimo conflitto che la parola di Gesù apre e scatena fra le velleità della natura e le imposizioni della grazia.

La società cristiana pertanto si organizzerà come una militia Christi in contrapposizione alla militia del mondo. Uno anzi dei problemi piú gravi che si presenteranno alla coscienza cristiana dei primi secoli sarà appunto quello riguardante la compatibilità del servizio militare con la professione cristiana. Nel De Corona Militis Tertulliano approva incondizionatamente il gesto del soldato romano che si è rifiutato di cingere la corona nel giorno del donativum imperiale, trasportando sul terreno della vita spirituale tutte le consegne e tutti i gravami del servizio militare terreno.

Il Signore è un comandante e un sovrano: il cristiano è un milite che monta la guardia armato della sua fede, della sua speranza e della sua preghiera.

Origene, dal canto suo, rispondendo alle accuse lanciate contro il pacifismo cristiano da Celso, afferma che i cristiani non possono dare all'imperatore altro sussidio che quello delle loro invocazioni a Dio per il benessere dell'Impero. Troppo poco, evidentemente, per un patriota romano che come Celso, all'epoca di Marco Aurelio, vedeva sulle rive del Danubio, profilarsi contro Roma la minaccia incombente dei Sarmati e dei Quadi.

Abbiamo già veduto come, con la conversione di Costantino, il problema dell'atteggiamento cristiano al cospetto del servizio militare e della guerra abbia subìto logicamente e necessariamente una profonda trasformazione, e abbiamo visto anche come la preoccupazione degli imperatori «convertiti» fosse fra le altre quella di fare del cristianesimo, anche dal punto di vista militare, una forza a vantaggio del loro accentrato e totalitario potere.

Stendendo nel suo De Civitate Dei la filosofia della storia atta a reggere, come invisibile impalcatura, la civiltà cristiana nel periodo della sua attività costruttrice, Sant'Agostino affronta il problema della guerra. Tutto imbevuto di pessimistica sfiducia nelle forze naturali dell'uomo, egli riconosce che possono sussistere delle guerre giuste, partecipare alle quali è consentito e irriprovevole. Ma immediatamente trae da questa sua concessione la conseguenza desolante che la cosa veramente amara e penosa per l'anima credente è appunto che ci possano essere delle guerre giuste, perché la guerra è per definizione una delle piú grosse iatture che possa incogliere gli uomini, e una delle prove piú irrefragabili della loro funzionale incapacità di operare il bene e di organizzarsi socialmente nel bene.

Gregorio Magno andrà ancora piú in là e riconoscerà nel suo Epistolario, ripetute volte, che le guerre possono a volte avere uno scopo che le giustifichi in pieno, qual è quello di propagare il nome di Cristo fra i non credenti.

Ma quando Gregorio Magno autorizzava già in anticipo cosí, al tramonto del sesto secolo, la guerra che possiamo chiamare santa contro gli infedeli, la società cristiana a- veva subìto una tale evoluzione che sarebbe stato difficile scorgervi ancora inalterati i caratteri dei primi tempi.

Venanzio Fortunato, contemporaneo di Gregorio Magno, aveva cantato ancora i vessilli sacri del re cristiano, riassunti e ricapitolati nel mistero della croce:

«Vexilla regis prodeunt
fulget crucis mysterium.
Dic tropaeum passionis,
dic triumphalem crucem,
pange vexillum, notatis
quod refulget frontibus».

Attraverso il culto dei santi, che offre uno dei mezzi piú significativi e piú esatti di registrare la progressiva trasformazione dell'esperienza cristiana nella storia, si era già manifestato il cammino percorso dalla concezione ecclesiastica dell'eroismo religioso. Il culto dei santi era nato precisamente in Africa, e di là era stato trasportato a Roma come culto dei testimoni che, al cospetto dello Stato persecutore, avevano sostenuto, fino all'effusione del sangue, la prova della loro fede. Fra questi santi figuravano in prima linea quei testimoni appartenenti alla milizia imperiale che, per non contaminare la loro anima con gesti di paganesimo e di culto imperiale, avevano affrontato la degradazione prima, la morte poi.

Nella spiritualità cristiana del quarto secolo post-costantiniano l'ascetismo era venuto a prendere il posto del martirio. Anche l'asceta è un testimone e un martire. Non piú testimone e martire al cospetto dell'autorità civile ufficialmente passata al cristianesimo, ma testimone e martire in quel cimento spirituale che si combatte perennemente nel foro della coscienza e sul terreno dell'auto-rinnegamento e della quotidiana abnegazione.

Con l'avvento dell'Impero cristiano, consacrato da Leone III, e con la insinuazione del regime feudale nel mondo europeo cosí ecclesiastico come laicale, l'ideale della santità subisce una ulteriore trasformazione, conseguenza e premessa in pari tempo di tutta la trasformazione morale e sociale della costituzione europea.

A mezzo il secolo decimo l'iniziatore della riforma cluniacense, Odilone di Cluny, nella sua Vita S. Geraldi Aureliacensis comitis, celebra il suo eroe come il perfetto cavaliere, che la propria attività guerresca ha spiegato unicamente per scopi morali e religiosi. Non per nulla l'arcivescovo Adalberone di Laon chiamerà Odilone di Cluny vero re e comandante per la sua attività nell'incitare la campagna antislamica, in tutte le parti dovunque i seguaci di Maometto hanno piantato le loro tende. Il suo Carmen ad Rotbertum regem è tutta una satira contro quei religiosi rappresentanti dell'ordo supernus che, dimentichi della loro vocazione e del loro mandato, si mescolano all'ordo terrenus, non rifuggendo anche dalla celebrazione di quelle armi che per il cristiano dovrebbero essere segno dello scatenato potere dell'Anticristo.

Ma ormai queste erano voci anacronistiche, sopraffatte in pieno dall'incalzare irresistibile degli avvenimenti. Come già abbiamo veduto, il Sacro Romano Impero, sacro per la sua prima ispirazione e per le sue finalità, veniva automaticamente compiendo un troppo intimo amalgama di idealità religiose e di finalità profane perché il taglio netto tra Chiesa spirito e Chiesa gerarchica, fra Impero laico e Impero consacrato, potesse farsi agevolmente.

E noi vediamo cosí che proprio i medesimi Papi che piú strenuamente combattono per la riforma dei costumi ecclesiastici e per l'autonomia del magistero religioso, sono quelli stessi che piú facilmente e piú al sicuro da scrupoli evangelici consacrano il mestiere delle armi e ne fanno uno strumento a portata di mano delle loro rivendicazioni spirituali. D'altro canto, il senso cristiano, profondamente radicato in tutta la coscienza europea nei secoli di mezzo, si ritrae su posizioni retrostanti, difendendo almeno, di fronte all'ormai riconosciuta liceità della guerra cristiana, il concetto di periodi sacri dell'anno, nei quali è assolutamente vietato di impugnare le armi, come è prescritto di esercitare con piú scrupoloso rigore i doveri dell'ospitalità fraterna e della carità cristiana.

Della cosiddetta «tregua di Dio» noi troviamo le prime manifestazioni in sinodi francesi del tramonto del secolo decimo, dove vediamo riprodotti e inculcati sotto la egida della Chiesa i moniti e i comandamenti di precedenti capitolari. Del resto, non possiamo dimenticare che, come alla genesi del Sacro Romano Impero aveva presieduto l'istinto della società cristiana, tratto verso una ricostituzione unitaria europea che compensasse la lacerazione della vecchia unità mediterranea romana; cosí ora, al rafforzamento della medesima costituzione unitaria, riesumata in quel modo attraverso la consacrazione imperiale di Carlo Magno e dei suoi successori, appariva sempre piú necessario un ampliamento dell'unità spirituale cristiana, in quel bacino orientale del Mediterraneo senza di cui è fatale che l'unità romana appaia incompleta e precaria.

Già prima del Mille le repubbliche marinare italiane, Venezia ed Amalfi in particolare, avevano mantenuto i piú frequenti contatti di traffico commerciale col Vicino Oriente. Dal canto loro i musulmani, padroni del Mediterraneo, avevano fatto sentire il peso delle loro scorrerie sulla penisola italica come sulla penisola spagnola e nelle isole tirreniche. La conquista musulmana dell'Africa settentrionale e della Spagna nell'ottavo secolo, della Sicilia nel nono, avevano esposto a continue scorrerie cosí le coste meridionali della Francia come quelle occidentali dell'Italia. I musulmani vi avevano installato colonie che costituivano il terrore permanente delle propinque popolazioni cristiane.

Durante il decimo secolo gli imperatori bizantini avevano vanamente tentato di tutelare i loro magri, superstiti possessi dell'Italia meridionale, ma erano stati costretti alla fine a pagare il loro tributo agli emiri di Sicilia. La disfatta di Ottone II vicino a Rossano nel 982 aveva segnato il fallimento del potere imperiale nell'Occidente, nella sua funzionale capacità di difensore politico della fede cristiana.

Ma anche la potestà musulmana aveva basi deboli e precarie. I successi dei Normanni sui Greci nell'Italia meridionale, nella prima metà del secolo undecimo, furono il prologo di un'ancora piú vittoriosa campagna normanna in Sicilia. La conquista di Palermo nel 1072, cui seguí a un ventennio di distanza la piena conquista normanna della Sicilia, apriva nuovi orizzonti all'espansione cristiana nel Mediterraneo.

La data alla quale l'Europa apparve pronta per un attacco solidale sull'Oriente islamico può farsi risalire precisamente all'ultimo quarto dell'undecimo secolo. In questo momento l'Islam era stato ricacciato, si può dire, da tutto il territorio europeo, la Spagna eccettuata, e il Mediterraneo occidentale era di nuovo un mare cristiano.

Si comprende come, fino a che la lotta doveva essere combattuta nell'Occidente, qualsiasi schema per la conquista della Palestina apparisse irrealizzabile. Ecco una circostanza di fatto che occorre tener presente nel valutare quella Bolla di Sergio IV, Papa fra il 1009 e il 1012, Bolla la cui autenticità è stata molte volte discussa, nella quale il Papa annuncia la recente profanazione del Santo Sepolcro a Gerusalemme e il suo desiderio di restaurare il santuario manomesso. La sua intenzione è quella di equipaggiare un migliaio di vascelli a tale scopo, ed egli soggiunge di avere già ricevuto notizie dalle città costiere italiane che i preparativi hanno avuto inizio.

Pur accettando il documento per genuino, non è il caso di pensare che i preparativi annunciati siano stati spinti molto innanzi. Le intenzioni di Sergio IV, se pur furono mai espresse, rimasero allo stato di pii desiderî. Le città italiane non erano ancora in grado di apprestare la flotta sognata, e il Santo Sepolcro, solo parzialmente devastato, fu rapidamente restaurato senza bisogno di un intervento occidentale.

Molto piú concreto e sicuro il piano di Gregorio VII del 1074. Nella grande crisi orientale che seguí la fatale battaglia di Manzikert il 26 agosto del 1071, l'imperatore bizantino Michele VII concepí l'idea di chiamare in suo aiuto i cristiani dell'Occidente. Era anche un'eccellente occasione per appianare i dissensi che all'epoca di Michele Cerulario avevano vieppiú diviso Roma da Bisanzio. L'appello del sovrano bizantino raggiunse, come abbiamo veduto, Gregorio VII tutto impegnato nel conflitto con Enrico IV. Era dargli un'opportunità di attuare nel fatto il gran principio del Papa riformatore, che i re della Cristianità sono servi nati della Chiesa.

E per parecchi mesi lo spirito dell'indomito Papa ventilò il progetto di una spedizione in Oriente, alla quale egli si proponeva di partecipare di persona. Ma le preoccupazioni locali gli impedirono di tradurre in atto il suo proposito. Ebbe egli veramente l'idea di quella che fu poi la Crociata del 1096 o il suo progetto si limitava ad una spedizione in soccorso dei Greci? In verità si può dire che, se gli eventi avessero avuto un logico sviluppo, i piani di Gregorio VII si sarebbero svolti sulla linea su cui si svolsero piú tardi i piani di Urbano II. È ad ogni modo straordinariamente significativo che nelle lettere di Gregorio VII si ponga esplicitamente, come meta dell'eventuale campagna, il raggiungimento del Sepolcro del Signore.

Comunque, la situazione non era ancora matura. A venti anni di distanza invece, all'epoca di Urbano II, il mondo cristiano si scuote repentinamente all'appello del Pontefice e alla predicazione di Pietro l'Eremita.

Al sinodo di Piacenza del marzo 1095, ambasciatori dell'imperatore bizantino si presentarono a dipingere a foschi colori la dispersione rovinosa della Chiesa orientale e il pericolo imminente di Costantinopoli. Urbano mostrò cosí commosso interessamento e cosí fervida condiscendenza alle loro invocazioni, che la solidarietà dell'Occidente con l'Oriente parve dovesse realizzarsi facilmente e ampiamente. I mesi susseguenti, mentre la situazione di Gerusalemme si faceva sempre piú difficile, e i musulmani puntavano su di essa, furono mesi di intensa preparazione.

Ci sono argomenti per pensare che i particolari dell'impresa fossero stati tutti contemplati e fissati già prima del sinodo di Clermont. Si era dovuto parlare del momento della partenza, della dichiarazione della tregua triennale per la sicurezza delle case e degli averi dei Crociati, e delle modalità del loro giuramento solenne, espresso mercè l'inserzione di una croce sulla tunica o sul mantello. Non si può neppure dubitare che il Papa si fosse assicurato in anticipo l'appoggio di chi potesse veramente offrire man forte all'impresa. L'adesione di Raimondo di Tolosa suppone che egli fosse preventivamente consapevole delle intenzioni del Papa e avesse già ricevuto l'invito di aggregarsi al movimento.

Preparato cosí l'ambiente, Urbano II poteva presentarsi al sinodo di Clermont, il 27 novembre del 1095, e tenere il suo fiammante discorso di convocazione e di rassegna. Dopo avere discusso di questioni religiose concernenti la Francia, il Pontefice invitava solennemente tutti i principi e tutti i potentati della Cristianità a congregarsi per andare in Terra Santa a liberare il Sepolcro di Cristo e ad aiutare i cristiani del Vicino Oriente. Durante i mesi successivi una pleiade di predicatori, gli uni ufficiali, gli altri volontari, si disperse per tutto il territorio francese e anche al di là a trasmettere l'appello pontificio.

Il contributo personale di Urbano all'impresa non può essere esagerato. I suoi collegamenti col movimento cluniacense, la sua nazionalità francese, la sua eloquenza, la sua energia, la sua capacità organizzativa furono tutti elementi che pesarono in maniera determinante sul rapido successo dell'impresa. Per nove mesi ininterrotti Urbano II si trasferisce da luogo a luogo, dovunque suscitando entusiasmo per la Crociata. Traversò la Francia occidentale fino a Le Mans. A Tours teneva un sinodo fra il 16 e il 23 marzo del 1096. Tornava poi a Bordeaux e riprendendo la via di Tolosa, di Montpellier e Nîmes, rientrava in Italia nel settembre del 1096. Né il re di Francia Filippo né l'imperatore Enrico IV erano in tali rapporti con la corte papale da poter aggregarsi alla prima Crociata. Né tra i nobili che vi parteciparono e che ne furono i condottieri v'era chi potesse esercitare una superiore autorità sugli altri.

Ademaro, vescovo di Puy, fu l'ecclesiastico piú in vista dell'esercito messo in campo, ma evidentemente non poteva esserne il comandante militare. Come vescovo provenzale egli era vassallo di Raimondo di Tolosa. Il carattere composito delle masse raccolte, dov'erano uomini di diversa nazionalità, diffidenti naturalmente gli uni degli altri e sprovvisti di un capo supremo universalmente riconosciuto, nascondeva un fermento immancabile di disunione e di discordia. I partecipi alla prima Crociata non smarriscono mai, dopo il successo, questo carattere primordiale che li faceva apparire come una unione esteriore e fittizia di forze, le cui rivalità dovevano ripercuotersi sinistramente su tutto l'andamento del movimento crociato. Come immaginare che potessero procedere sempre d'accordo un Ugo conte di Vermandois, fratello del re di Francia, con Raimondo conte di Tolosa o con Goffredo di Bouillon, duca della Bassa Lorena, o con i suoi fratelli Balduino ed Eustazio, o con Roberto II di Fiandra, o con Boemondo di Taranto, o col suo nipote Tancredi?

Tre principali vie verso Costantinopoli si presentavavano ai Crociati. L'una, partendo dal Reno e traversando Norimberga e Ratisbona, scendeva verso la vallata del Danubio per attraversare l'Ungheria. Era la vecchia strada dei pellegrini dei Luoghi Santi. Una seconda via traversava la Dalmazia ed era quella che si offriva accessibile attraverso il Mezzogiorno della Francia e il Settentrione dell'Italia. La terza infine era la vecchia via Appia attraverso l'Italia centrale e comprendeva un tratto di mare da Bari o da qualsiasi altra città costiera italiana. Ciascuna di queste vie fu battuta da qualcuna delle numerose bande armate che presero la via di Costantinopoli fra la primavera del 1096 e quella dell'anno successivo.

Nessuno dei condottieri che abbiamo menzionato si mosse prima dell'agosto 1096. Questa era la data fissata per la partenza da Ademaro di Puy.

I primi a muoversi fra i Crociati furono francesi partenti da distretti percorsi da Pietro l'Eremita, che si era rivelato uno dei piú efficaci predicatori di masse. Traversando il Sud della Germania, i primi nuclei partenti s'impinguarono con gruppi di tedeschi raccolti specialmente in quei distretti che erano favorevoli al Papa nel suo conflitto con l'imperatore. Dovettero giungere a Costantinopoli nell'agosto. Mezzi per traghettare il mare e trasferirsi sulla costa asiatica furono messi a loro disposizione dall'imperatore Alessio. Al primo contingente guidato da Pietro seguirono bande disordinate che, attraverso la Sassonia e la Boemia e dopo essersi abbandonate a violenze antisemitiche a Praga, raggiunsero i nuclei precedenti sulle rive dell'Ellesponto.

Alessio cominciò ben presto ad avvertire quanti rischi si nascondessero in questo affluire di masse rapide e disordinate che vivevano sfruttando il territorio traversato e disturbavano in maniera pericolosa il ritmo della vita economica. Arrivavano frattanto i condottieri latini uno dopo l'altro.

Ugo di Vermandois fu il primo a giungere a Costantinopoli. Egli aveva attraversato l'Italia ed era salpato da Bari per Durazzo probabilmente prima della fine di ottobre del 1096. Ricevette cordiale accoglienza da Alessio, dando in cambio quel giuramento di rispetto e devozione che Alessio desiderava.

Il prossimo arrivo fu quello di Goffredo di Bouillon. Egli si era mosso verso la metà di agosto ed aveva seguìto la via di Vienna e dell'Ungheria. Il suo cammino attraverso quest'ultimo Paese incontrò difficoltà e sospetti: erano state necessarie ambascerie a Costantinopoli per avere libero il passaggio. Ad ogni modo riuscí a proseguire il viaggio giungendo a Costantinopoli nel gennaio del 1097.

Seguirono Boemondo, Roberto di Fiandra, infine Raimondo di Tolosa e Roberto di Normandia. Nel giugno del 1097 questi ultimi arrivati procedevano per raggiungere i Crociati che avevano già dato inizio all'assedio di Nicea. L'assedio era già l'espressione di un coraggio che aveva del temerario. Il regno dei Turchi Selgiucidi abbracciava in quel momento le piú floride provincie anatoliche. Dalle rive dell'Oronte e dell'Eufrate si stendeva su fin quasi a lambire il Bosforo. La minaccia crociata aveva indotto il figlio di Solimano a chiamare a raccolta le forze disperse dei suoi sudditi e dei suoi alleati. Nicea, che era stata fortificata, sebbene le montagne bitiniche apparissero di già come un duro baluardo naturale, fu animosamente investita. Le macchine di guerra apprestate da pisani e da genovesi riuscirono particolarmente provvide. Nicea non fu però catturata dai Crociati: fu occupata, non senza inganno, dai soldati greci, mandati dall'imperatore bizantino Alessio.

I Crociati la lasciarono quindi alle spalle e cominciarono ad incamminarsi verso la Siria e verso la Palestina. Si divisero in due eserciti. Il che fu causa di iatture militari non indifferenti. I due eserciti si ricongiungevano nel cuore dell'Anatolia, riuscendo ad aprirsi la via verso Gerusalemme. La marcia fu difficoltosa, soprattutto per la scarsità dei rifornimenti militari.

Falcidiato da perdite, l'esercito, che aveva raccolto agli inizi centinaia di migliaia di armati, giunse ad ogni modo ad Antiochetta. Di là una parte, al comando di Balduino, piegava su Edessa, che conquistò, costituendola in principato. Il grosso dell'esercito crociato raggiungeva intanto le montagne del Tauro, valicandole attraverso difficoltà onerose. La Siria era ormai dinanzi allo sguardo di queste masse di pellegrini armati.

L'inverno fu duro. Soltanto ai primi sentori della primavera i Crociati poterono riprendere le loro operazioni militari, che portarono dopo parecchi mesi di assedio alla cattura di Antiochia.

Si apriva ora il varco verso Gerusalemme. Tre strade vi conducevano: quella di Damasco, quella che attraversa il Libano, infine la terza, costeggiante il mare. Fu scelta l'ultima. Navi genovesi e pisane, veleggiando lungo la costa, rifornivano le truppe di terra di provvigioni. L'esercito crociato traversa Berito, Sidone, Tiro, San Giovanni d'Acri, Lidda, Ramla.

Si era ormai in prossimità della Città Santa. Il 6 giugno 1098 i Crociati raggiungevano Emmaus. Ventiquattr'ore dopo, dalle alture del piccolo borgo potevano scoprire le mura di Gerusalemme. L'assedio della città sognata incominciava. Il primo assalto fu infruttuoso. Occorse preparare ordigni bellici che permettessero l'avvicinamento alle mura della città. Il 14 luglio l'armamentario bellico era pronto e poté essere accostato alle mura. L'assalto fu accanito e tenace. Dodici ore durò la battaglia. Una breccia aperta nelle mura permise infine l'ingresso nella città, che fu accompagnato da una strage orrenda di musulmani. Le vittime islamiche di quella conquista salirono, si disse, a 60 o 70 mila.

La Crociata aveva toccato la sua meta religiosa e l'epoca dei principati franchi in Oriente cominciava. Goffredo di Bouillon era costituito capo di Gerusalemme, facendo però giuramento di vassallaggio al nuovo patriarca della città Daimberto, arcivescovo di Pisa. Balduino di Boulogne e Boemondo di Taranto dal canto loro non prestavano alcun atto di vassallaggio al re di Gerusalemme, signoreggiando ciascuno per proprio conto rispettivamente in Edessa e in Antiochia.

Quel che si venne costituendo in Palestina all'indomani della conquista di Gerusalemme non fu un unico Stato. Si trattò piuttosto di una collettività di piccoli Stati quasi completamente indipendenti l'uno dall'altro. La preminenza di Gerusalemme rimase sempre molto piú nominale e teorica che reale. Mentre in Occidente il regime feudale andava sgretolandosi sotto la pressione delle nuove forze economiche, riassommate tutte in uno sviluppo demografico che rendeva impossibile il frazionamento economico-terriero delle vecchie istituzioni feudali, in Oriente questo regime feudale aveva una reviviscenza, determinata dal fatto stesso che questi principi crociati, tutti rampolli di vecchie case feudali, trapiantavano in un territorio nuovo le tradizioni, le preoccupazioni, le concezioni avite.

Il re di Gerusalemme è investito del titolo e del potere dalla volontà dei compagni. Da principio, oltre il dominio di Gerusalemme, non abbiamo che i principati di Edessa, di Antiochia e di Tripoli d'Asia. Le successive conquiste di Caifa, di Cesarea, di Acri, di Tiro, permettono la creazione di nuove signorie, che dà all'Asia Minore una vera configurazione feudalistica.

La fortuna crociata sortiva ingenti ripercussioni nell'Occidente cristiano. A prescindere dalle nuove spedizioni che furono determinate dal desiderio di seguire cosí fortunate orme di conquista, noi dobbiamo piuttosto cercare di individuare le cospicue trasformazioni che il fatto della conquista palestinese, da parte di signori cristiani d'Occidente, e la costituzione del regno gerosolimitano determinarono, in maniera duratura e profonda, in tutta la compagine morale, ideale e istituzionale della tradizione cristiana.

Intanto una singolarità della situazione generale era costituita dal fatto che, mentre nell'Occidente europeo il feudalesimo veniva rapidamente depauperandosi e infiacchendosi di fronte al sorgere della potenza comunale, l'Oriente, già separato dall'Occidente e per la ormai completamente eterogenea politica bizantina e per l'Islam rafforzato dall'avvento turco, veniva a rappresentare una artificiosa e bastarda reviviscenza feudale non raccomandata ad alcuna corrispondente configurazione economica e morale.

Naturalmente le grandi idealità religiose che avevano rappresentato il rivestimento mistico e mitico delle aspirazioni mai spente all'unità del mondo mediterraneo, erano tali forze da esercitare, in virtú stessa del successo gerosolimitano, cospicue conseguenze in tutta la struttura della cultura ecclesiastica. Senza cadere nelle esagerazioni in cui sono caduti nel passato, e specialmente nell'epoca della reazione all'illuminismo enciclopedico e alla rivoluzione francese, storici insigni, che attribuirono alle Crociate i fatti piú disparati, dal successo della monarchia franca allo sviluppo urbanistico europeo, dalla intensificazione del commercio internazionale allo sviluppo dell'università e dalla apertura delle grandi vie asiatiche alla rinascita letteraria del secolo XIII in letteratura, in filosofia e in arte, si può ben riconoscere che, nel momento in cui sorsero, le campagne armate per la riconquista dei Luoghi Santi esercitarono su vasta scala una imponente azione internazionale.

Furono innanzi tutto un salutare diversivo alla lotta che si era già fatta gigante tra l'Impero e il Papato. Furono in secondo luogo un potente coefficiente della rinsaldata forza pontificia nel XII secolo, collocando il Papato in una posizione di riconosciuta egemonia che non fu sterile nel duello con le potestà secolari.

Lo spirito piatto della massa fu, per forza d'inerzia, tratto a ripiegare sul còmpito del riscatto della Gerusalemme terrena mercè le armi, a preferenza dell'idea cristiana iniziale che incitava a guadagnare la Gerusalemme celeste mercè la pratica inerme delle virtú cristiane. L'uomo normale poteva trovare nell'arruolamento crociato, non solamente il soddisfacimento di quelle energie bellicose che si prestano cosí facilmente ai rivestimenti romantici, bensí anche, mercè l'acquisto dell'indulgenza crociata, la sicurezza del premio eterno.

Con questo concetto di una indulgenza capace di annullare ogni debito di pena contratto con il peccato, qualcosa di nuovo e di rilevantissima importanza entrava nel quadro della pratica cristiana. E noi vedremo come una delle originalità appunto del movimento francescano sarà quella di svuotare questa indulgenza crociata di ogni suo valore, per tentare di premunire la collettività cristiana da quel sottile veleno del bellicismo sacro, che la Crociata le aveva istillato nelle vene.

Gregorio VII aveva già assicurato la remissione da ogni pena dovuta per i peccati a coloro i quali in particolari località avessero combattuto a fianco del Papa in una santa causa. Urbano II applicava tale assoluzione a tutta la Cristianità, asseverando che «coloro i quali morissero partecipando alla Crociata, con sentimento di penitenza, avrebbero senz'altro ricevuto pieno perdono per i loro peccati e il frutto della ricompensa eterna nell'al di là».

Adagio adagio l'indulgenza comincerà ad essere usata come fonte di introiti finanziari. Nel 1184, coloro i quali si trovavano nell'impossibilità di prendere la croce erano autorizzati ad elargire contributi per le spese crociate, attenendone in cambio indulgenze parziali. Nel 1195 Celestino III scriveva ad Uberto di Canterbury, come suo legato in Inghilterra, che «coloro i quali avessero offerto i loro beni in aiuto della Terra Santa, avrebbero ricevuto il perdono dei loro peccati dal loro vescovo, in termini che egli, Celestino III, si riprometteva di prescrivere». Nel 1215 il quarto Concilio del Laterano andava ancora piú in là e prometteva la stessa indulgenza plenaria a coloro i quali avessero contribuito alla Crociata in proporzione dei loro mezzi.

Quella mescolanza di interessi terreni e di interessi spirituali, di politica e di religione, che era stata uno dei risultati piú palpabili della creazione dell'Impero e della susseguente costituzione feudale, rinasceva in qualche modo nella sfera della vita economica ecclesiastica. La Riforma luterana rimprovererà alla Chiesa di Roma di aver fatto mercimonio dei valori spirituali e della disciplina sacramentale.

In realtà il regime delle indulgenze veniva a far perdere il senso preciso della inconguagliabilità di tutto quello che è carismatico nella Chiesa a tutto quello che è terreno ed empirico. Per quella paradossale ambivalenza che accompagna sempre nella storia il processo e il funzionamento della società ecclesiastica, come il Papato di Roma si era inserito nel fascio non incontaminato delle forze politiche e giuridiche pubbliche mercè la creazione di quell'Impero che avrebbe dovuto tutelarne il magistero spirituale, cosí ora l'ideale crociato, espressione religiosa di una profonda aspirazione alla ricostituzione dell'unità mediterranea, veniva a creare pericolosi sconfinamenti della disciplina spirituale nella zona delle piú prosaiche realtà economiche.

Ma su un problema in particolare la Crociata minacciava di far perdere la consapevolezza di quel che v'è di cristianamente incompatibile nell'uso delle armi con la professione evangelica. E lo si vide ben chiaro con la nascita degli Ordini religiosi militari.

Noi incontriamo a questo proposito, mescolata fin d'ora al movimento crociato e a tutte le sue ripercussioni, la piú grande figura della Cristianità occidentale nel secolo duodecimo, Bernardo di Chiaravalle. Quando Urbano II predicava a Clermont la prima Crociata, Bernardo era un fanciullo. Ma la sua vita, che doveva essere cosí sorprendentemente mescolata a tutte le vicende della sua epoca, doveva risentire in maniera prepotente degli avvenimenti militari, accentrati intorno all'idea del riscatto dei Luoghi Santi.

A dieci anni o poco piú di distanza dalla conquista di Gerusalemme e dalla costituzione dei principati franchi in Levante, di fronte allo stato di desolazione e di insicurezza in cui, nonostante i successi militari di Goffredo di Bouillon e dei suoi compagni, si trovava la Palestina, alcuni cavalieri francesi, alla testa dei quali occorre segnalare Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer, animati da uno spirito essenzialmente cavalleresco e pur non intendendo di rinunciare al loro stato laicale, concepirono l'idea di organizzare delle squadre armate che, sempre in nome degli ideali cristiani e crociati, si dessero alla vigilanza e alla salvaguardia delle strade e dei pozzi lungo gli itinerari piú battuti, per proteggere i viandanti e i pellegrini d'Occidente dalla guerriglia saracena e dal banditismo che infestava il nuovo regno gerosolimitano.

Il Re Balduino, che fin dal primo momento sembrò apprezzar molto i loro servizi, assicurò loro i rifornimenti necessari e assegnò una dimora fissa, che fu il convento dei canonici regolari nel luogo ove era sorto un tempo il tempio di Salomone. Per questo furono denominati i Templari. Il carattere religioso del loro programma fu posto sempre piú in luce. Finirono pertanto con l'impegnarsi, mediante voto solenne pronunciato al cospetto del patriarca di Gerusalemme, a combattere «i nemici di Dio nella obbedienza, nella castità e nella povertà». E allora si videro questi cavalieri fondere insieme l'esercizio a volte spietatissimo delle armi, con tutti gli obblighi piú rudi della vita monastica.

Non è chi non veda l'aberrante allontanamento di questa concezione da quella che era stata la visione della primitiva vita cenobiale. I cenobiti d'Oriente del quarto secolo, i cenobiti benedettini del sesto, avevano voluto realizzare la perfezione evangelica nell'isolamento, nella mansuetudine, nella rinuncia e nell'abbandono reciso e totalitario del mondo. Questi cavalieri monastici del secolo XII disposavano l'ideale monastico a quel che di meno cristiano c'è nella vita associata degli uomini: la guerra. Si capisce come una commistione cosí innaturale dovesse destare diffidenze e ritrosie per il nuovo ordine.

Ad ogni modo le sue prime conquiste in Francia furono clamorose. Nel 1125 Ugo, conte di Sciampagna, abbandonava il suo feudo per aggregarsi ad esso. Bernardo, in quell'epoca già abbate di Chiaravalle, gli espresse subito la sua sorpresa. Probabilmente Bernardo avrebbe preferito che Ugo avesse seguìto piú da presso il suo esempio e, lasciando il suo feudo, fosse venuto ad unirsi alla grande famiglia cistercense che, sotto la guida di Bernardo stesso, andava conquistando rapidamente le piú disparate plaghe d'Europa; ma evidentemente Ugo, sotto l'onda degli entusiasmi crociati, non concepiva piú la necessità, per un convertito alla perfezione cristiana, di rinunciare all'esercizio delle armi.

L'ordine dei Templari realizzava la piú eccentrica delle consegne e la piú inaudita vocazione. Adoperare la spada al servizio di quel Cristo che non aveva conosciuto altra spada che quella spirituale, costituiva effettivamente un allontanamento radicale dall'essenza del cristianesimo. Ma Bernardo sapeva molto bene, e lo aveva dimostrato e lo avrebbe ancor sempre dimostrato in tutte le circostanze, adattarsi alle circostanze del momento e trarre vantaggio in prò del suo Ordine da tutte le occasioni che si prestassero al suo indomabile prurito di proselitismo e di successo.

Il 13 gennaio 1128 si adunava a Troyes un Concilio chiamato appunto ad approvare la Regola dei Templari. Era ancora una Regola embrionale. A prescindere dalle prescrizioni che riguardavano la divisa e il regime alimentare, per il resto la nuova Regola non faceva altro che attingere alla Regola di San Benedetto tutto quello che poteva prestarsi in qualsiasi misura a cavalieri decisi a mettere la loro spada al servizio della causa cristiana in Oriente.

A Troyes fu imposto ai Templari il voto di castità, povertà e obbedienza. La loro divisa riconoscibile doveva essere un mantello bianco. La croce rossa fu loro assegnata solo piú tardi. San Bernardo, ed è questo uno dei lati piú strani e sconcertanti del suo complesso carattere e della sua proteiforme attività, si costituí apologista, come sempre appassionato, del nuovo Ordine e della sua Regola. Cavaliere di razza, monaco per vocazione, portava nel suo spirito un residuo di romanticismo guerresco. E scrisse il De laude novae militiae.

Fu probabilmente il piú arduo e intimamente combattuto dei suoi scritti. Si accinse innanzi tutto a giustificare l'uso della spada e il mestiere del soldato in un'epoca in cui il servizio delle armi era unicamente scelto ed eletto per iniziativa individuale.

Ed ecco le piú sconcertanti fra le dichiarazioni del grande mistico cistercense che aveva dato alla riforma di Citeaux il suo slancio impetuoso e la sua immensa capacità di conquista: «Non c'è legge che vieti al cristianesimo di colpire con la spada. Il Vangelo raccomanda ai soldati la moderazione e la giustizia. Ma non dice affatto a loro: – Gettate via le armi e rinunciate alla milizia. – Quel che è proibito è la guerra iniqua e specialmente la guerra fra i cristiani. Anche uccidere i pagani sarebbe vietato, se ci fosse possibilità di impedire in qualche altra maniera le loro irruzioni e di togliere ad essi i mezzi atti all'oppressione dei fedeli. Ma oggi è molto meglio massacrarli, affinché la loro spada non rimanga sospesa sul capo dei giusti, e affinché i giusti non si lascino sedurre dalla iniquità. Disperdere questi gentili che vogliono la guerra, eliminare questi operatori di iniquità che vagheggiano di strappare al popolo cristiano le ricchezze racchiuse in Gerusalemme, di contaminare i Luoghi Santi e di possedere in eredità il Santuario di Dio, ecco la piú nobile delle missioni per coloro che hanno abbracciato la professione delle armi. Su, dunque, che i figli della fede levino senz'altro le due spade contro i nemici».

San Bernardo si riporta perfino all'Antico Testamento per trovare il modo di esaltare il programma propostosi dalla nuova cavalleria. Del resto, si domanda l'abbate di Chiaravalle, che piu? «Cristo stesso, il Principe, il Capo dei cavalieri, non si armò egli un giorno non di ferro, ma di una frusta per cacciare i venditori dal Tempio?». Seguendo il suo esempio, i cavalieri che abitano con armi e cavalli là dove altra volta si levò la costruzione maestosa del Tempio, avranno il còmpito di impedire agli infedeli di maculare i Luoghi Santi.

Giustificato cosí genericamente il programma templario, e rivendicato a suo modo ai cristiani il diritto di impugnare le armi per uno scopo che la Cristianità del tempo ritiene squisitamente pio ed evangelico, Bernardo si fa ad esaltare la strana e nuova professione dell'Ordine. «Il mondo», egli dice, «rigurgitava di monaci e di cavalieri. Quel che non si era ancora visto e che costituisce il piú seducente e meraviglioso spettacolo è la fusione di questi due ordini, è la vita dei cavalieri che professano la vocazione dei monaci». Si direbbe che per un ripullulare di sentimenti atavici, l'ex-cavaliere e l'ex-signore feudale che è San Bernardo, entrato nella riforma cistercense rinunciando ad un possesso che la profonda trasformazione economica e demografica circostante aveva reso sterile, anzi insostenibile, si rifà esaltando nel Templario la figura del Cavaliere armonizzata con i nuovi tempi.

In una strana mescolanza di sentimento mistico e di sentimento cavalleresco, Bernardo, mentre pone in ridicolo le fastose e vacue occupazioni della vecchia cavalleria, esalta d'altra parte le occupazioni belliche e l'ardimento combattivo del nuovo Ordine. Con un virtuosismo dialettico che può destare il sorriso, l'abbate di Chiaravalle rileva il contrasto fra il duplice modo di combattere, quello dei cavalieri laici e quello dei cavalieri monaci. Non è possibile, egli dice, che gli uni e gli altri considerino la morte e la affrontino con la medesima confidenza e la medesima sicurezza. Perché solamente la guerra giusta è approvata da Dio. Riportandosi pertanto a quel che Sant'Agostino aveva detto sulla guerra giusta nelle sue Quaestiones in Heptateuchum, Bernardo scrive: «La guerra è giusta solo quando ci si propone di punire una violazione del diritto. La guerra è giusta quando si tratta, per esempio, di punire un popolo che si rifiuta di riparare una azione malvagia o di restituire un bene male acquistato. Si aggiungano i casi odiosi in invasioni, che è sempre legittimo respingere. Ma tali casi sono rari. La vecchia cavalleria versava il sangue per motivi futili, se non inconfessabili. Oggi non è piú cosí. Triste combattimento era quello che aveva per principio e per causa un colpevole desiderio di ampliamento di conquiste o un vano amore della gloria. In simili casi dare la morte o riceverla non è cosa né sicura né gloriosa. La gloria militare infatti non si misura già sulla violenza dei colpi inferti, bensí sulla giustizia della causa che si difende. Se la causa non è giusta e se l'intenzione non è retta, si va alla vergogna, non all'onore. In tali casi l'alternativa è quella di essere o omicidi vivi o omicidi morti. Vittoriosi o vinti, morti o vivi, è cosa sempre triste essere omicidi. I Templari non si trovano di fronte a questa alternativa. Essi combattono le lotte del Signore e lo possono fare in tranquilla coscienza perché sono i soldati del Cristo. Che essi uccidano il nemico o muoiano essi stessi, non hanno alcuna ragione di concepire del timore. Subire o portare la morte per il Cristo, non è mai un crimine: è ragione di gloria. Il Cavaliere del Cristo può uccidere con la coscienza tranquilla e può morire in Pace. Morendo, lavora per sé. Uccidendo, lavora per il Cristo. Non è dunque senza ragione che egli porta la spada. È il ministro di Dio per la punizione dei malvagi e l'esaltazione dei buoni. Quando uccide un malfattore, non è un omicida, ma un malicida; e bisogna vedere in lui il vendicatore al servizio del Cristo e il difensore del popolo cristiano. La morte dei pagani costituisce la sua gloria, perché essa è la gloria del Cristo. La sua morte è un trionfo altrettanto che una vittoria, perché essa lo introduce nel soggiorno delle ricompense eternali. Se morire in Dio è un destino felice, quanto piú felice non è il destino di chi muore per Iddio!».

Tertulliano, agli albori del terzo secolo, aveva proclamato che il cristiano, soldato di Cristo, non può praticare altra milizia che quella del suo Signore, milizia che è tutta nello spiegamento delle opere pacifiche e della carità, nelle veglie della preghiera e nelle inquietudini insonni che attendono il veniente Regno di Dio. Sono passati nove secoli. Le esperienze e gli orientamenti della Cristianità primitiva hanno subìto delle metamorfosi portentose. Ma quella che il cristianesimo ha subìto nel modo di considerare le armi è senza dubbio una delle piú sostanziali. Tertulliano sarebbe inorridito al cospetto delle dichiarazioni bernardiane. Nel momento storico in cui l'abbate di Chiaravalle le enuncia, sono la tessera universale della professione monastica.

Né San Bernardo potrà limitarsi a queste dichiarazioni teoretiche. Il corso degli eventi, la logica dei presupposti, lo trascinano ad operare fino in fondo in sostegno dell'ideale crociato. Ma non passeranno molti anni ed un cistercense italiano, transfuga dal suo Ordine per la costituzione di una riforma nella riforma, avvertirà il pericolo delle idee del suo patriarca, e annuncerà la necessità della missione inerme, come unica forma di vero e autentico proselitismo cristiano.

Le vicende dei principali feudi franchi in Oriente non erano delle piú brillanti. E la composizione etnica della regione, e la complessità degli elementi politici in giuoco, e la eterogeneità degli elementi entrati nell'attuazione del piano crociato, erano tutti coefficienti che rendevano precaria e malsicura la situazione della Terra Santa liberata.

Il territorio conquistato dalle legioni di Cristo non era gran cosa. Procedendo da nord a sud si estendeva dai monti del Tauro e dalla regione di Edessa, fino all'Egitto. Aveva per confini il Mediterraneo ad ovest, la valle dell'Oronte, il Libano, il Giordano e il Mar Morto ad Oriente; misurava probabilmente una superficie di 75 mila chilometri quadrati e contava una popolazione di un mezzo milione. In questo mezzo milione figuravano Siriaci ed Arabi, Ebrei e Turchi, Armeni, Georgiani. I Latini ortodossi si trovavano a contatto con gli indigeni delle varie sette eterodosse, formatesi fra il quinto e il sesto secolo e con un numero prevalente di musulmani.

Si possono quindi immaginare le difficoltà sollevate ad un governo da tale caleidoscopica condizione etnico-religiosa. Anche per il governo meglio accentrato e burocraticamente piú saldo la bisogna non sarebbe stata agevole. Immaginiamoci poi che cosa dovesse essere per una molteplicità di principati feudali, la cui atmosfera era quella delle rivalità e delle diffidenze reciproche.

Alla morte di Goffredo, Balduino, suo cugino, gli succedeva per elezione. Egli abbandonava la contea di Edessa e fu accolto a Gerusalemme in maniera trionfale. Ma l'inimicizia con Tancredi di Galilea continuò a covare sotto la cenere. Balduino si rivelò sovrano accorto e ardimentoso. La conquista di Tripoli fu una bella pagina del suo governo. Ma come Goffredo, anche egli morí precocemente nel 1118, reduce da una spedizione contro il sultano d'Egitto. Fu eletto al suo posto il conte di Edessa, Balduino del Bourg. Fu anch'egli prode condottiero, ma sfortunato. In una spedizione organizzata in soccorso di Edessa fu catturato dai Turchi. Durante la sua cattura le truppe crociate, comandate da Eustachio Grenier e fiancheggiate da un forte soccorso veneziano, conquistavano Tiro. La gioia di una tale vittoria fu accresciuta dal ritorno improvviso di Balduino del Bourg, riuscito a sottrarsi alla prigionia e a ritornare a Gerusalemme, bramoso di nuove imprese belliche.

I suoi successori furono prima Falco, conte di Anjou, e poi Balduino III. Quest'ultimo tentò contro Bosra una impresa sfortunata. Frattanto gli eserciti musulmani, comandati da Zengui prima, da Nureddin suo figlio poi, si riversavano contro Edessa, che fu catturata. Questa caduta fece sentire alla minacciata Gerusalemme il bisogno di chiedere d'urgenza il soccorso dell'Occidente.

Era il novembre 1145. Edessa era caduta poco meno di un anno prima. Il vescovo di Gabala compariva improvvisamente a Roma alla corte di Eugenio III, il Papa cistercense cresciuto sotto la tutela e la ispirazione di San Bernardo, il quale veniva ad annunciare il suo proposito di traversare le Alpi per chiamare ed invocare l'aiuto di Luigi VII, re di Francia, e di Corrado II imperatore, per la Terra Santa pericolante.

Luigi VII era piú che preparato a raccogliere l'appello. Ai vescovi e ai baroni del suo regno convocati a Bourges nel giorno di Natale 1145 per la cerimonia dell'incoronazione, egli annunciava solennemente la sua decisione di assumere la croce, invitando gli ascoltatori a seguire il suo esempio. Sembra che Bernardo fosse stato chiamato all'adunanza. Ma non vi fu presente. Il suo biografo ci dice che, prima di prendere qualsiasi decisione, avrebbe voluto attendere la volontà del Pontefice. Ma c'era da pensare che la volontà di Eugenio III fosse diversa da quella di San Bernardo? Può darsi che la duplice anima di San Bernardo, l'anima monastica e l'anima cavalleresca, fossero piú in contrasto che mai. Ad ogni modo fu un'esitazione di breve durata.

Eugenio III venne incontro entusiasticamente al desiderio di Luigi VII. Egli dichiarava che sarebbe stato felice di potersi trasferire in Francia sull'esempio di Urbano II, ma che ne era trattenuto dalla precaria sicurezza delle cose romane. Incaricava pertanto l'abbate di Chiaravalle di sostituirlo nella missione apostolica e di predicare lui la Crociata.

Bernardo toccava allora i cinquantasei anni. Era all'apogeo della sua gloria. Come dice Ottone di Frisinga, Germania e Francia lo riverivano concordemente come un Apostolo e un profeta. Il suo intervento personale nella preparazione della Crociata non avrebbe potuto non essere decisivo. E Bernardo andò alla data fissata, il 31 marzo 1146, all'assemblea di Vézelay, che Luigi VII aveva convocato, come rassegna e adunata per l'imminente assunzione della croce, in vista dei soccorsi da portare oltre mare.

La vecchia cittadina del dipartimento dell'Yonne si leva su un'altura che domina meravigliosamente tutta la sottostante valle della Cure. La sua bellissima chiesa della Maddalena, quasi unico avanzo del monastero costruito lassú, è uno dei piú impressionanti e seducenti monumenti del Medioevo francese. La navata, la cui precisa data di costruzione è incerta, ma che forse giungeva al compimento proprio nell'ora in cui Bernardo vi compariva a bandire la Crociata, è un capolavoro dell'architettura romanica. Vi fu creato e perfezionato infatti un tipo sensibilmente diverso da quello ufficiale di Cluny, che fu poi riprodotto in numerose chiese romaniche della Borgogna. La chiesa ha una stupenda decorazione plastica. Sono celebratissimi i capitelli del nartece, come il portale principale del nartece stesso, per il magnifico timpano consacrato alla Pentecoste, inquadrato dai segni dello Zodiaco e dai lavori dei mesi. Per una singolarissima e simbolica coincidenza, Bernardo, il patriarca dell'Ordine cistercense, nato in opposizione a quello di Cluny, veniva a predicare la Crociata, cioè la guerra santa, proprio all'ombra di uno dei piú insignì monumenti della riforma benedettina rivale, quella di Cluny.

Probabilmente è lí, all'ombra della chiesa della Maddalena, che Bernardo pronunciò, al cospetto di una moltitudine infinita, la piú eloquente e la piú trascinante delle sue concioni.

Aveva scritto Eugenio III nella Bolla di arruolamento per la Crociata, che Bernardo lesse al cospetto dell'assemblea: «I principati d'Oriente e tutta la Cristianità corrono il piú serio dei pericoli. È da accreditarsi ad onore dei primi Crociati e in particolare dei Crociati francesi, l'aver sottratto Gerusalemme, Antiochia e tante altre città, alla tirannide musulmana e aver portato il nome cristiano sulle sponde asiatiche. Se le conquiste dei vostri padri debbono essere consolidate dal valore dei figli, è sperabile che la Francia dimostri come l'eroismo suo non ha degenerato. Raccomandiamo pertanto di assumere la croce e le armi. Ordiniamo per la remissione dei peccati di rivestire forza e coraggio, onde arrestare le invasioni degli infedeli, difendere la Chiesa d'Oriente, e strappare dalle mani dei musulmani le migliaia di prigionieri cristiani che essi tengono nei ceppi. Cosí la santità del nome cristiano rifulgerà ancora piú nella presente generazione e la fama: dell'eroismo franco, disseminata già in tutto il mondo, si conserverà incontaminata». La Bolla pontificia poi enumerava tutti i privilegi e i favori accordati ai Crociati. La Chiesa cioè prendeva sotto la sua custodia le mogli e i figli dei Crociati, le loro sostanze e i loro possessi. Con formula riassuntiva il Papa elargiva l'assoluzione e la remissione dei peccati, promettendo la vita eterna a tutti coloro che avrebbero intrapreso e compiuto il santo pellegrinaggio o che sarebbero morti al servizio di Gesù Cristo, dopo aver confessato le loro colpe, col cuore contrito e umiliato. Bernardo fece seguire alla lettura della Bolla pontificia l'onda travolgente del suo entusiasmo oratorio. Gli effetti furono strepitosi. Si rinnovarono cosí le scene di cinquant'anni prima a Clermont.

Incoraggiato da questi primi clamorosi successi, Bernardo iniziava un vasto giro di propaganda, non solo attraverso i domini di Luigi VII, ma anche al di là del regno nei domini dell'imperatore Corrado III. Attraverso il suo itinerario ebbe modo di affrontare il secolare problema della posizione cristiana al cospetto degli Ebrei, questione cui il programma crociato sembrava conferire in pari tempo una cruciale attualità e una inconsueta crudezza.

La predicazione della Crociata intrapresa oltre Reno da un monaco cistercense a nome Rodolfo era stata accompagnata da una violenta campagna antisemitica. Fu un massacro generale. Bernardo intervenne sconfessando il confratello: «Gli rimprovero», egli scrisse in una lettera del settembre 1146, «oltre l'aver usurpato il ministero della predicazione e tenuto in non cale l'autorità dei vescovi, di aver osato approvare e sanzionare l'omicidio...». E parlando a Magonza ad una massa che la propaganda antisemitica di Rodolfo aveva già sconvolto, Bernardo ribadí solennemente le sue idee: «Marciate verso Gerusalemme alla difesa del sepolcro del vostro Cristo. Ma non toccate i figli d'Israele...».

Venuto poi a contatto direttamente con Corrado, nel dicembre del 1146, Bernardo convinceva l'imperatore a prendere personalmente il comando della Crociata germanica e ad avviarsi verso la Terra Santa.

Ormai Bernardo, trascinato dalla impetuosità cavalleresca del suo carattere, sentiva di poter tutto tentare sulla via dell'organizzazione crociata europea. Volle arruolare nell'armata santa l'Inghilterra, la Spagna, l'Italia, la Baviera, la Moravia, fino la Polonia e la Danimarca. Il suo epistolario è ricchissimo di lettere di questo tempo dirette ad peregrinantes Jerusalem di tutti questi Paesi. I conventi cistercensi disseminati già attraverso tutta l'Europa cattolica, offrivano un mezzo naturale e facile di propaganda.

Nella primavera del 1147 i preparativi della nuova Crociata potevano dirsi conchiusi. Le truppe riunite di Luigi VII e di Corrado III fornivano un esercito di circa 150.000 uomini. Un altro esercito formato da schiere fornite dal Nord-Est europeo e dai paesi scandinavi avrebbe dovuto ingaggiare una campagna armata per la conversione degli Slavi tuttora idolatri. Circa 150 vascelli avrebbero dovuto salpare dall'Inghilterra e dalle Fiandre per scendere nel Mediterraneo ed avviarsi nel Vicino Oriente. Infine i Crociati italiani, con Amedeo di Torino e Guglielmo di Monferrato, avrebbero raggiunto a loro volta i Crociati del re Luigi. L'impresa si presentava pertanto sotto i migliori auspici.

Fu invece un disastro.

Nel giro di meno che dodici mesi l'esercito crociato di Corrado III e di Luigi VII si disciolse irreparabilmente e soltanto poche migliaia di uomini, su un totale di piú che 150.000, poterono sfuggire al disastro attraverso inenarrabili stenti e riguadagnare le loro case.

Le cause del lacrimevole esito furono molteplici, quasi tutte risalenti alle origini stesse della spedizione. Questa volta, all'entusiasmo della campagna per la tutela dei Luoghi Santi e al programma del soccorso ai reami cristiani d'Oriente, era subentrato, in grandissime zone, un calcolo di avventurieri e di procaccianti. La stessa composizione della massa marciante rivelava un tutt'altro orientamento di spirito e una del tutto difforme aspirazione. Sull'esempio del re di Francia, che conduceva con sé in Terra Santa la giovane regina, un numero cospicuo di baroni, cosí francesi come tedeschi, si fece accompagnare dalle rispettive spose. Tutto un corteggio di valletti e di personale maschile e femminile si mosse cosí al séguito dei comandanti crociati.

L'inconveniente sarebbe stato meno sensibilmente avvertito se i condottieri fossero stati capaci di esercitare un imperio piú energico ed una disciplina veramente militare. In realtà, né i due sovrani erano cosí solidali fra loro da poter veramente unificare il regime delle truppe marcianti attraverso cosí lungo itinerario nel Sud-Est europeo, né le condizioni politiche del Mediterraneo orientale erano tali da consentire armonia di intenti e chiarezza di piani. Il contrasto esistente fra il re normanno Ruggero II e l'imperatore bizantino Emanuele Comneno influiva d'altra parte a paralizzare le mosse possibili dell'esercito crociato nei rapporti con l'Impero bizantino.

Infine gli stessi signori franchi in Terra Santa tendevano ciascuno per proprio conto ad accaparrarsi ed a trar profitto dalle sopravvenienti forze di Luigi VII e Corrado III. Mentre Raimondo di Antiochia non mirava che alla conquista di Edessa, Balduino III re di Gerusalemme avrebbe voluto trarre a sé la difesa crociata. Invece di provvedere al più imminente pericolo che era quello gravante su Antiochia, i Crociati si dispersero in un infruttuoso assedio di Damasco. Questo assedio logorò definitivamente le forze dei due sovrani d'Occidente. Estenuati di risorse, disgregati in altrettanti nuclei indipendenti l'uno dall'altro, i Crociati dovettero rassegnarsi alla rinuncia di mosse fattive e a un disperato ripiegamento.

Le conseguenze morali di tale naufragio furono incalcolabili in Occidente. Si fecero soprattutto risentire sul fascino e sulla efficienza di San Bernardo. Non era stato egli il nuovo Pietro l'Eremita e il vero banditore e patrocinatore della seconda Crociata? Non aveva egli, in vista di questo scopo, accettato, non solamente di patrocinare il disegno della nuova spedizione, ma cosí imprudentemente spinto il suo entusiasmo da chiamare a raccolta sotto il vessillo della Croce, promettendo l'impunità e la remissione delle colpe, una quantità di gente irregolare ed ex lege, che aveva rappresentato uno dei piú insanabili coefficienti di debolezza dell'esercito partito in un'atmosfera di fervore all'indomani dell'adunata di Vézelay?

Bernardo era punito là dove aveva peccato. Mentre era riuscito cosí meravigliosamente nella propagazione della riforma monastica che aveva preso nome da Citeaux, l'aver voluto, sotto la pressione del suo atavico spirito feudale cavalleresco, fare la celebrazione della possibilità che un monaco potesse essere anche guerriero, esponeva ormai l'abbate di Chiaravalle ad uno dei piú miserevoli insuccessi. Egli dové correre ai ripari e scrisse il De Consideratione. «Sembra», egli doveva esclamare, «che il Signore, provocato ad ira dalle nostre colpe, abbia dimenticato la sua misericordia e sia venuto a giudicare la terra prima del tempo fissato. Non ha risparmiato il suo popolo, non ha neppure risparmiato il proprio nome: i pagani possono gridare: – dove è mai l'Iddio dei cristiani? – E, di fatto, i figli della Chiesa, i cristiani, son caduti nel deserto, colpiti dalla spada o consumati dalla fame. Lo spirito di divisione si è propagato fra i príncipi, e il Signore li ha fatti smarrire per sentieri impraticabili. Noi annunciavamo la pace e pace non v'è. Noi promettevamo il successo, ed eccoci invece piombati nella desolazione. Senza dubbio, i giudizi del Signore sono pieni di equità e di giustizia, ma quello in cui noi siamo caduti è un irreparabile abisso, e io posso ben dichiarare beato chiunque non ne avrà tratto scandalo».

Ma quelli che si sentivano scandalizzati da questa enorme iattura, che era piombata sull'impresa crociata cosí altisonantemente bandita da Bernardo, erano molti. E Bernardo, al cospetto di Eugenio III, sente il bisogno di discolparsi e di difendersi. Non senza cercare di ritorcere le responsabilità sulla Sede romana.

«Ci siamo forse noi resi, in questa occasione, rei di temerità o di leggerezza?», si domanda Bernardo rivolgendosi al Papa che è un suo pupillo; e risponde: «No, noi abbiamo marciato fiduciosamente sulla traccia dei vostri comandi o meglio seguendo nei comandi vostri i comandi stessi di Dio. Perché dunque ha permesso Dio che la Crociata fallisse cosí miseramente? Io voglio dire una cosa che nessuno ignora, ma che tutti in questo momento sembrano aver dimenticato: il cuore dei mortali è fatto cosí. Nell'ora della distretta noi non sappiamo più quello che sapevamo prima. Mosè aveva promesso agli Ebrei di condurli nella terra di Canaan. Gli ebrei lo seguirono, eppure non entrarono nella terra promessa. Chi potrebbe attribuire a temerità del loro capo la penosissima delusione? Mosè faceva tutto per ordine del Signore e il Signore confermava l'opera del suo inviato mediante miracoli. – Ma questo popolo – direte voi – era testardo e si ribellava incessantemente contro Mosè e contro Dio. – Sia pure: gli Ebrei erano increduli e ribelli. Ma che cos'erano mai di diverso i Crociati? Interrogateli. A qual prò ripetere quel che essi confessano spontaneamente? Se gli Ebrei perirono in punizione delle loro iniquità, qual meraviglia che i Crociati, dopo aver commesso i medesimi errori, abbiano subìto la medesima punizione? Nell'un caso e nell'altro le promesse del Signore rimangono intatte. Poiché le promesse del Signore non possono annullare o coprire i diritti infallibili della sua soprannaturale giustizia. Ma mi si domanderà: – Come potremmo noi sapere che la vostra predicazione fu autorizzata da Dio? E quali sono i miracoli che possono costringere a credere alla vostra parola? – Io risponderò», continua San Bernardo, «che non conviene a me ribattere a simile quesito. Si abbia pietà del mio pudore; ma voi, Padre Santo», San Bernardo si rivolge direttamente a Eugenio III, «rispondete per me sulla base di quel che voi avete visto e inteso o almeno sulla base della ispirazione che vi verrà da Dio».

Bernardo dunque voleva si risparmiasse la sua pudibonda modestia, ma in realtà non disdegnava di equipararsi a Mosè. Cinquant'anni piú tardi, un cistercense calabrese che doveva dare allo spirito dell'ultima riforma benedettina la sua significazione completa, Gioacchino da Fiore, riprendeva il motivo bernardiano: «Bernardo, monaco come gli altri, fu duce e maestro, nuovo Mosè, conducente i suoi figli e fratelli fuori dall'Egitto. Ed ebbe vicino a sé il suo Aronne: Eugenio III. Segregando un'immensa moltitudine dalle cure del secolo, Bernardo la sospinse contro i nemici della fede, ma molti ne perirono per via e non mancarono le mormorazioni. E Bernardo rispose nel libro De Consideratione». Le mormorazioni dunque del mondo occidentale contro l'improvvida superficialità con cui era stata organizzata la seconda Crociata erano durate per lunghi anni. Bernardo non era riuscito a rintuzzarle vittoriosamente e chissà come, negli ultimi anni della sua vita, il fantasma di questa catastrofe dovette funestare il suo spirito!

In verità egli non sembrò darsi per vinto. Il programma della Crociata fu ripreso ancora da lui come dai suoi amici della Curia parigina e dell'ordine cluniacense, associati in questo ideale religioso-militare molto più che in altri programmi di pura mistica religiosa. Ma la delusione era stata troppo amara perché il mondo cristiano potesse ancora una volta facilmente commuoversi al bando della guerra santa per la Palestina. Bisognò aspettare la ricaduta di Gerusalemme in mani musulmane all'epoca di Saladino nel 1187, perché il vessillo crociato potesse ancora raccogliere in Occidente forze atte ad una spedizione armata.

Chissà se nel perdite vixi in cui, secondo i biografi, Bernardo morente avrebbe racchiuso l'espressione della sua contrita umiltà cristiana, non era trapelato il rammarico di quella spedizione sfortunata, che aveva disseminato le vie dell'Oriente di tutta la desolazione di un esercito in rotta! Lutero si farà, a quattro secoli di distanza, forte di quelle parole, per giustificare la sua insurrezione contro gli ideali ascetici del Medioevo monastico.

In realtà, se pur pronunciate da San Bernardo, se pur formulate non per una semplice espressione di profonda umiltà, ma per rimpiangere effettivamente qualche cosa di realmente deplorato, quelle parole non possono aver significato altro che il rammarico bruciante del grande mistico borgognone del secolo duodecimo per l'unica cosa non riuscita nella sua strepitosa carriera: l'aver voluto santificare le armi e autorizzare la guerra, sia pure per il riscatto dei Luoghi Santi.

Quel cistercense completo che fu Gioacchino da Fiore dirà, a cinquant'anni di distanza, pur tessendo l'apologia di San Bernardo, che il pericolo islamico non si doveva debellare con le armi, bensi con la inerme predicazione evangelica.

E aprirà cosí la via alla grande missione francescana.

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