XX IL CRISTIANESIMO NELL'AVVENIRE

Ogni evocazione storica è uno spirituale pellegrinaggio. E la storia del cristianesimo è il pellegrinaggio verso il piú augusto e « numinoso » santuario di cui i millenni della nostra civiltà mediterranea abbiano veduto profilarsi i pinnacoli verso la vôlta tentante del cielo. Come tutti i pellegrinaggi, anche questo che noi abbiamo compiuto ha la sua liturgia inalterabile.

Avete mai partecipato a uno di quei pellegrinaggi verso venerati santuari montani, che conservano intatte attraverso i secoli le consuetudini rituali delle masse semplici e primitive delle nostre campagne?

Il loro svolgersi, il loro spiegarsi, hanno qualcosa di ieratico in ogni particolare, in ogni gesto, in ogni momento.

Si parte ai primi timidi sentori del chiarore antelucano. Dal fondo delle valli muovono le prime compagnie di pellegrini, che intonano la cadenza ritmica delle venerabili salmodie ancestrali, nelle quali è l'eco racchiusa e assommata di infinite esperienze di generazioni scomparse nel tempo, che hanno trasmesso immutabile la cadenza della loro speranza e del loro sacro terrore.

Mano mano che la luce del giorno si fa piú chiara e viva, il coro dei salmodianti che salgono la dura ascesa del monte si fa piú ampio e nutrito. La voce della speranza e della fede si moltiplica e si rifrange in note di piú accorato e fiducioso abbandono all' assistenza di quelle forze superiori che hanno lassú, nel santuario, sulla vetta del monte, il loro sacello recondito e il loro centro venerato. È uno spiegamento sempre piú vasto di aperti orizzonti allo sguardo, di sempre piú elevata commozione dello spirito. E quando, giunti sulla soglia dell'arduo sacrario che, pure attraverso il variare nel tempo delle ufficiali forme religiose, conserva immutabile l' espressione della istintiva fede nelle forze che assistono dall'alto all'uniforme travaglio dell'esistenza quotidiana degli uomini, si tocca la meta dell'aspirazione devota, l'anima collettiva dei pellegrini trasalisce nel gaudio della effettuata conquista.

Il ritorno è fatto di impressioni che si vogliono conservare immutate nel fondo del proprio essere spirituale e che invece si affievoliscono e si disperdono mano mano che, scendendo, ci si perde nelle ombre del tramonto e nel rimpianto delle luci perdute.

Noi abbiamo compiuto il nostro pellegrinaggio sulle tracce dell'itinerario battuto dalla predicazione cristiana nella storia.

Abbiamo raccolto alle origini le voci tremanti dei nostri lontani progenitori nella fede, avviati verso la realizzazione prodigiosa del Regno di Dio e della sua luce nel mondo.

Abbiamo veduto il granello di senapa, deposto dalla predicazione di Gesù nei solchi della umana coscienza, fruttificare lentamente e laboriosamente, fino a diventare un albero grande e folto, sui cui rami sono venuti a posarsi le aspirazioni e i dolori degli uomini.

Con tutto il fascio complesso e drammatico dei suoi valori e delle sue consegne, il cristianesimo ha operato nel mondo della civiltà umana la piú grandiosa e profonda delle rivoluzioni storiche.

Aveva detto agli uomini di fare della loro vita una permanente, quotidiana conquista attraverso il rinnegamento di sé e la abnegazione cieca e disinteressata.

Aveva detto alla società umana di abituarsi a fare del proprio progresso il risultato sorprendente e portentoso della rinuncia al mondo e del rovesciamento dei valori.

Ed ecco: l'aspettativa affascinante del Regno di Dio e il comando tremendo di vivere morendo a tutti gli interessi egoistici – noi l'abbiamo visto – hanno creato nella civiltà mediterranea una configurazione sociale, che non ha avuto e non avrà mai l'uguale in alcun angolo dell'universo.

Questo edificio sociale costruito frammento a frammento dalla paradossale esperienza cristiana, noi l'abbiamo visto innalzarsi nel mondo mediterraneo unificato da Roma.

Non ci sono però unificazioni politiche che possano reggere senza l'avvivante alito di una forte visione spirituale della vita e del mondo.

Apparso nell'ora in cui Roma aveva unificato le genti specchiantisi sul Mediterraneo sotto il proprio dominio politico, il cristianesimo, noi l'abbiamo visto, ha dato a questo unificato mondo mediterraneo una sua sagoma e una sua dialettica, di cui noi abbiamo seguìto i risultati grandiosi nella civiltà del Medioevo.

Poi, è cominciata la discesa e ha avuto inizio il ritorno.

Se le grandi unità politiche hanno bisogno di un'anima per vivere, le grandi unità spirituali hanno bisogno di rinnovare la loro anima, per sopravvivere alla paralisi che non manca mai di cogliere gli organismi inveterati e calcificati.

Da sei secoli circa, noi l'abbiamo visto in questo terzo volume della nostra opera, la tradizione cristiana, incorporata nel cattolicesimo, per reggere e sostenere la struttura della sua unità ufficiale ha fatto molto piú assegnamento sulla disciplina della dialettica e sull'organizzazione della sua burocrazia, anziché sul libero soffio dello Spirito che, dove vuole, arriva.

Ha preso cosí a prestito, da quelle metodiche empiriche e umane che avrebbe dovuto negare e soppiantare per vincerle, sistemi e strumenti che l'hanno indebolita anziché rafforzata.

E il mondo un giorno si è svegliato tutto tragicamente e irreparabilmente pagano.

Se le Chiese organizzate, tutte e ciascuna senza differenza, non avvertiranno la solennità del momento in cui viviamo, andranno incontro, fatalmente, al medesimo destino che incolse la tradizione del mosaismo al cospetto della rivelazione della Buona Novella. La quale nei suoi caratteri divini, nella sua essenza soprannaturale, nella sua portata sconfinata, è ancora salda ed efficiente come non mai purché la si recuperi nella sua essenza elementare e nei suoi elementi sostanziali.

Perché, per quanto possa sembrare a prima vista temeraria la formulazione della conclusione che siamo qui per enunciare, pur tuttavia, a chi abbia seguìto con noi il bimillenario ciclo di sviluppo del messaggio evangelico, deve apparire irresistibilmente chiaro che col declinare del Medioevo anche il fatto cristiano, quale tipico e caratteristico fatto sociale, quale organizzazione cioè e scambievole ingranamento degli elementi e dei fattori che possono, alla luce di una divina rivelazione, disciplinare la vita collettiva, è morto.

Il mondo moderno, dal punto di vista spirituale e religioso, conserva ancora la sopravvivente impalcatura strutturale della ideologia cristiana, delle tradizionali professioni di fede. In realtà però si è costituito estraneo e abnorme al cospetto di quei valori specifici che il cristianesimo aveva messo in moto e aveva fatto operativi, per organizzare e stringere, a norma dei suoi ideali, le fila della esistenza associata.

Nelle prime pagine della prefazione con la quale io ho iniziato questa mia storia del cristianesimo, ho formulato una serie di interrogativi, senza dubbio bruschi e inquietanti, a proposito di quello che si profila oggi come il problema piú profondo e piú assillante che scuota le nostre coscienze turbate se non sgomente, disorientate se non disperate.

E il problema è questo. Quale l'avvenire del cristianesimo nel mondo, se oggi le tavole fondamentali della disciplina sociale del cristianesimo stesso sembrano aver corso cosí vasto repentaglio e se del cristianesimo appare cosí letalmente assottigliata la virtú normativa nell'educazione collettiva degli uomini?

Qui, all'epilogo del nostro lungo cammino, rispondere ai nostri preliminari quesiti è la nostra consegna. Non è bene eludere la questione, rimandando allo spiegamento tuttora florido delle forme ascetiche organizzate, nell'ambito dell'universale organizzazione cattolica, o alla risurrezione di forme devozionali, attraverso le quali gli spiriti fragili e inquieti cercano la tacitazione delle loro ansie individualistiche, e quindi egoistiche, sul personale destino d'oltre tomba.

Se il cristianesimo fosse apparso nel mondo unicamente per perpetuare le forme dell'ascesi, di cui il neoplatonismo, il neopitagorismo e il terapeutismo avevano dato esempi tanto insigni, noi non avremmo diritto di distinguere una civiltà cristiana da una civiltà non cristiana.

Se il cristianesimo fosse semplicemente una trasposizione in sede piú alta, piú concreta e piú magicamente operosa, di quella dottrina della salvezza iniziatica, che anche le religioni di mistero proponevano e assicuravano ai loro iniziati, noi dovremmo dire che il cristianesimo non avrebbe avuto il diritto di accamparsi nel mondo come la rivelazione definitiva del mistero formidabile, che è nella nostra natura e nella nostra vita associata.

No. Noi possiamo riconoscere le similarità fra l'ascetismo cristiano e l'ascetismo non cristiano: noi possiamo riconoscere le analogie esistenti fra le religioni di mistero e il mistero cristiano. Noi possiamo anche ammettere senza esitazione la sconfinata superiorità del cristianesimo sulle forme piú alte della moralità extracristiana e sulle espressioni piú raffinate della pietà nelle iniziazioni misteriche. Con questo, non facciamo che valutare un divario quantitativo.

Quel che invece costituisce la differenza qualitativamente abissale fra la rivelazione del Cristo e tutte, diciamo tutte, le altre forme di religiosità extracristiane, occidentali come orientali, è la soluzione originalissima che la Buona Novella ha dato alla incognita del nostro comportamento al cospetto del Padre, che ci ha dato e ci dà la vita, e al cospetto delle infinite rifrazioni del Suo volto divino nei volti dei nostri fratelli.

Questa sostanziale e irriducibile diversità noi ci siamo timidamente sforzati di illuminare nei primi capitoli della nostra storia. Abbiamo fatto del nostro meglio per individuare, nella predicazione neotestamentaria, gli elementi inconfondibili di quella sorprendente discoperta delle leggi che presiedono alla nostra vita singola e collettiva, la quale, dopo secoli, dopo millenni, anzi, di aspettativa ansiosa, impresse alla nostra civiltà del Mediterraneo un ritmo nuovo, un'andatura drammatica, una fermentante inquietudine. Abbiamo seguìto, attraverso i secoli, la lenta, laboriosa conquista, l'ammirabile creazione, il fatale deperimento, il miserando logorìo, il tormentato tramonto di questa originalissima dialettica spirituale e storica, svelata dal cristianesimo.

Il cristianesimo era nato come una urgente consegna di rinnovamento e di rinascita spirituali. Facendo della «conversione», vale a dire di un pieno e radicale rovesciamento di valori, il primo appello e la prima condizione della fede, aveva violentemente staccato gli spiriti dalle linee dell'esistenza empirica quotidiana, per trasferirli in una temperie di idealità e di aspettative, superiori e antitetiche al corso realistico dei fatti umani.

Simile consegna, precisa e perentoria, veniva logicamente a introdurre nelle usuali forme della vita aggregata degli uomini una dialettica di sviluppo e una possibilità di sopravviventi superamenti, legate, in radice, a un programma audacemente paradossale: quello che mirava a una costituzione associata del mondo, attraverso il rinnegamento del mondo stesso.

In questo programma è tutta la stupenda e inconguagliabile originalità della rivelazione cristiana.

I cristiani primitivi non si sono preoccupati affatto della continuità del mondo fisico e del mondo storico. Li hanno anzi considerati entrambi perituri a breve scadenza. I loro sguardi e le loro ansie si sono diretti unicamente verso l'attesa alba del veniente Regno di Dio in cui il Cristo glorioso avrebbe, premiando col trionfo i suoi eletti, reintegrato e placato tutte le laceranti ingiustizie e malefatte del mondo.

Il fermento cristiano avrebbe dovuto essere soltanto il lievito capace di far sollevare la pasta informe della vita associata, verso il raggiungimento del meriggio messianico.

Il procrastinarsi progressivo di questo avvento glorioso ha, spontaneamente, portato il cristianesimo ad essere nel mondo una forza di progresso e di piú alta e affinata costituzione collettiva, proprio in virtú e mercè il rinnegamento costante di tutti i valori terreni. Sicché, quando la società cristiana, umanamente trionfante con Costantino, venne fatalmente a troppo propinquo contatto con la realtà dei valori terreni e delle costituzioni sociali, spontaneamente le forme dell'organizzazione ascetica ereditarono il còmpito della primitiva comunità cristiana, situata in mezzo al mondo come una forza per il suo superamento e per la sua trasfigurazione, nel mondo dei valori trascendenti.

Una forma sociale direttamente foggiata e disciplinata dai principî e dagli ideali della rivelazione evangelica, quale fu la forma sociale del Medioevo, non poteva essere che una forma sociale basata sulle linee tendenziali dell'ascetismo e della rinuncia. Per questo il Medioevo, che è la creazione specifica e originale del cristianesimo, è stato una società per eccellenza vivente di realtà soprannaturali e carismatiche, una società tendenzialmente continente, e, dal punto di vista della politica empirica, rinunciataria.

Il Medioevo non conosce per questo né Stato né proprietà: ha dell'umanità, della sua storia, dei suoi destini, una visione e una valutazione puramente e intransigentemente trascendenti e soprannaturali. I suoi presupposti basilari sono i seguenti: l'umanità si è propagata da una primitiva coppia peccatrice e prevaricatrice; tutto il suo destino è racchiuso nel programma della riconquista della giustizia originaria e della primitiva pura relazione filiale con Dio. Gli uomini non si distinguono in razze diverse, in nazioni diverse, in Stati diversi, in classi diverse. Tutte queste sono ramificazioni e suddivisioni superficiali, parziali, provvisorie. Gli uomini si distinguono piuttosto, nella loro generica totalità, in fedeli e infedeli: in battezzati e battezzandi. Il corso pertanto degli umani casi ha, come sua ragione profonda, un solo scopo, un solo termine, un solo sbocco; trasformare i battezzati in potenza, in battezzati in atto, perché, del resto, nella sua consistenza pregiudiziale, l'umanità intiera è già dominio assoluto e incontrastabile di Dio e del suo Cristo. Gli altri dominî sono provvisori o usurpati.

In una concezione di questo genere della vita umana e della sua destinazione, si capisce come non dovessero trovar posto che preoccupazioni spirituali, soprannaturali, sacramentali.

Non ci sono intenti economici e politici che possano paralizzare lo sviluppo e la disciplina della superiore vita della grazia o prevalere su di essi.

Probabilmente bisogna assolutamente far leva su questa predisposizione spirituale di tutta la mentalità medioevale per comprendere l'organizzazione stessa del Medioevo e il suo decadimento di fronte al sorgere della nuova età. Le origini cronologiche della quale non vanno ricercate nel cosiddetto Rinascimento umanistico; ma molto piú indietro, quando, al momento del trapasso dalla visione agostiniana della vita alla visione scolastico-tomistica, noi assistiamo a un improvviso sviluppo demografico della civiltà europea che preannuncia, per la sua stessa turgidezza e per la sua prepotente e irresistibile volontà di espansione cosí economico-produttiva come culturale, l'avvento della nuova configurazione europea, con la formazione delle nazionalità e con la delineazione dei primi elementi dello Stato moderno.

Abbiamo detto visione agostiniana della vita. Può dirsi che questa visione sia tutta in un inciso sorprendente di Sant'Agostino, là dove, nel De Civitate Dei, parlando dello sviluppo demografico umano, osserva che la moltiplicazione indefinita degli uomini aveva potuto essere un ideale appropriato per le generazioni del Vecchio Testamento, quando, attendendosi l'avvento del Messia, era necessario tentare tutte le vie e non mettere limiti alle capacità prolifiche della razza umana, per vedere se fra tanti rampolli dell'umano connubio stesse per presentarsi al mondo il predestinato Figlio di Dio. Apparso questo Figlio di Dio nel mondo, operata la spirituale salvezza del genere umano, continua Sant'Agostino, la moltiplicazione indefinita degli uomini non aveva piú ragione di essere e la continenza e l'ascesi guadagnavano tutto il loro sovrano potere. Non si direbbe che questa dottrina agostiniana e la pratica medioevale che l'ha seguìta, scaturiente dalla pessimistica dottrina della trasmissione ereditaria del peccato di origine, che avrebbe contaminato e maculato in radice il fatto primordiale della trasmissione della vita, rappresentino una forma mistica e una disciplina teologale della limitazione delle nascite?

Il Medioevo è basato su questa dottrina agostiniana. Ma ogni dottrina si logora col suo uso, e il ciclo della civiltà umana è uniformemente segnato e guidato dal trapasso ciclico da una visione della vita alla sua antitetica.

Da un punto di vista empirico e strettamente sociale si può dire che il Medioevo nasce quando l'agostinismo finisce e l'agostinismo finisce quando, nei primissimi secoli dopo il Mille, la Cristianità ritorna, attraverso il movimento cistercense e la sua espressione classica, che è il messaggio gioachimita della palingenesi, alle forme primordiali dell'aspettativa cristiana e del sogno apocalittico del veniente Regno dello Spirito, al motivo fascinans della esperienza del Sacro.

Questa volta però non è lo Stato a insorgere contro il sogno apocalittico del profetismo cristiano, come nei primi secoli : è la Curia stessa che troppo ormai ha assunto i connotati e i poteri di una potenza terrena.

Questa Curia pretende pertanto di immobilizzare per sempre le forme della sua autorità in una visione della vita necessariamente antiagostiniana, spogliata cioè di di tutti quegli elementi pessimistici e dualistici, che avevano costituito la piattaforma centrale della Cristianità medioevale. Un'opera simile non poteva compiersi che col soccorso della filosofia aristotelica. Nasceva cosí la Scolastica. Ma quella Scolastica non poteva impedire l'insorgere di correnti mistiche e intuizionistiche, che avrebbero affidato il còmpito della salvezza alle energie interiori dell'anima e alla nozione soggettivistica della fede.

La lacerazione dell'unità cristiana non era che il contrassegno visibile e il sintomo inquietante della naufragata coscienza evangelica.

Le fedi post-riformate sono, né piú né meno, persistenze formalistiche di simboli e di dettati teologici, a cui sono miserabilmente venuti a mancare i coefficienti intimi e le forze originali. Il cristianesimo moderno è in sostanza un cadavere, a cui si presta un ossequio fatto di esteriorità e di pratiche superstiziose. L'anima ne è scomparsa.

Infatti le energie operanti nell'organismo della vita associata, oggi, sono forze che nulla hanno a vedere con la predicazione originale del Cristo e con la primitiva filosofia della storia, divulgata e professata dalla Cristianità precostantiniana.

Per il Nuovo Testamento e per la Cristianità primitiva, come per tutta la tradizione religiosa fino al Mille, fino all'epoca di Sant'Anselmo, l'esistenza di Dio non è una conclusione razionale, ricavata dall'osservazione fisica e metafisica dell'universo. Se noi vogliamo usare le parole acconce senza spaventarci e scandalizzarci della apparenza irriverente e sconcertante delle nostre asserzioni, possiamo dire che, di fronte a un Dio ridotto alle proporzioni del motore immobile aristotelico, il cristianesimo è, rigorosamente, ateo. Tale dio cosmogonico non interessa l'anima cristiana.

Il Dio cristiano è il Padre. È il Padre sensibile e vigilante che segue da lungi, si direbbe con una trepidazione angosciosa nel cuore, i movimenti incerti e le deviazioni lacrimevoli delle Sue creature. Le quali hanno da Lui la vita con un cosí ininterrotto e provvidente processo generativo, che, qualora questo processo venisse per un solo istante ad arrestarsi, l'universo intiero precipiterebbe immediatamente e senza riparo nel nulla.

La cultura moderna è tutta satanicamente orgogliosa delle sue magiche conquiste sulle forze del cosmo. Ma la natura si è spiritualmente sottratta all'uomo nell'atto stesso in cui l'uomo ha creduto di imbavagliarla. L'uomo per vendicarsi l'ha negata come autonoma e ne ha trasferito, con temerarietà risibile, la consapevolezza in se stesso. E ha cominciato a parlare di spiritualità del reale, non accorgendosi che spirituale è termine correlativo, come il termine «figlio» di fronte al termine «padre». Non accorgendosi cioè che facendo della spiritualità una connotazione universale, l'ha distrutta o, quel che è ancor piú illusorio, l'ha ridotta a sinonimo di materialità. Solo il dualista è uno spiritualista conseguente e praticamente capace di far dei suoi gesti e delle sue attitudini, norme concrete.

Il cristianesimo neotestamentario e poi tutto il cristianesimo, dagli apologisti ai teologi dell'epoca carolingica, hanno piú o meno consapevolmente riconosciuto e avvertito nel Maligno una personificazione concreta immanente della malvagità del mondo.

Dall'acuta sensazione del Cristo del Vangelo, di un Satana che precipita dal cielo ai segni precorritori del veniente Regno di Dio, all'antropologia e alla sociologia agostiniane, passando attraverso la formidabile esperienza dell'Apostolo Paolo, la società cristiana ha vissuto per secoli del senso tragico della vita e dei suoi elementi.

Già i profeti, e nella cultura ellenica i tragici, avevano discoperto l'atmosfera di sacralità intimamente drammatica e contraddittoria in cui vivono e fruttificano i valori centrali della vita associata: l'amore e il dolore, il rimorso e il senso della morte.

Questa sacralità ha trovato la sua scultorea definizione normativa nella Beatitudine del Cristo, che impone a ogni vivente il riconoscimento della sua squallida e miserevole natura di accattone, che tende a Dio e agli uomini la mano per elemosinare affetto e compassione, perdono e rimembranza. Il guiderdone finale è additato nel Regno di Dio, quale sublimata tacitazione di tutte le aspirazioni umane, inesorabilmente inappagate nel mondo.

Il cristianesimo antico, spingendo gli uomini alla ricerca del Regno di Dio e della giustizia di Dio, al di là e al di sopra di tutte le realtà empiriche, e indipendentemente da queste, ha rivelato agli uomini – ed è qui la veramente divina essenza dell'Annuncio cristiano – che per fare della vita degli uomini una forma di aggregazione diversa da quella delle fiere del deserto e degli automi degli alveari e dei formicai, occorre rinunciare a qualsiasi proposito e a qualsiasi programma di sistemazione meccanica dei rapporti fra gli umani e di distribuzione aritmetica delle risorse naturali.

Insegnando e comandando agli uomini di guardare solo e sempre al di là della vita, il cristianesimo, solo fra tutte le religioni del mondo, ha creato una sua civiltà, poggiata su un equilibrio instabile e per questo appunto suscettibile di tutte le autonomie e aperto a tutte le possibilità.

Lo si rimprovera per questo di essere fuori del mondo. Proprio questo rimprovero cosí largamente diffuso sulle labbra dei nostri sapienti è il segno che noi siamo usciti dal cristianesimo.

Perché il cristianesimo non è stato mai tanto nel mondo come quando i cristiani lo hanno praticato intransigentemente e coerentemente quale consegna di vivere fuori del mondo.

Per fruttificare nel mondo, il cristianesimo deve essere infatti fuori della sua politica, della sua diplomazia, della sua economia, della sua cultura. Il cristianesimo ha cominciato a decadere nel mondo e ha cominciato a perdere la sua virtú normativa e pedagogica, proprio il giorno in cui ha creduto di tenere il mondo in mano, con la sua bilanciata diplomazia, con la sua farisaica casistica, con la sua teologia razionalistica e col suo moralismo stoicizzante.

Non riguadagnerà la sua efficienza, se persisterà nelle vie della sua ormai palese e rovinosa deviazione. La riguadagnerà, solo a patto di tornare, nudamente, alle sue origini.

È vano e intempestivo dosare, al cospetto del mondo, i verdetti di approvazione o di condanna sulla decadenza del cristianesimo, come forza sociale, nella vita odierna.

È sterile e indebito per il cristianesimo prendere a prestito dalla diplomazia di questo mondo la terminologia fallace e menzognera con cui gli uomini credono, come i costruttori di Babele, di realizzare in terra la pace e la giustizia.

La pace del mondo non è la pace del Cristo. La giustizia del mondo non è la giustizia di Dio. E il cristianesimo è la comunità vivente degli aderenti e dei compartecipi al corpo mistico di Colui che consolò gli uomini trasportandoli in quella anagrafe della Grazia, che ha la sua consegna nella universalità dell'amore, del perdono e del riscatto.

È illusione quella di ritenere che il cristianesimo risorgerà domani solo a patto di riprendere le fattezze delle sue origini?

Se è illusione, val bene la pena di viverla. Perché, lo vogliano o no tutti quelli che vanno blaterando di morte della religione e del cristianesimo, come quelli che credono di potere rinserrare per sempre lo spirito del Cristo tra le bende mortifere delle loro presuntuose speculazioni teologali, il destino del cristianesimo e del Vangelo nel mondo è un problema tassativo, che ciascuno di noi si porta nel suo intimo.

Questo problema racchiude senza dubbio una incognita angosciosa, ma, per chi lo avverta nel profondo, si traduce in un còmpito indeclinabile. Noi non avremmo mai intrapreso questa rievocazione storica delle fortunose vicende della verità cristiana nel mondo se non avessimo avuto la convinzione pregiudiziale che la storia non è una disciplina chiusa in se stessa, e gli umani casi non hanno in sé una loro esauriente dialettica e una loro immanente giustificazione.

Già altra volta, al cadere del duodecimo secolo, quel grande contemplante e immaginifico poeta che fu Gioacchino da Fiore si accinse a ritrovare nel passato della rivelazione biblica e della storia cristiana i segni precorritori e premonitori della veniente età dello Spirito. La sua esegesi era riboccante di immaginazioni temerarie, e si raccomandava troppo spesso a calcoli numerici, che a noi fanno l'impressione di ingenui e di semplicistici.

Chissà che la nostra critica storica nei secoli futuri non dia l'impressione di un affastellamento di induzioni azzardate e di ipotesi astratte e irreali? Ogni epoca ha la sua esegesi, come ha la sua filosofia della storia. Ma la esegesi e la filosofia della storia capaci veramente di fruttificare in mezzo agli uomini sono quelle che, assurgendo dal circolo chiuso e paralizzante dello storicismo, scorgono norme nei fatti, e presagi e indicazioni dell'avvenire nella successione delle economie storiche.

Se questo è vero di ogni storia, è particolarmente vero della storia del cristianesimo.

Ora, alla conclusione del nostro lavoro, il nostro còmpito è istituire un bilancio.

Come pellegrini reduci da un lungo estenuante pellegrinaggio, noi siamo ora in grado di rivolgere indietro lo sguardo per salutare da lontano il santuario che abbiamo visto sorgere e grandeggiare nella piena luce del suo meriggio. Solo lettori superficiali e distratti potrebbero insinuare che la nostra debba essere una conclusione negativa e una confessione di disinganno. Il contrario è vero. La nostra conclusione è un piú che mai solenne atto di fede.

Non ci preoccupiamo di sapere se un simile atto di fede è il risultato della indagine storica che ad altri potrebbe apparire scettica e negativa, o non piuttosto il risultato di una voce imperiosa piú forte di ogni nostra indagine critica e di ogni nostro sofisma erudito.

Altri accusi il cristianesimo di aver fallito al suo scopo, o di avere miseramente deluso la fiducia dell'umanità. Noi proclamiamo la vitalità inconsumabile dei verdetti evangelici. Il cristianesimo è come un tesoro nascosto, che gli uomini si sono troppo facilmente abituati a tener rinserrato in custodia, per poter fare addebito ad esso di quelle che sono unicamente le conseguenze della loro neghittosità, della loro codardia, del loro ripullulante istinto selvaggio.

Il cristianesimo è entrato nel mondo come la milizia di Dio, destinata a surrogare e a soppiantare tutte le altre discipline esteriori della terra. E Sant'Anselmo ricordava ai suoi tempi, ancora dopo undici secoli di successi cristiani, che la vita del cristianesimo è vita dura di sacrificio e di abnegazione. È colpa del cristianesimo se gli uomini hanno dimenticato che la vita non la si può vivere e non la si può conquistare, se non gettandola allo sbaraglio quotidiano dell'amore, del perdono, delle speranze immortali?

Non c'è forse nessuno al mondo che sia innocente dell'offuscamento lagrimevole in cui sono precipitati i valori centrali ed eterni dell'insegnamento neotestamentario. Ed è per questo che nessuno oggi al mondo, qualunque sia l'infula che riveste e qualunque sia l'altezza del seggio da cui parla, ha il diritto di rimproverare agli altri quel che è nostro ecumenico, cattolico, peccato universale: l'aver dimenticato che il Vangelo lo si serve servendo gli uomini nell'umiltà, ed esponendosi, per la tutela della verità che ci ha fatto liberi, al disprezzo, al rinnegamento, alla persecuzione del mondo.

Senza dubbio, come siamo venuti vedendo attraverso la rievocazione storica tracciata in questi volumi, il cristianesimo è stato tratto dalla cogente pressione delle circostanze ad assumere di volta in volta gli atteggiamenti che ha assunto e i rivestimenti che si è appropriato. Nulla di piú ozioso che domandarsi, specialmente sul terreno dell'esperienza religiosa, che cosa sarebbe stato degli umani casi, se certe circostanze fossero state diverse. La logica della storia è inflessibile. Ma non per questo noi cadiamo nello storicismo. Al contrario. Proprio per questo noi nutriamo piú salda e invulnerabile che mai la fede nella Provvidenza del Padre. Oseremmo noi mettere limiti alla infinita Sua benevolenza illuminatrice?

Se gli uomini sono stati incapaci di praticare il messaggio cristiano a quell'altezza di livello morale su cui si tennero per secoli le generazioni che portarono la nostra civiltà mediterranea al suo fastigio spirituale; se molte forme che la tradizione cristiana si assunse per assicurare il proprio successo nel mondo si sono manifestate, non solamente caduche, ma deleterie, prendendo nome da Cristo, mentre erano invece squisitamente anticristiane; se oggi esse hanno rivelato tutta la loro funesta efficienza, cospargiamoci pertanto, senza esitazione, il capo di polvere, tutti, ed accingiamoci a disseppellire, di su gli strati pesanti delle elucubrazioni teologali e delle divisioni confessionali, la nuda e pura parola di quel Cristo che ha dato al mondo, come consegna, il fascio delle sue beatitudini.

Non pretendiamo però con questo di far qualcosa che rientri nell'ambito delle nostre miserabili e precarie capacità umane. Se c'è nozione centrale nella disciplina millenaria del cristianesimo, essa è quella della grazia, che è permanente comunicazione di Dio a coloro che Lo invocano e Lo cercano. Se la nostra civiltà ha perduto i suoi primitivi connotati, quei connotati che le vengono soltanto dal Vangelo, è perché ha permesso che lo spirito usurpasse il posto dello Spirito.

Come si sa, gli editori del Nuovo Testamento si sono sempre trovati imbarazzati nell'apporre una maiuscola o una minuscola quando si imbattono, nell'epistolario paolino, nel vocabolo: Spirito. Nulla piú di questo particolare esprime eloquentemente l'atmosfera in cui vissero le generazioni del primo apostolato cristiano.

Quando noi diverremo cosí consapevoli della nostra funzionale abiezione e dell'indispensabile bisogno della grazia, da non sapere piú se la nostra vita intima non è finita, nell'attimo stesso in cui lo Spirito di Dio ne prende possesso? È questo stato di allucinazione beatificante che vi è divenuto estraneo e innaturale, mentre esso solo è il vero stato del cristiano umile e compunto, che dà la propria esistenza in olocausto al comando trascendente di Dio, e si getta in pari tempo nella polvere sapendo di essere un servo inutile . e stolto. Mai come oggi un atteggiamento di tal genere è stato la condizione preliminare per la sollevazione del mondo dei dimenticati e traditi ideali cristiani. Mai come oggi si è potuto dire che non un apice della rivelazione cristiana si deve perdere, ma che in pari tempo tutto quel che ne ha obnubilato la comprensione e affievolito la forza, deve essere crudamente e inesorabilmente schiantato.

Un còmpito veramente onerosissimo si offre alla veniente generazione dei nuovi credenti. Chi saprà efficacemente conguagliare la verità eterna del Vangelo alle condizioni nuovissime della nostra cultura, della nostra visione della vita associata? Ragione di piú per invocare tremanti l'assistenza di Dio nel còmpito umano di domani.

Da secoli, ormai, tra la sistemazione teologica medioevale e le nuove concezioni del mondo si è aperto uno iato profondo. Da secoli ormai l'armamentario teologico e la pesantezza delle organizzazioni burocratico-disciplinari hanno fatto smarrire di vista la sorgente viva della forma tipicamente cristiana del vivere. Occorre riprendere le parole del Vangelo, nella loro struttura rudimentale e basilare, e conguagliarle a quel senso profondo che l'umanità si porta in sé, del mistero in cui essa è tuffata, e che la nostra pseudocultura e la nostra boriosa filosofia si sono millantatamente date a credere di aver soppiantato.

Il primo passo da compiere è quello che ci deve avvicinare al recupero di un rapporto di giustizia col mondo che ci circonda.

È precisamente un rapporto di giustizia che deve essere reintegrato preliminarmente nel nostro collegamento conoscitivo con l'insieme degli esseri che ci son fratelli e sodali nel vivere. Questo mondo esterno noi lo abbiamo troppo sacrificato alle sopravalutazioni egocentriche delle nostre capacità cogitanti.

Il mondo, l'altro da noi, il mondo fisico come il mondo dei valori morali e divini, è un mondo di cui noi non siamo affatto i creatori e i forgiatori: ne siamo soltanto i registratori e i sudditi. Contravvenendo a tutte quelle che erano le piú autentiche e le piú venerabili nostre tradizioni spirituali e culturali, ci siamo lasciati andare a una esagerazione malsana e funesta nel misurare l'apporto che le capacità pensanti di ciascuno offrono di subbiettivo alla elaborazione della nostra conoscenza del reale.

La prima cura a cui deve essere sottoposta la nostra spiritualità è quella di un bagno salutare nel piú istintivamente fiducioso abbandono al reale fuori di noi, come oggetto raggiungibile dalla nostra virtú conoscente, come pietra di saggio e valore di controllo alla normalità del nostro operato. Un simile nostro riavvicinamento preliminare all'altro da noi, in atteggiamento di attesa e in un riconoscimento di dipendenza, determinerà come primo risultato in noi, e sarà come una scoperta nuova e originale, il senso nitido e acuto di quel divario fra il sensibile e il supersensibile, fra lo spirituale e il non spirituale, che una filosofia incapace di qualsiasi virtú normativa ha tentato, in mezzo alla troppo acquiescente e supina passività di chi avrebbe dovuto insorgere in nome di millenarie tradizioni, di identificare e di confondere.

Sarà ben l'ora di riconoscere e di proclamare che la totale spiritualità del reale equivale alla negazione di ogni spiritualità. Perché, come tutti i termini funzionalmente correlativi, lo spirituale implica e postula il non spirituale, di fronte a cui è costantemente in una posizione di contrasto e di rivalità.

La filosofia idealistica è stata troppo lusingata dal miraggio della unificazione del reale. Il reale non è unificabile che a prezzo di una soppressione violenta di quelle che sono le testimonianze indeclinabili cosí del nostro sforzo conoscitivo come della nostra consapevolezza etica. Ma probabilmente ciò facendo la speculazione filosofica moderna, tutta impregnata di idealismo monistico, non fa che rispecchiare la tendenza primordiale e spontanea di ogni astratta speculazione filosofica: la tendenza all'unità.

Proprio per questo noi non potremo evadere dal terreno angusto e chiuso in cui la meditazione speculativa si va monotonamente aggirando da un secolo a questa parte, se non attraverso un rivolgimento profondo della nostra coscienza collettiva, riportata alla percezione e all'esperimento diretti di quegli elementi drammatici perennemente in contrasto che pervadono i tessuti della universale esistenza.

Non si dà autentica religiosità che non viva di fede dualistica e di aspettativa messianica. Per questo l'avvenire del cristianesimo è raccomandato oggi, soprattutto e indeclinabilmente, a un recupero delle postulazioni dualistiche e della fede nel trascendente Regno di Dio, che costituirono l'essenza inconfondibile della rivelazione neotestamentaria.

Dopo un ciclo di venti secoli l'esperienza del cristianesimo deve ricominciare, pura e incontaminata, quale fu alle origini.

Sembra che nulla possa rispondere meglio alle inquietudini e alle esigenze del nostro spirito e della nostra temperie storica.

Se noi abbiamo tutti peccato di oltracotante superbia e di immoderata presunzione credendo di avere sottoposto il mondo, non soltanto alla nostra capacità conoscitiva, ma ad una presunta capacità creativa, non abbiamo altra possibilità di salvezza che quella offertaci dall'atto di umiltà e di fede che è nelle beatitudini del Vangelo.

Queste beatitudini si inaugurano con la piú sorprendente e sconcertante parola che Cristo abbia mai pronunciato: «Beati voi accattoni, perché vostro è il Regno dei Cieli».

Nulla di piú banale, di piú frigido e di piú angusto, che avere sottoposto questa beatitudine a tormento, per ricavarne una dottrina sociale o una consegna ascetica. Il cristianesimo non avrebbe spiegato l'azione sconfinata che di fatto ha svolto nel mondo se i suoi dettati avessero preteso soltanto di offrire una fallibile e transeunte panacea alle disuguaglianze sociali o avesse voluto creare comunità anacoretiche e ascetiche, comparabili a conventicole di filosofi cinici.

Nelle fibre piú profonde della vita associata il cristianesimo ha gettato la semenza della sua rivoluzione: nelle pieghe piú nascoste della capacità dell'uomo a reagire agli stimoli del mondo esterno, il cristianesimo ha voluto incidere il comando della sua nuova nascita. Non i rapporti esteriori degli uomini il cristianesimo ha modificato. La disciplina di quei rapporti esteriori è còmpito dei codici e missione delle forze meccaniche.

Il cristianesimo ha voluto una volta per sempre, sotto l'afflato diretto di Dio, rovesciare l'atteggiamento dell'uomo di fronte all'uomo: da egoista istintivo, inclinato alla sopraffazione, alla violenza e al predominio, ha voluto fare di lui il cooperatore della comune gioia, il conservo del comune servizio, lo strumento associato della concorde edificazione del Regno, di cui solo Dio però ha i piani segreti e il cemento non comunicabile. E questo fine ha raggiunto dando all'uomo la consapevolezza brusca, martoriante ed esaltante insieme, che egli è, al cospetto dell'universo cosí fisico come umano, un miserevole e immodificabile accattone, che tende la mano implorando commiserazione e soccorso.

Qui veramente il tratto differenziale della impostazione cristiana del problema di Dio, del problema cioè del nostro rapporto di esseri finiti con la fonte infinita dell'essere.

Alla mentalità greca il problema della causalità universale era apparso come un problema di pura speculazione metafisica. Solo i grandi tragici e in linea subordinata alcuni filosofi della Stoà, avevano sentito la sconcertante problematicità dell'essere, come un'inquietudine intima e permanente, spinta alla ricerca della pace, della sicurezza, del riposo.

Il cristianesimo, avendo proclamato la universale paternità di Dio, non circoscritta ad un popolo privilegiato come nella ufficiale tradizione del legalismo mosaico, ma estesa all'ecumenica famiglia degli uomini, aveva di rimbalzo messo in una preminente luce la condizione precaria, effimera, fragile del nostro comparire nel mondo.

Senza averne alcuna intenzione e alcuna palese consapevolezza, il cristianesimo era venuto cosí ad esprimere il dato fondamentale della nostra esperienza, piú genericamente il dato fondamentale di ogni concreta concezione della vita.

Aristotele, sulla base di una pura conoscenza empirica del mondo circostante, aveva definito la vita «la capacità della semovenza». Il cristianesimo, con la sua beatitudine riservata agli accattoni confessi, riconosceva ed esaltava la vita, proprio nella sua qualità di deficienza congenita e inappagabile.

Il vivente è l'essere che ha bisogno di tutto il mondo circostante per crescere in esistenza e compiere il ciclo della sua effimera comparsa nella trama della vita universale. E la possibilità del movimento, si potrebbe dire, è nata dal bisogno che ha spinto il vivente a captare piú speditamente e piú proficuamente le energie esterne, senza cui la sua vitalità sarebbe immediatamente e bruscamente inaridita.

Facendo di questa coscienza nell'uomo della propria qualità di funzionale accattone il dato primo dell'arricchimento e del progresso spirituale, il cristianesimo ha toccato fino in fondo le esigenze primordiali del nostro spirito, che anela al raggiungimento della propria perfetta vitalità nell'Eterno e nell'Immutabile.

In questa maniera il cristianesimo distruggeva in radice tutte le velleità dell'umano egoismo e dell'umana tendenza alla sopraffazione, imponendo la consegna precisa e tassativa di fare, di quella che è una legge fisica e fisiologica, un alto principio di purificazione e di nobilitazione.

Mai come oggi questa rivelazione evangelica della nostra specifica qualità di esseri lacunosi e miserevoli, bisognosi ad ogni istante dell'apporto di tutto e di tutti per la nostra sopravvivenza e per il nostro perfezionamento, è apparsa come una norma tempestiva e un monito appropriato. Il nostro presuntuoso dominio sulle forze fisiche del mondo ci ha esposto a una vera ubriacatura di autosufficienza e di autonomia personale.

Soltanto riportando alla superficie della propria consapevolezza obliosa la sensazione nitida e precisa della nostra natura di mendicanti, possiamo avviarci al recupero di quei fondamentali atteggiamenti cristiani che hanno permesso in altre età alla convivenza umana di perdere un po' di quella selvaggia ferocia in cui gli uomini tornano fatalmente a cadere ogni volta che sia oscurato il senso della loro vera natura e dei loro infiniti bisogni. Qui si rivela il valore non consumabile e non perituro della divina rivelazione cristiana.

Le forme che il Vangelo è venuto assumendo lungo il corso dei secoli della sua storia, per la disciplina collettiva degli uomini e per la sistemazione dei loro rapporti in modo da assicurare la maggior dose possibile di pacifico ordinamento e di giusta distribuzione gerarchica, possono essersi logorate con lo stesso loro uso. Il Vangelo può aver perduto cosí una parte considerevole della sua efficienza sociale e della sua virtú pratica.

Questo non vuol dire che la sostanza primigenia del bando portato dal Cristo sia esaurita in radice e non sia suscettibile di sorprendenti reviviscenze e reincarnazioni.

Ma bisogna che questo nucleo primitivo, in cui è il protoplasma vivente della tradizione della Cristianità nella storia, sia riafferrato e rivissuto nella sua genuina e sostanziale semplicità.

Uno dei piú funesti pregiudizi invalsi nella cultura contemporanea è stato quello di ritenere che la forza della Chiesa fosse nella sua inviolata e intransigente immutabilità. Chi parlava cosí non aveva altro in cuore che il desiderio di vedere questa tradizione cattolica paralizzarsi e mummificarsi nella illusoria maestà della sua decrepita rigidezza.

Solo nelle vene calcificate cessa di pulsare la fluida vitalità del sangue. Gli organismi viventi si riconoscono dalla loro capacità di assimilare nuovi elementi di vita e di piegarsi duttilmente a tutte le metamorfosi richieste dalla dialettica della storia. Una Chiesa destinata a irrigidirsi immobile nelle posizioni delle sue vecchie conquiste è una Chiesa condannata a una vita parassitaria e negata desolatamente a qualsiasi magistero attivo. Senza dubbio, la trasformazione che oggidí si richiede alla tradizione del cattolicesimo perché il deposito cristiano da essa custodito torni a essere il viatico insurrogabile dell'umanità, è una trasformazione radicale che investe indiscriminatamente tutti i tessuti dell'organismo concettuale e disciplinare della Chiesa romana. Ma a estremi mali, estremi rimedi. Se la scure è alla radice, se la profanante paganizzazione del mondo ha raggiunto il livello piú alto che fosse mai possibile immaginarsi pur dalla fantasia piú fosca e piú tragica, evidentemente non è da pensare che la resurrezione dello spirito cristiano possa essere raccomandata a ripieghi provvisori e ad accorgimenti caduchi.

Se il cristianesimo ha palesemente perduto ogni effettiva capacità di reggere le sorti del mondo e di pesare sugli avvenimenti della vita collettiva, è evidente che tutto l'armamentario di pensiero e di organizzazione a cui esso aveva creduto di poter raccomandare la sua azione pubblica nel mondo è divenuto uno strumento anacronistico e un organo esautorato.

E allora, perché l'eredità del Vangelo non sia definitivamente dissipata e dilapidata, occorre risalire al di là dei periodi storici in cui questo armamentario ha assolto, come noi siamo venuti vedendo attraverso questa esposizione storica, i suoi còmpiti.

Bisogna dunque ricominciare e riprendere la via dal principio.

Noi vediamo infatti, con una chiarezza incontrovertibile, che ad un mondo divenuto sostanzialmente pagano nella sua valutazione della vita e del destino, non occorre e non giova proporre formule catechistiche, nelle quali è disseccata e schematizzata una teologia basata su una concezione del mondo ormai da gran tempo oltrepassata e sovvertita.

Quel che occorre inculcare a questa umanità travagliata dell'oggi è la stessa sensazione primordiale di quei valori trascendenti ed eterni su cui il cristianesimo ha risolutamente poggiato la sua visione e la sua speranza.

Noi abbiamo creduto che la vita avesse in sé la sua legge e la sua sanzione. Abbiamo creduto che l'organizzazione sociale degli uomini potesse essere sufficiente, conformata a quelle che reputiamo la giustizia e l'equità, a tacitare e a placare tutte le esigenze dello spirito umano. Abbiamo creduto che la totalità della vita fosse per se stessa tutta spiritualità, e che la storia contenesse in se stessa il proprio correttivo e il proprio logico sfociamento.

Tutto ciò rappresenta, né piú né meno, la vera visione pagana e classica della vita. Contro questa visione il cristianesimo insorse, debellando e trasformando il mondo.

Contro questa tipica visione pagana della vita, ripullulata su dagli strati della nostra indomabile barbarie, non soggiogata piú dai grandi principî cristiani, occorre riaffermare le posizioni centrali del Vangelo, al di là e al di sopra di tutte le soffocanti incrostazioni teologali, che ne hanno infirmato e vulnerato la capacità normativa. È un grande atto di umiltà che si chiede imperiosamente allo spirito umano, inorgoglito dai suoi successi empirici e dalle sue possibilità culturali.

Il dominio sulle forze brute della natura non rappresenta affatto un arricchimento dell'anima. La vastità sconfinata delle nostre conoscenze erudite non vale un movimento del cuore. I successi terreni, le conquiste politiche, la signoria sulle energie cosmiche, non trasformano la nostra funzionale e irrimediabile qualità di mendicanti.

Noi siamo mendicanti al cospetto dell'universo fisico come dell'universo umano. Abbiamo bisogno della luce del sole, come abbiamo bisogno del sorriso dei nostri fratelli. Le stigmate della nostra funzionale mendicità sono nei fatti stessi elementari della nostra vita perché, amando, stendiamo la mano per chiedere amore; soffrendo, stendiamo la mano per chiedere compassione; attanagliati dal rimorso per la nostra radicale peccaminosità, stendiamo la mano per chiedere perdono; sul nostro letto di morte, noi non facciamo che implorare ricordo e sopravvivenza. Pertanto, tutta la nostra esistenza fisica e spirituale è impastata di lacunosità, di miserie, di sete e di bisogno.

Proclamando beati gli accattoni, Cristo ha conferito al riconoscimento della nostra mendicità una aureola che la redime e la esalta. Secondo il Vangelo, è ricco solamente colui che si riconosce mendìco al cospetto dell'universo. Ecco la grande, la divina, l'insormontabile conquista offerta agli uomini dalla rivelazione cristiana.

Avere permesso che simile lucente ed elementare verità si obnubilasse sotto il gravame delle speculazioni teologiche e delle complesse forme della vita burocratica è il torto funesto dei piú recenti secoli della tradizione cattolica.

Torto, aggiungiamo subito, perdonabile, perché era nella logica delle cose, nella dialettica intima dello sviluppo storico del cristianesimo. Ma torto che occorre assolutamente espiare se si vuole che il cristianesimo torni ad essere, non viatico di singoli spiriti nel loro cammino verso una sicura retribuzione d'oltre tomba, bensí imponente forza storica, chiamata a far fermentare la pasta insipida e greve della vita associata, mercè la visione stimolante di valori trascendenti, destinati a instaurarsi trionfalmente in un veniente Regno di Dio.

Il cristianesimo è per eccellenza distinzione dualistica fra valori empirici e valori superempirici: questa dualistica visione il cristianesimo deve ridare.

Noi siamo diventati consuetudinariamente sordi e ciechi a tutto quello che è al di là della nostra esperienza empirica e della nostra virtú cogitante. Formula saliente dell'idealismo oggi dominante (e nulla c'è stato mai di meno idealistico che questo presunto e bugiardo idealismo) è quella che proclama l'assoluta, integrale spiritualità del reale, senza residui e senza deviazioni.

La storia, secondo questo fallace, insidioso e rovinoso idealismo, è una permanente creazione di valori, nella quale il passato è reintegrato e sublimato. Il cristianesimo è agli antipodi di questa visione unitaria e prosastica dell'esistenza. Il male e il bene non sono due momenti empirici superantisi l'un l'altro, ma l'espressione di due forze permanentemente in conflitto. Dio stesso soffre e agonizza in questo conflitto nel quale la sua potenza di bene sembra incontrare ostacoli che solo attraverso l'agonia e il martirio saranno battuti e sorpassati.

In ogni nostra esperienza sensibile si nasconde una realtà spirituale, per cogliere la quale noi dobbiamo ininterrottamente aguzzare le nostre capacità visive come le nostre capacità ascoltative e tattili.

Qui nel mondo la solenne e augusta realtà della vita si nasconde al di là dell'esistenza empirica. E in questo mondo trascendente di sensibilmente inafferrabili realtà, sono collocate la sanzione e la giustificazione del nostro povero e perituro oscillare fra la vita e la morte.

Il volto di Dio ci è nascosto da queste caleidoscopiche fantasime della vita sensibile. Ed è il volto di un Padre la cui vita è intimamente legata alle sue creature e il cui successo sulle potenze del male è misteriosamente condizionato dal contributo operoso di queste stesse creature che sono, sí, servi inutili e fatui, ma sono anche cooperatori indispensabili e strumenti insurrogabili.

Il primo articolo della fede cristiana, di quella fede originaria evangelica che ha bisogno oggi, come mai, di essere solennemente e coraggiosamente riaffermata nel mondo, è il riconoscimento della divina paternità.

Noi abbiamo cominciato questa nostra opera cercando di fissare in maniera inconfondibile come, alla base della predicazione di Gesù, sia un senso nuovo di Dio quale Padre universalmente longanime, ecumenicamente pietoso, sconfinatamente provvidente. Probabilmente nessuna fra le parabole di Gesù racchiude tanto senso pedagogico e illuminativo quanto la parabola del Figliuol Prodigo, la quale addita Dio in atto di spiare da lungi sul lungo cammino se vegga tornare il figlio degenere, che ha abbandonato la casa paterna per la sua temeraria e lacrimevole avventura. È forse questa una parabola che esprime in maniera filosoficamente corretta l'idea della onnipotenza di Dio? Se il messaggio di Cristo avesse voluto inculcare la potenza sovrana di Dio, come era ad esempio nell'orientamento naturale della speculazione ellenica, non ci avrebbe veramente mostrato un padre che cede alle velleità presuntuose e irriverenti del figliuolo, e che è incapace di impedire quel suo proposito di evasione, prologo della rovina e della miseria.

Il Vangelo non è affatto la dimostrazione teologica della onnipotenza divina. È piuttosto la rivelazione divina e umana del soggiacere di Dio al destino dell'universale dolore e dell'indeclinabile cimento che è nell'esistenza.

Il cristianesimo non ha voluto, come la filosofia aristotelica, asserire la immobile impassibilità di Dio. Ha voluto piuttosto farci sentire Dio partecipe e mescolato a tutte le nostre sofferenze e a tutte le nostre aspirazioni.

Oggi piú che mai abbiamo bisogno di sentire, come il Vangelo ci ha insegnato, che siamo miserabili creature di peccato e di morte, con un'esistenza e un destino legati istante per istante a un'azione generatrice del Padre, senza la cui assistenza precipiteremmo immediatamente nel nulla. La nostra fede nella potenza di questo Padre non può essere una fede filosofica, deve essere una fede religiosa. E quel che distingue nettamente la religione dalla filosofia è la credenza inconcussa in un Regno di giustizia e di bontà che non è la storia, ma è la oltrestoria, il Regno di Dio. Per le anime timide dei cosiddetti cristiani dei nostri giorni è uno scandalo irreparabile che Gesù abbia lanciato l'annuncio dell'imminente venuta del Regno di Dio, e la Cristianità abbia vissuto di questa fede nell'imminente venuta del Regno di Dio. Gesù è stato dunque la vittima di un'illusione, e quei suoi seguaci che hanno trasformato il mondo sono vissuti di questa illusione?

Ecco il segno infallibile della nostra scarsa fede e del nostro sostanziale allontanamento dalla posizione tipica della esperienza cristiana. La intensità dell'esperienza evangelica non ha invece in pratica che una sola misura e un unico modo di riconoscimento: ritenere propinqua la rivelazione completa di Dio nel Suo Regno. Perché il misterioso congegno della virtú creatrice del cristianesimo nella storia è tutto qui. Fare della speranza del Regno l'attuazione del Regno. E fare nel medesimo tempo della comunità che aspetta il Regno e che, aspettandolo, lo crea, il fermento vivo e disciplinatore della vita associata.

Tutte le formulazioni dogmatiche escogitate dalla capacità raziocinatrice dei maestri ecclesiastici, tutti i gradi della gerarchia burocratica insediatasi via via nella Chiesa, non hanno avuto altra ragione di essere e altra funzione specifica che quella di permettere alla Chiesa cristiana di vivere e di fruttificare mano mano che si veniva affievolendo e impoverendo la visione impellente del Regno di Dio, e di consentire l'assolvimento dei còmpiti che simile visuale implicava, anche quando la temperie eroica della Cristianità primitiva si era raffreddata.

Oggi che le formule dogmatiche hanno perduto ogni consistenza pragmatica e la disciplina burocratica della Curia ha smarrito ogni collegamento con i tessuti profondi della vita associata ecumenica, non c'è altra via di salvezza che quella rappresentata da un dissennato (dissennato dal punto di vista umano) abbandonarsi a quella visione delle realtà sante, la cui formula sintetica è data dal concetto di regalità di Dio, e da un ritorno, si direbbe quasi infantile, nelle braccia del Padre, che condivide la nostra sofferenza e solo ci garantisce la spirituale salvezza. Il grande articolo del vecchio simbolo: «Credo nella comunione delle cose sante», deve diventare la tessera e la parola d'ordine del nostro ringiovanito comportamento cristiano.

La deficienza piú grave che si è venuta delineando progressivamente nella cultura moderna e che ha fatto avvizzire tutta la nostra civiltà e ha depauperato le radici stesse della nostra vita associata, è quella a cui noi siamo andati incontro per il nostro abuso di razionalità e di empirismo scientifico nel modo di riguardare e di avvertire la realtà in cui viviamo e di cui siamo fatti. Noi abbiamo miseramente smarrito la percezione delle realtà non percepibili sensibilmente. È stata sempre dottrina fondamentale delle spiritualità creatrici nella storia che la nostra visione sensibile non è la visione totale della realtà. È stato presupposto costante di tutti i sistemi religiosi, ma soprattutto del cristianesimo, che al di là del mondo apparente esiste un mondo di realtà non apparenti, per raggiungere le quali bisogna aguzzare, non lo sguardo della pupilla sensibile, bensí quello della pupilla interiore. Esistono nell'universo armonie recondite ed extranaturali, cui non può pervenire la nostra capacità di ascoltazione materiale. Per l'esperienza religiosa in genere e per l'esperienza cristiana in particolare, il mondo è un velario che nasconde i veri valori dell'Eternità e dell'Assoluto. Esiste anzi un rapporto inverso tra il tessuto dei valori empirici e dei valori trascendenti. Solo nella misura in cui noi ci distacchiamo dalla realtà sensibile siamo in grado di appressarci e di toccare i valori del nostro vero destino.

San Paolo ha espresso questa esigenza fondamentale e questa istanza comune di tutte le forme dell'esperienza religiosa, proclamando solennemente che solo le cose invisibili sono eterne, e che tutto quello che è visibile e palpabile, è transitorio e caduco.

La filosofia contemporanea, con la sua riduzione integrale del reale a spirituale, è rea di avere cancellato e annullato in sostanza ogni nostra possibilità di vera vita religiosa e ogni nostra possibilità di ascensione nella grazia. Di questa pregiudiziale aberrazione, di cui abbiamo colto le miserevoli tragiche conseguenze, dobbiamo fare immediata espiazione.

Noi siamo rei, e ne portiamo la pena, di avere negato la spiritualità che è fuori e al di là della materialità, nella illusione boriosa di avere tutto spiritualizzato attraverso la nostra menzognera capacità di esseri che creano pensando.

Il riconoscimento del mistero che avvolge tutta l'atmosfera della nostra vita fragile e imperfetta deve essere il primo atto della nuova fede. La quale, partendo da questo pregiudiziale riconoscimento di una zona di inviolabili valori trascendenti, che si celano al di sopra e al di là della nostra esperienza sensibile, dovrà procedere oltre nel conquistare una consapevolezza sempre presente di quel che è la dialettica intima della vita spirituale, cosí singola come collettiva.

Solo nel rinnegamento di sé, sono la pace e la vittoria; solo nella aspirazione ai valori di Dio, sono la civiltà e il progresso degli uomini.

Tutta questa nostra storia ha voluto essere, non per preconcetto preliminare, ma per conseguenza logica e spontanea ricavata dalla evocazione dei fatti, la dimostrazione che il decadimento e l'impoverimento della civiltà sono stati determinati appunto dall'avere l'ufficiale tradizione del cattolicesimo dimenticato la sorprendente e trascendente dialettica dei suoi antichi successi per una conformità pratica ai metodi della politica realistica, creduti piú efficaci per il mantenimento di quelle conquiste da essa invece effettuate in virtú della originale metodica evangelica, che impone la consegna dell'unica ricerca del Regno di Dio, e fa nascere anche i vantaggi terreni e i progressi civili da questa superiore economia dello Spirito.

Noi abbiamo veduto, tappa per tappa, come la decadenza e il tramonto cristiani sono stati accompagnati di volta in volta da un ripiegamento sempre piú pronunciato verso i valori della terra e da un allontanamento sempre piú pronunciato dalle trascendenti visuali del Regno di Dio.

A lungo andare la pesante armatura teologica dell'insegnamento ecclesiastico, la soffocante angustia della casistica gesuitica, hanno finito con l'ottundere la sensibilità umana a quel mondo di valori superempirici, la cui visione è sola capace di innalzare gli atteggiamenti collettivi dello spirito e gli orientamenti della morale associata.

È evidente che la evasione da questa mortifera atmosfera di paganesimo redivivo in cui va agonizzando la nostra civiltà non può essere consentita che da un riaffiorare delle primigenie esperienze evangeliche. Dopo circa duemila anni di peregrinazione nel mondo, la rivelazione del Cristo, che è tutta nel rovesciamento dei valori, nella polarizzazione dello spirito verso l'ideale del Regno di Dio, nella consapevolezza delle realtà carismatiche, nella ricerca dell'Assoluto al disopra di tutto quello che è empirico, realistico, terrenamente illusorio e appariscente, deve riprendere il suo iniziale cammino.

Non è il cristianesimo che agonizza in questo nostro sfacelo dilagante della civiltà; è il nostro allontanamento dal Vangelo che ha raggiunto la sua abissale caduta.

La prima consegna da inculcare agli spiriti è quella che addita il raggiungimento della vita al di là del rinnegamento della vita e le vie del vero progresso umano al di là e al disopra di tutte le meschine, anguste, periture competizioni umane.

Quella che è stata la lacerazione del mondo cristiano e quindi il radicale disconoscimento di quella che è la prima applicazione pratica del messaggio cristiano, vale a dire l'universale fraternità degli uomini, appare oggi come la piú funesta iattura che potesse piombare sulle sorti della civiltà europea.

E da ogni parte si leva l'aspirazione a una ricostituzione dell'unità cristiana.

Ma l'unità cristiana non può essere la giustapposizione di elementi eteronomi in un esteriore amalgama, come si giustappongono le tessere in un mosaico.

La religiosità è per definizione vita unitaria dello spirito e non può essere praticata e vissuta se non in una fusione di cuori che attinga la sua validità e il suo alimento da una fervida esperienza partecipata in comune. «Cooperatori della comune gioia», aveva definito una volta San Paolo i partecipi alla salvezza e alla speranza nel Cristo. Se nessuno di noi, anche nella sua vita fisica, è scisso dal mondo circostante, nessuno di noi potrebbe pensare che l'esperienza del divino possa essere avvertita e attuata nella clausura della propria individuale coscienza.

Uno degli errori piú mostruosi della cultura moderna, uno dei sintomi piú palesi della nostra degenerazione spirituale, è appunto aver fatto dell'atteggiamento della fede e della speranza soprannaturali un affare individuale.

Noi viviamo in simbiosi, specialmente nel mondo delle realtà sacre. La concezione del corpo mistico di Cristo, che torna a essere uno dei motivi centrali dell'apologetica religiosa in tutte le confessioni cristiane, deve essere sentita come innalzamento collettivo nell'atmosfera sacramentale della grazia, per divenire effettivamente un valido coefficiente di rifusione umana nel senso della fraternità e della pace. La nostra rinascita avrà la sua alba il giorno in cui noi, educando il nostro spirito a una percezione sempre piú acuta, sempre piú viva, di queste sacre realtà, ci costituiremo fermento nella vita associata ed elemento saporifero di questa insipida e crudele vicenda, che è il corso empirico degli umani casi.

Se questa storia del cristianesimo, che noi siamo venuti costruendo lembo a lembo con animo devoto e trepidante, ha un significato, questo significato non può tradursi in altro modo che nella seguente constatazione indeclinabile e imperiosa: il cristianesimo ha cominciato a perdere la sua efficienza sociale il giorno in cui ha abbandonato la bussola del suo glorioso navigare nel periodo antico e medioevale, bussola diretta verso l'unica e mobile luce del Regno di Dio, per acconciarsi ai metodi consueti della piccola navigazione di cabotaggio della politica terrena e delle anguste visuali diplomatiche.

Ma non siamo in tempi di navigazione costiera. In un'ora solenne della nostra storia spirituale come quella che attraversiamo occorre riprendere con animo audace la grande navigazione, dalle rotte lunghe e pazienti, dagli orizzonti lucidi e sconfinati. Anche la storia, lo abbiamo detto, è un mare navigabile; ha in sé la sua carta di navigazione, che è stata tracciata dalla mano misteriosa e provvidenziale di Dio, e che noi abbiamo cercato di ricostruire lembo a lembo di su l'esperienza millenaria dei nostri fratelli nella comunione delle cose sante. Questa carta di navigazione ha i suoi punti di riferimento negli articoli di fede dell'imperituro e inalterabilmente vero simbolo cristiano.

Essi sono: la fede nel Dio Padre di tutte le genti e di tutte le viventi realtà cosmiche; la presenza al di là del mondo sensibile di un mondo di realtà trascendenti, del quale noi dobbiamo spiare con cuore docile e pupilla tremante la voce e il sentore; la certezza di un nostro destino infinito che attende nel Regno di Dio la sua trasfigurante attuazione nel Bene e nell'Amore; la consapevolezza della nostra fragile condizione di accattoni, chiamati a trovare il compimento delle nostre deficienze e delle nostre inguaribili sofferenze nella solidarietà di tutti i nostri fratelli partecipi, coscienti o incoscienti, al nostro travaglio e alla nostra speranza; la sensazione sempre presente che, pellegrini nel mondo, noi possiamo non tradire il nostro còmpito e la nostra vocazione solo a patto di dare quel che in noi è effimero alla città del mondo, per dare quel che in noi è eterno alla Città di Dio, e soltanto alla Città di Dio.

* * *

Come i pellegrini dall'ultimo ciglio montàno, da cui sia possibile scorgere il santuario ove sono saliti spinti dal loro prepotente bisogno di toccare le soglie sante baciate dalla venerazione dei loro antenati, rivolgono al santuario, che tra poco perderanno di vista, la loro estrema preghiera e il loro commosso saluto, anche noi, al termine di questo nostro bimillenario pellegrinaggio, possiamo rivolgere al santuario che potremo perdere di vista, ma di cui sogneremo sempre con animo nostalgico la ricomparsa, l'accorata preghiera che ci suggerisce l'eterna validità dei valori disvelati dalla parola divina di Gesù nel suo annuncio provvidenziale, insorpassato e insorpassabile, agli umani:

«Noi ti invochiamo, innanzi tutto, o Padre, riconoscendoci tuoi figli immemori e sconoscenti. Noi abbiamo dimenticato che, come Tu ci hai insegnato, ammonendoci, per le labbra del Tuo divino Figliuolo, a non chiamare nessuno Padre sulla terra, perché uno solo è il nostro Padre, il Padre che è nei cieli, noi non siamo nati alla luce il giorno in cui fummo fisicamente generati. Noi nasciamo in ogni istante, perché Tu solo ci procrei e ci generi in ogni istante della nostra esistenza. Ché, mancando il mistero della Tua ininterrottamente rinnovata procreazione paterna, noi cadremmo miserabilmente nel nulla.

«Le nostre amare vicende, attraverso cui abbiamo, con la nostra temeraria fatuità di figli ingrati e ribelli, portato alla sofferenza anche la Tua vigile ansia di Padre, ci hanno dato oggi pungentemente come non mai il senso della nostra inguaribile precarietà e della nostra insanabile qualità di accattoni.

«Accattoni noi siamo tutti indistintamente: tanto piú accattoni e tanto piú miserabili, quanto piú famelici ci fanno la nostra cultura e il nostro presuntuoso dominio sul mondo.

«Noi torniamo pertanto a Te, Padre, con la fede che nasce dalla piú cupa e smarrita delle desolazioni.

«Ti proclamiamo Padre di tutti e di ciascuno, a qualunque razza noi apparteniamo, di qualunque consuetudine si faccia forte il nostro orgoglio, qualunque privilegio accampi la nostra oltracotante fatuità.

«Solo nel senso dell'universale e longanime Tua paternità noi possiamo trovare la tranquilla serenità del nostro cuore, gravato dal piú atroce dei rimorsi e dal piú lugubre dei disinganni.

«Ci siamo tutti creduti capaci di creare la civiltà, senza il Tuo senso paterno; la disciplina, senza il sentore augusto dei misteri insolubili che avvolgono le nostre origini e il nostro respiro.

«Satanicamente fiduciosi nelle nostre capacità razionali, abbiamo creduto di dare una soluzione plausibile agli enigmi dell'universo.

«E abbiamo dimenticato che tutto quello che è fuori di noi racchiude zone inviolate e inviolabili alla nostra angusta ed esigua capacità cogitante.

«Abbiamo dimenticato, di piú, che il còmpito capitale della nostra vita spirituale non è quello di toccare una spiegazione razionale del mondo, bensí quello di comportarci di fronte a Te e di fronte ai nostri fratelli in una maniera diversa da quella in cui si comportano le creature che Tu non hai insignito di virtú cosciente e di sensibilità morale.

«Tanto piú grave e irreparabile la nostra peccaminosa dimenticanza in quanto Tu, attraverso la parola della Buona Novella, ci avevi illuminato in maniera definitiva sulla vera nostra natura e sul vero nostro destino.

«Noi torniamo pertanto ad abbandonarci nelle Tue braccia di Padre con cuore compunto.

«Sentiamo di dovere riprendere il cammino là dove lo intrapresero i nostri primi padri, nell'esperienza del Vangelo.

«Noi vogliamo praticare una fede operosa in Te, Padre longanime che fai piovere su giusti e su peccatori, dimenticando e rinnegando tutte le pareti divisorie che la nostra menzognera e barbarica civiltà ha innalzato fra popolo e popolo, fra classe e classe, fra ceto e ceto, fra confessione e confessione.

«Vogliamo che quelli che sono dal mondo giudicati reietti siano, come sono dinanzi al Tuo cospetto, i nostri fratelli piú cari e i nostri amici piú vicini.

«Perché noi abbiamo imparato dal Tuo Vangelo che non le sanzioni codificate hanno validità ed efficienza, in quell'orizzonte delle realtà sante in cui Tu ci hai insegnato a celebrare la nostra comunione dello Spirito, che è il Signore, a camminare, esitanti e tremanti, verso quella meta del Tuo Regno, che è la riparazione attesa di tutte le basse viltà e di tutte le esasperanti crudeltà di cui è intessuta questa tremenda vita umana nel mondo.

«Di queste realtà sante, di cui Tu hai voluto che il Vangelo desse la sensazione intuitiva attraverso la visione del Regno Tuo veniente, noi vogliamo vivere, sapendo che, come Tu ci hai fatto insegnare dal Cristo, il Regno Tuo è tanto piú vicino, quanto piú allucinatamente speranzosi lo attendiamo imminente.

«Noi sappiamo attraverso l'insegnamento del Tuo Figlio che Tu non vuoi fare a meno della nostra cooperazione nel compimento della Tua volontà e della Tua pace.

«Prostrati nella polvere nella estenuante fatica del nostro còmpito quotidiano, noi ci proclamiamo servi inutili, ma nel medesimo tempo indispensabili, del Tuo lottare contro Satana, che è tenebre e inganno.

«E mentre invochiamo da Te che Tu ci liberi dal morso insidioso del Maligno, noi diamo tutta la nostra esistenza per la Tua vittoria sul Tuo nemico.

«Affretta il Tuo trionfo perché la nostra vita si è consumata nel desiderio della Tua giustizia, e assistici, perché la nostra fede e il nostro amore siano fermento risanatore in questa nostra civiltà in dissoluzione, e siano sale su questa terra che ha perduto, lontana da Te e dal Tuo Vangelo, ogni virtú di fecondità e di maturazione nel Bene.

«Amen.

«Attraverso il Tuo Vangelo Tu ci hai insegnato la legge piú profonda della vita, la legge che Tu solo rivelasti e potevi rivelare, perché autore della vita: la legge che fa della vita stessa il frutto e il premio del rinnegamento e della immolazione.

«Tu nel Tuo Vangelo hai messo a nudo dinanzi ai nostri occhi, atterriti e insieme affascinati, il mistero che si nasconde nei momenti piú alti e piú drammatici della nostra esistenza.

«Tu ci hai insegnato a fare del nostro riconosciuto accattonaggio la tessera di ingresso nel Regno della Tua pace e della Tua gioia.

«Noi abbiamo smarrito nei secoli la sapienza di questo duro e sconcertante riconoscimento.

«Dell'amore, che non è altro che ricerca elemosinante di amore; abbiamo fatto, mercè una mostruosa deformazione, il dominio del nostro egoistico soddisfacimento. Chi ricorda piú, nella pratica quotidiana della vita, i solenni assiomi della Tua rivelazione, che la vita la si guadagna elargendola, che nel portare gli uni gli oneri degli altri è la pienezza della legge e che tutta la vita dello spirito è in una fede cieca, divorata dall'universale amore?

«Noi abbiamo dimenticato completamente che il dolore che è nella vita è dolore Tuo oltre che nostro, perché Tu sei il Padre che vuoi la gioia e che subisci l'affronto del dolore perché nel dolore è il peccato dell'universo.

«Noi abbiamo dimenticato che c'è nel dolore una infinita virtú salutifera, perché è il dolore che ci abitua piú energicamente a stender la mano di accattoni, alla ricerca ansiosa e famelica di un conforto che sollevi la nostra angoscia, che plachi la nostra inquietudine, che lenisca il nostro tormento.

«Noi abbiamo dimenticato di averTi sempre al nostro fianco di sofferenti, unico Tu capace di fare erompere dalla nostra pena il latente riscatto.

«Noi abbiamo dimenticato che non c'è sofferenza, la quale non meriti rispetto e venerazione, perché non c'è sofferente che non porti sul suo volto le stimmate del Divino sofferente, Cristo incarnazione di Dio.

«Ma noi ci siamo soprattutto resi rei del piú funesto disconoscimento delle nostre origini e del nostro destino, quando abbiamo chiuso violentemente la capacità ascoltativa della nostra anima alla voce dell'universale rimorso.

«Tu ispirasti ad uno dei piú antichi rapsodi della Tua epopea spirituale il mito grandioso e solenne di un iniziale fratricidio, che impregnò di sangue fraterno le zolle della terra, gridanti cosí al Tuo cospetto l'esigenza di una riparazione espiatrice. E ci siamo dati a versare sui solchi del mondo il sangue dei nostri fratelli, immemori della vendetta e della espiazione che non avrebbero potuto fare a meno di piovere dal cielo.

«Di una cosa pertanto, o Padre, abbiamo soprattutto bisogno: di risuscitare e di ricuperare, nel fondo della nostra coscienza, il senso drammatico del peccato, lo stimolo deprimente ed esaltante del rimorso, al Tuo cospetto di Padre che giudica e restaura la violata legge del bene.

«Le prime tappe del nostro cammino spirituale nel mondo furono segnate appunto il giorno in cui, in vari punti di questa nostra civiltà mediterranea che Tu hai segnato col crisma di una Tua particolare benedizione, si percepí improvvisamente e luminosamente il significato di quella inenarrabile angoscia, che accompagna il nostro male operato, e che racchiude il segno e la virtú di un Tuo possibile perdono. Ci siamo sconfinatamente allontanati da quella consapevolezza corroborante, illanguidendo la realtà del male e contraffacendo la voce della legge, che parla attraverso la nostra coscienza. Ridacci, o Padre, la coscienza della nostra infinita peccaminosità e della nostra pervicacia inguaribile, refrattaria ad ogni altra possibilità di salute che non siano la Tua grazia e il Tuo riscatto.

«Ma soprattutto i nostri occhi annebbiati e tardi riacquistino, per miracolo Tuo, la capacità di visione, attraverso la morte che è cosa di ogni ora e di ogni istante. Ché noi sentiamo, come sentirono i nostri padri, che il dramma dell'universo è in una mescolanza permanente di luci e di ombre, di vita e di morte, di bene e di male, stretti in un groviglio in cui soltanto la lama della Tua sapienza e della Tua aspettante bontà sanno fare il taglio di oggi e di domani: il taglio provvisorio e, quando che sia, il taglio eterno.

«Pellegrini reduci da una delle piú drammatiche e penose avventure di temerità e di orgoglio che la storia della spiritualità umana abbia mai registrato; riafferratici, nudi e deserti nel nostro nomade andare randagio, ai valori eterni che tutti miserevolmente abbiamo contribuito a seppellire nell'oblio, ci riaffacciamo tremebondi sulla soglia dell'avita casa abbandonata, cercando i guizzi superstiti del fuoco che abbiamo lasciato languire, con irreparabile nostra iattura.

«Sappiamo che Tu attendevi il nostro ritorno: il ritorno di accattoni che sanno per dura esperienza come nulla è piú funesto all'uomo della sua orgogliosa pretesa alla sufficienza e all'autogoverno. Raccoglici nella pace del Tuo perdono e della Tua grazia, e che i nostri occhi non dimentichino piú la legge eterna del Tuo Vangelo che è tutta, secondo la memoranda parola di Paolo, nel segno di una croce, proiettata su tutta la sconfinata sofferenza e su tutta la sitibonda speranza dell'universo.

«O crux, ave spes unica!».

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