XIX GLI ULTIMI CONCORDATI E LA CONCILIAZIONE

Ogni agonia ha i suoi istanti euforici. Il periodo immediatamente successivo alla prima grande guerra fu per la politica e per la diplomazia della Santa Sede un'ora di vera euforia. La costituzione del Partito Popolare in Italia, con i suoi successi parlamentari altrettanto strepitosi che effimeri, la moltiplicazione all'infinito delle stipulazioni concordatarie con tutta la fungaia di Stati e di staterelli usciti come dal ripostiglio di un prestigiatore dalle conferenze per la pace, sembrarono aver dato alla segreteria di Stato e ai suoi organi dipendenti la sensazione esaltante che ormai la politica europea direttamente fosse nelle mani del supremo magistero cattolico. Crediamo che raramente nella storia ci sia stata illusione altrettanto vasta e in pari tempo infondata.

Naturalmente, un posto a parte nella esplicazione di questa politica internazionale postbellica della Santa Sede spetta ai rapporti tra cattolicesimo e Stato nell'Italia fascistica. Il Pontificato è italiano anzi è romano, e ha sede in Italia. L'unificazione della nazione, l'installazione della capitale a Roma, avevano aperto fra Chiesa e Stato un dissidio acre e sospettoso, che non aveva mancato di produrre esizialissimi effetti per un cinquantennio, nella vita unitaria della nazione. La costituzione del Partito Popolare, come abbiamo visto, aveva determinato una crisi profonda nella vitalità costituzionale del liberalismo. Il fascismo doveva largamente beneficiarne. Ma il fascismo d'altro canto portava nel proprio grembo un complesso e multanime programma di affermazioni nazionali, di aspirazioni imperiali, di rifusione morale e culturale del paese, che non avrebbero potuto non incidere sulla annosa questione dei rapporti e con la tradizione religiosa del popolo e con gli organi supremi del magistero cattolico. Il Risorgimento italiano, come abbiamo visto, si era trascinato con sé, insoluto, il problema della religiosità italiana. Mazzini aveva sognato un' Italia maestra di spiritualità al mondo, al di fuori dell'ufficiale insegnamento cattolico, in contrasto anzi con esso, attingente la sua capacità di proselitismo, la sua forza di espansione, la sua luce di fascino da una credenza religiosa nell'Iddio della giustizia e della verità, al di là e al di sopra di tutte le codificazioni dogmatiche e disciplinari della tradizione romana. Nelle prime esplosioni del suo sogno nazionale federale, Gioberti, non immune da infiltrazioni illuministiche, che lo inducevano a una interpretazione metafisica e razionale del dogma cattolico, aveva sognato un Papato costituitosi guida e legiferatore di una nazionalità italiana rinnovata. Cavour si era adagiato in una visione di riconoscibile provenienza extracattolica, di una contemporanea convivenza di Stato e Chiesa, ufficialmente pressoché ignorantisi a vicenda. In verità, pesava sull'Italia, avviatasi alla sua costituzione nazionale, un destino quanto mai drammatico: come contemperare le millenarie aspirazioni ecumeniche e le radicatissime idealità religiose supernazionali, con le esigenze di un potere statale e nazionale circoscritto?

Nel suo primo discorso alla Camera dei deputati del giugno 1921, Mussolini pronunciava queste testuali parole: «Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo. Se, come diceva Mommsen, non si resta a Roma senza una idea universale, io penso e affermo che l'unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano. Sono molto inquieto quando vedo che si formano delle Chiese nazionali, perché penso che sono milioni e milioni di uomini che non guardano piú all'Italia e a Roma. Ragione per cui io avanzo questa ipotesi: penso, anzi, che se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici – e credo che sia già su questa strada – l'Italia, profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per scuole, chiese, ospedali o altro, che una Potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicesimo nel mondo, l'aumento dei quattrocento milioni di uomini che in tutte le parti della terra guardano a Roma, è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani».

Le quali parole, già molto chiare di per sé, e illuminate da tante altre dichiarazioni collaterali e complementari del capo del Governo italiano e duce del fascismo, ci fanno in contestabilmente comprendere che il cattolicesimo di cui Mussolini parlava e del cui prestigio mondiale la nazionalità italiana non avrebbe dovuto che compiacersi ed esaltarsi, era o meglio avrebbe dovuto essere un cattolicesimo consapevole di sé, forte delle sue genuine tradizioni universali, tutto poggiato sulla rivendicazione di quelle realtà trascendenti, di quei valori superiori, di quei carismi extraterreni, che, unici e soli, costituiscono la eredità incontaminata del Vangelo e la fonte viva della schietta e legittima potenza ecclesiastica.

Molte volte Mussolini ha detto e proclamato, con particolare insistenza, che l'Italia doveva rinunciare a far credito delle sue glorie artistiche e delle sue memorie monumentali. La virtú efficiente della nuova Italia sarebbe dovuta scaturire unicamente da una dignità morale, culturale, politica, capace di imporsi, indipendentemente dalle romanticherie convenzionali, che fanno appello alla inconguagliabile prosapia dei ricordi e ai fantasmi suggestivi del passato.

Non è da pensare pertanto che, celebrando il valore ecumenico del cattolicesimo fra i titoli di gloria dell'Italia al cospetto del mondo, Mussolini avesse di mira una Chiesa, monumento venerando fra monumenti venerandi. Parlava piuttosto di una Chiesa in possesso integrale delle sue potenze spirituali e del suo magistero ecumenico.

E allora è evidente che si sarebbe dovuta profilare immediatamente all'orizzonte una abbiezione di non lieve entità.

Un cattolicesimo consapevole di sé, consapevole cioè delle sue funzioni squisitamente superempiriche e supernazionali, come avrebbe mai potuto costituire un coefficiente di forza e di prestigio per un organismo statale di carattere strettamente nazionale? Qualora esso avesse fatto leva, come di dovere, solo sulle sue idealità universali, per riaffermare il proprio prestigio nella universalità del mondo credente, non avrebbe finito automaticamente, per questo stesso, col paralizzare in qualche modo e con l'inceppare la libera e piena circolazione della vita nei limiti dello Stato nazionale, e non avrebbe potuto rappresentare fonte inarrestabile di conflitti e di attriti?

E d'altro canto, una qualsiasi costituzione nazionale che avesse voluto, in una certa misura e in un certo senso, subordinare e possibilmente asservire alle proprie finalità circoscritte e alle proprie esigenze temporanee la eterna e superiore realtà carismatica, che è nel magistero e nella disciplina del cattolicesimo, non avrebbe finito con l'ottundere e con il limitare quella stessa potestà supernazionale e universale della Chiesa, della cui efficienza nel mondo avrebbe voluto e si sarebbe studiata in qualche modo di farsi forte, appropriandosene di rimbalzo il prestigio e l'ascendente?

In realtà, i riconoscimenti solenni di Mussolini avrebbero dovuto dare alla Chiesa il senso preciso delle sue nuove, ingenti e pungenti responsabilità. Di contro a tanto fatuo e vacuo anticlericalismo massonico che in Italia aveva imperversato per decenni, ostentando di ignorare e di disconoscere la vitalità del sentimento religioso e la maestà storica del cattolicesimo, Mussolini avrebbe rivendicato tempestivamente il valore esimio della nostra piú grande gloria ereditiera, che è la funzione cattolica di Roma nel mondo. Ma in concreto la Roma cattolica del secolo ventesimo possedeva ancora in sé intatte e non consumate le energie spirituali, le grandi e forti idealità soprannaturali, la divorante sete del Regno di Dio e della Sua giustizia, la consapevolezza sempre presente e sempre profonda della validità predominante dell'invisibile sul visibile, da cui si è sviluppato nei secoli il fascino del suo magistero e della sua disciplina; o non piuttosto questa Chiesa del secolo XX, corrosa da tanto diuturna e compromettente mescolanza con gli interessi della terra, aveva finito col perdere tanta effettiva porzione della sua pubblica efficienza, barattata, con scarso senso delle proprie responsabilità, con effimeri e ingannevoli successi diplomatici, del tutto estranei alla vera causa del Vangelo nel mondo?

Se la storia che noi siamo venuti ricostruendo lembo a lembo degli ultimi secoli della vita cristiana in Europa ha un significato e può essere adottata a suffragio di una conclusione, tale risultato e tale conclusione son tutti nella constatazione dolente della degenerazione progressiva dell'ufficiale eredità cristiana nel mondo.

Prima di poter riguadagnare nel mondo la smarrita efficienza, la Chiesa del XX secolo incipiente, nel presentimento della crisi a cui il mondo andava incontro proprio a causa della sua puerile illusione di creare un mondo di giustizia solo in termini di distribuzione aritmetica di beni materiali e di organizzazione tecnica della vita associata, avrebbe dovuto rifondere dalle radici il suo patrimonio spirituale, che si era venuto insensibilmente depauperando e sfigurando. Avrebbe dovuto riprendere in esame le basi stesse delle sue direttive e i presupposti della sua ufficiale trascrizione teologica dei permanenti valori del Vangelo. Invece, si era irrigidita nel suo dogmatismo e si era chiusa nel recinto angusto e calcificato della sua burocrazia disciplinare. Unica prova di elasticità erano la sua adattabilità politica e l'attenuazione delle sue rivendicazioni territoriali, l'una e l'altra imposte dalla ormai troppo chiaramente dimostrata impossibilità di tornare alle situazioni, sorpassate dal moto del Risorgimento italiano. Troppo poco per poter ancora assicurare alla azione del cattolicesimo nel mondo ambito e virtú sufficienti a riportare in mezzo all'umanità, avviata fatalmente alla piú vasta crisi di valori e di istituti che la storia abbia mai registrato, l'autentico fascino della rivelazione cristiana. Perché questa crisi che si profilava uraganica all'orizzonte potesse essere affrontata salutarmente e validamente dalla Chiesa cattolica, sarebbe stato necessario che questa traesse su, dalle viscere millenarie della sua continuità col Vangelo, la coscienza precisa di quel che la visione portata dal Cristo sulla terra significa nella esplicazione della vita associata. Sarebbe stato necessario che essa riguadagnasse la elementare semplicità delle origini, quando, secondo la parola neotestamentaria, i credenti nel Cristo avevano un'anima e un cuore soli, retti saldamente dalla coscienza dell'unica vita corporativa nel Cristo Signore. E invece la Curia si rivelò ancora una volta cosí tardamente pigra, indolente e intransigente nel suo orrore per qualsiasi spirito innovatore, che tentasse di ricordarle la missione sua primordiale e non trasmissibile, da scegliere, nello sviluppo della sua diplomazia, alternative straordinariamente pericolose. Fece cioè del soddisfacimento di alcune sue piccine velleità di rappresaglia e di repressione, contro individui e contro posizioni che non meritavano di assurgere a tanto valore di posta nelle trattative politiche e diplomatiche sue, altrettante condizioni preliminari tassative, la cui accettazione da parte dell'altro contraente non poteva naturalmente non esser fatta pesare, quando si fosse trattato di ottenere, in cambio, concessioni corrispettive. Queste avrebbero finito coll'andare a detrimento dei veri e propri superiori interessi delle realtà soprannaturali, cui la Chiesa avrebbe dovuto tutto posporre. Tale, ad esempio, la condizione preliminarmente imposta a regimi con i quali si stipulavano concordati, di dare esecuzione alle sentenze ecclesiastiche, quando queste avessero ordinato ad un ecclesiastico colpito da misure inquisitoriali, unicamente per le sue idee religiose, di togliersi una divisa sacerdotale che egli ritenesse inerente indissolubilmente alla sua vocazione e alla sua professione. Tali, analogamente, le richieste perentorie della eliminazione di «irretiti in censure ecclesiastiche» da posti guadagnati per libero concorso, nel pubblico insegnamento universitario o secondario.

Sicché si sarebbe dovuto constatare che l'unica elasticità di movenze manifestata dalla Chiesa nella nuova temporalesca temperie storica, era quella che veniva ad incidere sulle direttive politiche, di fronte ai nuovi Stati, direttive che invece, a norma dei dettami evangelici, avrebbero dovuto essere le sole a mantenersi invariabili, nella loro intransigente estraneità e indifferenza. Mentre si mantenevano dure e inalterabili quelle intransigenze culturali, e spirituali, che invece avrebbero dovuto manifestarsi tanto piú accessibili e sensibili ai nuovi atteggiamenti spirituali e religiosi, inevitabile risultato del progressivo realizzarsi o dell'improvviso rinascere dello spirito cristiano nel mondo.

Fin dal 1921, all'indomani della ripresa delle relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e la Francia, informazioni e commenti di provenienza vaticana avevano deplorato che moltiplicatesi ormai le rappresentanze diplomatiche presso la Santa Sede, solo l'Italia rimanesse assente in Vaticano. Già la prima enciclica di Pio XI, Ratti, accennava a ribadire le rivendicazioni curiali in favore di una assoluta libertà della Chiesa, e a rincalzo delle esigenze che l'esercizio del supremo potere disciplinare nella Chiesa cristiana sembra implicare. D'altro canto però lasciava intendere che il neoeletto Pontefice si sarebbe sempre dimostrato propizio e incline a trattare con i governi laici.

Il fascismo frattanto si apprestava a conquistare il potere nel paese. Le parole pronunciate da Mussolini alla Camera nel '21 avevano già esplicitamente dato a vedere quali, nell'eventualità di una presa di possesso dell'autorità politica nazionale, sarebbero state le direttive della sua politica ecclesiastica. E infatti si vide subito, all'indomani della «marcia su Roma», che i riconoscimenti offerti da Mussolini alla efficienza del cattolicesimo, alla necessità di inserirlo nel quadro globale delle forze operanti della tradizione italiana nel mondo, non erano solo riconoscimenti teorici, ma dovevano e volevano essere vere e concrete direttive di governo. Innalzato al potere, Mussolini impresse alla sua azione un'andatura tale da far palesemente intuire che, d'ora in poi, la posizione fatta alla Chiesa cattolica dall'art. l dello Statuto Albertino sarebbe dovuta divenire una pratica e riconoscibile realtà, richiedendosi in contraccambio che la Chiesa mettesse la sua azione religiosa e morale a disposizione di quella che era considerata la nuova rivoluzione morale dell'Italia postbellica. Si cominciò pertanto con l'addimostrare il piú schietto ossequio e la piú pubblica deferenza alle autorità ecclesiastiche. Furono sollecitamente rese piú onerose le sanzioni giuridiche comminate contro qualsiasi offesa fosse inferta alla religione cattolica e al clero. Nei quadri delle forze armate dello Stato vennero senz'altro restaurati i cappellani militari. Nelle aule della giustizia, come nelle aule scolastiche, fu appeso alle pareti di nuovo il Crocifisso. Nelle scuole elementari fu introdotto, come obbligatorio per tutti, l'insegnamento religioso, non mancandosi di incoraggiare e di favorire la introduzione di liberi corsi religiosi nelle scuole medie. La grande riforma scolastica, patrocinata e condotta in porto dal nuovo ministro dell'Istruzione pubblica, Giovanni Gentile, rappresentò la concessione di un grandissimo privilegio alle scuole private, quasi tutte, come si sa, nelle mani degli Ordini religiosi e specialmente della Compagnia di Gesù. In virtú infatti dell'esame di Stato per tutti gli allievi delle scuole secondarie, gli alunni delle scuole private vennero a trovarsi nelle stesse condizioni in cui si trovavano gli alunni delle scuole pubbliche. Di modo che quella che fino allora era stata una cospicua superiorità della Scuola di Stato, cioè l'esame interno, scomparve in una assoluta equiparazione di tutti i candidati agli esami di maturità, da qualunque scuola, privata o pubblica, essi provenissero. La legge Gentile disciplinava altresí l'istituzione di Università di fondazione non statale. Ne trasse opportunità di sistemazione l'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, vigilata dalla multiforme, versatile, farraginosa e ultrarealistica attività del francescano Gemelli. In pari tempo lo Stato fascista provvedeva al miglioramento delle condizioni economiche del basso clero. Il contributo dello Stato per l'aumento delle congrue parrocchiali fu di colpo raddoppiato. Ne fu esteso il beneficio anche ai canonici dei Capitoli cattedrali. I giovani avviati al sacerdozio furono esonerati dal servizio militare, il quale provvedimento, abbinato con le migliorate condizioni economiche del clero, con il riconoscimento delle congregazioni religiose che sarebbero venute cosí ad aumentare imponentemente i loro possessi, determinava un rifiorire di vocazioni ecclesiastiche, di cui non si sarebbe potuto dire che l'ispirazione e il movente religiosi fossero le principali molle.

L'atmosfera si preparava automaticamente alla risoluzione della questione romana. Pensò Mussolini di affrontarla fin dal suo avvento al potere? Lo si potrebbe credere. Sta di fatto che le relazioni fra autorità ecclesiastiche e autorità civili cominciarono subito ad assumere altro colore e altra andatura. Il 12 marzo 1923, a pochi mesi di distanza dalla «marcia su Roma», il commissario per il Comune di Roma, Filippo Cremonesi, rendeva visita, non senza solennità, al cardinale vicario, che, come si sa, è il facente funzione del Pontefice nella sua diocesi, Roma. E subito due giorni dopo, col consueto stile vaticanesco teso a ricavare da ogni politica del Governo italiano lo spunto per ulteriori sollecitazioni, l'Osservatore Romano, in una nota ufficiosa, si preoccupava di mettere bene in chiaro che la visita era stata accolta solo in quanto visita privata, svoltasi in quello che era il domicilio personale dell'Eminentissimo cardinale. E ricordava intenzionalmente che se qualche lieve e superficiale novità c'era nei rapporti fra Santa Sede e Governo italiano, la questione giuridica delle loro scambievoli relazioni non aveva fatto un passo avanti dal punto a cui si era cristallizzata il 21 settembre 1870. Ma, singolarissima ed eloquente coincidenza, nel medesimo giorno in cui l'Osservatore Romano dava pubblicità a questa nota, il cardinale vicario Pompili restituiva in forma privata la visita al commissario regio Cremonesi in Campidoglio, in un momento in cui il commissario era assente, sicché il cardinale poteva assolvere i doveri di convenienza semplicemente lasciando in anticamera la sua carta da visita.

Quando il 1925, l'anno giubilare, richiamò a Roma vastissima affluenza di visitatori della Città Santa, Pio XI, nell'allocuzione concistoriale del 14 dicembre, credette ben opportuno dare pubblico riconoscimento al perfetto funzionamento dei servizi pubblici ed esprimere lode al Governo, perché questo aveva adeguatamente assolto i suoi oneri, avvertendo le proprie responsabilità e le esigenze degli interessi italiani e romani, in un evento religioso di quelle proporzioni. L'occasione parve buona a Papa Ratti per formulare un ringraziamento al Governo di Benito Mussolini, per quanto esso veniva operando a riparazione parziale « delle ingiurie e dei danni inflitti per troppo lungo tempo alla religione e alla Chiesa». Per spingere però la situazione verso là dove la Chiesa mirava, Pio XI non lasciava sfuggire l'occasione per rilevare che nelle nuove leggi economiche e sociali introdotte dal regime dei Fasci non era stato tenuto il dovuto conto della dottrina cattolica e dell'azione cattolica, volendo e dovendo la Chiesa tenersi ugualmente lontana dalla licenza anarchica, retaggio immancabile della pratica liberale e del movimento socialista, come da qualsiasi forma di statolatria.

Quando cosí Pio XI parlava, già da parecchi mesi era all'opera una commissione che il Governo di Mussolini aveva nominato per la riforma della legislazione ecclesiastica. Scopo della commissione era esplicitamente quello di adattare tale legislazione quanto piú fosse possibile alle esigenze teoriche e pratiche della Chiesa e dei suoi organi curiali. A farne parte erano chiamati anche tre prelati, che però non rivestivano alcuna veste ufficiale e non avevano portato con sé alcuna delegazione o autorizzazione vaticana. La commissione studiò successivamente la situazione giuridica della Chiesa e dei suoi istituti religiosi, l'amministrazione dei benefici ecclesiastici e il regio Placet, la manomorta e il patrimonio ecclesiastico. Dopo un anno preciso di lavori approdò a un disegno di legge che avrebbe dovuto essere sottoposto alla approvazione del Parlamento. Ed ecco che Pio XI venne ad arrestarne il decorso normale con un colpo di scena che di rimbalzo pesò efficacemente sulla impostazione non piú prorogabile della questione romana alla luce dei principî morali e politici del fascismo e della sua rivoluzione. Vale a dire il Papa, in data 18 febbraio 1926, indirizzava una lettera al suo segretario di Stato, cardinale Gasparri, rilevando che nel progetto di riforma ecclesiastica approntato dalla commissione di nomina governativa, con la partecipazione, in veste puramente di esperti, di tre prelati, la Santa Sede non aveva avuto alcuna parte ufficiale e riconosciuta, per cui era tenuto a dichiarare che, alla luce dei principî cattolici, non poteva sottoscriversi al fatto che altre potestà puramente laiche e profane si permettessero di legiferare in materia di questo genere senza preliminare accordo con il magistero cattolico. Ora, concludeva il Pontefice Pio XI, un accordo di simil genere non si sarebbe mai potuto effettuare, «finché fosse durata la iniqua condizione fatta alla Santa Sede e al romano Pontefice».

Lo stile del documento pontificio al riguardo della condizione creata al Pontificato romano dal Governo italiano dal giorno del suo installarsi a Roma, non era sostanzialmente diverso da quello costantemente adoperato dai Pontefici Pio IX e Leone XIII. Ma la differenza profonda era ora in tutta la temperie circostante, negli indirizzi e negli orientamenti della nuova politica spirituale italiana. Sicché, quelle parole che nei documenti pontifici fra il '70 e il '900 avevano potuto suonare come rimbrotti acri e verdetti severi, ora assumevano piuttosto il valore e il tono di sollecitazioni pungenti e di stimoli duri e calcolati, sicuri in anticipo di non cadere a vuoto.

E se ne videro ben presto infatti i risultati. Quando nel maggio del medesimo anno 1926 la Camera affrontò la discussione del bilancio della Giustizia e dei Culti, il ministro Rocco, guardasigilli, riconobbe esplicitamente che la lettera del Papa aveva rovesciato i termini del problema e che il Governo fascista non poteva non prendere atto di tale rovesciamento, dato che lo Stato italiano non poteva essere che cattolico. Il Governo fascista superava cosí arditamente e senza esitazioni il punto morto che aveva per tanti lustri paralizzato, vulnerato, possiamo anzi dire reciso in radice, qualsiasi possibilità di contatti fra autorità politica e religiosa. Il ministro Rocco soggiungeva che il Governo dell'on. Mussolini si proponeva formalmente di riallacciare al momento opportuno la trattazione del ponderoso argomento «sopra basi piú larghe». Ormai si apriva larghissimo il campo alla solerte e fine accortezza dei personaggi vaticani che si fossero accinti a spremere i frutti piú pingui dalla nuova situazione italiana.

Si seppe anche che all'indomani del suo discorso parlamentare il ministro Rocco non mancò di far giungere in Vaticano l'assicurazione che le parole da lui pronunciate avevano un preciso e concreto significato. Volevano cioè suggerire che le istruzioni date dal capo del Governo al suo guardasigilli, prima che questi si fosse presentato alla discussione parlamentare, significavano che, al momento in cui la questione fosse stata ricondotta all'esame, base della discussione non sarebbe stata piú soltanto genericamente la legislazione ecclesiastica, bensí anche in pieno la questione romana. Il cardinale Gasparri ricevette tale comunicazione con legittimo compiacimento, ma cercò immediatamente di prendere in parola l'interlocutore chiedendo che la comunicazione privata fattagli a nome del ministro guardasigilli dello Stato italiano assumesse carattere ufficiale. «Se realmente Mussolini», disse il segretario di Stato, «ha intenzione di risolvere la questione romana, incarichi qualcuno di trattare con noi per questo scopo e allora vedremo quel che si potrà fare». Il Governo italiano mostrò di voler procedere con altrettanta cautela e, pur dichiarandosi genericamente disposto a scegliere e ad autorizzare un plenipotenziario di sua fiducia, aggiunse di voler essere in anticipo assicurato che all'eventuale intermediario non fosse opposto un pregiudiziale rifiuto. E il cardinale segretario di Stato, a sua volta, ormai fiduciosamente condiscendente, ebbe a dire che nulla vietava un cautelato scambio di idee in argomento.

Passò un paio di mesi. All'inizio dell'agosto del 1926 il consigliere di Stato Domenico Barone invitava a privato colloquio Francesco Pacelli, fratello del nunzio che sarebbe stato in seguito segretario di Stato e poi Papa. E il Pacelli andò. Le conversazioni ufficiali si iniziavano. Il Pacelli, avendo già ricevuto le opportune istruzioni al riguardo, additò come condizioni preliminari di una qualsiasi fruttifera trattazione due punti tassativi: la concessione di un territorio su cui il Papa potesse esercitare autorità sovrana, qualsiasi ne potesse essere l'ambito spaziale su cui si sarebbe potuto discutere insieme; la conclusione di un concordato fra la Santa Sede e il Governo italiano, in virtú del quale si sarebbero dovuti dare, innanzi tutto, gli effetti civili al matrimonio religioso.

E le due condizioni pregiudiziali furono senz'altro accettate dal Barone. Le conversazioni continuarono per tutto il residuo dell'anno. Si seppe che nei primi del '27 un abbozzo di trattato per la risoluzione della questione romana era già pronto, e che contemporaneamente un testo di concordato era già stato nelle sue linee centrali compilato.

Poi ci fu un periodo di sospensione. Il problema dell'educazione giovanile e particolarmente dell'educazione sportiva cattolica, per la quale esistevano molte organizzazioni confessionali, sembrò dovesse porsi come un ostacolo insormontabile ad un ulteriore procedimento delle trattative in corso, fra la Santa Sede, che non avrebbe voluto farsi sottrarre tanta parte della sua missione pedagogica, e il Governo fascista, per il quale la formazione fisica e morale della gioventú era numero capitale del suo programma totalitario.

Mentre lo Stato fascista emanava i suoi ordinamenti dell'Opera Balilla, Pio XI indirizzava al suo segretario di Stato, il 24 gennaio 1927, una lettera, con cui deplorava che un recente decreto-legge avesse tolto ad una grande parte della organizzazione dei Giovani Esploratori Cattolici, e precisamente ai gruppi che esistevano nei Comuni inferiori ai ventimila abitanti, la possibilità di conservare la propria esistenza legale. Ma nell'atto stesso della sua deplorazione, il Papa dava partita vinta al Governo, dichiarando sciolti i reparti dei Giovani Esploratori colpiti dalle nuove disposizioni e costituendo autonomi, di fronte alla Azione Cattolica, quelli tuttora permessi. Questa repentina capitolazione del Pontefice non mancò di suscitare sorpresa. Si vociferò che essa fosse determinata da alcune eventualità, minuscole in apparenza, che, sulla base di informazioni ricevute da uomini politici italiani eminenti, un'ulteriore resistenza del Papa avrebbe potuto provocare nel campo della cultura religiosa. Comunque, la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane si scioglieva, e il Governo poteva procedere al divieto di qualsiasi formazione od organizzazione per la educazione e la istruzione della gioventú che non facesse capo all'Opera Nazionale Balilla, specificandosi con ulteriori circolari ministeriali che tutti i precedenti permessi parziali concessi agli Esploratori Cattolici si intendevano abrogati.

Il Vaticano fece buon viso a cattivo giuoco e, troppo impegnato com'era nel conseguimento dei suoi fini concordatari, si acconciò a ristabilire i contatti con i plenipotenziari del Governo.

Il 20 agosto 1928 i due fiduciari, il Barone e il Pacelli, avevano già redatto i testi definitivi del trattato e del concordato. Dopo la morte del Barone, Mussolini trattò direttamente col Pacelli dall'8 gennaio 1929 in poi. Ci si avvicinava all'epilogo della laboriosa discussione. Il 7 febbraio, il cardinale Segretario di Stato convocava il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, comunicando la sottoscrizione imminente degli accordi tra il Vaticano e il Governo italiano, e quattro giorni dopo Pietro Gasparri e Benito Mussolini firmavano, nel Palazzo del Laterano, il trattato, il concordato e una convenzione finanziaria che completava il trattato.

Il trattato politico veniva a disciplinare definitivamente le relazioni fra l'Italia e la Santa Sede, organo centrale, e perciò supernazionale, della Chiesa cattolica. Il concordato veniva a regolare i rapporti fra lo Stato e la Chiesa italiana, frazione della Chiesa universale. La convenzione finanziaria tendeva a indennizzare, sia pure in parte, la Sede Apostolica dei danni subìti per la perdita del patrimonio di San Pietro, costituito dagli antichi Stati pontifici e dai beni degli Enti ecclesiastici.

Nata nei lontani secoli del Medioevo, quando lo spirito cristiano, incorporato nella Chiesa romana, aveva ridotto ad unità spirituale la famiglia europea, e di rimbalzo ne aveva favorito l'unificazione politica sotto la trasfigurata nozione dell'Impero, la figura del concordato non era stata alle sue origini né una figura strettamente e nudamente giuridico-politica, né una figura astrattamente spirituale-carismatica. Era sorto spontaneo, il concordato, all'epilogo dell'epica lotta cosiddetta per le investiture. Si trattava di stabilire in quale misura ed entro quali limiti i dignitari della gerarchia ecclesiastica dipendessero dall'autorità spirituale, e in quale misura invece dipendessero dall'autorità politica imperiale. È stato mai possibile fare il taglio netto fra lo spirito e la materia nell'uomo, fra lo spirito e la materia negli aggregati umani? Il concordato aveva preteso di realizzare questa soluzione di un problema assurdo quanto quello della quadratura del circolo. In fondo, se i dignitari ecclesiastici non avessero avuto possessi materiali e di rimbalzo, in un mondo feudalmente costituito, un potere giurisdizionale politico, la questione che il concordato presumeva dirimere non avrebbe avuto neppure ragione di essere, e il concordato non sarebbe stato mai escogitato. Nel delimitare, mercè la stipulazione del concordato, i poteri dell'autorità imperiale al cospetto della propria autorità spirituale, il Papato, in certo modo, veniva ad abdicare alla propria incontrollabile sovranità nello spirito, per mescolarsi agli interessi di questa terra. Ma la universalità dei due poteri in contrasto, l'universalmente riconosciuta spiritualità del magistero religioso cristiano, lasciarono intatta, nell'epoca di Callisto II e di Enrico V, la sovranità dello spirito sulla temporalità della politica terrena. Si può dire che a rigor di logica, e perché fosse rispettata la piena efficienza dei termini e dei valori impliciti nei termini, il concordato non si sarebbe mai dovuto concepire possibile se non fra due poteri universali e cattolici, il potere papale e il potere imperiale. La disgregazione delle grandi unità medioevali, la costituzione degli Stati moderni, venivano a riporre, in termini circoscritti, quello che era stato il problema risolto nella prima metà del secolo duodecimo dal primo concordato europeo. Doveva e poteva, il supremo magistero cattolico, scendere a patti sul terreno della legislazione religiosa con i singoli Stati e accettare convenzioni concordatarie con le nazioni, sorte su dallo sfacelo della venerabile unità del Medioevo cristiano? Per il fatto che il magistero cristiano veniva a discutere e ad intendersi con singoli Stati non correva rischio di perdere, nelle sue decisioni, quell'aureola di sacralità che nelle stipulazioni concordatarie del Medioevo era raccomandata, per uno spontaneo passaggio dalla indeterminatezza dello spazio alla trascendenza dello spirito, alla stessa universalità del potere con cui la Sede romana stipulava le sue convenzioni? Non sappiamo fino a qual grado quesiti di questo genere si siano agitati negli strati piú profondi della subcoscienza cristiana all'alba dell'età moderna.

Sta di fatto che la Chiesa entrò per questa via, e il concordato con Francesco I fu il primo tipico esempio dei concordati stipulati fra la Santa Sede e capi di Stati nazionali. Ora, in pieno secolo ventesimo, a meno che un decennio di distanza da quella rivoluzione fascista che veniva a dare allo Stato nazionale italiano una struttura totalitaria, un programma imperialista, una decisa intransigenza pedagogica e culturale, la Santa Sede, presa tutta dal suo proposito di installare dovunque, sulle basi di convenzioni concordatarie, il suo potere religioso nell'Europa, uscita artificiosamente, con una innaturale moltiplicazione di piccoli Stati, dalla pace di Versaglia, si trovava dinanzi lo Stato che aveva assorbito e rielaborato in sé i vecchi confini dello Stato pontificio, rappresentante nel Medioevo in qualche modo una salvaguardia della spirituale autonomia papale. E Pio XI vide probabilmente nel concordato con lo Stato fascista il capolavoro della sua diplomazia. Ma avvertendo, non sappiamo quanto consapevolmente, la precarietà di tutti i regimi concordatari instaurati mercè trattative con Stati provvisori ed effimeri, la cui possibilità di durata era quanto mai problematica e malsicura, ora che si trattava di stipulare il concordato con lo Stato piú vicino, nei cui confini il Papato aveva di fatto la sua sede, sentí la necessità di farne in qualche modo piú solida la consistenza e piú sicuro il destino. E per questo volle che il concordato fosse ancorato sul trattato politico, perché in qualunque momento l'altra parte contraente fosse venuta meno alle clausole del concordato, sapesse in anticipo che era, con questo stesso, violato il trattato e di rimbalzo quindi messa in forse e di nuovo fatta problematica la consistenza unitaria della nazione italiana. A buon conto, perché la indissolubile solidarietà di concordato e di trattato apparisse in pieno nelle stesse formulazioni, il primo articolo del trattato, destinato a risolvere la questione romana, portava incisi che concernevano invece la vita religiosa della nazione, toccavano cioè argomenti che logicamente e pregiudizialmente avrebbero dovuto essere esclusivamente trattati negli articoli del concordato.

Esso era concepito testualmente cosí: «L'Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell'art. 1 dello Statuto del Regno, 4 marzo 1848, per il quale la religione cattolica e apostolica romana è la sola religione dello Stato». In virtú di tale articolo le disposizioni dello Statuto Albertino divenivano, da proclamazioni unilaterali quali erano state nel '48, stipulazioni bilaterali, vale a dire una specie di concordato di scorcio.

Il secondo articolo del trattato riconosceva «la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale, come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione e alle esigenze della sua missione nel mondo». Tanto valeva porre il fondamento politico-morale dell'articolo susseguente, il quale attribuiva senz'altro alla Santa Sede «la piena proprietà e la esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, come è attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e dotazioni, creandosi per tal modo la Città del Vaticano». Questa nuova Città veniva a rappresentare il nuovo Stato pontificio, a norma del principio fondamentale del giure canonico per cui la Chiesa è «società perfetta». Per una strana conseguenza che non fu avvertita, ma che pure era di capitale importanza, con la creazione della Città del Vaticano sede del Papato, il Papa, che in tanto è successore di Pietro in quanto è vescovo di Roma, manteneva il titolo di vescovo di Roma, ma non aveva piú in Roma la sua residenza. I Papi di Avignone non si erano trovati idealmente in una situazione diversa.

Seguivano nel trattato articoli nei quali erano definiti, sempre in rapporto alla Città del Vaticano, il diritto di cittadinanza, il diritto di legazione, le interne giurisdizioni. E veniva poi il novero degli immobili ecclesiastici o profani, entro o fuori Roma, che venivano devoluti in piena proprietà al Pontefice romano, pur continuando a fare parte del territorio italiano, ma godendo, di conseguenza, del diritto di immunità diplomatica e di altri privilegi. Perché però lo Stato pontificio apparisse quale è con tutti i suoi eccentrici e inconfondibili caratteri, nell'art. 24 la Santa Sede dichiarava di voler rimanere sempre estranea «alle competizioni temporali fra gli altri Stati e ai congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facessero concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale». E l'articolo continuava testualmente: «In conseguenza di ciò la Città del Vaticano sarà sempre e in ogni caso considerata territorio neutrale ed inviolabile».

Infine il trattato si conchiudeva con questa dichiarazione: «La Santa Sede ritiene che con gli accordi, i quali sono sottoscritti, le viene assicurato adeguatamente quanto le occorre per provvedere con la dovuta libertà e indipendenza al governo pastorale della diocesi di Roma e della Chiesa cattolica in Italia e nel mondo; dichiara definitivamente e irrevocabilmente composta, e quindi eliminata, la questione romana, e riconosce il Regno d'Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano. Alla sua volta l'Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano sotto la sovranità del Sommo Pontefice. È abrogata la legge 13 maggio 1871 n. 214 e qualunque altra disposizione contraria al presente trattato».

Un complemento essenziale al trattato fu rappresentato dalla convenzione finanziaria ad esso annessa. In virtú di tale convenzione l'Italia si obbligava a versare alla Santa Sede 750 milioni di lire italiane, piú un volume di consolidato italiano al 5 per cento al portatore per il valore di un miliardo di lire italiane.

Il concordato, che Pio XI e i suoi rappresentanti non si stancarono di proclamare in ogni occasione inscindibile dal trattato stesso, si componeva di quarantacinque articoli. Era premessa una dichiarazione per cui l'Italia, a norma, e il riferimento era esplicito, dell'art. 1 del trattato, si impegnava a garantire alla potestà spirituale il libero e pubblico esercizio del culto, nonché l'esercizio della sua giurisdizione in materia ecclesiastica, conformemente alle norme fissate e stipulate nel concordato. Una speciale disposizione di questo art. 1 chiariva che «in considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere». In altra clausola si prescriveva che nelle domeniche e nelle feste di precetto, nelle chiese in cui ufficiava un Capitolo, il celebrante la messa conventuale avrebbe cantato, secondo le norme della sua liturgia, una preghiera per la prosperità del re d'Italia e dello Stato italiano. Negli articoli successivi veniva garantita alla Santa Sede la libera comunicazione con tutto il mondo cattolico, come ai vescovi la libera comunicazione con il clero e i fedeli, per tutto ciò che coinvolgesse l'esercizio del ministero pastorale. Per quanto riguarda le circoscrizioni diocesane era stabilito che le due potestà avrebbero d'accordo proceduto ad una loro revisione, perché ci fosse corrispondenza, nei limiti del possibile, fra circoscrizione ecclesiastica e province statali. Naturalmente veniva sancito il principio della coincidenza dei vescovadi di confine con i limiti territoriali dello Stato nazionale. In pratica, il numero rilevantissimo delle diocesi italiane è rimasto inalterato. In virtú del concordato erano aboliti cosi l'Exequatur come il Placet regio. Lo Stato italiano veniva a rinunciare integralmente al patronato reale e alla regalia sui benefici maggiori e minori. La Santa Sede si impegnava a comunicare preventivamente al Governo i nomi dei vescovi eletti, e questi, prima di prender possesso, si impegnavano a prestare il giuramento di fedeltà. Anche per i titolari dei benefici ecclesiastici veniva introdotta la comunicazione preventiva. La personalità giuridica era dal concordato riconosciuta, e la cosa ha una certa importanza dal punto di vista giuridico ed economico, anche alle corporazioni ecclesiastiche e alle congregazioni religiose, che fino allora non l'avevano mai posseduta. Anche gli Ordini soppressi erano autorizzati a ricostituirsi. Tutte queste associazioni religiose però dovevano avere il loro domicilio in Italia e dovevano essere rappresentate da cittadini italiani. Era contemplata e ammessa la costituzione di nuovi Ordini religiosi, in virtú della approvazione canonica. Erano anche ammesse le fondazioni di culto. All'autorità ecclesiastica era demandata, come di sua assoluta e incontrollabile competenza, la gestione dei beni ecclesiastici e delle associazioni religiose. La Santa Sede si impegnava a concedere un assoluto e totalitario condono a tutti coloro che fossero venuti in possesso dei beni ecclesiastici liquidati già a loro tempo, in forza delle prime leggi eversive dello Stato nazionale italiano.

Il concordato stipulato fra Pio XI e il Governo fascista faceva un particolarissimo trattamento a persone, a cose, ad atti e ad istituti ecclesiastici. Cosí i chierici venivano esentati dal servizio militare come dalle mansioni di giurati, vietandosi assolutamente di chieder loro informazioni su cose venute a loro conoscenza in virtú del loro ministero pastorale. Qualora si dovessero imbastire processi contro ecclesiastici, della cosa si sarebbe dovuto dare sempre informazione al rispettivo vescovo diocesano. Gli edifici di culto venivano dichiarati esenti da requisizione e da occupazione. Non si sarebbe mai potuto procedere alla loro demolizione, senza preliminare accordo con l'autorità ecclesiastica. Quasi che l'autorità ecclesiastica avesse avuto di mira particolari casi di persone e particolari circostanze pubbliche, speciali canoni del concordato stabilivano che i preti colpiti da censure ecclesiastiche non potessero esercitare uffici, i quali implicassero contatto immediato con il pubblico. Giungeva a interdire l'uso dell'abito ecclesiastico a chi ne avesse ricevuto divieto dall'autorità inquisitoriale. E in momenti di particolare bonaccia politica, Pio XI avrebbe tassativamente chiesto l'applicazione precisa e personale di questo articolo.

L'art. 36 del concordato era cosí concepito: «L'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Non solamente pertanto l'istruzione catechistica era introdotta nei quadri dell' insegnamento primario, ma l'insegnamento religioso era introdotto anche nelle scuole medie con professori e testi debitamente sottoposti all' approvazione dell'autorità ecclesiastica. Le nomine dei professori alle cattedre della Università cattolica del Sacro Cuore a Milano non si sarebbero potute fare senza il nulla osta della Santa Sede. Gli istituti funzionanti per la formazione e la educazione del clero cattolico sarebbero dipesi esclusivamente dalla Santa Sede. Ma lo Stato italiano si impegnava a riconoscere i dottorati in teologia che tali istituti avessero conferito. Si garantiva il mantenimento dell'esame di Stato nelle scuole medie, affinché la parità assoluta fra gli alunni delle scuole governative e quelli delle scuole religiose fosse inalterabilmente conservata.

Di particolarissimo valore appariva l'art. 34 concernente il matrimonio. Esso era cosí concepito: «Lo Stato italiano, volendo ridonare all'istituto del matrimonio, che è la base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al Sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili». Le pubblicazioni del matrimonio religioso sarebbero state pertanto effettuate non solamente dalla Chiesa parrocchiale, bensí anche nella sede comunale. Avvenuta la celebrazione, il parroco avrebbe costantemente spiegato ai coniugi gli effetti civili del matrimonio dando lettura di quegli articoli del codice civile che concernono i diritti e i doveri dei coniugi. È a lui che sarebbe spettato l'onere di redigere l'atto di matrimonio, del quale avrebbe, nel giro di cinque giorni, trasmesso copia integrale al Comune, affinché fosse trascritto nei registri dello Stato Civile.

Le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sarebbero state tutte riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici. I provvedimenti e le sentenze al riguardo, una volta divenuti definitivi, sarebbero stati portati al supremo tribunale della Segnatura, il quale avrebbe constatato se le norme del diritto canonico relativo alla competenza del giudice, alla citazione e alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti, erano state rispettate. Dopo di che i provvedimenti e le sentenze definitivi, con i relativi decreti del supremo tribunale della Segnatura, sarebbero stati trasmessi alla Corte di Appello dello Stato, quella competente dal punto di vista territoriale; e questa Corte, con ordinanze emesse in Camera di Consiglio, li avrebbe resi esecutivi agli effetti civili, ordinando che si annotassero nei registri dello Stato Civile, a margine dell'atto di matrimonio. Per quanto però riguardava le cause di separazione personale, la Santa Sede consentiva che fossero giudicate dall'autorità giudiziaria civile.

Il notevole art. 43 veniva a definire la situazione dell'Azione Cattolica: «Lo Stato italiano riconosce le organizzazioni dipendenti dall'Azione Cattolica italiana in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l'immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l'attuazione dei principi cattolici. La Santa Sede prende occasione dalla stipulazione del presente concordato per rinnovare a tutti gli ecclesiastici e religiosi d' Italia il divieto di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico».

Nell'epilogo il concordato stabiliva che, qualora in avvenire fossero sorte difficoltà circa l'interpretazione da dare agli articoli del concordato medesimo, la Santa Sede e lo Stato italiano avrebbero cercato di procedere, di comune accordo, ad amichevoli soluzioni.

Si disse che gli schemi primitivi, cosí per il trattato come per il concordato, privatamente concertati fra il 1926 e il 1927, contenessero clausole ancor piú favorevoli alla Santa Sede. Pur cosí com'era, il concordato offriva articoli e incisi straordinariamente propizi alla disciplina curiale del cattolicesimo, specialmente per tutto ciò che concerneva il giure matrimoniale e la garanzia e l'applicazione forzata da dare alle sentenze di alcuni tribunali ecclesiastici, come quello della Sacra Romana Inquisizione o Sant'Uffizio. Tanto è vero questo che, mentre da parte vaticana si cercò in ogni modo di porre in luce e nel massimo rilievo tutto quello che potesse rappresentare guadagno gerarchico-ecclesiastico, da parte dello Stato non si mancò di dare alle clausole contrattuali l'interpretazione piú circoscritta e il significato meno cospicuo.

Nella stessa mattina dell'11 febbraio 1929, in cui nel Palazzo del Laterano il capo del Governo italiano, Mussolini, e il cardinale segretario di Stato Gasparri procedevano alla sottoscrizione dei patti, Pio XI riceveva in Vaticano i predicatori della Quaresima e parlava naturalmente dell'evento. Ne assumeva per intero la responsabilità. Affermava di aver chiesto il minimo dei territori per spirito paterno e per evitare le recriminazioni, che si sarebbero potute sollevare «in nome di una, stavamo per dire, superstizione di integrità territoriale del paese». Pio XI soggiungeva che se il territorio era minuscolo, pure, considerando quel che esso ospitava, era legittimo proclamare che «non v'era al mondo territorio piú grande e piú prezioso». Alle Potenze accreditate presso la Santa Sede, Pio XI, continuando, diceva di non aver domandato né permesso, né consenso, né garanzie. Ma affermava recisamente che quel che egli aveva voluto fin dal principio era che il concordato fosse «inscindibilmente congiunto al trattato, per regolare debitamente le condizioni religiose in Italia, per si lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate, in una successione di governi settari e ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa, anche quando forse nemici essi medesimi non erano».

A tre giorni di distanza, parlando ai professori e agli alunni dell'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, Papa Ratti tornava sulla sua prediletta idea che il concordato non solo dovesse essere giudicato come spiegazione e giustificazione del trattato, ma garanzia e tutela di questo. E soggiungeva di aver voluto che l'uno e l'altro si condizionassero a vicenda. E fiero della sua conquista concludeva, celebrando da una parte la propria opera col dire che a risolvere la questione era stato necessario un Papa alpinista e un Papa bibliotecario, ed esaltando dall'altra la figura del capo del Governo italiano. «Forse», egli diceva testualmente, «ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti o piuttosto disordinamenti, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto piú intangibili e venerandi quanto piú brutti e deformi».

Mussolini parlò ampiamente dei Patti lateranensi alla Camera italiana dei deputati il 13 maggio 1929. Fu discorso di una forte importanza. Lo precedettero due dichiarazioni pregiudiziali, l'una diciamo cosí di diritto ecclesiastico, l'altra di natura puramente storica. Mussolini dichiarò innanzi tutto che nello Stato la Chiesa non era sovrana e nemmeno libera, perché soggetta alle leggi dello Stato. In secondo luogo, volle porre in singolare rilievo l'apporto di Roma nella propagazione del cristianesimo e nella costituzione del cattolicesimo, ché, nato in Palestina, il cristianesimo, se fosse rimasto colà, si sarebbe spento probabilmente senza lasciare traccia. Dopo di che, rievocate sommariamente le vicende del potere temporale e quelle della questione romana, in particolar modo dagli inizi del Risorgimento in poi, Mussolini osservava che i Patti lateranensi non rappresentavano infatti che lo sbocco logico e fatale del Risorgimento stesso.

«Non abbiamo», ecco alcune sue parole testuali, «risuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto. Col trattato dell'11 febbraio 1929 nessun territorio passa alla Città del Vaticano all'infuori di quello che essa già possiede e che nessuna forza al mondo e nessuna rivoluzione le avrebbe tolto. Non si abbassa la bandiera tricolore perché non fu mai issata».

Mussolini specificava anche la natura della sovranità papale: «Un conto è la Città del Vaticano, un conto è il Regno d'Italia, che è lo Stato italiano. Bisogna persuadersi che tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano c'è una distanza che si può valutare a migliaia di chilometri, anche se per avventura bastano cinque minuti per andare a vedere questo Stato e dieci per percorrerne i confini. Ci sono quindi due sovranità ben distinte, ben differenziate e perfettamente riconosciute. Ragione per cui la situazione può essere cosí definita: Stato sovrano nel Regno d'Italia, Chiesa cattolica, con certe preminenze lealmente e volontariamente riconosciute, libera ammissione degli altri culti».

Mussolini insisteva in particolare su questa libera ammissione degli altri culti, come sull'inciso dell'art. 5 stesso: «La discussione in materia religiosa è pienamente libera». In pratica però l'esercizio dei culti ammessi non costituiva affatto questi culti in una condizione di perfetta rispettabilità e di assoluta conguaglianza ai fini del pubblico riconoscimento, sanzionandosi pene maggiori per chi avesse recato offesa alla religione cattolica, in comparazione con chi avesse arrecato offesa ai culti ammessi. Anomalia cotesta stridente e intrinsecamente contraddittoria, non potendosi introdurre sperequazioni nella zona ugualmente venerabile del Sacro. D'altro canto non si vedeva neppure in che modo la libertà piena della discussione religiosa potesse essere concretamente praticata e rispettata, quando alle sentenze ecclesiastiche, che molto spesso riguardano appunto la discussione religiosa, lo Stato si impegnava a offrire la garanzia per una pronta e letterale esecuzione civile.

Comunque, il discorso di Mussolini risuonò come l'espressione del proposito reciso di mantenere, specialmente in fatto di educazione giovanile, la preminenza esclusiva e gelosa dello Stato, rivendicato nel suo carattere etico. «Nessun potere», egli disse, «di vigilanza della autorità ecclesiastica è ammesso, anche limitatamente, sull'insegnamento religioso. Soltanto si prescrive che gli insegnanti debbano essere muniti di un certificato di idoneità, da rilasciarsi dal vescovo, e che per l'insegnamento religioso siano adottati libri di testo approvati dalla autorità ecclesiastica. Ingerenza ben limitata e perfettamente ragionevole, perché solo l'autorità ecclesiastica può, con la necessaria competenza in materia religiosa, giudicare della idoneità dei maestri e dei libri di testo destinati all'insegnamento religioso».

Era anzi questa asserita e vigorosamente proclamata volontà di mantenere l'assoluta incontrollabilità totalitaria della formazione fascistica della gioventu che, secondo Mussolini, aveva permesso allo Stato fascista la stipulazione dei patti. «Un altro regime che non fosse stato il nostro, un regime demoliberale, poteva ritenere utile rinunciare alla educazione delle giovani generazioni. Noi no. In questo campo siamo intrattabili. Nostro deve essere l'insegnamento. Questi fanciulli debbono essere educati nella fede religiosa. Ma noi abbiamo bisogno di integrare questa educazione. Abbiamo bisogno di dare a questi giovani il senso della virilità, della potenza, della conquista: soprattutto abbiamo bisogno di trasmettere la nostra fede, le nostre speranze».

Non era difficile prevedere che una cosí palese diversità di attitudini preliminari nella maniera di considerare e di valutare i Patti lateranensi, avrebbe potuto sfociare in dissidi e controversie. A pochi giorni di distanza dal discorso di Mussolini alla Camera, Pio XI indirizzava una lettera al cardinal Gasparri, in cui era una diretta replica alle piú incisive enunciazioni del capo del Governo. E ancora una volta in questa lettera era, con speciale forza, riaffermata la volontà del Pontefice che trattato e concordato fossero considerati inseparabili.

L'anno 1931 vide un aspro conflitto fra Santa Sede e Regime fascista circa i limiti dell'Azione Cattolica, violentemente accusata di evadere dal campo religioso per entrare in quello politico e per mirare alla costituzione di forze organizzate contro il regime nazionale. La lotta assunse a volte caratteri di asprezza preoccupante e le misure adottate dal Governo contro le organizzazioni giovanili non facenti capo all'Opera Balilla furono misure drastiche. Pio XI, con l'enciclica Non abbiamo bisogno del 29 giugno, si sforzò di chiarire le posizioni reciproche, senza forzarle e senza comprometterle. Un nuovo accordo fra i due poteri fu sottoscritto il 2 settembre. Il Governo fascista riconosceva di nuovo l'Azione Cattolica, ma semplicemente in forma diocesana, senza piú una direzione centrale. Si stabiliva che i dirigenti locali sarebbero stati scelti e nominati dai singoli vescovi con la esclusione assoluta di tutti gli elementi provenienti da partiti e da gruppi notoriamente contrari al regime. Era ribadita esplicitamente la astensione dell'Azione Cattolica da qualsiasi attività politica, come da qualsiasi forma, anche esteriore, di organizzazione avente carattere anche superficialmente politico. Le sezioni professionali dell'Azione stessa avrebbero avuto scopo strettamente spirituale e religioso, né avrebbero mai potuto rivestire carattere di associazioni professionali e di sindacati di mestiere. Altrettanto si sarebbe dovuto praticare per i circoli giovanili cattolici, tenuti ad astenersi da qualsiasi attività di tipo sportivo e a mantenere il proprio programma nei limiti di una funzione di natura ricreativa ed educativa, con ispirazione specificamente religiosa. Il regime registrava un nuovo successo.

Da allora, le relazioni tra regime e Chiesa entravano in una fase di intesa, che doveva avere espressioni esteriori di cospicuo rilievo. L'11 febbraio 1932 Mussolini si recava in Vaticano e il Papa lo riceveva in una udienza durata piú di un'ora.

Il 3 marzo successivo il cardinale Pacelli Segretario di Stato riceveva, come lo aveva ricevuto già il suo predecessore, il Collare dell'Annunziata.

La questione romana era stata dunque definitivamente e per sempre risolta.

A che punto era la questione del cristianesimo nel mondo?

La risposta, alla seconda conflagrazione mondiale: la vera.

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