XI IL LIBERALISMO

Nel 1817 compariva a Parigi il primo volume di un'opera con questo titolo: Saggio sull'indifferenza in materia religiosa. Ne era autore un trentacinquenne prete bretone, già noto in alcuni ambienti religiosi e politici per alcune pubblicazioni di netta e violenta ispirazione ultramontana e antinapoleonica. L'opera, che presumeva di iniziare una nuova forma di apologetica religiosa e cattolica, riscosse un successo portentoso. La forte foga oratoria dello scrittore, l'intima vivezza dell'entusiasmo religioso che vi trapelava, fecero si che il libro ottenesse una diffusione straordinaria. Non era un trattato di filosofia, tutt'altro: anzi, le dimostrazioni filosofiche dei motivi che vi erano enunciati e spiegati erano rimandate ai successivi volumi dell'opera. Ciò nonostante il volume era completo in se stesso e avrebbe potuto benissimo fare a meno di qualsiasi continuazione. Suonava come un'appassionata e incisiva protesta contro la freddezza e la insensibilità al cospetto di qualsiasi posizione dottrinale, ma in maniera particolarissima al cospetto delle dottrine religiose. Era pertanto una rivendicazione in pieno del carattere cogente, assoluto, imperioso della fede religiosa, come un patrimonio inviolabile e delicato, alla tutela del quale nessuna cura umana avrebbe dovuto apparire superflua o intempestiva. Rappresentava una vera insurrezione, violenta e patetica, contro l'indirizzo illuminista che aveva presieduto allo scatenamento della rivoluzione francese e sembrava voler sopravvivere alla parentesi napoleonica.

L'autore del libro, Félicité Robert de Lamennais, nato nella vecchia terra bretone, tutta impregnata di profonde e indelebili tradizioni mistico-sacrali, era stato ordinato prete appena un anno prima della pubblicazione dell'opera, trascinato soprattutto dalla influenza contagiosa del fratello, anch'egli sacerdote. La sua anima di entusiasta e di sognatore vagheggiava un ripristinamento integrale della piú fiera e indiscussa ortodossia. Le velleità della Chiesa nazionale gallicana che accennava a rinfocolarsi sotto l'egida della monarchia ricostituita, apparivano alla sua anima assetata di universalità nella fede come attentati all'essenza stessa della tradizione evangelica. La religione cristiana e cattolica gli appariva come la base primordiale e indefettibile di qualsiasi ordinato e pacifico organismo sociale. In questo stesso sogno di integrale reviviscenza della fede, Lamennais portava i presupposti di una odissea che non sarebbe stata soltanto la sua, ma sarebbe stata dopo di lui per lungo ciclo di decenni la sorte drammatica di molti altri sognatori della resurrezione cattolica nel mondo, esposti contemporaneamente alla incomprensione dell'autorità suprema della Curia e all'insuccesso esteriore nella politica empirica: primo esemplare di un tentativo sfortunato che sarebbe stato da allora in poi numerose volte ripetuto, per riportare la Chiesa ad una efficienza sociale a cui essa stessa si era preliminarmente messa nella impossibilità di rispondere, spezzando nelle proprie mani le armi infallibili della sua conquista e della sua vittoria.

Lamennais delinea i molteplici aspetti che lo stato spirituale dell'indifferenza dinanzi alla fede religiosa può prendere e prende di fatto nella vita. Vi è innanzi tutto l'indifferenza dell'opportunista comune e banale, che dà alle dottrine religiose un valore esclusivamente utilitario e politico; che quindi non porta nei valori religiosi alcun interessamento personale e alcuna inquietudine stimolante. Vi è poi l'indifferenza apatica del credente che, pure aderendo ad una religione rivelata, distingue, per viltà e amore del quieto vivere, fra dottrine fondamentali e dottrine non fondamentali. Vi è poi l'indifferenza del protestante che pratica la sua confessione sulla base di una sua valutazione personale e privata, straniandosi del tutto da quelle che sono le forze sociali e postulazioni collettive del fatto religioso. Vi è l'indifferenza del deista, di colui cioè il quale crede puramente e semplicemente in una religiosità naturale. E vi è infine l'indifferenza dell'ateo che, presuntuosamente folle, si schiera, palesemente e senza sottintesi, contro la vita religiosa e le sue esigenze.

Tutte queste forme di indifferenza Lamennais congloba sotto un unico verdetto di condanna, come ree di riporre una fiducia smisurata ed ingiustificata nelle possibilità della ragione. L'apologia bretone osserva giustamente che quando ci si pone a combattere quelle dottrine filosofiche nelle quali il diabolico orgoglio dell'umano pensiero cerca di sistematicamente organizzare le proprie obiezioni alla verità e al bene, il primo ostacolo da vincere, la prima difficoltà da sormontare, son quelli insiti nella difficoltà di ridurre ad enunciati chiari e definiti le dottrine che si vogliono impugnare. Quando tali enunciati siano nitidamente enucleati, si può dire che il processo del loro annullamento è automatico. Perché è sempre la ragione, la ragione abbandonata a se stessa, che fuorvia e genera oscillazioni, confusioni, titubanze, discordie.

Il prete, che parla all'indomani del fallimento napoleonico e della restaurazione monarchica, ha in uggia e in orrore l'ubbriacatura razionalistica in cui la rivoluzione ha celebrato e consumato i suoi effimeri successi. Chiesa e monarcato appaiono al Lamennais come i termini di un binomio indissolubilmente associato, in quanto espressione rifratta di una rivelazione infallibile di Dio, che la Chiesa ha incorporato in se stessa e di cui essa è costituita depositaria e trasmettitrice convalidata.

Con note squillanti, con accenti caldi e ribaditi, Lamennais proclama che l'indifferenza religiosa è causa di rovina e di morte cosí per l'individuo come per la società umana; che l'incredulo è una mostruosa anormalità umana; che la religione deve essere vera in ogni suo particolare, che deve essere una ed universale; che la ragione umana è una guida maldestra e malsicura sul cammino della verità, alla conquista della quale può condurci soltanto il principio normativa dell'autorità attraverso la fede.

Gli enunciati solenni del primo volume del Saggio dovevano trovare la loro giustificazione filosofica nel secondo volume, pubblicato dopo un triennio di preparazione. Qui Lamennais vuole additare uno per uno tutti i mezzi per arrivare sicuramente alla certezza religiosa. E il suo procedimento è il procedimento di chi, al di là e al disopra della ragione, sa di poter fare assegnamento su numerosi strumenti di ascensione spirituale e di consolidamento nel possesso delle verità di cui la vita deve fare il suo nutrimento e il suo midollo. Per un fenomeno di improvvisa ed esplosiva reviviscenza atavica, in una Chiesa ormai cosí profondamente corrosa e depauperata dall'abuso delle argomentazioni razionali nel dominio della credenza, Lamennais, vecchia anima di bretone, si sforza di risuscitare dalle ombre del passato gli appelli piú disperati e piú suasivi alla fede cieca e docile a tutto che è impalpabile e trascendente nella zona della spiritualità religiosa.

L'uomo, egli proclama, ha assoluto, istintivo, prepotente bisogno di certezza religiosa. Ma le possibilità sue individuali sono, di fronte alla meta, inguaribilmente impari e lacunose. I sensi, i sentimenti, la ragione, sono tutti irreparabilmente soggetti ad errore. C'è un sofisma insito pregiudizialmente in ogni procedimento filosofico, ed è quello che presume di dimostrare la ragione con la ragione. Ma se i sensi e la ragione errano, la natura, nel suo complesso, non erra. Perché è nella vita il principio della verità e della certezza. Montaigne ha detto graficamente: l'uomo è abbastanza pazzo per dubitare di tutto, ma è altrettanto forte per poterlo fare in maniera giustificata. Se la ragione è impotente, quando sia lasciata a se stessa, nel foro circoscritto della meditazione individuale, ad attingere la certezza di cui la vita ha indispensabile bisogno, l'uomo non dovrebbe mai dimenticare che egli non è solo e che, inserito nell'aggregato umano, vive nell'aggregato e dell'aggregato, da cui trae la sua vita intellettuale, morale e spirituale, molto piú che la sua stessa esistenza fisica. Non siamo noi forse istintivamente portati a chiedere alla approvazione e al consenso generale dell'umanità la conferma delle nostre conoscenze, il controllo delle nostre percezioni, l'avallo delle nostre direttive spirituali? È la società che reca in sé il deposito delle verità fondamentalmente necessarie alla vita, deposito ricevuto attraverso una rivelazione primitiva, conservato di generazione in generazione da una ininterrotta tradizione. «Esiste necessariamente, per ogni grado di intelligenza, un nucleo di verità e di conoscenze rivelate inizialmente, vale a dire ricevute originariamente da Dio, come condizione stessa della vita. Queste verità, conservate misteriosamente dalla tradizione, trovano la loro formulazione nella parola. Anche il linguaggio è il risultato di una rivelazione. E il vocabolo essere è l'essenza del linguaggio come il Verbo Eterno è la fonte dell'essere. Imparare a parlare è imparare a pensare, come imparare a pensare è imparare a credere. Il pensiero come la parola sono stati rivelati simultaneamente. E poiché tutte le verità sono in Dio, che le conosce, e che conosce se stesso in virtú del Suo pensiero, della Sua intelligenza, di cui la parola sostanziale, vale a dire il Verbo, è la manifestazione eterna, la parola esteriore non è altro che il mezzo di cui si serve la parola divina o la verità essenziale, per comunicarsi alla nostra intelligenza. La parola, il Verbo, è realmente la luce illuminante ogni uomo che viene in questo mondo. La mente dell'uomo sarebbe rimasta in preda ad un torpore eterno se non fosse stata destata dalla parola. E dalla parola è dischiusa la sua ragione, è vivificato il suo cuore. E in virtú della parola un essere appartenente al mondo materiale è rapito al disopra del tempo e trasportato nel mondo dell'eternità». La parola non è che il tessuto connettivo della vita associata. In maniera misteriosa pertanto, ma nettamente soprannaturale, l'autorità della società umana è fondata sull'autorità di Dio. E d'altra parte la nostra conoscenza di Dio è basata sulla testimonianza della società umana e convalidata dall'approvazione generale. Noi abbiamo qui una perfetta circolarità di elementi spirituali: dall'infallibilità di Dio all'infallibilità della ragione comune dell'uomo, e da questa all'esistenza di Dio. Ma il circolo non è un circolo vizioso, perché la vita associata non è che la conferma altissima ed irrevocabile delle nostre percezioni e delle nostre ragioni personali, non potendo noi attingere autorità piú alta di quella che risiede nell'umanità. L'autorità collettiva è in certo modo la legge capitale dello spirito come la legge dell'attrazione è la legge primordiale dei corpi. Sicché in definitiva il principio della nostra vita psichica non è e non può essere il dubbio, bensí la fede; e la sorgente autentica della verità non è la ragione, bensí l'autorità. «Nasciamo all'intelligenza mercè la rivelazione della verità, e le verità prime, poggianti sulla testimonianza di Dio o su una autorità infinita, posseggono una certezza infinita. Costituiscono la nostra ragione, che non può essere concepita indipendentemente da esse e, rivelate originariamente per mezzo della parola, sono ugualmente trasmesse mediante la parola. Ogni filosofia pertanto che invece di stabilire e riconoscere i diritti dell'autorità esteriore e di accoglierne ubbidientemente le decisioni, le sottoponga alla ragione individuale, appare in contrasto con la natura degli esseri intelligenti, riportando l'uomo spirituale a quello stato in cui si è voluto riportare l'uomo sociale, vale a dire ad uno stato di isolamento e di debolezza, in cui l'uomo fisico non può vivere perché l'uomo morale non vi si può né svolgere né mantenere. Ecco – dice Lamennais – la chiave che ci spiega l'apparente contraddizione fra la ragione dell'uomo che lo paralizza nel dubbio e la forza irresistibile che lo trascina alla fede. Senza dubbio la ragione, che è pure essa insita nella natura stessa dell'uomo, non saprebbe naturalmente arrestarsi su questa china verso la fede, perché non saprebbe tendere di per sé alla distruzione dell'uomo e quindi alla propria distruzione. Eppure noi riscontriamo in essa questa tendenza perché appena si isola, viene a trovarsi in uno stato contrario alla natura, spogliata delle condizioni indispensabili per la propria esistenza. Per essere perfettamente quel che deve essere, la ragione dell'uomo deve essere la ragione della società a cui egli appartiene, come la ragione della società non è altro che il suo grado di civiltà».

Secondo Lamennais pertanto ogni individuo umano deve optare, nel cammino della sua vita, fra la via della ragione isolata e la via dell'autorità che parla in nome della ragione universale dell'umanità. Solo mercè la sottomissione all'autorità l'individuo entra in possesso dell'eredità sua ed acquista le ricchezze della vita eterna, mentre, affidandosi unicamente alle luci della sua povera individualistica ragione, è condannato a morire sfinito nel deserto del dubbio e della asfissia spirituale. «Nulla nel creato è autonomo, nulla è isolato. Gli esseri sono tutti vincolati gli uni agli altri e i mondi sono vincolati a vicenda come le parole di un discorso. La nostra vita è avvinta dalla piú ferrea dipendenza al mondo circostante». Non c'è dunque che una virtú che dia valore alla vita, la virtú dell'obbedienza. La ragione del singolo «deve essere sottoposta alla ragione generale che è la ragione di Dio stesso. Invece di cominciare dal dubbio (la ritorsione di Lamennais contro Cartesio è palmare) dobbiamo cominciare dalla fede. La vita eterna è una eterna obbedienza».

Di pari passo con questa rivendicazione fiera e intransigente della validità pregiudiziale e invulnerabile dell'atto obbediente di fede, Lamennais manda innanzi la sua rivendicazione calorosa del principio monarchico. Come la Chiesa costituisce l'autorità suprema della vita associata nel suo aspetto spirituale, cosí il monarcato rappresenta l'autorità suprema della vita associata nel suo aspetto civile. Cosí, nelle sue grandi linee, il pensiero del Lamennais del 1820 appare come una resurrezione balenante di vecchie idee e di vecchie aspirazioni, sepolte negli strati piú profondi della tradizione cristiana. In quest'anima di malinconico inconsolabile, chiuso in un desolante stato di isolamento, sembra che vibrino di commozione e di entusiasmo solo le reminiscenze nostalgiche di un passato che non è piú. Scriveva egli in una lettera del 7 aprile 1818 ad un suo caro amico: «Tu neppur t'immagini, mio diletto fratello, come le tue lettere mi facciano del bene. Tu mi trai lontano da me stesso, da questa profonda tristezza che mi divora intimamente, fin dai tempi della mia prima infanzia, dappoiché io non mi sono mai sentito a mio agio in questo mondo. Ne ho sempre sognato e vagheggiato un altro, e quando mi allontanavo con i miei sguardi da quello nel quale noi dovremmo soltanto sperare la pace, la mia fantasia adolescente ne creava di fantastici, il che costituiva l'unico fascino della mia solitudine. Sulle rive del mare, nel fitto dei boschi, mi andavo nutrendo di queste vane fantasime, e, ignorando l'uso della vita, ne addormentavo le sensazioni cullando nell'indistinto la mia anima stanca di se stessa. Io non sarei mai volontariamente uscito da questo stato di sonnolenta fantasticheria. Dio me ne ha tirato fuori, imponendomi doveri penosi, i piú contrastanti con il mio carattere. Divenuto cosí, mio malgrado, una specie di uomo pubblico, ho cessato di appartenere a me stesso».

Confessione piena di patetica amarezza: confessione che molti e molti altri spiriti avrebbero potuto ripetere dopo Lamennais e che di fatto avrebbero ripetuto, ad espressione di un dissidio lacerante che si è venuto deponendo nell'intimo stesso della coscienza religiosa moderna. La cultura e la civiltà mediterranee sono state troppo profondamente segnate e alimentate dalle fondamentali esperienze del cristianesimo perché una temperie storica fattasi ormai ad esse estranea possa tacitarne le risorgenti aspirazioni. Tutto il mondo affascinante dei sogni ultraterreni innalzato dalla rivelazione cristiana dinanzi agli occhi degli uomini ha troppo in sé di seduzione e di capacità normativa perché nel fondo della nostra anima non ne siano rimasti il rimpianto e il tremante ricordo. Un profondo dissidio tra cuore ed intelligenza sembra essersi inserito alle radici stesse piú profonde della nostra spiritualità. In mezzo ad un mondo tutto dominato dalle preoccupazioni del presente e dalla concezione realistica e storicistica della vita, le reminiscenze subcoscienti di un passato di valori trascendenti e di realtà soprannaturali sono sempre in agguato, pronte a risorgere e ad assumere forme concrete, come un miraggio indistruttibile. Un velario pertanto di tristezza e di postumi vagheggiamenti sembra pesare costantemente nelle zone della nostra piú riposta intimità. Per gli spiriti piú docili e sensibili al fascino di questo passato, la contemplazione potrebbe essere un riparo ed un ospizio, se la contemplazione potesse essere ancora, come fu nel Medioevo, in un mondo accessibile e permeabile alle grandi idealità del misticismo, una forza operosa e un elemento di trasfigurazione e di ascensione collettive. Ma il mondo moderno ha aperto un abisso incolmabile fra azione e contemplazione. E i contemplativi che tentano di far della loro capacità contemplativa una energia praticamente operosa, vanno fatalmente incontro alla delusione e all'insuccesso.

C'è da domandarsi se però questo conflitto drammatico fra cuore e ragione, di cui certamente soffrono i dolenti riformatori religiosi dell'età contemporanea, è da imputarsi a loro o non piuttosto agli organismi nel cui ambito si sforzano di realizzare il loro ministero. La Chiesa stessa non è in uno stato di vero dissidio fra le conseguenze logiche dell'apologetica razionalistica e della morale casistica, a cui essa ha dischiuso le porte della sua ufficialità, e le esigenze di quella pietà collettiva, cui in altri tempi serví magnificamente di sostegno e di garanzia la nozione concretamente sentita del corpo mistico del Cristo, formantesi nella storia? Ed ecco il dilemma grave e inesorabile di fronte a cui si trovò ai suoi tempi Lamennais e di fronte a cui hanno poi finito col trovarsi tutti i riformatori della tradizione cattolica nei decenni a lui posteriori: se la Chiesa non risponde piú ai bisogni collettivi dell'umanità, sarà possibile abbandonarsi al miraggio di un'idealità collettivistica che esprima le piú profonde esigenze della nuova umanità, indipendentemente da quel patrimonio di valori e di idee e forze religiose, che ha costituito nei secoli il viatico della Chiesa e di cui la Chiesa sembra ancora custodire le insegne, anche se si rivela incapace di tesaurizzarne e di tradurne in atto la virtú pedagogica?

Il 16 ottobre 1830 appariva il primo numero di un giornale destinato ad avere una grande fama pur nella sua breve vita. Il giornale, comparso a Parigi, diretto da Lamennais, era intitolato L'Avenir. Non sarebbe durato che fino al 15 novembre 1831. Voleva agitare di fronte al pubblico le idee che il Lamennais aveva già enunciato nel suo saggio, ma che erano venute subendo, attraverso una serie di delusioni politiche, un piú vigoroso accento religioso e una piú aperta tendenza democratica. Un anno e mezzo prima il Lamennais aveva pubblicato un'altra opera intitolata I progressi della rivoluzione e della guerra contro la Chiesa, nella quale mostrava apertamente quanto fosse rimasto deluso dai regimi della restaurazione. Egli aveva cosí, nel suo saggio del 1817, efficacemente proclamato il diritto divino del monarcato e la sua funzione insurrogabile nell'economia e nell'equilibrio delle forze disciplinanti della vita associata. Ma gli istituti politici si rivelavano inguaribilmente inferiori ed impari alla loro vocazione ed al loro destino. Lamennais la rompeva decisamente con i principî monarchici, ripiegando animosamente verso Roma e il Papato. Sembrava che il vecchio spirito del Pontificato medioevale, lottante contro le esorbitanze e le inframmettenze del potere laico, risorgesse nell'apologia di questo focoso ultramontano, che riguardava alla Chiesa come all'unica guida possibile del popolo, nel cammino e nella resurrezione dalla tirannia alla libertà.

Si direbbe che un acuto sentore dello smarrimento progressivo della pedagogia cristiana e della sua uscita dal novero dei coefficienti effettivi della spiritualità collettiva, spingesse Lamennais ad esaltare piú validamente la possibile forza della spiritualità cattolica, accentrata nelle mani del Papa. Egli sognava si potesse ridare in pieno secolo decimonono al magistero della Curia romana una universale potenza pedagogica e normativa, indipendentemente, separatamente anzi, da qualsiasi ingerenza e da qualsiasi sussidio dei poteri politici. Era la sua una visione ultraspirituale del magistero cattolico. Ed è curioso osservare come questo atteggiamento, che Roma avrebbe dovuto preminentemente apprezzare come l'espressione massima della devozione entusiastica e della dedizione incondizionata, finí, nelle sue affermazioni pratiche, col sembrare una deviazione della disciplina ortodossa, e il principio di quella che doveva essere l'apostasia dell'ardente apologista bretone. Fu la prova clamorosa della incapacità divenuta ormai funzionale della Chiesa a comprendere le austerissime consegne dell'ora che si avvicinava, e l'urgenza imprescindibile di riprendere il programma cristiano dalle origini, se si voleva salvare una società in irreparabile decadenza spirituale. E fu per Lamennais, come sarebbe stata per altri dopo di lui, la causa occasionale di una caduta precipitosa in una visione puramente umanistica e terrena del destino umano, che doveva prendere il nome di «comunismo».

Una singolare constatazione da fare nello scorrere la raccolta de L'Avenir è questa: nel manipolo che redigeva il giornale lo spirito piú ardimentoso e piú innovatore non è Lamennais, il quale sboccherà poi nella ribellione aperta, bensí Lacordaire che come ben si sa doveva sopravvivere al naufragio e rimanere nell'ovile ecclesiastico abbandonando il suo capo amato e ammirato. Si è anzi tentati di pensare che Lacordaire abbia avuto qualcosa a che fare con l'evoluzione di Lamennais. Comunque il periodo de L'Avenir è un periodo di maturazione intensa e di polarizzazione recisa. La concezione politica che gli scrittori del giornale patrocinavano con il fuoco del loro indomabile entusiasmo, poggiava sopra alcuni principî basilari: chiedeva la separazione dei poteri civili dai poteri spirituali, affinché questi poteri spirituali potessero godere della piú vasta e incontrollata indipendenza. Sapevano benissimo che la separazione dei poteri avrebbe rappresentato e importato sacrifici rilevanti per la Chiesa e per il suo clero; ma non erano queste considerazioni che avrebbero potuto farli retrocedere dalle loro richieste e dai loro ideali. L'Avenir non si stancava di proclamare che la Chiesa deve abbandonarsi completamente, lietamente, alla libera assistenza della tutela provvidenziale, rinunziando a qualsiasi aiuto materiale dello Stato. «La verità», essi scrivevano, «è onnipotente. Il suo trionfo è in massima parte ritardato dal sussidio che la forza materiale tenta di offrirle: dalla parvenza stessa di costrizione che essa subisce nel dominio sovranamente libero della coscienza e della ragione». Se il popolo si era staccato dalla Chiesa con disgusto e raccapriccio, questo riconosceva Lamennais, non era accaduto per mancanza di fede, ma perché «in fondo al santuario in cui il popolo cercava Dio non aveva trovato che l'uomo». È vergognoso, concludeva Lamennais, per un potere spirituale asservirsi in qualsiasi misura ad un governo politico, condannato, dato lo stato presente della società, a prendere un atteggiamento di completa indifferenza nel dominio della fede e della morale. Sicché la salvezza non può venire che da un rinnegamento e da una cancellazione di qualsiasi concordato, da un affrancamento verso un'intromissione indebita e paralizzante dello Stato. Molto meglio, molto meglio per la Chiesa di Dio prostrarsi in un granaio scelto liberamente dai fedeli che radunarsi nel piú sontuoso edificio che sia di proprietà dello Stato.

Gli scrittori de L'Avenir, quindi, chiedevano a gran voce una triplice libertà: libertà in tutto ciò che concerne l'educazione, libertà di associazione, libertà di stampa. Lacordaire specialmente dettava per L'Avenir alcuni rimarchevoli articoli a proposito di quest'ultima, la libertà di stampa. Si avverta che mentre Lamennais rivendica tenacemente la libertà nell'interesse della religione cattolica, Lacordaire scioglie il suo inno alla libertà per se stessa. Nei suoi lucidissimi e vibranti articoli sulla libertà di stampa appare ben chiaro che, attaccando direttamente la censura civile della stampa, ha indirettamente di mira la censura ecclesiastica. «L'Inferno», esclamava egli, «esiste soltanto perché neanche Dio può esercitare la censura: o almeno ha preferito al regime della censura il regime dell'Inferno, perché se l'Inferno conta dei dannati conta anche degli uomini, mentre la censura non avrebbe popolato il mondo che di idioti immortali». Parole bene ardite sulle labbra di un membro di quella Chiesa che aveva avuto la sua Inquisizione, singolarmente ardite sulle labbra di un futuro domenicano.

Lamennais probabilmente, all'epoca de L'Avenir, non sarebbe giunto cosí lontano. La libertà che egli rivendicava non era un principio di tolleranza dogmatica, era soltanto un principio di tolleranza civile. Dato il regime uscito dalla rivoluzione francese, Lamennais riconosceva il principio della tolleranza come una conseguenza necessaria e inevitabile delle condizioni della società, nell'interesse della religione.

Ed ecco fondamentalmente la contraddizione insanabile da cui Lamennais non sarebbe potuto uscire che con una ribellione aperta e con un laicismo completo, o con una condanna solenne ed irrevocabile di tutta la civiltà contemporanea, basata sul principio della volontà collettiva e del suffragio popolare. Perché appunto di pari passo col principio della tolleranza, Lamennais rivendicava l'estensione del diritto elettorale e tutte le possibili libertà provinciali e comunali.

La rivoluzione francese e l'illuminismo che l'aveva ispirata, gettavano cosí le loro propaggini in quegli stessi che rivendicavano i principi d'autorità e l'intransigenza ultramontana.

Come abbiamo visto, i principali corifei del Terzo Stato e della rivendicazione dei suoi diritti erano stati preti. I principali rappresentanti delle nuove correnti democratiche in grembo al clero erano stati seguaci ritardatari del giansenismo. Per quale mai legge fatale i movimenti religiosi non lasciati liberi a se stessi si trapiantano in sede politico-sociale e perseguono di nuovo su terreno sconsacrato, in forma laicizzata, gli ideali umanitari che si celavano prima sotto il paludamento della sacralità e delle aspirazioni cristiane? Sta di fatto che dalla rivoluzione francese in poi questa, si potrebbe dire, è la direttiva di marcia dei movimenti riformatori ecclesiastici. Di fronte ai quali sta in una posizione stranamente paradossale, fiera e intransigente, l'autorità ecclesiastica. Quei movimenti religiosi riformatori sembrano adottare atteggiamenti di grande intransigenza nella zona dei puri valori cristiani ed evangelici, per essere poi in pratica transigenti e concilianti. L'insegnamento ufficiale ecclesiastico segue atteggiamenti di transigenza nel dominio delle presupposizioni apologetiche e politiche (noi abbiamo visto come da secoli ormai la Chiesa abbia accettato la compromettente collaborazione della speculazione razionale e abbia praticato la consuetudine delle relazioni concordatarie con le configurazioni politiche piu ostili), mentre sul terreno pratico e concreto si dimostra irriducibilmente avverso a tutti i movimenti che, partendo invece da presupposti intransigenti, seguono in pratica le vie dell'ecumenismo e della riconciliazione evangelica.

Anche L'Avenir di Lamennais, prendendo le difese dell'associazione «Agence générale pour la défense de la liberté religieuse», patrocinava la collaborazione di tutte le religioni e di tutte le confessioni in vista di una reciproca difesa e di uno scambievole sostegno. «Immaginate una casa abitata nei diversi suoi piani da un ebreo, da un musulmano, da un protestante, da un cattolico. Senza dubbio le loro credenze e le pratiche corrispondenti sono troppo in antitesi l'una di fronte all'altra, perché si possa instaurare fra tutti una vera e propria comunità. Ma qualora essi abbiano ragione di temere che qualcuno sopravvenga per incendiare la casa che li ospita, tutti non esiteranno un istante ad allearsi per la difesa scambievole».

Questa condiscendenza pratica, questo amore della riconciliazione religiosa nella difesa comune, vanno di pari passo, ne L'Avenir, con la devozione piú incondizionata alla Chiesa, considerata come la piú grande forza spirituale, capace di guidare, al mondo, gli uomini per il sentiero della libertà.

Queste idee, mal viste dal governo di Luigi Filippo, osteggiate palesemente dalla strabocchevole maggioranza dell'episcopato francese, dovevano necessariamente creare intorno a Lamennais e al suo movimento un'atmosfera di diffidenza e di ostilità crescenti. Lamennais sentí il disagio della sua posizione e concepí il temerario e insieme ingenuo proposito di ottenere una esplicita approvazione da Roma. Il 15 novembre 1831, annunciando che il giornale pubblicava l'ultimo suo numero, Lamennais ed i suoi collaboratori si accomiatarono dai loro lettori con un fervido atto di fede nella propria causa, e con un appello al tribunale romano, troppo al di sopra, essi proclamavano, delle passioni umane e delle rivalità politiche per poter essere contaminato dalle considerazioni terrene che ispirano le avversioni locali.

«Poggiati sul bordone del pellegrino», essi dicevano, «ci incammineremo verso la sede eterna. E là, prostrati ai piedi del Pontefice che Gesù ha lasciato come guida e maestro ai suoi discepoli, diremo: – O Padre, degnatevi di rivolgere uno sguardo ad alcuni fra i piú umili figli vostri, accusati di ribellione alla Vostra infallibile e dolce autorità. Eccoli alla Vostra presenza. Leggete nella loro anima. Nulla essi vi vogliono nascondere. Se uno solo dei loro pensieri, uno solo, dissente dai Vostri, essi lo riprovano e lo rinnegano. Voi siete la Regola della loro dottrina. Giammai ne conobbero altre. O Padre, pronunciate per loro la parola che vivifica perché illumina, e la vostra anima si stenda a benedire la loro obbedienza e il loro amore».

L'accoglienza di Roma fu ben diversa da quella che «i pellegrini di Dio e della libertà» si ripromettevano. Cortesemente ricevuti da tutti meno che da colui che essi erano venuti a cercare, lusingati e incoraggiati a parole, in realtà ignorati e trascurati, non riuscirono ad ottenere alcuna particolare udienza e considerazione. Nel memoriale presentato alla Santa Sede i pellegrini avevano scritto: «L'azione dei redattori de L'Avenir e se si vuole di ogni altra associazione ispirata agli stessi principî, è indispensabile per l'esistenza del cattolicismo in Francia, e questa azione non può essere coronata da successo senza essere sorretta dalla Santa Sede». Lamennais e i suoi amici mostravano con queste parole di sopravalutare in pari tempo e la Santa Sede e il cattolicismo francese. Piú tardi il prete bretone doveva confessare: «Mi sono piú volte stupito che il Papa, invece di usare verso di noi quella severità silenziosa che in pratica usò e il cui unico risultato fu una vaga e inquietante e penosa incertezza, non ci abbia detto semplicemente: – Avete creduto di agire bene, ma vi siete ingannati. Posto come sono a capo della Chiesa, ne conosco i bisogni meglio di voi. Pur disapprovando l'orientamento dei vostri sforzi, rendo omaggio alle vostre buone intenzioni. Andate dunque, ma per l'avvenire, prima di avventurarvi in questioni cosí delicate, consigliatevi con coloro, l'autorità dei quali può esservi di guida. – Sarebbero bastate queste poche parole a definire la questione».

Probabilmente parole di quel genere non sarebbero state affatto sufficienti a tale scopo. Comunque, la Roma papale del 1831 aveva altro per il capo che prestare soverchia attenzione alle idealità accese di questo manipolo di sognatori, che pure nutrivano in cuore un sentore profetico del precipitare progressivo della tradizione cristiana nel mondo.

Vedendo fallito il tentativo di ottenere una udienza diretta, Lamennais ed i suoi amici credettero opportuno di redigere un memoriale, esponendo minutamente la loro concezione politica. Tale memoriale portava la data del 3 febbraio 1832. Dopo di che, l'udienza del Papa fu concessa, ma con l'esplicita condizione che non si parlasse del movente che aveva spinto i pellegrini sulla via di Roma. L'udienza quindi fu completamente sterile di risultati ed equivaleva a un completo insuccesso. Quasi tutti ne ebbero la piena sensazione e pensarono di abbandonare senz'altro Roma. Solo Lamennais, pertinace nelle sue illusioni, volle rimanervi. Ma poi anch'egli dovette convincersi che l'attesa era vana e il 21 luglio 1832 prendeva desolato la via del ritorno.

Negli Affaires de Rome egli doveva rievocare piú tardi quell'ora oscura della partenza: «Dalle alture sovrastanti la pianura percorsa dal Tevere volgemmo un ultimo e triste sguardo sulla Città Eterna. I raggi del sole morente infiammavano la cupola di San Pietro, immagine riflessa dell'antico splendore del Papato. In breve i contorni delle cose sparvero lentamente nell'oscurità crescente. Alla luce incerta del crepuscolo, si distinguevano ancora qua e là, ai margini della strada, i ruderi di qualche tomba. Neppure il minimo soffio faceva vibrare la pesante atmosfera, neppure un filo d'erba tremava, neppure un rumore, se non quello secco e monotono del calesse, che avanzava lentamente nella campagna deserta».

Quale simbolo della solitudine immensa in cui andava morendo l'ideale conciliatorista del povero sognatore bretone!

I pellegrini delusi erano appena arrivati a Monaco che li raggiungeva l'enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832, con cui Gregorio XVI condannava le dottrine liberali de L'Avenir, senza però nominare né il giornale né i suoi redattori. Con parole violente e sdegnose, l'enciclica giudicava delirio l'asserzione della libertà di coscienza, stimmatizzava qualsiasi rivendicazione della libertà di stampa, flagellava con termini incisivi qualsiasi equiparazione di una fede religiosa all'altra.

Per quale anomala aberrazione, per quale stravolgente rovesciamento di parti venivano ad essere collocati sotto la medesima etichetta i principi patrocinati dall'ultramontano Lamennais e i principî banditi dai Bills of Rigths americani del 1776 e dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino dell'Assemblea costituente francese del 29 agosto 1789?

Questa Dichiarazione proclamava nel suo articolo XI: «La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti piú preziosi dell'uomo. Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, pubblicare liberamente, salvo rispondere dell'abuso di queste libertà nei casi contemplati dalla legge». Nell'articolo precedente era stabilito che «nessuno dovesse essere disturbato nelle sue opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non intaccasse l'ordine pubblico stabilito dalla legge». Questi diritti principali, enunciati dalla Dichiarazione, stavano ricevendo la loro giustificazione teorica e la loro elaborazione giuridica attraverso la prassi politica di tutti gli Stati costituitisi in Europa all'indomani della rivoluzione. In fondo, tutta la Dichiarazione dell'Assemblea costituente francese si assommava nella definizione della libertà, implicita nell'articolo IV: «La libertà consiste essenzialmente nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri: l'esercizio pertanto dei diritti naturali di ciascun individuo non ha altri limiti, se non quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti».

Nulla di comune, si sarebbe detto a prima vista, fra i postulati proclamati dalle dichiarazioni della democrazia americana e della Costituente francese e le prospettive di un movimento religioso come quello iniziato da Lamennais nella sua prima insurrezione contro la rivoluzione. Non fu la resistenza ecclesiastica quella che spinse Lamennais a riversare nella sua fede democratica l'assolutezza religiosa, che egli avrebbe voluto poter riporre esclusivamente nella Chiesa? E la Chiesa, respingendo l'assoluta fede del prete bretone, non tradiva la sua incapacità, divenuta ormai funzionale, di comprendere l'intransigenza delle vecchie e genuine posizioni cristiane? L'enciclica Mirari vos era accompagnata da una lettera del cardinal Pacca, documento questo che non lasciava dubbi sul valore e sull'oggetto dell'enciclica papale. Roma disapprovava l'azione degli scrittori de L'Avenir, in quanto toccavano argomenti che «riguardavano solamente il governo della Chiesa e il suo Capo Supremo». Roma disapprovava le dottrine della libertà religiosa e civile e della libertà di stampa; Roma stimmatizzava l'unione con membri di altre religioni e di altre fedi; Roma infine riprovava la separazione della Chiesa dallo Stato, in fondo cioè quella eterogeneità tra valori politici e valori religiosi che era stata in altri tempi, nei tempi piú floridi della tradizione cattolica romana, la fonte dei successi e la garanzia del prestigio del corpo mistico di Gesù.

Lamennais fece immediatamente atto di completa sottomissione. E se ne ritornò nel raccoglimento solingo del suo eremo bretone, «La Chesnaie». Ma c'era troppo sedimento di amarezza nel suo spirito e c'era troppa impetuosità nel suo carattere, perché il silenzio potesse durare a lungo.

Nell'aprile del 1834 uscirono le sue Paroles d'un croyant: l'opera di Lamennais che ha riscosso la fama piú duratura e la piú vasta diffusione. Nello stile e nello schema è uno sfogo ispirato agli accenti dei vecchi profeti biblici, ma non animato da un genuino spirito apocalittico quale era stato quello della primitiva letteratura cristiana, tutta pervasa dal senso della trascendenza miracolosa del Regno di Dio. Qui c'è troppo Rousseau, vale a dire troppo ottimismo umanitario, perché l'atmosfera che vi si respira possa definirsi la vera atmosfera evangelica.

Diceva Lamennais ai suoi amici: «Se diceste a questo pendolo che fra un istante avrà la testa mozza, non cesserebbe per questo di suonare la sua ora, finché l'istante non sia venuto. Figli miei, siate come il pendolo, suonate la vostra ora, sempre, qualunque cosa accada».

La risposta di Roma non si fece attendere. Il 7 luglio 1834 Gregorio XVI dirigeva ai patriarchi, ai primati, ai vescovi una enciclica, designata con le parole iniziali Singulari vos, in cui riprovava e condannava formalmente il volumetto dell'ormai ribelle bretone, definendolo «piccolo di mole, ma immenso di perversità».

Lamennais vi parte dal presupposto che i re in particolare e i governanti in generale sono strumenti del male, perché non adempiono la loro vera missione, che è quella di esplicare il mandato loro affidato dal popolo. Sono coinvolti nella medesima condanna tutti i governi della terra e tutte le leggi. Ma questa condanna globale si direbbe che non investe il complesso dei valori politici, bensí soltanto i loro concreti e palpabili gerenti e amministratori. Perché le miserie della terra sono causate dai cattivi governanti, mentre i popoli sono capaci di sentimenti cristiani e a sentimenti cristiani aspirano invincibilmente. Il potere che è stato costituito legalmente, in conformità cioè ai bisogni e al volere del popolo, appare agli occhi di Lamennais sacro e inviolabile.

Per quanto possa apparire paradossale nella sua enunciazione, un giudizio che riconosca ugualmente aberranti dallo spirito cristiano il condannato e il condannante risponderebbe giustamente a realtà.

Lamennais sognava un popolo padrone dei suoi destini, chiamato a crearsi il governo da lui meglio preferito, aspirante ad una pace nella spiritualità e nella fede. Il Papa sentiva l'insidia laica e fondamentalmente antigerarchica e anticarismatica di questa visione ottimistica delle possibilità associative degli uomini. L'uno e l'altro mostravano di avere definitivamente dimenticato che la vita associata degli uomini, come la vita dell'universo, è il dramma permanente di energie buone e di energie malvage, la cui economia non può essere retta che da una consapevolezza sempre presente della impossibilità di determinare meccanicamente il rapporto fra la città di Dio e la città di Satana. L'uno e l'altro mostravano di avere definitivamente dimenticato che la vita associata è un mistero, né piú né meno che tutta la vita universa, e che per vivere umanamente non si deve tradurre il mistero in formule meccaniche o teologiche, ma avvertirlo e respirarlo qual è, mondo di relazioni invisibili e tessuto prodigioso di incessanti carismi.

Il Papa condannava il prete bretone come parlante un linguaggio che non era piú quello della Chiesa. Ma anche Lamennais parlava un linguaggio che non era quello della genuina tradizione cristiana.

Per convincersene, basta considerare soltanto quanto difforme fosse l'antica nozione cristiana di libertà da quella piú o meno apertamente professata sia dalla filosofia ecclesiastica che da quella laica del secolo XIX incipiente.

San Paolo aveva insegnato ai suoi tempi, e il suo insegnamento si era mantenuto piú o meno inalterato in tutti i secoli della pura tradizione cristiana, che la vera libertà di noi creature ragionevoli, è tutta e solo nel riconoscere la nostra condizione di schiavi nelle mani di Dio. L'uomo non ha altra alternativa nella vita che quella di scegliere il suo servaggio: o schiavo della colpa o schiavo della giustizia. Essere schiavi della colpa significa essere in possesso di Satana: costituirsi schiavi della giustizia significa costituirsi schiavi liberi di Dio.

In questo paradosso è tutta la sapienza morale del cristianesimo: e nella misura in cui esso è stato conservato o rivissuto nella tradizione cristiana, questa tradizione si è mantenuta fedele alla consegna delle sue origini. Perché all'indomani del suo conflitto e della sua rottura con Roma Lamennais non è ritornato nudamente e violentemente al recupero e all'assimilazione del postulato cristiano che impone di porsi di fronte a Dio nella posizione disperata e fiduciosa insieme del servo, che si estenua nel suo lavoro pur riconoscendo di essere inutile e inconcludente? Sono secoli ormai che noi abbiamo perduto questa capacità di prodigarci nello sforzo e di proclamare nel medesimo tempo che il nostro sforzo è vano. Sono secoli ormai che noi abbiamo dimenticato l'assioma capitale del comportamento cristiano di fronte a Dio e agli uomini: tendersi nello sforzo, sapendo che la virtú dello sforzo è solo nella grazia. È stata prima l'ufficialità stessa ecclesiastica ad annebbiare la consapevolezza di questo assioma con la sua dottrina del merito e della libertà umana. cosí si è automaticamente aperta la via a quello che sarebbe stato in essenza il «liberalismo», la visione cioè della vita associata basata sul presupposto che gli uomini possano, in virtú delle loro capacità naturali, creare al mondo un ordine di giustizia, di benessere e di pace. E allora anche quelli che han voluto risollevare, dal marasma in cui era caduto, il magistero indefettibile della tradizione cristiana, abbacinati da una concezione umanistica e liberale della vita, invece di ritrovare la virtú della pedagogia cristiana nella rinnovata proclamazione dei suoi presupposti intransigenti e paradossali, han finito col trasferire in sede puramente umana e terrena tutto quello che di trascendente e di inconfondibilmente carismatico la genuina pedagogia cristiana ha nei suoi dettati e nelle sue visuali.

Sotto l'influenza nefasta del suo disinganno ecclesiastico Lamennais cadeva sempre piú nell'umanesimo naturalistico. La sua opera filosofica piú importante era data alla luce dopo la separazione definitiva dalla Chiesa e da ogni forma confessionale di religione. L'Esquisse d'une philosophie, come l'altra sua opera minore, La religion, possono considerarsi un tentativo deliberato di costruire un sistema religioso indipendente risolutamente dal sistema dogmatico ecclesiastico che Lamennais ripudiava. E Lamennais cade nell'aberrazione finale di chi, sulla via del razionalismo e del liberalismo che la Chiesa ha il torto di avere per prima dischiuso, crede di poter costruire e tracciare una visione della vita e dell'universo filosofica e religiosa insieme. Poggiando (e qui appare chiaro come Lamennais stesso fosse vittima dell'insidia che l'apologetica ufficiale tende fatalmente a chi vi sia consapevolmente addestrato) sull'argomento fondamentale delle tradizionali prove dell'esistenza di Dio, Lamennais pone come primo postulato del suo ragionamento l'aforisma che il finito sia disperatamente incomprensibile senza l'infinito, che la pluralità sia inspiegabile senza l'Assoluto. Sono gli argomenti stessi addotti per la dimostrazione dell'esistenza di Dio dalla tradizionale teodicea tomistica. Non è straordinariamente significativo che l'opera nella quale Lamennais viene consumando il suo distacco da Roma riposi pregiudizialmente sui postulati della dimostrazione di Dio nella filosofia di San Tommaso? Come siamo lontani dal senso evangelico della ininterrotta assistenza di Dio Padre su di noi, assioma questo di natura extraconcettuale, che occorre vivere, non comprendere!

Il rapporto fra finito e infinito è, secondo Lamennais, la sostruzione di tutto l'universo. Si perde nella sua speculazione qualsiasi senso della profonda discontinuità fra naturale e soprannaturale. Si annebbia il concetto stesso di creazione, il quale per essere veramente un dato religioso non deve essere altro che la trasposizione del rapporto fra la creatura e il Creatore in termini di metafisica, in termini di grazia e di comunicazione sacramentale.

Nella filosofia definitiva di Lamennais l'uomo non è posto, di fronte a Dio, nella condizione di chi è tenuto a optare fra l'amore dell'Assoluto e l'amore dell'effimero, l'amore di Lui che è eterno e l'amore di sé che è realtà peritura. Lamennais parla, si direbbe, in termini di meccanica. «Vi sono» , egli dice, «in ogni essere creato due principî opposti, dei quali l'uno, unendolo all'infinito, ossia a Dio, è la radice stessa, la condizione prima e fondamentale del suo essere; l'altro, che costituisce la sua individualità particolare, tende a separarlo da Dio e dall'infinito. Il primo lo reintegra nell'unità infinita: il secondo corrobora la sua attività individuale limitata. Se la tendenza verso Dio diventasse esclusiva dell'altra in un essere, lo distruggerebbe, riconducendolo a Dio e assorbendolo in Lui. Anche la tendenza contraria distruggerebbe l'essere separandolo completamente da Dio».

Per questo, la vita dell'individuo o piuttosto della personalità è sospesa sull'abisso del nulla mercè la pressione contraria dell'infinito e del finito, dell'Essere per essenza e delle sue limitazioni individuali. Sebbene Dio e l'uomo, nelle formulazioni dell'ultimo Lamennais non appaiano come realtà confondibili, in pratica nella loro essenza sono presentate affini. L'uomo è in un certo senso pari al suo Creatore, come ogni gentiluomo è pari al suo re. Come dunque è nato il finito dall'infinito? Lamennais invoca anche lui il concetto di creazione. Ma è una creazione che a norma della tendenza generale della filosofia religiosa, diciamo cosí della sinistra tomistica, dall'epoca di Maestro Eckehart tende a definirsi in una vera e propria continuità sostanziale. Secondo il Lamennais della Esquisse non vi è esteriorità vera nell'azione dell'infinito sul finito né nelle relazioni dell'uomo e di Dio. Il principio fondamentale della sua filosofia è che l' essere è sempre uno, è sempre infinito e che solo le sue limitazioni costituiscono la differenza, la molteplicità, il finito.

Creando, Dio dà l'essere, ma Egli lo trae da se stesso, poiché nulla può esistere che non abbia la sua sorgente nell'Essere infinito. Ma questi esseri finiti che Dio trae da sé non nascono da lui per via di emanazione, bensí per un atto libero della sua onnipotenza, di modo che essi sono essenzialmente separati da Lui nell'atto creatore, sebbene esistano in Lui come nell'unico luogo dove possano esistere.

Si comprende di primo acchito come in questa filosofia il problema del male, che è il problema generatore di ogni profonda e autentica esperienza religiosa, riceve una spiegazione facile e ottimisticamente armonistica. Nell'essere creato, secondo Lamennais, sussistono in permanenza due inclinazioni: «Una tendenza gravita verso Dio, aspirando ad unirsi a Lui e quindi di rimbalzo a tutto ciò che, traendo da Lui il suo essere, gravita ugualmente verso Lui. La seconda tendenza invece spinge l'essere creato ad allontanarsi da Dio, facendolo aspirare a costituirsi Dio, a vivere di sé e per sé senza alcuna dipendenza da nulla che gli sia esteriore». Il male e il peccato consistono sostanzialmente, secondo Lamennais, nel negare la legge universale del progresso, nell'acconciarsi a quelle limitazioni che rappresentano le stimmate della nostra essenza finita, nel rinunciare alla nostra eredità spirituale infinita, nella sospensione delle leggi della vita spirituale. Ma si tratta sempre di deviazioni contingenti e di rinnegamenti parziali. Nonostante un qualsiasi suo avvilimento, l'uomo non può «perdere né l'idea né il sentimento dell'infinito. Tratto dall'istinto innato della sua natura l'uomo continua sempre ad aspirare invincibilmente ad un bene misterioso senza limiti che egli non riesce mai ad attingere. Lo ricerca e lo insegue con lena affannata pur nelle regioni piú basse verso cui lo sospinge l'impulso suo organico, anche quando domanda al suo corpo quel che il corpo non può dargli, quando ne vìola le leggi tormentandolo per fargli produrre Dio, e pertanto lo esaurisce e lo spezza. Mai definitivamente, perché nell'essere piú perverso esiste una indistruttibile radice di bene che nelle tenebre di una morte apparente elabora in segreto la linfa destinata a rianimare un giorno, sotto i raggi dell'astro eterno, la povera pianta presso che disseccata».

Questi due principî che sono a contrasto nella creatura umana, sono stretti in una lotta che non conosce tregua senza che l'azione divina sia mai completamente paralizzata. «L'uomo non è mai quel che sarà come non fu mai quel che è. Cammina per l'intiera creazione ininterrottamente nelle sue vie. Egli si va perfezionando di età in età e per tutta la durata della sua esistenza terrena offre costantemente lo spettacolo di un miscuglio strano di bene e di male fino al giorno in cui, sempre in sviluppo, il bene definitivamente prevale». Secondo Lamennais dunque è la forza stessa del divino e dell'infinito dentro di noi che opera e realizza infallibilmente la propria salvezza. Cosí l'ottimismo di Lamennais da individuale si fa collettivo. Quel che si sottrae alla virtú e alla potenza della grazia viene conferito alla virtú e alla potenza della ragione e della coscienza dell'uomo, e in linea generale alla virtú e alla potenza creatrice dell'umanità progrediente nella storia verso le finalità ultime di un perfetto stato sociale immaginato comunisticamente.

I dogmi tradizionali della Chiesa non furono che espressioni simboliche delle potenze creatrici della coscienza umana singola e collettiva. Il dogma centrale della tradizione teologica cattolica, il dogma trinitario, non è che la trasfigurazione trascendentale delle tre grandi qualità di ogni essere: la potenza, l'intelligenza, l'amore. Queste tre categorie pervadono tutti i nostri concetti della vita. «Noi concepiamo infatti innanzi tutto la unità prima, che non è altro se non la sostanza assoluta e infinita. E nella sostanza si concepiscono come altrettante necessità implicate dalla sua esistenza, la forza o energia interna che la determina ad essere quel che è; la vita o l'energia esterna che, operando l'unione della forza e della forma, compie l'essere nell'unione radicale e primordiale. Risultato del lavoro intellettuale della umanità durante lunghi secoli, questa concezione dell'essere sovrano, della causa prima e infinita, si è generalizzata sotto la forma di fede religiosa del cristianesimo, di cui essa costituisce la base dogmatica. Verrà giorno in cui un'altra concezione ne prenderà il posto? Noi, dice Lamennais, non lo prevediamo. Non si effettuano cambiamenti di tal natura in questa zona del pensiero. E la logica è una quantità immutabile. Solo la luce va crescendo».

Cosí per il Lamennais il cristianesimo mantiene il suo posto, sebbene vada, come ogni altra cosa nel mondo e nella storia, soggetto alla legge del progresso e postuli una reintegrazione adatta ai bisogni della conoscenza e della verità. Ma la interpretazione del Lamennais ribelle è altrettanto ottimistica e superficiale, strano paradosso, che quella della teologia ufficiale e della Chiesa che lo condannava.

Senza dubbio alla prima apparenza c'è qualcosa che contrassegna la posizione filosofica del ribelle bretone. Lamennais ripudia la distinzione fra ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale con tutte le conseguenze che questa distinzione comporta. Nella sua Esquisse, questa distinzione fra naturale e soprannaturale cede il posto all'altra fra finito e infinito. Ma in fondo l'avere affievolito il senso della inconguagliabile e incalcolabile distanza fra natura e grazia, fra colpa e salvezza, fra attitudini funzionali dell'uomo e possibilità trasfiguranti dei carismi, come la teologia ufficiale era venuta facendo dall'epoca del Concilio di Trento in poi, non autorizzava implicitamente e non predisponeva quel calare della vita dello spirito e della vita del pensiero, nonché della pedagogia cristiana, nell'Illuminismo e nel realismo politico che sono i connotati di tutta la civiltà europea moderna? Condannando Lamennais la Chiesa non condannava le conseguenze delle proprie stesse deviazioni?

Con la sua teoria dell'affinità essenziale di tutti gli esseri Lamennais veniva a impugnare in radice le vecchie dottrine teologiche sulla azione ineffabile e inafferrabile della grazia. Ma il concetto e la visione del mondo soprannaturale dei carismi non avevano già perduto tanto del loro fascino e della loro efficienza pedagogica nelle enunciazioni edulcorate della teologia ufficiale post-tridentina?

Lamennais respinge la dottrina del peccato originale come difforme e contraria alla prima legge dell'universo, a quella legge cioè di permanente progresso, in virtú della quale ogni singola creatura come tutta la creazione nel suo complesso attraversano successivamente gli stadi evolutivi consentiti dalle rispettive capacità naturali. Ma il senso drammatico e tragico della dottrina del peccato originale, la quale non è altro in sostanza che l'inserzione in sede storica della coscienza del male come realmente sussistente cosí nel macrocosmo come nel microcosmo, non si era già miserevolmente impoverito e rattrappito nella teologia ufficiale del cattolicesimo?

Lamennais vulnera e annulla la dottrina teologica dell'espiazione sulla base del suo ripudio di qualsiasi gratuità nelle relazioni fra Dio e l'uomo; sulla base del suo ripudio di ogni idea di punizione o di sofferenza, che non sia la conseguenza diretta delle leggi necessarie dell'essere. Ma l'insegnamento teologico ufficiale della Chiesa non era stato il primo responsabile in quel processo di logoramento e di attenuazione a cui era andato incontro attraverso i secoli il patrimonio tremendum e fascinans espresso alle origini del cristianesimo, attraverso quella visione antropologica che faceva della vita il risultato della rinuncia alla vita, e del Regno di Dio il risultato di un intervento prodigioso di Dio, annullante il mondo carico di malvagità e di tenebre?

Ed eccoci allora dinanzi alla tragedia della Cristianità cattolica moderna. Roma condanna quelli che chiama corifei e patrocinatori del liberalismo, della conciliazione col mondo, della transigenza col secolo presente. Lamennais è la prima e piú cospicua vittima di questa fiera intransigenza ecclesiastica. Quando nel 1864 Pio IX racchiudeva in un Sillabo gli errori politico-economico-sociali conglobati sotto le designazioni di liberalismo, di razionalismo, di naturalismo, di comunismo e di socialismo, Lamennais era morto da dieci anni. Ma sul suo sepolcro non si erano placate le polemiche ardenti sollevate dalle sue parole di credente. La tragedia ecclesiastica contemporanea si avviava verso fasi ancor piú clamorose, e le condanne e le ribellioni nascondevano un dissidio ben piú profondo che non fosse quello di singole individualità uscenti o cacciate dalla Chiesa. Il dissidio vero e genuino che corrode la spiritualità cristiana universale è oggi il dissidio della Chiesa romana con se stessa. Roma condanna quelle che essa giudica le aberrazioni della critica liberale e della filosofia immanentistica: agisce, tratta dal superstite istinto della pietà collettiva, che ricorda nel suo profondo quelle che sono le consegne inderogabili della professione del Vangelo. Ma nell'atto di condannare, la Chiesa non avverte che tutte queste aberrazioni da essa fulminate e stimmatizzate sono le conseguenze inevitabili di quelle sue condiscendenze iniziali alla politica di questo mondo, alla ragione dei filosofi, alla trasformazione idealistica della religiosità in generale e cristiana in particolare, con cui non avrebbe mai dovuto accettare nessuna corresponsabilità e di cui avrebbe dovuto intransigentemente ripudiare una cooperazione che era un'insidia, e un soccorso che era un veleno mortale. Gli uomini da lei condannati finivano l'uno dopo l'altro in quella saturazione sacrale dell'empirico che sembra il destino mefistofelico di chi non riesce ad afferrare in pieno le postulazioni della sacralità, placate soltanto nella fede della paternità trascendente di Dio, della Sua rivelazione, della Sua assistenza carismatica. Ma la Chiesa dal canto suo, condannando questi naufraghi, per un paradosso che non è tale per chi scruta le profonde leggi della vita associata, condannava doppiamente se stessa: condannava cioè se stessa a perdere i piú operosi suoi figli e condannava se stessa a smarrire ancor piú le sue virtú disciplinatrici, perché le istituzioni viziate da intime contraddizioni sono fatalmente sulla strada del logoramento e della estinzione.

Donde par naturale il quesito: da quale parte era veramente il naufragio?

C'è una pagina nella Esquisse di Lamennais, in celebrazione del tempio cristiano, che sembra traspirare il senso nostalgico dell'esule condannato dall'ostracismo ecclesiastico al nomade e profano pellegrinaggio nel mondo. Eccola: «Il tempio cristiano ritrae di scorcio la creazione di Dio nel suo stato presente e nei suoi rapporti con le leggi e i futuri destini dell'uomo. Simbolo dell'arte architettonica divina il corpo dell'edificio sembra, non diversamente dal modello di cui riproduce il tipo ideale, dilatarsi all'infinito, e sotto le sue volte elevate che tendono ad arcuarsi come la volta del cielo, esprime con le sue cupe ombre e la malinconia delle sue penombre la defezione dell'universo piombato nelle tenebre dopo la caduta. Una segreta potenza vi sospinge verso il punto là dove convergono le lunghe navate, là dove risiede velato e ascondito l'Iddio redentore dell'uomo, l'Iddio riparatore dell'opera creata. Con le sue assi in croce dà l'immagine di quel che è stato lo strumento dell'universale salvezza e in tutta la sua costruzione offre l'immagine dell'arca, unico asilo, nei giorni del diluvio, delle speranze di tutto il genere umano, emblema perpetuo e perpetuamente vero del penoso viaggio dell'uomo sulle onde mobili della vita. Il movimento di ascensione di ogni sezione del tempio e di tutta insieme la costruzione fa risaltare dinanzi agli occhi l'aspirazione naturale ed eterna della. creatura verso Dio, principio e termine della sua esistenza».

Quando Lamennais scriveva queste parole, a San Sulpizio veniva svolgendosi la complessa esperienza di un altro bretone che un giorno, ramingo anche lui lungi dalla Chiesa sempre subcoscientemente amata, avrebbe detto di sé che era rimasto sempre nel vecchio tempio avito slanciato verso Dio, a recitare ai piedi dell'ara un Introibo ad altare Dei cui nessuno intorno dava risposta.

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