XII IL CATTOLICESIMO NEL RISORGIMENTO

Il mito nazionale è o è stato l'idea forza della modernità. Noi abbiamo già avuto occasione di segnalare il profilarsi delle costituzioni nazionali europee moderne, attraverso lo sgretolarsi delle grandi idee unitarie del Medioevo. Predicazione di universale fraternità nella pace e nella grazia, il cristianesimo aveva dato la massima espressione delle sue possibilità socialmente creatrici con la creazione del Sacro Romano Impero, aspirante a conglobare sotto di sé, dopo che la rivoluzione islamica aveva lacerato la vecchia unità mediterranea battezzata col nome di Romània, la massima fusione possibile di popoli continentali, segnati dal crisma di Cristo. La sociologia di Sant'Agostino, come abbiamo veduto, regge l'impalcatura morale e politica dell'Europa medioevale. Ma l'equilibrio dei due poteri, ecclesiastico e imperiale, era un equilibrio instabile, esposto a tutte le oscillazioni e a tutti i rischi prodotti dalla difficoltà di ogni concreta e duratura delimitazione dei rispettivi ambiti giurisdizionali. È la stessa lotta fra Papato e Impero che genera la libertà dei Comuni, e dalla libertà dei Comuni, anch'essa esposta a tutti i rischi e a tutti i repentagli delle rivalità cittadine, sorgono i principati e le monarchie.

Noi abbiamo visto come incerto, indefinibile quasi, sia il concetto di nazionalità. Abbiamo visto anche come le prime nazioni che assumono in Europa una configurazione politica ed un'organizzazione statale, non possano non metter capo ad una insurrezione contro quella autorità ecumenica della Chiesa romana, all'ombra della quale e col sussidio della quale il grande organismo politico dell'Impero medioevale si era potuto costituire. Quando il processo del frazionamento nazionale avesse toccato l'Italia, si poteva ben prevedere in anticipo che il processo stesso avrebbe incontrato difficoltà non incontrate altrove, e avrebbe assunto caratteri spirituali di profonda e complessa originalità.

È stato ripetute volte segnalato un certo parallelismo che corre fra la costituzione in unità della nazione germanica e la costituzione in unità della nazione italiana. Può darsi che questa similarità nasca dal fatto che Italia e Germania erano le due unità etniche europee per piú lungo tempo legate alle sorti dei due ecumenici istituti del Medioevo, la Chiesa e l'Impero.

Ma in questa stessa ragione della similarità del loro Risorgimento nazionale è il principio delle differenze che contrassegnano il loro rispettivo cammino. Depositaria per secoli e secoli della dignità imperiale, la Germania non avrebbe potuto costituirsi in unità senza fatalmente rompere la superficie unitaria della disciplina religiosa romana. Depositaria per secoli e secoli della autorità del magistero supremo del cattolicesimo, la terra italica non avrebbe potuto raggiungere la sua unità territoriale e politica senza affrontare in pieno il problema dei suoi collegamenti con la tradizione del cristianesimo romano.

Alla Germania del secolo XVI, già travagliata dalla crisi religiosa portata dalla riforma, l'idealismo affidò un Vangelo unitario e monocorde che avrebbe, piú o meno confessatamente, offerto la base di un senso unitario, al quale, per essere imperiosamente normativa, non sarebbe mancato altro che l'appello alla profonda e primordiale realtà etnico-razziale, trasfigurata attraverso la consapevolezza di un laicizzato destino imperiale.

L'Italia, che non aveva avuto la sua insurrezione riformatrice sul terreno religioso, che era tutta segnata nel suo piú indistruttibile subcosciente dalle tracce della millenaria educazione nei valori ecumenici del cristianesimo, doveva affrontare il problema della sua unità in una temperie particolarmente ardua e movimentata.

Noi abbiamo discusso all'infinito, e probabilmente continueremo a discutere per un pezzo, finché l'ulteriore maturazione della nostra coscienza non ci faccia vedere piú chiaro nei nostri còmpiti e nel nostro destino, su quali siano state le correnti rappresentate e predicate dai corifei del nostro Risorgimento che hanno piú profondamente foggiato la nostra storia nella prima metà del secolo XIX. Non dobbiamo entrar qui minutamente in questa questione, come non dobbiamo attardarci, ché non è nostro còmpito, nella ricostruzione dei momenti salienti nella storia del nostro Risorgimento nazionale. Nostro còmpito è piuttosto quello di indagare e di valutare la crisi che investe la nostra tradizione cattolica, nel periodo delle nostre guerre nazionali.

Non dobbiamo quindi fare altro che prendere in esame la posizione che assumono di fronte al cattolicesimo i pensatori, i maestri e i politici, cui la storia assegnò la missione di assistere e di vigilare alla nascita della nazione italiana.

Possiamo dire che l'Italia è nella storia europea l'ultima nazione a costituirsi in unità rappresentativa. Dopo di lei nasceranno in Europa altre nazioni, ma ci sarà da domandarsi se alla loro costituzione non presiederà arbitrariamente e artificiosamente un appello al principio nazionale, che servirà soltanto, ad alcune nazioni aspiranti alla egemonia, come pretesto per crearsi complici e corree in un proposito di predominio e di privilegio.

Dopo una serie di movimenti regionali che sembrano chiudersi con la rivoluzione del '31 si delinea in Italia la tendenza a creare quell'organismo unitario che automaticamente farà del Piemonte il nucleo e il punto di raccolta. Quanto queste aspirazioni all'unità, all'affrancamento dallo straniero, fossero robuste e largamente discusse lo prova, fra mille, il fatto che la Chiesa stessa in tutti i gradi della sua gerarchia, dai piú umili ai piú alti, ne risente sensibilmente.

Nel 1848, dal suo cenobio di Montecassino, Luigi Tosti lancia, all'Italia in subbuglio, la sua Storia della Lega Lombarda. Le parole della prefazione hanno il clangore di una diana: «Mentre io ero tutto in queste storie, voglio dire in questo salutifero anno 1848, fu tale strepito in Italia che gli echi se ne fecero sentire nei cupi recessi della mia solitudine. Levai tosto le mani da queste istorie e all'Italia, che quasi da feudale castello esce dagli steccati del Medioevo, io, uomo del Medioevo, consegno queste pagine a documento dell'amore che smisurato le porto. Ite, o fratelli, osate!».

E il monaco cassinese auspicava già il giorno in cui il vessillo italiano sarebbe stato inalberato sul Campidoglio. Nel tono consuetamente magniloquente della sua prosa lo storico cassinese una cosa vedeva giustissima: che, cioè, la costituzione dell'Italia in nazione segnava l'ultimo atto di quella lenta evoluzione europea che, attraverso secoli, aveva portato progressivamente la nostra civiltà fuori dal recinto di quelle idee universali, contrassegno inconfondibile della Cristianità medioevale. Ultima pertanto a compiere il proprio esodo dalle idee universalistiche del Medioevo cristiano, e d'altra parte depositaria del patrimonio carismatico da cui queste stesse idee universali erano sgorgate, l'Italia doveva risentire piú aspramente di ogni altro paese del dissidio profondo e radicale che questo esodo generale portava nella cultura e nella spiritualità collettiva. Ecco perché i maestri della spiritualità italiana nell'ora epica della nostra liberazione nazionale hanno rappresentato correnti cosí profondamente difformi l'una dall'altra, ma tutti hanno espresso in maniera diversa il medesimo conflitto e la identica contraddizione fra esigenze religiose ed esigenze politiche, Mazzini come Gioberti, Rosmini come Cavour, Manzoni come Lambruschini.

Se, costituendosi in nazionalità autonoma ed unitaria usciva dagli steccati del Medioevo, l'Italia stessa era per troppo lunga e profonda solidarietà legata al destino e alla missione della Chiesa, perché questa non dovesse risentirne immediatamente e sensibilmente l'inquietante contraccolpo. Che cosa avrebbe mai fatto la Chiesa? Sarebbe essa stessa uscita dagli steccati del Medioevo? In realtà era stata la prima ad uscire da questi steccati, ed aveva compiuto il suo esodo già in un'epoca molto remota. Il grande Medioevo infatti era stato caratterizzato, dal punto di vista religioso, da una cosí intima e sostanziale interferenza di valori religiosi e di valori culturali, da non essere neppure riuscito a creare una cultura autonoma ed una spiritualità per sé sussistente. Il classico Medioevo è soprattutto prepotente invadenza dei valori trascendenti della fede e della speranza ultraterrena, in tutti i domini del pensiero e del vivere civile. Noi abbiamo cercato di dimostrare come un'ora solenne di trapasso è segnata nella storia della nostra cultura mediterranea dalla comparsa di un'apologetica razionale e di una teodicea, diciamo pure illuministica, per opera di Sant'Anselmo. La Chiesa aveva allora mosso il suo passo al di là di quello che era stato il caratteristico recinto della spiritualità associata, creato e conchiuso dalla rivelazione del Vangelo. Si trattava allora di germi appena iniziali che avrebbero richiesto un rispettabile ciclo di secoli per giungere alla loro maturazione. Di questa maturazione abbiamo cercato di individuare e di circoscrivere le tappe. Ora, agli inizi del secolo XIX, il processo giungeva al suo epilogo, cosí sul terreno politico come su quello strettamente filosofico e culturale. L'esodo dagli steccati del Medioevo era ormai completo. Quali i nuovi còmpiti della Curia depositaria dei carismi religiosi?

Ed ecco il bivio drammatico della Chiesa contemporanea. Come recuperare l'efficienza pedagogica e sacramentale che si era venuta, per le stesse esigenze del suo ministero ecumenico, assottigliando e impoverendo? Se l'esodo dalla tradizionale temperie religiosa segnava una laicizzazione che si sottraeva all'azione e al controllo dei valori trascendenti, la Chiesa, logicamente, avrebbe dovuto ricercare, risalendo nel suo passato, le forze minacciate di paralisi. Il mito di Anteo, che recupera le sue energie toccando la madre terra, è un mito ricco di significato. Già ai suoi tempi Niccolò Machiavelli osservava che la tradizione del cristianesimo aveva riacquistato le sue primigenie virtú, toccando, attraverso la missione di San Francesco e di San Domenico, le sue origini prime. Qualcosa di simile si sarebbe dovuto effettuare nel secolo XIX. La Chiesa invece, si direbbe nella sua sotterranea consapevolezza di avere la prima responsabilità del processo di laicizzazione già da tempo svolgentesi nel seno della sua cultura ufficiale, fu tratta a cercare piuttosto rapporti giuridici col mondo laico che le si veniva svolgendo intorno, credendo cosí di poter salvaguardare meglio i propri interessi. Ma quali precisi interessi essa salvaguardava in questa maniera?

Sta di fatto che i maestri e i corifei piú insigni del nostro Risorgimento – solo ad essi vogliamo rapidamente consacrare qui la nostra attenzione – riflessero essi stessi le intime contraddizioni che il comportamento della Chiesa tradiva in sé e imponeva agli altri.

Cosí il profeta politico del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini, come il cattolico panteista Vincenzo Gioberti, come il tomista eckehartiano Antonio Rosmini, come il politico riformato Camillo Cavour, come il modernista prematuro Raffaello Lambruschini, vale a dire tutte le figure tipicamente rappresentative delle varie tendenze in cui si rifrange la spiritualità del nostro Risorgimento, racchiudono in cuore contraddizioni laceranti, che sono le contraddizioni intime fra il nostro drammatico destino di rappresentanti di una tradizione cristiana, per definizione ecumenica e supernazionale, e il nostro bisogno di inquadrarci in una Europa dominata dal principio, non ecumenico e non eterno, di nazionalità.

Su Giuseppe Mazzini uno dei giudizi piú validi e piú acuti è tuttora quello di Alfredo Oriani: «Impetuoso come Lutero, austero come Knox, inflessibile come Calvino, riformatore prima che rivoluzionario, e nullameno separato dal secolo che vuol guidare, solitario come tutti gli apostoli, malgrado la folla che lo circonda, malinconico e casto, poeta e filosofo, temerario ed incerto, ingenuo ed astuto, con istinti infallibili e con la percezione falsa o sublime del reale che distingue i profeti, Mazzini è, nel tempo stesso, il padrone e la vittima della propria rivoluzione. Nel suo misticismo politico-religioso ferve l'anima più italiana che dopo Dante e Michelangelo sia apparsa nella storia. Egli parlava di popoli col popolo che nessuna setta aveva ancora degnato di calcolare come elemento rivoluzionario; predicava una democrazia che solo nelle masse poteva ottenere il proprio trionfo, perché esse sole erano il popolo. Asserviva la storia e la letteratura nazionale ai propri principî. Denunciava le fatalità tiranniche della monarchia e del Papato. Difendeva ed epurava il cristianesimo. Proponeva e stringeva alleanze a modo dei governi con la giovane Alemagna e con la giovane Francia. Spiegava la missione degli individui e dei popoli in un Vangelo contro il quale nessuna critica poteva prevalere. Creando la prosa moderna ripeteva il miracolo di Machiavelli che aveva trovato la propria, dimenticando nella passione delle idee i lenocini e le tradizioni delle scuole letterarie».

Il giansenismo in Francia, transfuga dalla sua iniziale temperie religiosa sotto l'assillo degli ostracismi e delle persecuzioni curiali, era sboccato nella democrazia popolaresca dei preti della rivoluzione. Il giansenismo ligure filtrava nello spirito di Giuseppe Mazzini, attraverso la formazione austera di sua madre, in un fermento mistico-politico che non riusciva, a norma della metodica caratteristica della tradizione cristiana, a isolare i valori politici dai valori religiosi. Troppo profeta per essere accorto politico, Mazzini era troppo inquietato dal sogno delle rivendicazioni nazionali per essere un puro profeta religioso. Di qui le insufficienze della sua azione come di qui le contraddizioni della sua, del resto mirabile ed elevatissima, aspirazione cristiana, nonostante l'ambiguità di certe sue dichiarazioni, e la infondatezza di certe sue temerarie negazioni.

La formula in cui Giuseppe Mazzini ha costantemente e invariabilmente riassunto il suo ministero e il suo insegnamento, la formula «Dio e popolo» , lo ha fatto quasi uniformemente riavvicinare al deismo illuminista. Crediamo si tratti di un abbaglio superficiale, e superficialmente ripetuto. In realtà la posizione di spirito dell'esule genovese è molto piú complessa e tradisce, se non c'inganniamo, elementi piú profondi ed aspirazioni molto piú vaste di quelli che è dato riscontrare nell'Illuminismo del secolo decimottavo.

L'Iddio che Mazzini invoca ad ogni pié sospinto, il popolo che egli incita ad assumere una posizione di universale ed ecumenico magistero nel mondo, non è l'Iddio arido del razionalismo illuministico, non è il popolo che ha celebrato nell'orgia della rivoluzione la sua cruenta conquista. Molto piú fedele alla tradizione del cristianesimo di quanto egli non si immagini, Giuseppe Mazzini sente in Dio la realizzazione ipostatica e la sanzione concretizzata delle leggi morali non scritte, da cui è retta la vita associata. L'Illuminismo vedeva in Dio una categoria astratta, sciolta si potrebbe dire da ogni collegamento vivente con la realtà dell'associazione umana. Mazzini sente che l'umanità ha bisogno di qualche cosa di piú che la semplice morale. Proclama che «non esiste società vera senza credenza comune e comune intento»; che «senza Dio è possibile imporre, non è possibile persuadere»; che «senza Dio si può essere tiranni, ma non educatori, non apostoli». Mazzini sente nitidamente che senza religione non è possibile disciplina sociale. E che soltanto una forte fede può rinnovare l'impalcatura della vita aggregata europea. c Qualunque forte credenza sorga fra le rovine delle vecchie esaurite, trasformerà l'ordinamento sociale esistente, perché ogni forte credenza cerca di applicarsi a tutti i rami della civiltà umana; perché la terra ha cercato sempre, in ogni epoca, di conformarsi al Cielo in che essa credeva; perché tutta intiera la storia dell'umanità ripete, sotto forme diverse e a gradi diversi, secondo i tempi, la parola registrata nella orazione domenicale del cristianesimo: venga il Tuo Regno sulla terra, o Signore, siccome è nel Cielo».

Se Giuseppe Mazzini è irreconciliabile verso il Papato, specialmente dopo la delusione che Pio IX riservò ai patrioti italiani nel '48; se agli occhi di Giuseppe Mazzini le forme confessionali esistenti sono tutte ugualmente impari al compito nuovo che la fede religiosa deve assumersi nel mondo; se di giorno in giorno la sua fiducia nelle tradizioni costituite si fa piú esigua e dubbiosa; la venerazione per il cristianesimo dei Vangeli è in lui sempre forte e alata. Mazzini parla di Cristo: «Ei giunse. Era l'anima piú piena di amore, piú santamente virtuosa, piú ispirata da Dio e dall'avvenire, che gli uomini abbiano salutata su questa terra; Gesù Cristo venne per tutti, parlò a tutti e per tutti. Noi veneriamo in Gesù il fondatore di un'epoca emancipatrice dell'individuo, l'Apostolo dell'unità, della legge, piú vastamente intesa che non nei tempi a lui anteriori, il profeta dell'uguaglianza delle anime, e ci prostriamo davanti a Lui come davanti all'uomo che piú amò, fra quanti sono nati e la cui vita, armonia senza esempio tra i l pensiero e l'azione, promulgò, base eterna nell'avvenire di ogni religione e di ogni virtu, il santo dogma del sacrificio. In ogni parola dell'Evangelo non alita forse lo spirito di libertà e di eguaglianza, di quella lotta contro il male, la ingiustizia, la menzogna, che informano l'opera nostra? La croce è simbolo dell'unica vera virtú immortale, il sacrificio di se stessi per altrui. Unità di fede, amore reciproco, umana fratellanza, attività nel bene, dottrina del sacrificio, dottrina dell'uguaglianza, abolizione dell'aristocrazia, perfezionamento dell'individuo, libertà, tutto è riassunto nelle parole di Cristo: – Tu amerai il Signore Dio tuo ed il tuo prossimo come te stesso e chiunque vuole essere signore sia vostro servo... – Alla vigilia del sacrificio accettato, quando l'immenso amore per i suoi fratelli irraggiava d'un lampo la tenebra del futuro, egli intravvide la rivelazione continua dello Spirito attraverso l'umanità. Era quello il Verbo eterno dei mistici dell'alto Medioevo».

Un singolare conflitto si agitava in fondo alla religiosità mazziniana, il conflitto tra il riconoscimento dell'invalicabilità dell'insegnamento impartito da Cristo e nel medesimo tempo un sottile, indeciso sentore che un giorno l'umanità potesse raggiungere una consapevolezza morale e un orientamento di fede superiori a quelli stessi delineati e tracciati dalla rivelazione neotestamentaria.

«La morale di Cristo», scrive una volta Mazzini, «è eterna. L'umanità potrà aggiungervi qualche cosa, ma non potrà togliervi neppure una parola». E altra volta, scrivendo a un amico, Mazzini lasciava intravvedere prospettive sconfinatamente nuove: «Io professo una fede che reputo piú pura ancora e piú alta del cristianesimo. Ma il tempo suo non è peranco venuto. E sino a quel giorno la manifestazione cristiana rimane la piú sacra rivelazione dello spirito di continuo progresso, cui l'umanità si informa».

Non per nulla Giuseppe Mazzini esprimeva una volta il proposito di volere un giorno dedicarsi alla ricerca negli archivi europei di qualche vecchia opera inedita di Gioacchino da Fiore. V'era qualcosa di apocalittico e di messianico nel suo spirito religioso. Sognava anche lui una nuova economia dello Spirito. Ma quel che irrimediabilmente lo diversificava dalla vecchia mistica medioevale, quel che lo poneva nella impossibilità assoluta di realizzare in sa l'autentica figura del profeta, erano quelle preoccupazioni politiche che egli non poteva non sorbire da questo mondo circostante del secolo decimonono incipiente, cui l'uragano della rivoluzione aveva instillato il prurito dei politici affrancamenti e delle riscosse nazionali.

Non c'è qui ancora una volta la maledizione tragica che pesa su tutta la spiritualità contemporanea? La politica esercita anche su Mazzini una deprimente azione contaminatrice. Nato per bandire un Vangelo specificamente religioso, portato da natura a toccare solo gli argomenti extratemporali ed extraspaziali, Giuseppe Mazzini si sente d'altra parte astretto dalle esigenze del momento storico e dell'ambiente in cui opera a realizzare un programma di liberazione nazionale, che non può andare esente da tutte quelle corresponsabilità col mondo politico che finiscono fatalmente col depauperare e attossicare l'atmosfera della pura religiosità. E questo cospiratore, e questo organizzatore di regimi repubblicani, contraddice cosí e sacrifica le sue piú intime aspirazioni che sarebbero avviate unicamente alla propaganda religiosa.

«La vita», egli ha scritto, «è fede in qualche cosa. La vita è un sistema di credenze sicure, fondate sopra base immutabile, che definisce il fine, il destino dell'uomo, e che abbraccia tutte le facoltà per dirigerle verso quel fine. All'umanità conviene preparare un soggiorno pei dí del riposo – tal cosa sulla terra alla quale essa possa appoggiare la sua testa stanca – tal cosa nel cielo, nella quale il suo sguardo riposi – una tenda che la protegga dall'incertezza dell'atmosfera – una sorgente che la disseti nel deserto vasto e senza orizzonte determinato dove essa viaggia».

Di questa terra di riposo Mazzini vede chiaramente i limiti e le sostruzioni ideali. «Dio esiste», egli scrive. «Noi non dobbiamo né vogliamo provarlo. Tentarlo ci sembrerebbe bestemmia, come negarlo follia. Dio vive nella nostra coscienza, nella coscienza della umanità, nell'universo che ci circonda. La nostra coscienza lo invoca nei momenti piú solenni di dolore e di gioia. Colui che non può invocare Dio in una notte stellata, davanti alla sepoltura dei suoi piú cari, davanti al martirio, è grandemente infelice o grandemente colpevole».

Ma questo Dio è suprema legge di amore, è suprema manifestazione di bontà, è suprema realizzazione di giustizia. Come tutte le grandi anime religiose, come anzi tutti gli spiriti profetici, Mazzini non fa della credenza in Dio un problema di speculazione razionale: ne fa un atto di dedizione alla significazione etica dell'universo. «Ogni essere, dal granello di sabbia alla pianta, dalla pianta all'uomo, ha la sua legge. Come dunque non l'avrebbe l'umanità?».

Nessuno potrebbe revocare in dubbio il dato di fatto che la prima origine della vocazione mazziniana è in un senso acuto del bisogno di una nuova fede nel mondo del suo tempo: «Io vedevo», ha egli lasciato scritto, «un immenso vuoto in Europa, vuoto di credenze comuni, di fede e quindi di iniziative, di culto del dovere, di solenni principî morali, di vaste idee, di potenti azioni, a pro' delle classi che piú producono, e non di meno sono piu misere. E pensai che l'Italia, risuscitando a salvar l'Europa, avrebbe fin dai primi palpiti della nuova vita detto a se stessa e ad altri: – Io riempirò quel vuoto. – Poco m'importa che l'Italia in un territorio di tante miglia quadrate, mangi il suo frumento o i suoi cavoli a miglior mercato; poco m'importa di Roma se da essa non deve venire una grande iniziativa europea. Quel che m'importa è che l'Italia sia grande e buona, morale e virtuosa e che abbia a compiere una missione nel mondo».

Fra le cose che destavano il suo sdegno iracondo e contro le quali egli diceva che l'uomo deve protestare prima di morire, Mazzini registrava «lo stato attuale gretto ed ipocrita della questione religiosa».

Parole, queste, che sono tutto un programma e sono l'indice incontestabile del vero temperamento di Mazzini: temperamento di anima religiosa che le circostanze culturali e ambientali portavano fuori della sua linea e fuori del suo vero tracciato per compiere azione politica nella quale non fu né coerente né pratico né incensurabile. Ma questa deviazione non era la deviazione stessa di tutta la tradizione cristiana e cattolica piú recente? Ancora una volta Mazzini, come Lamennais, è sordo alla dottrina della colpa originale e della espiazione vicaria. È insensibile al morso del pessimismo che è alla base della rivelazione neotestamentaria. Crede nel progresso indefinito dell'umanità e auspica il giorno in cui l'umanità creerà a se stessa un'atmosfera di assoluta libertà e di sconfinata chiaroveggenza. Si fa araldo di trasformazioni politiche che debbono, nella sua speranza, dare alla massa umana la possibilità di un retto governo e di un regime di giustizia e di uguaglianza. Nessuno gli ha dato la sensazione illuminante che il cristianesimo genuino, e quella parola di Gesù che egli estolle cosí in alto, hanno insegnato agli uomini a sanare le loro ferite e le loro iatture, guardando in alto e solamente nel veniente Regno di Dio.

Comunque, la saldissima convinzione pregiudiziale del collegamento infrangibile fra moralità extralegale ed esperienza religiosa; l'attaccamento profondo, anche se a volte superficialmente e verbalmente rinnegato, ai valori permanenti della predicazione di Gesù e della sua trasmissione nella storia; la sete di religiosità; la sensazione, si direbbe quasi istintiva, della sacralità della vita; tutte queste posizioni spirituali fanno di Giuseppe Mazzini la figura religiosamente piú eminente del nostro Risorgimento nazionale. Piú cristiano che cattolico, piú moralista che teorico, piú profeta che politico, Mazzini ha sentito ed ha proclamato che il destino dell'Italia rinata non avrebbe potuto essere dissociato da una palingenesi cristiana, atta a ridare da Roma al mondo il senso delle realtà trascendenti che, uniche, sanno accomunare gli uomini al di là e al di sopra di tutte le discipline esteriori e di tutte le costituzioni statali. Anch'egli, come Gioberti, ha fede inconcussa, si direbbe, in un primato spirituale degli Italiani. Anch'egli ha la visione augusta di una vocazione sacerdotale dell'Italia. Ma questa vocazione sacerdotale si identifica per lui con un programma di reviviscenza cristiana ed evangelica molto piú che cattolica, ecclesiastica, papale. Ed è curioso osservare che al di qua di tutte le sue aberranti avventure politiche, tra le quali quella della Repubblica romana tiene uno sconcertante primato, Mazzini riesce per questa sua istintiva fede nei valori del cristianesimo a mantenere un'intima coerenza e una ininterrotta continuità spirituale che manca, ad esempio, al Gioberti.

Scriveva il Gioberti nelle pagine salienti del suo grande messaggio agli Italiani, Del Primato morale e civile degli Italiani: «Quando si afferma che l'Italia è universale, sovrannaturale, religiosa, creatrice, sacerdotale e via discorrendo, queste varie doti non esprimono tanto proprietà diverse quanto diverse facce di un attributo unico, cioè di quel primato che le appartiene. Imperocché nello stesso modo che le varie perfezioni dell'Ente, distinte subbiettivamente dal nostro corto intendere, si riuniscono e si immedesimano obbiettivamente nell'unità di quello, per via di una sintesi logica e rigorosa, cosí le varie prerogative della patria principe a una sola entità si riducono. Per esprimere la quale con un solo vocabolo, si potrebbe dire che l'Italia è la sopranazione, e il capo popolo, perché in lei si contengono eminentemente tutti quei vari elementi che compongono il genio nazionale delle varie popolazioni e fanno dell'uman genere non meno che dell'uomo individuale una immagine a somiglianza di Dio, cioè un solo essere morale, che tutti gli individui comprende, come nel Lago platonico tutte le idee sono racchiuse. So che oggi dai piú si confondono le analogie e convenienze naturali con le metafore retoriche le quali sulle analogie fittizie e immaginative si fondano; e non pochi si trovano, i quali, essendo da natura incapaci di afferrare riflessivamente le finezze ideali, se ne fanno beffe; né qualunque discorso che si faccia con costoro potrà mai farli ricredere, e dotarli del senso onde mancano, come le parole non possono dare al cieco l'uso degli occhi e abilitarlo a conoscere le visive impressioni dei colori. Il vezzo della filosofia sensuale, del psicologismo e del nominalismo, invalso da gran tempo anche fra noi, contribuisce a screditare la sintesi ideale, come quella che non si può toccare con mano come i corpi, né tritare analiticamente, come le astrattaggini scotistiche e superficiali di alcuni filosofi eziandio moderni. Ma chi ha da natura l'ingegno e dagli studi l'abitudine richiesta alla contemplazione delle idee, le trova assai piú sode e gustose degli astratti e dei sensibili; e sa trovarle sotto la corteccia degli uni e degli altri, perché le astrattezze e i fenomeni sono altrettanti veli che cuoprono una entità ideale. Applicando questo metodo alla etnografia e alla storia non si dee credere che la parte piú sostanziale delle nazioni sia quella che si trova sulla carta geografica e si può visitare viaggiando in sulle poste o sui veicoli a vapore. Come il psicologo trova l'anima sotto l'artificioso conserto della vita organica e il teologo contempla Iddio nelle meraviglie della natura, cosí l'etnografico filosofo ravvisa attraverso la scorza delle società, delle istituzioni, degli eventi, i concetti divini che ne vengono rappresentati. Cosí, sotto l'Italia reale, egli sa scorgere una Italia ideale, che è dotata di tutte quelle proprietà che io vo dichiarando e che è tanto piú sostanziale e consistente, che la prima varia del continuo di anno in anno e di secolo in secolo, laddove la seconda dura immutabile. E nello stesso modo egli vede da questa uscire una Europa spirituale, e l'idealità che la informa diffondersi di mano in mano sul resto del globo, finché abbia animata di nuovo e indissolubilmente conglutinata tutta la nostra specie. Né questo meraviglioso spettacolo è solo atto a istruire e dilettare lo spirito, secondo il parere di certuni che stimano di essere generosi verso le idee, dando loro patente di passaggio, come si dà ai giocolieri, e ad altri simili uomini, che hanno per unico ufficio di rallegrar le brigate; quasi che gli studi ideali debbano aversi in grado di un semplice passatempo. Ma le idee, nonché essere sterili ed inutili alla vita pratica, ne sono il fondamento; e l'accusa di inutilità milita solo contro i fatti, quando non siano da quelle fecondati. Gli Italiani, per poter fare cose grandi in opere di ingegno, di mano e di senno, debbono anzitutto avere la coscienza delle loro forze e delle immortali prerogative della loro stirpe. Da questa persuasione soltanto possono ingenerarsi quei vivi spiriti, quei fervidi e magnanimi ardimenti onde nasce l'impeto che incomincia e la tenacità che consuma e fa trionfare le imprese. Né certo alcun popolo può compiere i suoi destini se non ne ha notizia; laonde il delfico precetto: conosci te medesimo, in cui il padre della rinnovata filosofia greca poneva il sommo della sapienza, è applicabile alle nazioni non meno che ai particolari uomini. Tale è il vostro debito, o figliuoli d'Italia: la prima cognizione che dovete procacciarvi, dopo quella di Dio, è la scienza della vostra Patria. Voi dovete essere la nazione cosmopolitica, non già accattando le idee forestiere, ma travasando le vostre negli altri paesi, perché voi perdereste l'esser proprio, imitando l'alieno, laddove gli altri migliorano le loro condizioni natie, ritraendo dal genio italico. Il quale solo può essere limitato senza pericolo, perché a tutti sovrasta come autonomo, e i semi di tutti comprende, come universale. Questa universalità italica è oggi piú che mai riconosciuta nelle Lettere e nelle Arti illustri. Giacché il bello italo-greco è il solo che sia dovunque riconosciuto come classico e possa porgersi a tutti i popoli culti come sovrano modello di perfezione. Ma essa ha luogo del pari in filosofia, in politica, in religione, nella lingua, e in tutte le altre parti del culto civile, nelle quali l'ingegno vostro, operando dal di dentro al di fuori, e guardandosi dal processo contrario, dee perfezionare con la propria forma quella degli altri popoli. Cosí governandovi, la subbiettività d'Italia (se mi è lecito di servirmi di queste voci metafisiche, che pur calzano a capello per dar precisione ai pensieri), diverrà di nuovo, mediante l'idea, l'obbiettività di Europa e del mondo, come l'essere subbiettivo dello Spirito assoluto si immedesima con l'obbiettività suprema del vero, nell'unità perfettissima e semplicissima della divina natura».

Questo tratto giobertiano è veramente una sintesi completa e precisa di tutto il complesso pensiero storico-filosofico del politico e teorico subalpino. La visione storica della tradizione italica, imperniata sull'autorità centrale del Pontificato, costituisce il caposaldo della sua visione pressoché apocalittica sui nuovi destini dell'Europa civile a cui il popolo italiano in nome dei suoi secoli di storia non può non dare la sua superiore impronta. Ma nel medesimo tempo noi vediamo come qui, piú che la visione religiosa cristiana ispiratrice di Mazzini, vigili e palpiti un senso filosofico-politico dell'eredità cattolico-romana. Qui il tratto differenziale delle visioni politiche e spirituali dell'abbate Gioberti. Aveva cominciato con l'essere repubblicano e aveva iniziato la sua pubblica carriera di scrittore collaborando alla «Giovane Italia», pur non iscrivendosi al partito del rivoluzionario genovese. Cacciato in esilio, a Parigi e a Bruxelles, occupato in un insegnamento filosofico del quale sono stati editi di recente i corsi particolarmente dedicati al problema della conoscenza, lo spirito del Gioberti ne era spinto a trasferirsi sempre piú decisamente sul terreno della speculazione filosofica. E allora noi vediamo effettuarsi in lui un singolare spostamento di posizioni, un significativo rovesciamento di parti. Mentre politicamente Gioberti passa dalla posizione repubblicana alla posizione monarchica, idealmente sembra staccarsi dalle posizioni dell'ortodossia verso posizioni di un panteismo idealista, in cui il concetto di creazione sembra riprodurre in qualche modo la posizione del misticismo immanentista sul passaggio dall'essere assoluto all'essere relativo, formula che in Gioberti diventa «il passaggio dall'Ente all'esistente».

Mazzini era essenzialmente soprattutto un moralista. Del temperamento moralistico tradisce inalterabilmente la fede rude e intransigente nei principî, la ripugnanza costante per ogni compromesso e per la condiscendenza alle situazioni di fatto, la nozione dell'attività politica come sforzo di volontà illuminata verso la pura adesione al dovere. In Mazzini come nel Lamennais i vari fattori spirituali assumono sempre una colorazione ed un fervore religiosi. Gioberti insorge contro il Lamennais perché negli attacchi del bretone al Papato vede un'offesa alla piú grande gloria della tradizione italiana; e attacca non senza virulenza il condannato da Roma. «Ecco il Lamennais», egli scrive, «repubblicano, prostituire il suo ingegno e la sua eloquenza alle scempiezze politiche di una fazione di bimbi, la piú ignorante e inesperimentata che sia stata al mondo». Ma il dissenso ha radici piú profonde che non sia il contrasto nel modo di valutare l'azione curiale di Roma nella trasmissione del messaggio cristiano.

Le tendenze strettamente speculative del pensatore e uomo politico piemontese sono quelle che imprimono un orientamento uniforme alla sua attività, anche se questa si va polarizzando in maniera apparentemente incoerente attraverso le varie fasi del suo svolgimento. Si guardi ad esempio il suo atteggiamento di fronte al contrasto fra gesuiti e giansenisti. La concezione dialettica che Gioberti svolge nei Prolegomeni al Primato giudica ugualmente aberrante la dottrina giansenistica come quella gesuitica. Al cospetto di essa, se il giansenismo è la degenerazione sofistica di sinistra, il gesuitismo è la degenerazione di destra. Entrambi deviano da quella ortodossia cattolica che è, per definizione, secondo il Gioberti, sintesi della religione e della civiltà per mezzo dello spirito. Sicché gesuitismo e giansenismo conducono ugualmente ad un cristianesimo incivile, inumano, settario, parziale, contro cui Gioberti si schiera per la stessa ragione che gli fa avversare De Maistre e Rousseau, mistici e panteisti materialisti.

«Nelle materie speculative», scrive Gioberti nel Gesuita moderno, «il giansenismo cerca di restringere e il gesuitismo di allargare; l'uno inseverisce, l'altro rammorbida e rilassa; l'uno predica un Dio acerbo e inflessibile, l'altro un Dio molle e condiscendente; l'uno rende la salute eterna stranamente difficile, anzi per poco impossibile; l'altro ne fa il negozio piú spiccio del mondo; l'uno insegna una morale dura, ispida, quasi insociale e impraticabile, l'altro rende la virtú piana ed agevole pressoché altrettanto che il vizio; l'uno infine mostra l'inferno spalancato sotto i piedi dei buoni pronto ad ingoiarli, l'altro schiude anche ai mariuoli le porte del Paradiso».

Le antitesi sono formulate in maniera rude e incisiva, quasi si direbbe scheletrica e geometrica. In questo stesso studiato parallelismo di parti antitetiche è il segno che il filosofo Gioberti, il patriota sognante la federazione italica sotto il primato papale, non avverte tutto quello che di patetico e di ineffabile c'è nel contrasto fra visione giansenistica e visione gesuitica della vita. Il cattolicesimo postridentino appare anche qui, nella celebrazione del filosofo e del politico tutto preso dall'ideale nazionale, aver perduto il senso misterico e tremendus del peccato e della grazia. Là dove sono circoscritti gli ideali nazionali è fatale che si smarrisca il senso ecumenico della peccaminosità e della grazia?

Le contrapposizioni fra i due poli estremi del giansenismo e del gesuitismo, che Gioberti fissa solo per mostrarne la radice e la ispirazione comune, ritornano di frequente nei grandi scritti polemici giobertiani. «Le due sètte», scrive Gioberti altrove, «convengono pure insieme sopra un altro articolo di non lieve importanza, promuovendo entrambe con le loro dottrine quella misticità strabocchevole e quelle pratiche indiscrete di ascetismo, che ripugnano alle condizioni della nostra natura, agli interessi della vita pubblica e quindi all'essenza del cristianesimo, spogliandolo del suo carattere sociale e incivilito. Il giansenista, esagerando la qualità e gli effetti della corruttela originale, è inclinato logicamente a proscrivere e a spiantare la natura, a riporre ogni armonia dialettica nelle sole consonanze soprannaturali, e a considerare insomma il mondo nel suo stato presente come un immenso disordine, o almeno come un lavoro fallito, nel quale il male predomina di gran lunga il suo contrario, e non si accorge che, rovinando la natura, distrugge eziandio l'ordine che le sovrasta. Perché la grazia presuppone l'arbitrio, la fede arguisce la ragione, la Chiesa abbisogna dello Stato, la religione ha mestieri dell'incivilimento, e il cielo insomma si radica nella terra, come un edificio che non potrebbe ergersi in aria e levarsi verso le stelle e durare eterno, se le sue fondamenta non fossero ben piantate nel suolo e non penetrassero tanto piú addentro quanto è maggiore l'alzata che debbono sostenere».

Ecco parole che i vecchi polemisti avversari di Port-Royal avrebbero potuto senza sottintesi sottoscrivere. Ma ecco d'altro canto la controparte. Se Gioberti non è davvero generoso e condiscendente con l'austera antropologia del giansenismo, non è neppure benevolo con la morale ufficiale del molinismo e del casismo gesuitico. A poche pagine da queste, nelle quali egli ha duramente investito quella che definisce l'«inciviltà» dei giansenisti, noi troviamo i piú duri incisi contro il lassismo gesuitico. «Il molinista» , scrive Gioberti, «avendo quasi annullato l'efficacità divina, è costretto di attribuire allo spirito creato una gran parte di essa, investendolo del governo del mondo e facendone quasi il plenipotenziario della Provvidenza; come per contro il giansenista è necessitato di riferire alla divinità sola la sostanza delle azioni umane e di abbassare l' uomo al grado delle cause meramente instrumentali e cieche nel governo dell'universo. Perciò come il teologo della prima scuola deifica la creatura, l'altro umanizza il Creatore. Il Dio dei molinisti è per molti rispetti uomo o per dir meglio un gesuita. Mirate cotesto Dio di fattura umana all'opera di governare il mondo della natura con la sua provvidenza e di migliorare, convertire e salvare gli uomini con la sua grazia. Egli si pone celatamente in ascolto, in agguato, spia, origlia, specula, indugia per trovare il vero punto di conseguire i suoi intenti e fornire le sue brame».

Cosí non senza efficacia Gioberti stende la raffigurazione parodistica della teodicea gesuitica. Ma non è detto che egli non finisca in altro modo con l'incappare nella medesima aberrazione che rimprovera al gesuitismo, egli che si muove in pieno nella visione umanistica del cristianesimo, trasportando però sul puro terreno della dialettica e della speculazione antropologica quel problema dei rapporti fra infinito e finito che la genuina rivelazione cristiana aveva impostato unicamente in termini di peccato, di redenzione e di grazia.

Scriveva altrove il Gioberti, nel medesimo Gesuita moderno:

«L'attitudine progressiva della fede consiste nell'esplicamento scientifico e nell'applicazione del dogma: la proprietà immutabile della cultura risiede nell'invariabilità di quei veri fondamentali che formano la base di ogni consorzio e nel loro indirizzo finale alla vita celeste. Diciamo in altri termini che la religione riceve dalla civiltà dei mezzi variabili e le porge dei principi e uno scopo che non vanno soggetti a cambiamento; perché in effetto la vicissitudine è propria del momento intermedio e l'immanenza spetta al principio e al fine in ogni ordine di sostanza creata. La tra sfusione dei due opposti l'uno all'altro si fa mediante l'atto creativo che è il principio sovrano del dialettismo. Accordare è creare. Cosí la religione svolgendosi si incivilisce senza lasciare di essere ciò che è essenzialmente come religione. La civiltà, esplicandosi, diventa sacra e cattolica, senza scapito della sua forma essenziale».

Ed eccoci qui a toccare con mano, in una maniera che non manca di elemento drammatico e palpitante, il punto di inserzione e di incontro fra il profetismo mazziniano e il filosofismo giobertiano, l'uno e l'altro erompenti da un grande sogno di rinnovamento nazionale, che avrebbe dovuto proiettare i tentacoli e le propaggini dei suoi valori per tutta la rinnovata civiltà europea.

Entrambi riconoscono nel progresso della civiltà umana una virtú dialettica ed una capacità di reazione sul processo stesso di trasmissione della spiritualità religiosa ed evangelica. Il loro ottimismo – e si potrebbe quasi dire che ogni nazionalismo è ottimista per natura – vieta però ad essi di cogliere quella dialettica soprannaturale di cui l'ecumenismo cristiano ha il deposito e la consegna, e che fa della vita, dai tempi in cui per la prima volta l'idea di una fraternità universale balenò nel mondo mediterraneo con le religioni di mistero, un dramma, intimo e in pari tempo universale, di colpa e di riscatto.

E se la subcosciente sensazione della assoluta soprannaturalità della fraternità universale nella pace dava al Mazzini il tono profetico della sua predicazione, qui in Gioberti le predominanti attitudini speculative aprivano fatalmente il varco ad una concezione filosofica che spostava il primo embrione dell'attitudine religiosa, dal terreno della questione della salvezza e della grazia, in quello in cui si pone la questione della creazione, che è il passaggio dall'Ente all'esistente, dall'Assoluto al relativo, dall'Infinito al finito. L'origine del molteplice di fronte all'uno non è il problema tipico e specifico della filosofia in contrapposizione al problema della rifusione del molteplice nell'uno, che è il problema tipico e specifico della religione? I due problemi si congiungono e si fondono nella speculazione giobertiana e da questo punto di vista la sua filosofia si riallaccia alla sua religione. Ma se per l'uomo religioso la finalità, che è la consumazione nel Regno di Dio, è il quesito predominante, per il filosofo il problema delle cause prime ha decisamente il sopravvento su quello delle cause finali. E in Gioberti l'abito filosofico predomina sempre piú su quello religioso. È stato detto che il pensiero giobertiano espresso nelle opere postume (Della riforma cattolica della Chiesa; La filosofia della rivelazione; Della protologia; La teorica della mente umana; Rosmini e i rosminiani; La libertà cattolica), era già maturo negli anni 1841-46, quando il Gioberti era ufficialmente neoguelfo. È una maniera troppo semplicistica di ridurre ad unità, posizioni che possono essere vicendevolmente collegate da un intimo filo logico rettilineo, ma che prese quali suonano appaiono effettivamente discordanti e, in sostanza, difficilmente conciliabili. È tutta l'esperienza progressiva politica del filosofo piemontese che ha portato ad espressione definita quelle che, caso mai, erano potenzialità tenute a freno dalla valutazione eccezionalmente alta della prammatica potenzialità disciplinatrice della tradizione cattolica.

«La filosofia», scrive Gioberti nella piú forte delle sue opere postume, «è indipendente e a ciò non osta la autorità cattolica: perché il cattolicesimo e il cristianesimo essendo fondati sulla filosofia (ragione), questa perciò viene ad essere indipendente e superiore. Vero è che in ordine al mistero la filosofia dee famulari; ma ubbidendo ad una potenza da sé costituita, ubbidisce in effetto a se stessa».

Cosí Gioberti non fa altro che teorizzare e dare forma di assioma normativa a quel che la tradizione cattolica ortodossa, dall'epoca della scolastica di Abelardo in poi, aveva già fatto, ponendo nelle mani della ragione le virtú e le capacità della giustificazione e della fede, costituendola pertanto arbitra e valutatrice di questa. E ancora una volta la Chiesa, contrastando e condannando posizioni di questo genere, irresistibilmente tratta dalle esigenze profonde della comunità carismatica di cui essa ha il governo, non faceva altro, in qualche modo, che condannare e rinnegare se stessa.

Non lo si vede nell'ampiezza stessa che Gioberti assegna al concetto di creazioni, nella sua esplicazione idealistica della costituzione del mondo e dei suoi esseri finiti? Se la dialettica creativa trae fuori dagli abissi stessi della indeterminata assenza di Dio la molteplicità del creato e del reale, il pensiero e l'idea, che sono norme e paradigmi dell'opera creatrice di Dio, sono a loro volta linee direttive di quel processo «metessico» che ritrasforma, attraverso la mentalità, il mondo creato, e «mimeticamente» creato, dalla realtà assoluta di Dio. Questo ciclo dialettico ed antologico insieme, che ripristina nell'ambito della speculazione cristiana e cattolica quelle che sono state sempre la struttura e l'ossatura intime di tutte le forme della filosofia idealistica, da Platone a Plotino, è l'ultima parola della filosofia giobertiana. Il Gioberti è sempre immutabilmente ed esclusivamente filosofo, anche quando i suoi accenti assumono tonalità religiosa. Parallelamente, quando parla della missione sacerdotale dell'Italia, Gioberti adopera una terminologia religiosa per indicare una vocazione ed un còmpito nazionali, che sono puramente civili ed umani. Il Primato è una memorabile arringa. Essa rievoca dal passato, sia pur remoto, tutte le disperse glorie del genio italico allo scopo di trarne i mezzi piú acconci per destare sensi di emozione ed energia di incitamento. Lo spirito che anima questa complessa e multanime materia dà unità e coesione all'ardito quadro storico, che presenta come opera stupenda di una unica stirpe quel che in realtà è il risultato sovrapposto di civiltà diverse ed eterogenee, dalla pelasgica all'etrusca, da quella della Magna Grecia alla latina, da quella dei grandi Papi organizzatori dell'Europa cristiana a quella del Rinascimento, da Pitagora a San Tommaso, da Dante al Vico, dal Machiavelli a Galileo Galilei. Ma come Mazzini sentiva venir su dagli strati piú profondi della sua anima di profeta un richiamo indistinto a quelle visioni apocalittiche di Gioacchino da Fiore, in cui si era per l'ultima volta affermato lo spirito universale della Cristianità italica, e lasciava che questi richiami indistinti si spegnessero sotto l'alluvione delle preoccupazioni rivoluzionarie e nazionali, cosí Gioberti, nel suo sforzo di raccogliere in un unico quadro le antinomiche e contraddittorie correnti delle varie tradizioni spirituali germinate nel territorio nazionale, perdeva di vista, funestamente, il grande dato storico, per cui l'Italia era stata maggiormente nazionale allorquando era stata piú internazionale, vale a dire aveva raggiunto piú alto vertice di magistero ecumenico attraverso la concezione universale della Chiesa e dell'Impero, quando, inconsciamente fedele alla consegna del Vangelo, aveva gettato la sua anima particolare allo sbaraglio, per ritrovarla centuplicata e sublimata nelle categorie universali di cui il romanizzato Agostino aveva schematizzato la dialettica e l'economia.

Non per nulla, pur combattendo le forme spinte dell'idealismo germanico, Gioberti ne accetta piú o meno consapevolmente le dottrine politiche e la visione dello Stato. Se la lotta che Gioberti sostiene contro la Curia romana per rivendicare l'autonomia dello Stato investe prevalentemente il potere civile o temporale dei Papi, le dottrine politiche del Gioberti hanno il loro contrassegno originale nel dato di fatto che esse mirano a conciliare la spiritualità dello Stato con la spiritualità della Chiesa. Il vero Stato è identificato dal Gioberti con la nazione. E il primo intento della scienza civile deve consistere secondo lui nella dimostrazione irrevocabile della idealità della nazione, la quale induce a constatare come nella nazione, considerata quale composto organico dotato di un centro inconsumabile di vita, si raccoglie e si potenzia in ogni sua ramificata espressione la vita collettiva del popolo. «L'idealità di un popolo», scrive Gioberti, «abbraccia la morale, la religione, i diritti, le parti piú eccelse e rilevanti della politica: è il principio da cui ridondano alle comunità, come ai privati, ogni virtú, ogni stabilità, ogni fiore di civili incrementi, ogni vera forza e grandezza».

E anzi, i n questa assegnazione allo Stato di poteri e di potenzialità che sconfinano palesemente sul terreno sacro della intimità religiosa di un popolo, potrebbe additarsi il punto di divergenza fra Gioberti e l'altro ecclesiastico italiano che ha rappresentato anche lui una parte delle piú cospicue nel rivolgimento ideale e religioso, affiancatosi al processo del nostro Risorgimento nazionale: alludiamo ad Antonio Rosmini.

Si erano incontrati sul terreno politico piú volte. Non si deve mai dimenticare che per opera del Gioberti soprattutto il Rosmini fu inviato nel 1848 dal governo piemontese presso Pio IX, con la consegna di incoraggiare il Papa nella via intrapresa delle riforme costituzionali e delle concessioni liberali. Come si sa, la missione mancò al suo scopo. Con immensa delusione degli Italiani, Pio IX retrocesse dalla via inizialmente intrapresa. Rosmini lo seguiva a Gaeta, dove il suo disinganno doveva essere completo. Reduce di là, cacciato dalla polizia borbonica, il Rosmini rifiutò per sempre ogni incombenza politica ritraendosi nel lavoro della sua opera caritatevole e della sua speculazione filosofica. Di questa speculazione egli aveva dato la prima espressione nel 1830 pubblicando a Roma in quattro volumi con il Nihil obstat dei censori romani il Nuovo saggio sulle origini delle idee.

Come si sa, l'idealismo rosminiano non ha le arditezze di quello giobertiano. I due sognatori dell'unità nazionale sono profondamente divisi sul terreno filosofico, pur partendo da presupposti analoghi. Nella Introduzione allo studio della filosofia Gioberti aveva identificato l'essere con l'idea, in quanto l'essere, come idea, è la stessa evidenza che chiarisce sé e il tutto. In virtú dell'idea il nostro intelletto diventa facoltà di intendere; in virtú dell'idea sono create le nostre stesse sensazioni. Rosmini avverte l'insidia idealisticamente panteistica di queste presupposizioni, e se ne ritrae.

A ben riguardare le cose, la posizione rosminiana non è sostanzialmente e da un puro punto di vista gnoseologico e metafisica distinta dalla posizione tomistica e, risalendo ancora piú indietro nel tempo, dalla posizione aristotelica. C'è una nozione da cui rampollano e di cui abbisognano tutte le nostre percezioni come tutte le nostre raffigurazioni concettuali del reale, ed è la nozione dell'essere. Il principio supremo che dà unità a tutto lo scibile è l'essere in universale. Questa nozione dell'essere universale, percepita dalla mente e non dai sensi, i quali in virtú della loro natura non possono cogliere che il particolare, dà possibilità a tutte le nostre conoscenze. Tale nozione dell'essere è frutto d'intuizione, non di induzione. È l'oggetto immediato del conoscere, punto di partenza e mezzo indispensabile per la conoscenza di tutte le cose. Qui il temperato equilibrio dello spirito speculativo italiano si afferma indiscutibilmente in contrapposizione all'idealismo kantiano che fa del noumeno una realtà sfuggente inesorabilmente alla presa del nostro contatto conoscitivo. Ma la nostra conoscenza dell'essere è una conoscenza indeterminata, secondo il Rosmini, e questo essere primitivamente e direttamente percepito dall'intuizione non è né Dio né il concetto di Dio, ché Iddio e il suo concetto sono squisitamente e sublimemente determinati in se stessi.

Verrà giorno in cui Roma condannerà tutta una serie di proposizioni rosminiane come infirmate da presupposizioni antologiche. E ancora una volta si dovrà constatare che Roma condannerà, come forme aberranti di pensiero, quelle che non facevano altro che schematizzare troppo nudamente e geometricamente postulazioni metodiche e concettuali dalla Chiesa stessa già canonizzate, nella sua accettazione e nella sua canonizzazione delle forme speculative scolastiche.

Anche San Tommaso aveva esplicitamente asserito che a seguire il concatenamento delle nostre idee e il processo di sviluppo della nostra facoltà ragionatrice, noi eravamo necessariamente tratti ad arrestarci ad una nozione invalicabile, come principio e forma primitiva di tutte le nostre raffigurazioni del reale: la nozione dell'Ente. Ma, naturalmente refrattario com'era a qualsiasi commistione dell'ordine ideale con l'ordine reale, a qualsiasi consacrazione preconcepita delle prime espressioni del nostro pensiero, quale era ad esempio postulata dall'argomento aprioristico di Sant'Anselmo per la dimostrazione dell'esistenza di Dio, San Tommaso, nella sua speculazione, non si era mai esposto al rischio di immedesimare la nozione indeterminata dell'essere, con quella determinatissima di Dio. Per questo, tutto il nucleo centrale della speculazione tomistica era rimasto circoscritto, si potrebbe dire, al problema della creazione, come problema del passaggio dall'essere sussistente all'essere contingente, la cui nozione è contenuta come nocciolo essenziale in ogni nostra percezione e in ogni nostro contatto con la realtà, altra da noi.

Noi abbiamo visto d'altro canto, però, come San Tommaso stesso avesse dovuto riconoscere che da un punto di vista teoretico il passaggio, attraverso la creazione, dall'Essere infinito, Dio, all'essere finito, non può essere collocato nel tempo, e non nell'eternità, se non in virtú di un'asserzione di fede non già in virtú di un'asserzione di ragione. Perché dal punto di vista strettamente umano e razionale non si vede come la creazione non debba essere simultanea dell'esistenza stessa di Dio, vale a dire eterna. E abbiamo visto come il piú ardito discepolo della scuola tomistica, Maestro Eckehart, fosse passato sopra questo scrupolo puramente religioso del maestro, affermando la creazione eterna e spalancando quindi le porte al monismo idealistico.

Rosmini non cessa un istante di proclamare che l'essere in universale, oggetto di intuito, non solamente non è Dio, ma non è neppure il concetto di Dio, poiché il concetto di Dio implica determinazione, e in questo caso l'adeguata determinazione presupporrebbe una esperienza che in natura non si dà. Rosmini si indugia a combattere ogni forma di ontologismo e di panteismo, sforzandosi ad ogni pié sospinto di tenere nettamente distinti l'ordine naturale e l'ordine soprannaturale. Ma d'altro canto egli non può fare a meno, per le stesse esigenze logiche della sua visione metafisica della realtà, e della sua concezione del fatto conoscitivo, di lasciare, alla sua nozione dell'essere, un riconoscibile carattere innatistico.

Anche in San Tommaso la nozione dell'essere ha qualche cosa di primitivo e di anteriore a qualsiasi esperienza sensibile. Ma si direbbe che nell'epoca in cui San Tommaso elabora il suo sistema non viene fatto a nessuno di formulare l'accusa di innatismo.

Solo il processo di deterioramento che la scolastica aveva subìto attraverso i secoli, permetteva alla polemica antirosminiana di fare, di questo carattere innato della nozione dell'essere, un'accusa al sistema del roveretana, quasi, fosse un ontologismo mal dissimulato. Attraverso secoli di filosofia sensistica, si era finito col prendere angustamente alla lettera il postulato aristotelico che nulla potesse essere nell'intelletto che non fosse stato precedentemente nel senso, e si era quindi scorto nel principio della speculazione rosminiana una posizione ontologistica.

L'accusa però non avrebbe resistito a lungo e un giorno, a piú di mezzo secolo di distanza dalla condanna delle proposizioni rosminiane, si sarebbe veduto, in pubblicazioni ufficiali cattoliche, un riavvicinamento del Rosmini a San Tommaso e a Sant'Anselmo.

In realtà Rosmini si muoveva esattamente sul terreno della ortodossia cattolica, quale era ormai predominante a tre secoli di distanza dal Concilio di Trento. Non risentiva anch'egli di quella visione ottimistica dell'uomo e della vita che contrassegna tutte le filosofie nazionalistiche del secolo XIX incipiente? La stessa rivelazione cristiana non appariva a lui, non come un sovvertimento e un rovesciamento dei valori naturali, ma come una elevazione e un ampliamento? Non si vuoi dire con questo che Rosmini non avvertisse il bisogno di insorgere contro ogni tentativo filosofico o civile di far perdere allo spirito umano la consapevolezza dei suoi limiti. «Dopo Cristo», scrive egli nella sua Filosofia della politica, «la felicità naturale è nulla al cuore cresciuto degli uomini, che non trova mai quiete se non nel soprannaturale: l'essere chiuso in questo universo gli è come un sentirsi stringere dall'angustia di una prigione. Che giova che le muraglie del suo carcere sieno un po' piú vicine o un po' piu lontane? Oggi mai, egli aborre tutte le muraglie, tutti i confini». Ma non è detto che con questo Rosmini riuscisse a recuperare il senso di quell'enorme divario fra natura e soprannatura, che la rivelazione cristiana ha segnato nella essenza stessa della sua missione e della sua specifica vocazione pedagogica.

Con una singolare coincidenza di posizioni spirituali, Rosmini sembra riprodurre, cosí nell'ordine metafisico come in quello mistico, gli orientamenti di Maestro Eckehart. Noi ci siamo già sforzati di mostrare nel precedente volume come tutta la grande e vivente originalità della sintesi tomistica fosse, alle origini, in un equilibrio instabile fra dialettica razionale e intuito mistico. L'equilibrio instabile si era subito rotto nella mistica eckehartiana, in cui il passaggio dall'infinito al finito si operava in virtú di un indeclinabile concatenamento interiore, senza, si direbbe, entitativa soluzione di continuità. E d'altro canto il ritorno del finito all'infinito si realizzava anche esso in virtú di un tacito e passivo riassorbimento del singolo nell'oceano di provenienza. Il nostro intuito dell'essere, nella concezione rosminiana, poteva non essere, nello spirito del pensatore, aderenza intima e propinquità immedesimante con l'Essere determinato, Dio, ma tale finiva col risuonare per la stessa diversa temperie in cui il sistema del roveretano compariva.

Si guardi ad esempio alla Storia dell'amore cavata dalle Divine Scritture, l'opera che Rosmini aveva concepito a diciassette anni, per pubblicarla solo quando ne aveva trentasette, e si rifletta se non ci sono visuali e tendenze che ricordano le esortazioni sermonistiche del mistico domenicano tedesco del Trecento. Lo stesso dicasi dell'altra opera morale del Rosmini: Massime di perfezione cristiana, che va posta a fronte, per essere convenientemente valutata, a quella raccolta di discorsi, specchio tipico dello spirito del Rosmini, cui il roveretano stesso pose questo titolo significativo: La dottrina della carità.

Nella sua Storia dell'amore, Rosmini, istituendo una esegesi mistico-teologica della tradizione biblica, raffigura la storia umana come un poema sacro: i protagonisti sono la divinità e l'umanità, il cui dramma si riassomma tutto nella pertinace infedeltà umana e nella inesauribile e infrangibile fedeltà di Dio. Come San Bernardo ai suoi tempi, Rosmini fa del Cantico dei Cantici il testo simbolicamente eloquente dei rapporti sentimentali tra il Creatore e la creatura. La vita tutta, nel suo decorso millenario, appare al Rosmini come un duetto ininterrotto fra Dio e l'uomo, destinato a chiudersi con il trionfo splendente di Dio nella definitiva e felice armonia dei cieli.

Nelle sue Massime, Rosmini pencola piú palesemente verso un misticismo passivo che vieta all'uomo di impegnarsi in qualsiasi opera buona indiscriminatamente, perché invece si dedichi soltanto a quelle opere buone sigillate e sanzionate dal volere di Dio, da un volere di Dio che deve manifestarsi non per solo impulso interiore, ma mediante l'autorità degli uomini o la forza delle circostanze.

Come Gioberti, Rosmini avverte e celebra l'attaccamento inconsumabile dell'anima italiana e della tradizione italiana alle piú pure correnti della Cristianità cattolica. Partecipe a tutte le idealità e a tutte le speranze della sua generazione di fronte al destino unificato d'Italia, Rosmini tenta la conciliazione della universale fede cattolica con il particolarismo del programma nazionale, vedendo nell'Italia una nazione squisitamente predestinata.

«Per quell'incredibile affetto che a te porto, o Italia», egli scrive, «o gran genitrice, innalzerò incessantemente questi preghi all'Eterno: – Onnipossente, che prediligi l'Italia, che concedi a lei immortali figlioli, che dall'eterna Roma per i tuoi vicari governi gli spiriti, deh, dona altresí ad essa, benignissimo, il conoscimento dei suoi alti destini, unica cosa che ignora: maestra di virtú alla terra, specchio di religione, rendila avida di liberi voti e di amore, di cui sia degna, piú che di tributi e di spavento: e fa che in se stessa ella trovi felicità e riposo e in tutto il mondo un nome non feroce, ma mansueto. Nella tua mollezza, nei tuoi studi superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alla scuola altrui, tu, Italia, non potresti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però neppure avresti una nazionale opinione: sorgi, tendi all'unità intellettiva, che, se vuoi, non ti può essere contesa e diventerà allora fortissima la tua sciagurata bellezza».

Come Gioberti aveva esaltato le peculiari doti del popolo italiano, al cospetto di tutti gli altri popoli europei, Rosmini esalta anche lui le capacità intellettuali dello spirito italico. Gli Italiani gli appaiono «capaci di tutta la celerità e chiarezza francesi, di tutta l'esattezza e serenità inglesi, e di tutta la solidità tedesca, e, oltre a ciò, di una nobile pacatezza, tutta propria, che conservano anche nel maggior fervore (giacché la stessa fantasia degli Italiani è ordinata) e che lascia loro il tempo di pervenire a tutta quella pienezza e perfezione nella risoluzione delle questioni, dove solo la verità riposa e la questione termina per cominciare la scienza. No, il senno italiano non sarà illuso, non sarà traviato dagli stranieri deliri: io almeno lo spero: il cristianesimo ha qui la centrale sua sede, il Cristo, l'aspettato delle nazioni, preconizzato padre del secolo futuro, cioè della presente civiltà e dell'avvenire, ha qui il suo vicario: quindi la luce che penetrando i cuori e le menti e fugandone il vizio e l'errore rende quelli generosi, queste serene. In tali cuori, in tali menti le utopie non fanno prova».

Idillicamente Rosmini sogna la formazione pacifica dell'unità italiana. Nel suo breve scritto sulla Unità italiana il buon roveretano lascia intravvedere la sua fiducia che un semplice spirito di dedizione e di abnegazione possa indurre i principati italiani ad una rinuncia, che li faccia sottostare volontariamente ad una Dieta comune installata a Roma, capitale religiosa e politica dell'Italia. «Senza questa disposizione sincera e pienissima», egli scrive, «che debbono avere i particolari Stati di Italia a subire le modificazioni che potranno essere giudicate necessarie, senza questa negazione di se stessi, questo spirito di sacrificio per il comune bene, questo immenso ardore per tutta la nazione atto a soggiogare ogni altro interesse, ogni altra affezione, a spegnere tutte le simpatie, ella è impossibile l'unità italiana. Il voto di tutti gli Italiani e la loro ferma volontà non è solamente di liberare dallo straniero quella parte d' Italia che era od è da lui occupata, indubbiamente è quella di fare dell'Italia una nazione sola, ed è vano pensare che l'Italia possa tornare piú alla quiete, fino a che non è riuscita nella sua unanime volontà. Quando una nazione vuole unanimemente una cosa, è vano il credere di poterla frenare con dei piccoli mezzi; ella rompe tutti gli ostacoli; si può illuminarla e regolarne il moto, impedirlo giammai. È dunque da prevedersi che il presente movimento italiano non si sederà piú, fino a tanto che tutta l'Italia non sia divenuta una nazione. L'opporvisi non sarebbe solo una massima imprudenza, ma un peccato contro l'umanità e la carità, perché altro non farebbe che allontanare l'epoca della pace e il ritorno della tranquillità».

Cosí scriveva il Rosmini nel momento in cui l'inizio della politica liberale di Pio IX apriva il suo animo alle piú audaci speranze. Sono i primi avvenimenti del '48 che lo inducono a metter fuori il suo progetto di Costituzione secondo giustizia e di Confederazione. Egli sottopone le ragioni ideali della guerra nazionale al controllo dei suoi principî morali, e le trova giustificate: «Tutta la questione della guerra si riduce a sapere se la presente è giusta e se è grandemente utile. Che sia utile, grandemente utile, questo non può essere messo in dubbio da nessun uomo di buon senso. Che poi sia anche cosa giusta, ella è una questione che dovrà essere disaminata nel modo piú scrupoloso; ma però è un fatto che la massima parte del popolo italiano, dalle Alpi al Faro di Messina, non dubita della giustizia di questa guerra. È guerra nazionale, avente opinione di giustizia, a favore della libertà, contro un governo che teneva indubbiamente schiava la Chiesa, guerra senza ambizione, che non ha per oggetto la conquista, né alcun interesse dinastico, ma quello di un popolo intiero lungamente tribolato».

Il Rosmini vede nell'Italia unificata l'immancabile palladio della libertà religiosa: «La religione cattolica», egli scrive, «non ha bisogno di protezioni dinastiche, ma di libertà; ha bisogno che sia protetta la sua libertà e non altro. L'Italia, la religiosa Italia, chiamata ora da Dio alla libertà, ha la missione altresí di divenire la liberatrice del cattolicismo dall'infame servitú nella quale gemette oppresso finora... Io non dubito che il movimento italiano sia ordinato da Dio a servizio della sua Chiesa. Parmi di vedere dopo tutti i maneggi degli uomini, la mano di Dio, onde me ne rallegro. La religione è il palladio della libertà italiana».

Cosí Antonio Rosmini sembra raccogliere sotto il manto di un fiducioso ottimismo le sue visuali sul destino dell'Italia e della Chiesa, alle quali non può negarsi un certo facile e disinvolto semplicismo. Tutte queste grandi anime cristiane dell'epoca del nostro Risorgimento sembrano non avvertire il formidabile conflitto che in pratica la costituzione dell'Italia a nazione, dell'Italia, centro millenario dell'ecumenico magistero cattolico, doveva inevitabilmente suscitare. Come in una Italia unificata la sede di Pietro avrebbe potuto continuare a mantenere la virtú e la potenzialità universali della sua iniziale vocazione? Questo Papato romano che aveva altra volta consacrato un Impero universale a tutela e a garanzia degli interessi cristiani nell'Europa battezzata, come avrebbe potuto svolgere ancora nel mondo la sua missione quando il territorio nazionale in cui essa ha le sue radici e la sua sede si fosse costituito in una di quelle unità civili e culturali, che altrove avevano trovato il modo di fare della confessione cristiana un loro spirituale patrimonio domestico?

Che la Chiesa romana, per affrontare i nuovi còmpiti in una nazione italiana indipendentemente costituita, avesse bisogno di una riforma e di un processo intimo di adattamento, lo avvertivano anche questi spiriti fautori dell'unità nazionale. Fin dal 1832 Antonio Rosmini nella solitudine di una villa padovana dettava, ad istruzione del clero cattolico italiano, quel suo trattatello Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, che non pubblicava però prima del 1848. Il pio roveretano vi denuncia le mende della comunità cattolica che debbono essere estirpate. Le cinque piaghe che egli addita come bisognose di rapida e pronta cura, sono: la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto; la insufficiente educazione del clero inferiore; la disunione dei vescovi; la nomina dei vescovi in mano del potere laicale; la servitú dei beni ecclesiastici. Ben poca cosa, a ben considerare la situazione, di fronte alle nuove formidabili esigenze che la costituzione dell'Italia a nazione avrebbe imperiosamente fatto gravare sul millenario insegnamento romano.

Il problema degli eventuali rapporti fra l'Italia unificata e la sede romana era in realtà problema ben piú vasto di quanto gli spiriti piú insigni del nostro Risorgimento fossero capaci di apprezzare, di valutare, di risolvere praticamente.

La stessa memoranda formula del conte di Cavour «libera Chiesa in libero Stato» teneva sufficientemente conto di quelle che sono le postulazioni della disciplina cattolica, in fatto di regime e di amministrazione curiali? Noi non dobbiamo qui, in questa rapidissima rassegna delle posizioni piú eminenti al cospetto del problema ecclesiastico nei maestri della nostra rivoluzione nazionale, seguire da presso l'opera del piú operoso e fattivo preparatore dell'Italia unita. Intenti a individuare le tappe del cammino cattolico nel quadro dell'evoluzione europea nel secolo XIX, qui non dobbiamo fare altro che cercare di cogliere l'ispirazione profonda della formula cavouriana, destinata ad esercitare un'azione di cosí imponente rilievo nella soluzione della «questione romana», fra il 1850 e il 1871.

È oggi universalmente ammesso che la formula «libera Chiesa in libero Stato» deriva dalle concezioni politiche e religiose di Alessandro Vinet, il grande rappresentante della reviviscenza spirituale religiosa nel Cantone di Vaud, nei primi decenni del secolo XIX. Per l'impostazione del problema dei rapporti fra Stato e Chiesa, Cavour, come del resto Bettino Ricasoli e Raffaello Lambruschini, attinsero dal libro del Vinet: Essai sur la manifestation des convictions religieuses et sur la séparation de l'Église et de l'État. Aveva scritto il Vinet in questo libro: «La religion est un acte d'individualité et de spontanéité; le fait d'une religion d'État nie en principe, compromet en fait ces sacrés caractères de tout culte vrai; elle annihile l'être religieux» Ora, in questa formula del Vinet che a prima vista può apparire cosí seducente e captivante, in quanto viene formalmente a negare qualsiasi possibilità e qualsiasi liceità della soggezione della religione allo Stato, si nasconde, se non c'inganniano, una visione del fatto cristiano in particolare e del fatto religioso in genere, sostanzialmente difforme dalla visione cattolica. Le parole del Vinet possono suonare a prima vista come un riecheggiamento della secolare rivendicazione istituita e patrocinata dalla Chiesa romana della libertà assoluta e dell'autonomia insindacabile della esperienza religiosa e del magistero curiale, da qualsiasi usurpazione e manomissione politica. In realtà questa autonomia del fatto religioso è portata invece, nella concezione del Vinet, su un terreno che non è quello della tradizione cattolica. Il Vinet infatti, perfettamente consono alle postulazioni e alle posizioni preliminari della confessione evangelica di tutti i tipi, parte dalla idea che l'esperienza religiosa sia fatto individuale e che la società ecclesiastica sia pura e semplice impalpabile comunità di spiriti, società invisibile, incapace di venire dovunque e comunque a contatto con gli istituti empirici della terra. La comparazione delle due parallele, mai destinate ad incontrarsi, applicata ai rapporti fra Stato e Chiesa, che in Italia doveva essere un giorno, per pura coincidenza formale, addotta da un uomo politico direttamente erede delle dottrine cavouriane, la si trova già esplicitamente e letteralmente negli scritti del Vinet. Si comprende perfettamente come in una tradizione confessionale come quella evangelica, che nega la visibilità della Chiesa e la compartecipazione sensibile dei credenti nel Cristo alla medesima vita carismatica circolante nelle membra dell'organismo ecclesiastico per virtú e sotto l'amministrazione del magistero sacerdotale, la Chiesa potesse essere proclamata e difesa libera, di fronte ad uno Stato libero e autonomo anch'esso. Ma in fondo a questa raffigurazione dei rapporti fra Stato e Chiesa si nascondeva una vera e propria negazione radicale di quello che è l'assioma cardinale della concezione cattolica: l'assioma che la Chiesa è un organismo visibile, che non può in nessuna maniera esser tagliato fuori né separato dalla totalità della vita associata.

Noi abbiamo visto alle origini del cristianesimo come la Chiesa è entrata nel mondo quale conglomerato e amalgama soprannaturale di valori, trascendenti ogni forma empirica di vita associata e di codificazione terrena. Ma soprannaturale non è sinonimo di invisibile. Appunto perché al disopra della natura la grazia la investe e la trasfigura, non se ne separa. E se a norma della grande pedagogia agostiniana è impossibile segnare in maniera constatabile la linea divisoria fra la città di Dio e la città del mondo, simile postulato, anziché annullare la corporeità della vita ecclesiastica, la riconferma e la celebra, in quanto ci fa piú tremebondi e piú titubanti nel procedere, nel mondo, alla ricerca di ogni sentore che avverta della presenza incontrollabile, ma positivamente operante e sensibilmente rivelantesi, di Dio.

Se la riforma aveva innalzato il suo vessillo insurrezionale bandendo il principio della indivisibilità ecclesiastica, e quindi il carattere prettamente personale e individuale della salvezza religiosa di fronte al duro e opprimente regime curiale romano che aveva trovato nel commercio delle indulgenze una delle sue manifestazioni piú irritanti, e piú scandalose, e se la Chiesa aveva risposto irrigidendo vieppiú la sua tattica giuridica concordataria, si comprende come si fosse giunti alla concezione della Chiesa e dello Stato quali due organismi autonomi, destinati a battere le loro vie parallele senza incontrarsi. Ma questo era un sopprimere in radice il problema, invece di risolverlo, in quanto non si risolve l'augusta incognita posta dall'esperienza cristiana alla vita associata con la sua visione del corpo mistico di Cristo, immaginando che questo corpo mistico di Cristo possa vivere ed espandersi nel mondo, all'insaputa di tutte le altre espressioni della vita umana aggregata.

Ecco perché la formula di Cavour non poteva essere che una formula provvisoria, ed ecco perché la Chiesa cattolica contemporanea nel suo strano istinto ambivalente per cui ha a disdegno il mondo nel momento stesso in cui è scesa piú direttamente a contatto con esso, non poteva acconciarsi alla politica cavouriana e alla Legge delle Guarentigie. La costituzione dell'Italia ad unità nazionale non faceva che rendere piú propinquo e piú conturbante il problema dei nuovi destini religiosi che la Chiesa romana si porta ormai da secoli, dal tempo in cui cioè cominciò a dissolversi la grande unità europea che lo spirito cristiano aveva creato nel Medioevo.

Che cosa avrebbe mai dovuto fare la Chiesa per affrontare la nuova situazione greve di responsabilità, di rischi, di prospettive?

Con la enciclica «Mirari vos» del 15 agosto 1832 Gregorio XVI, come abbiamo visto, aveva condannato solennemente la parola e l'opera dell'abbate bretone Lamennais. A pochi mesi di distanza, Giuseppe Mazzini, nel fascicolo quinto della «Giovane Italia», pubblicando una energica critica al documento papale, si rivolgeva, con un monito patetico, ai preti d'Italia: «Preti della mia Patria! Il primo tra voi che commosso dai pericoli d'una crisi europea leverà lo sguardo dal Vaticano a Dio, e ne trarrà direttamente la propria missione – il primo tra voi che consacrandosi Apostolo dell'umanità raccoglierà le sue voci, e forte d'una coscienza illibata inoltrerà, col vangelo alle mani, fra le moltitudini incerte, pronunciando la parola: riforma – quegli avrà salvo il cristianesimo, ricostituito l'unità europea, spenta l'anarchia, e suggellata una lunga concordia tra la società e il sacerdozio».

Di fronte al conflitto di indirizzi spirituali e religiosi, di cui la condanna pronunciata da Gregorio XVI contro le profezie del prete bretone era l'espressione clamorosa, Mazzini auspicava per il clero italiano una missione di una tale vastità e di una tale complessità, da far tremare veramente le vene e i polsi. A quegli che sarebbe dovuto uscire dalle file di questo clero italico per bandire il messaggio cristiano nella sua nuova forma, Mazzini richiedeva «una coscienza illibata e un programma di riforma capace in pari tempo di salvare il cristianesimo, di ricostituire l'unità europea, di spegnere l'anarchia, di suggellare una lunga concordia fra la società e il sacerdozio». Troppo e troppo poco: troppo presto e troppo tardi. Troppo, perché sarebbe stato difficile, letteralmente anzi impossibile, trovare il modo di ricostituire in un programma religioso ed unico la saldatura fra le aspirazioni della nazionalità italiana e le aspirazioni della Cristianità ecumenica. Troppo poco, perché una concordia fra società e sacerdozio si sarebbe potuta stipulare anche mercè un qualsiasi formulario concordatario, senza che le parti giustapposte nella lettera dei formulari diplomatici trovassero per questo nel loro intimo una riconciliazione, che era assurdo pretendere dalle loro antitetiche finalità. Troppo tardi perché, a distanza di tre secoli dai movimenti riformatori del secolo XVI, sarebbe stato completamente anacronistico che l'Italia pensasse ad una sua riforma nazionale, in opposizione irriducibile con le sue funzionali vocazioni cattoliche. Troppo presto, perché una rifusione del mondo cristiano dismemorato e sconvolto non avrebbe potuto apparire possibile che il giorno in cui il principio di nazionalità, compiuto integralmente il suo ciclo, applicato all'ultimo paese suscettibile di costituzione unitaria, l'Italia, avesse esaurito le sue potenzialità storiche, e avesse mostrato la sua sostanziale difformità dalle esigenze stesse del messaggio cristiano.

Non eravamo ancora tanto in pieno nell'atmosfera delle rivalità nazionali da far sí che queste si ammantassero ancora di connotazioni religiose e confessionali?

Poco meno di quindici anni prima che Gregorio XVI condannasse Lamennais, nel 1818, Alessandro Manzoni, sollecitato dal giansenista Tosi, si era messo a compilare quelle sue Osservazioni sulla morale cattolica che volevano essere una confutazione diretta e minuta della tesi del Sismondi, l'evangelico svizzero che nell'ultimo volume della sua Storia delle Repubbliche italiane aveva accusato la morale cattolica di essere stata la causa principale della decadenza e del progressivo corrompimento del popolo italiano.

Il Sismondi era partito dall'idea pregiudiziale che il cristianesimo autentico, dal secolo XVI in poi, potesse essere ritrovato solo presso quei popoli che lo avevano, nel secolo XVI, con le loro correnti riformatrici, affrancato dalle deformazioni e dalle contaminazioni del romanesimo. Quei popoli, sempre secondo il Sismondi, avendo mercè la loro riforma recuperato le fattezze primitive e la purezza cristiana, avevano d'altro canto conservato in sé la capacità reviviscente di sbarazzarsi di volta in volta da ogni possibile recrudescenza pagana, mercè quella loro costante apertura ai movimenti di risveglio e di rinnovamento che caratterizzano tutte le confessioni evangeliche, dal metodismo al pietismo.

Il giansenista Tosi, mostrandosi con questo stesso già molto lontano da quello che era stato il fermento originario del giansenismo, ultimo tentativo cattolico di rivivere l'esperienza antropologica e carismatica di Sant'Agostino, credeva che non ci fosse altro da fare, per contrapporre alla insinuazione del Sismondi una salda apologia cattolica, che rivendicare l'altezza e l'efficienza pedagogica della morale cattolica.

Si sa con quanta petulante insistenza egli si facesse ad incoraggiare il Manzoni su questa via. E si sa con quanta riluttanza e con quanta recalcitrante pazienza il Manzoni assecondasse le ammonizioni del suo mentore indefesso e piuttosto indiscreto. Si sa pure come l'opera fu incompiuta. La seconda parte, preannunciata, non fu mai dal Manzoni condotta a termine. Non è senza dubbio l'opera piú cospicua del grande scrittore lombardo. L'apologia che egli fa della morale cattolica è in linea generale piuttosto pedestre e condiscendente. Il Manzoni si sforza di mostrare che la morale cattolica è l'unica santa e ragionata. Ma alla sua dimostrazione manca qualsiasi organicità e diciamo pure qualsiasi volo. Nulla, in tale dimostrazione, di quegli accenti eroici e paradossali che contrassegnavano, per esempio, nel medesimo torno di tempo, le rivendicazioni cristiane di un Kierkegaard.

Manzoni tende l'arco di tutte le sue forze dialettiche e spirituali per scoprire l'accordo fra la morale e la logica. Insiste nel porre in luce l'aspetto volontaristico della fede e naturalmente non manca di perspicacia e di finezza psicologica quando illustra le difficoltà che tanto il ricco come il povero possono nella loro rispettiva posizione trovare per accostarsi a Dio, o quando fa una disamina acuta e incisiva della dialettica che lega l'una all'altra le forme del male. Cosí pure non sono mai affette da banalità le pagine che egli dedica alla confessione auricolare, alla dignità delle prescrizioni cattoliche sul comportamento dei battezzati fra loro, quando pone eloquentemente in luce le benemerenze della morale cattolica al cospetto degli istituti familiari e sociali. Ma invano si cercherebbe in queste osservazioni manzoniane, come del resto si può dire senza alcuna ombra di denigrazione di tutte le opere dello scrittore lombardo, uno di quegli accenti audacemente vigorosi od uno di quei violenti battiti d'ala improvvisi e sollevanti, che dànno il sentore di rinnovamenti spirituali preludianti ai trapassi della tradizione cristiana nella storia. Eppure di questo, secondo il monito di Mazzini, avrebbe avuto bisogno l'Italia, perché quella costituzione a nazione che si veniva faticosamente effettuando nei primi decenni del secolo XIX fosse capace, come Mazzini sognava, non solamente di dare un'anima alla fusione delle membra disperse del popolo italiano, ma di infondere anche alla sua nascente nazionalità la possibilità di apparire come faro per tutte le genti cristiane.

Proprio nei primi giorni di quel 1832 che vedeva la rottura definitiva fra Lamennais e la sede romana, nella solitudine del suo San Cerbone nei pressi di Figline in Valdarno, il prete Raffaello Lambruschini veniva dettando, in una sua lettera ad un amico, un programma completo di rinnovamento cattolico.

Era nato circa quarantacinque anni prima a Genova ed aveva compiuto gli studi nel Seminario di Orvieto, dove un suo zio era vescovo. Deportato in Corsica all'epoca delle soppressioni napoleoniche, era vissuto brevemente a Roma, candidato ad una brillante carriera prelatizia presso le congregazioni romane. Me se ne era ritratto disgustato e si era spontaneamente esiliato nel suo eremo di San Cerbone, per dedicarsi ad una vasta opera pedagogica, sociale e religiosa, che fa di lui indubbiamente una delle figure piú cospicue del clero cattolico nella prima metà del secolo XIX, ben degna di figurare al fianco del Rosmini.

L'amico a cui egli rispondeva nei primi giorni del '32 gli aveva scritto in una lettera: «Se il cattolicismo si potesse sgombrare dagli accessori che gli sono estranei affatto e che lo contaminano; se se ne potesse lasciare intatta la vera sostanza; se tutte le novità desiderabili si potessero trarre dai principî cattolici come tante conseguenze legittime, nulla di meglio, essendo grandissime le difficoltà che si opporrebbero a chi volesse distruggere ciò che è fabbricato e riedificare di pianta».

La lettera di risposta del Lambruschini è un vero Programma dei modernisti prima del tempo. Per questo vale la pena di spigolarvi le dichiarazioni piú esplicite e piú significative.

Scrive il Lambruschini: «Non tutto nel cattolicismo è cattivo. Molte cose anzi sono, anche per me, sublimi, toccanti, immortali, perché fondate sulla nostra medesima natura. Dunque riforma e non distruzione del cattolicismo; comprendendo nel cattolicismo la religione cristiana quale Cristo l'ha voluta; intendendo cioè il cattolicismo in modo che se contiene da un lato tutto quello di cattivo e di sconveniente che le passioni degli uomini vi hanno intromesso e che merita appunto di essere riformato contenga ancora da un altro lato tutto ciò che di bello, di vero, di consolante, ha apportato agli uomini la buona novella di Gesù Cristo. Altrimenti, se per cattolicismo s'intendesse quella precisa parte della nostra Religione che costituisce le aggiunte e corruzioni fatte al cristianesimo, come molti spesso intendono, io sarei il primo a voler mettere da parte il cattolicismo, inteso cosí ristrettamente. Ma questa sarebbe una questione di parole. Teniamoci al primo senso lato, che abbraccia il buono e il cattivo, e ripetiamo, tanto per intima persuasione come per prudenza: riformare sí, distruggere no. Ebbene, la difficoltà comincia ora. Che cosa si deve riformare, che cosa lasciare qual è? Ora, su questo punto io penso che bisogna prima stabilire alcuni principi regolatori. Una considerazione sfuggita finora a tutti quelli che ho letto o con cui ho discorso, mi par che meriti di essere prima sviluppata qui. Si crede generalmente che una religione rimanga la stessa per questo, che si seguitano a predicare le medesime dottrine dogmatiche o morali e che le parti sostanziali del culto sono conservate. Quindi la religione cattolica, col suo simbolo niceno non alterato, con i suoi Sacramenti non accresciuti né diminuiti, con la sua messa poco o nulla dissimile dai tempi primitivi, si ha per la religione medesima, se non dei tempi apostolici, almeno dei tempi di Costantino. Ma non si è osservato che nelle dottrine teologiche e morali, come in ogni scienza qualunque psicologica, accade quel che avviene nelle scienze dei fatti cadenti sotto i sensi, cioè che si può andare lontanissimi dal vero non solamente asserendo un fatto falso od emettendone uno reale, ma anche, dopo aver osservato i fatti tutti, col solo mal coordinarli. I fatti della natura non ci palesano la loro vera importanza, e perciò la loro legittima e piena natura, finché noi non discopriamo il sistema generale di cui sono parti, lo scopo a cui tendono, l'uffizio che in quel dato sistema è loro attribuito. Non altrimenti, nelle scienze razionali e morali, noi tendiamo sempre a riferire ad un'idea dominatrice tutte le idee parziali; quell'idea primitiva determina l'importanza di queste, e la loro classificazione: se si tratti di dottrine che conducono a conseguenze pratiche, voi avrete, senza che nessuna idea dommatica sia accresciuta o diminuita, un insegnamento e una pratica del tutto differente, al solo mutare del vincolo che lega le idee dommatiche, cioè dell'idea generale a cui le subordiniamo, e da cui sono determinati il posto e il valore delle subalterne.

«Ciò è importantissimo ad osservarsi nell'educazione; lo è molto piú in religione. E riguardata sotto questo aspetto, bisogna riconoscere che la Religione Cattolica ha subìto parecchie trasformazioni senza alterarsi nelle sue parti; ch'ella ha sentito l'influenza dei diversi gradi dei lumi e della civiltà dei diversi secoli; che di queste trasformazioni di sistema o di spirito ce ne vuole (e se ne opera talvolta senza saputa di alcuno) una ad ogni mutare di idee e di bisogni sociali; che finalmente senza alterare la sua essenza, né le sue parti integrali, sviluppando anzi il germe di vita immortale che il suo autore le ha posto nel seno (cioè lo spirito di progresso), si può e si dee oggi trasformarla col solo bene scegliere l'idea generale e preponderante a cui tutte le sue parti devono essere coordinate. Prima di indicare questa nuova idea animatrice, io mostrerò quella che oggi giorno regola il sistema delle dottrine cattoliche, e farò vedere come essa ha prodotto tutto ciò che rende oggi il cattolicismo discaro. Questa idea madre è l'obbedienza al volere della divinità per averne un premio nella vita avvenire. Per alcuni questo volere è quello di una persona amata, per i piú è il volere di un padrone: in ogni caso è un volere posto fuori di noi, che ha ragione di sé in se medesimo, o che noi dobbiamo conoscere per mezzo dell'Autorità Ecclesiastica, interprete di esso, e dobbiamo eseguire sotto la doppia sanzione dei premi e delle pene. Quest'idea caratteristica si presenta nelle prime parole del Catechismo: – Per qual fine Iddio ci ha creati? Per servirlo, onorarlo, ed amarlo in questa vita, e goderlo nella gloria eterna. – Ecco il dominio, e il suo correlativo, la servitú; ecco Dio che fa tutto per sé, e l'uomo che opera per la mercede».

Cosí, riecheggiando molto probabilmente a sua insaputa quelle che erano le preoccupazioni immanenti dell'idealismo kantiano, la preoccupazione cioè di svincolare la morale da qualsiasi eteronomia e da qualsiasi finalità ritenuta eudemonistica, il Lambruschini additava quel che secondo lui era il vizio fondamentale della prassi e della concezione del cattolicesimo, la dipendenza cioè della nostra condotta da un comando esteriore, garantito e accompagnato dalla prospettiva di un guiderdone eterno nell’oltretomba. Egli, per suo conto, avrebbe voluto che il cristianesimo si riducesse – avrebbe preferito dire tornasse ad essere – una conformità morale e spirituale ad una legge di bene sgorgante dalle stesse esigenze piú intime del nostro essere umano, al di fuori e indipendentemente da qualsiasi mercede trascendente e da qualsiasi sanzione oltre la morte. Ancora una volta si sarebbe detto che l'orientamento dell'Illuminismo e del deismo si riflettesse nella speculazione del mite e solitario apologeta toscano.

In realtà, l'atteggiamento del Lambruschini era, sul terreno della esperienza religiosa e cristiana, sostanzialmente difforme da quello caratterizzato da tendenze illuministiche e kantiane. Istintivamente conforme a quelle che sono le note inconfondibili della nostra tradizione, Lambruschini vede morale e religione associate in una maniera del tutto diversa da come le aveva designate intimamente correlate la Critica della ragion pratica. Basta, per convincersene, tener presenti le definizioni e le descrizioni che il pedagogista toscano dà della religione. «La religione», egli scrive una volta, «è un affetto, è una conformazione interiore dell'uomo con la perfezione del suo Padre dei Cieli; è un'arcana comunicazione del nostro misero spirito con lo Spirito in cui viviamo, ci muoviamo e siamo. La credenza in Dio creatore dell'universo e cosí amante di noi da poter essere chiamato nostro Padre, è il pernio della moralità, è fede del tutto necessaria per dare al nostro animo sicurezza, pace e vigore. Il perfezionamento interiore dell'animo è lo scopo vero della religione, è come una legge volontaria, con cui la nostra libertà morale deve dirigere e condurre al bene, cioè al suo proprio benessere, la nostra natura».

Ma d'altro canto la preoccupazione di liberare la pratica morale e la coscienza religiosa da ogni visione finalistica di sanzioni ultraterrene fa pencolare automaticamente l'apologia religiosa del Lambruschini verso una forma trasparente di razionalismo stoico.

Egli, muovendo dal rimprovero fatto al cattolicesimo ufficiale di aver ridotto la religione ad una serie di comandi da eseguirsi, trae quelle che a parer suo sono le conseguenze funeste che son venute ad infirmare e a deteriorare la costituzione ufficiale della disciplina cattolica.

E le conseguenze son queste. Innanzi tutto la autorità che espone ed interpreta questi comandi della divinità, è tutto. La ragione di opera virtuosa e la ragione di colpa, è quasi tutta riposta nell'opera medesima: la volontà di Dio interpretata dalla Chiesa la determina per tale. La parte che vi ha luogo per l'avvertenza e la volontà è piú un requisito che la sostanza della cosa, è un requisito su cui in certi casi si sdrucciola molto leggermente. Di qui il peccato, come lo considera il teologo. Altra conseguenza è la concezione ufficiale del valore intrinseco dei Sacramenti, inteso come i teologi lo intendono, concezione che conduce a dispute ridicole sulla materia, sulla forma, e simili. Di rimbalzo una importanza eccessiva viene attribuita al dogma speculativo, con la mancanza di un mezzo qualsiasi per intendersi e per porre un termine alle dispute. Inconvenienti cotesti derivanti dall'attribuire una forza moralizzatrice all'idea quasi sempre inintelligibile racchiusa nel dogma puramente speculativo, per il fatto che la medesima volontà, la quale ci impone l'azione pratica virtuosa e ne fonda l'obbligo e il merito, ci impone pure la credenza in quella verità. Donde un sentimento indistinto di terrore e di servilità, sentimento potente che si diffonde in ogni parte del sistema religioso e che nel fatto annulla quello spirito di amore e di libertà, che pur si confessa essere lo spirito del Vangelo. Tale sentimento è necessariamente ispirato dalla idea dominante di un Dio padrone. Contemporaneamente nascono, dalla presupposizione della teologia ufficiale, un aborrimento ed una prescrizione delle cose terrene come se fossero opera di un genio malefico. Il che nasce dalla seconda parte dell'idea fondamentale, che cioè il premio di una vita a venire risulti esclusivo complemento della idea di Dio dominatore, per costituire il motivo della morale e della religione. Tutto ciò è conseguenza inevitabile dell'aver collocato le norme del bene operare del tutto fuori di noi, spogliandoci di un qualsiasi mezzo di osservazione il quale ci serva e di riscontro per confermare ai nostri occhi la verità delle dottrine rivelate, e di mezzo per intenderle rettamente.

E il Lambruschini conclude: «Ecco la ragione delle interpretazioni capricciose, strane, assurde del Vangelo; dell'accezione in senso proprio e stretto delle metafore e iperboli orientali; dell'estendere ai casi ordinari della vita di tutti, le cose dette per le situazioni straordinarie e soprattutto per la passeggera funzione dell'apostolato. Ecco le mille opinioni delle sètte, ecco le stolte esagerazioni dell'ascetismo che d'accordo con le sottigliezze teologiche, e con le passioni orgogliose dell'Alto Clero, ha snaturato la Religione di Gesù Cristo».

Nessuno potrebbe negare l'acuta profondità delle critiche che il Lambruschini muove a tutta l'impalcatura dottrinale della teologia cattolica, e nessuno potrebbe negare l'arditezza della sua visione. Ma in pari tempo è impossibile sottrarsi all'impressione che qui si incontrano e mal si fondono e si amalgamano punti di vista contrastanti e valutazioni superficiali della crisi che è avvertita alle radici stesse dello spiegamento cattolico nel mondo.

Il Lambruschini, mentre assegna senza esitazione le deficienze e le fragilità della sistematica cattolica ad una errata impostazione dei principî, riconosce che era fatale quanto si è venuto verificando nei secoli e cerca di additare la via di una evasione reintegratrice.

Egli scrive testualmente cosí: «Le circostanze del mondo, lo stato delle opinioni dominanti, il grado di civiltà, non permettevano forse che la Religione si concepisse in altro modo; non le avrebbero forse lasciato operare i salutari effetti che ella ha prodotto, se non era concepita cosí. Forse anche uno studio profondo e sagace della storia ecclesiastica (studio fatto in tutt'altra maniera da quella in cui è stato fatto finora) ci farebbe conoscere che questo general concetto della Religione, che oggi predomina, e che è si disacconcio ai presenti bisogni dell'umanità, non si è fermato di slancio, che si è modificato al mutare dei tempi; e che per questo motivo la Religione cristiana si è venuta sempre ringiovanendo e rinforzando. Ma per questo motivo stesso bisogna dire che la scelta di un'altra idea (fra quelle che la Religione ammette di già, e che anzi ha sempre ammesso) per illustrarla, per erigerla in idea primitiva e coordinatrice, e il trasformare cosí (senza punto alterarla) la Religione cristiana, e non solamente senza alterarla, ma sviluppando anzi piú perfettamente le sue forme divine, ritemprando a nuova vita il suo primo spirito, e dando una vasta e compita applicazione ai suoi principi costitutivi, una simile trasformazione è il vero bisogno del nostro tempo, è l'unico mezzo di richiamare gli uomini alla Religione, è l'adempimento delle intenzioni del divino promulgatore del Vangelo».

Qui veramente il Lambruschini era presago. Ma era altrettanto chiaroveggente nel proporre rimedi? In una lettera che fa séguito a quella dalla quale abbiamo ricavato i passi testè riferiti, il Lambruschini, avendo posto come principio basilare della nuova trascrizione del tradizionale bando evangelico, il concetto del Dio Padre invece del concetto del Dio padrone e sovrano, il concetto cioè del Dio di bontà e di misericordia il cui Regno è dentro di noi e la cui perfezione è proposta come ideale e come modello alla nostra perfettibilità, si fa ad esaminare lo sviluppo dell'atto morale e religioso, nell'anima illuminata da questo principio.

Ecco le sue parole: «Questi sono i caratteri della situazione veramente morale del nostro cuore e per conseguenza le condizioni a cui deve soddisfare ogni opera che voglia dirsi virtuosa. Il nostro animo è in una perfetta calma. Gusta una soavità mite, che lo avviva, senza turbarlo. Questa soavità non sazia. Egli conserva una limpida serenità di mente, e un'intiera libertà nell'esercizio delle sue facoltà; non si sente cioè trascinato suo malgrado a pensar sempre a un determinato oggetto; e si sente padrone di sospendere quell'opera che fa e che gli è cara. Non prova timore che il piacere da lui gustato nell'opera virtuosa gli manchi: ne gioisce senza sospetto. Anzi, ha il sentimento che quella soavità gli è dovuta. Di qualunque natura sia il sentimento virtuoso che lo compone nella situazione descritta, è sempre accompagnato (almeno indistintamente) da una propensione amorosa verso la Divinità, e verso gli uomini. Il nostro animo ha la coscienza di meritare l'approvazione della Divinità, e sente una viva fiducia nella sua assistenza. Sente di aver diritto alla stima degli uomini, e non ha difficoltà alcuna che si sappia l'azione che egli fa, e si scopra il sentimento che egli prova. Egli sarebbe pronto a rifare la stessa opera, a rieccitare il medesimo sentimento, perché non ne prova pentimento alcuno».

C'è da domandarsi se nel suo sforzo di saturare l'esperienza cristiana di libero e autonomo contenuto morale, il Lambruschini non sconfini in una visione autonomistica della moralità umana tale da avvicinarlo molto piú alle concezioni kantiane, che alle originarie fonti dell'esperienza carismatica della grazia cristiana.

Certo il Lambruschini si rivela ardito e spregiudicato nel modo di considerare i dogmi, come nella misura con cui giudica superati e umanamente inattuabili molti dettami della disciplina cattolica, a cominciare dalla legge celibataria del clero.

Quando, ad esempio, egli parla dei dogmi, una delle sue asserzioni capitali è che occorre assolutamente distinguere fra i dogmi che sono dottrine influenti sulla pratica e i dogmi i quali non possono entrare nella religione, se non come misteri destinati ad esercitare la fede propriamente detta. I primi, secondo il Lambruschini, non vanno ammessi per fede, ma per intima persuasione. Non devono essere oscuri né indeterminati. Debbono penetrarci dentro nell'anima, come un nostro profondo e caro convincimento. Il Lambruschini li chiama «dottrinali o direttori». Questi dogmi, destinati ad operare per la via della persuasione, e perciò tali da essere non creduti ma saputi, sono ben pochi. Essi sono ammessi da qualunque società religiosa, e appartengono alla vera essenza della religione. Il Lambruschini li riduce a quattro e li enumera cosí: «L'esistenza di Dio; l'essere la Divinità il supremo amore, la suprema sapienza, la suprema potenza, la suprema giustizia, in una parola l'essere il modello delle virtú; l'immortalità dell'anima umana; una qualche rimunerazione in una vita a venire».

Ci sono poi, secondo il Lambruschini, gli altri dogmi, i quali non possono essere buoni che ad esercitare la nostra fede, cioè i misteri. A proposito di questi il Lambruschini dice esplicitamente che «non va cercata la verità intrinseca da essi rappresentata, che all'uomo non giova nulla, ma l'atto morale della fede con cui l'uomo li ammette».

Dichiarazione molto larga e molto elastica che fa legittimamente calcolare qual man bassa l'abbate toscano fosse disposto a compiere nel dominio del tradizionale patrimonio dogmatico cattolico e al cospetto delle nuove definizioni dogmatiche che Roma a pochi decenni di distanza avrebbe emanato.

Vien fatto di domandarsi se quella conoscenza della storia ecclesiastica che il Lambruschini auspicava come propedeutica indispensabile ad una valutazione adeguata del significato delle lotte teologiche nei secoli della trasmissione cristiana, non sarebbe stata indispensabile anche a lui per una piú esatta e aderente considerazione del significato delle formule dogmatiche, nel complesso della vita ecclesiastica.

Ad ogni modo questa nostra rapida rassegna delle posizioni tipiche, assunte da alcune fra le figure piú in vista dell'età del nostro Risorgimento al cospetto del problema religioso in genere e del problema cattolico in particolare, crediamo possa essere piú che sufficiente a convalidare alcune nostre riassuntive conclusioni.

Ultima venuta nel novero delle nazioni europee aspiranti alla loro costituzione unitaria nazionale, l'Italia si trovava, in virtú della sua stessa secolare tradizione cattolica, nel piú arduo e delicato dei cimenti.

La tradizione cattolica la faceva predestinata irrevocabilmente ad un magistero ecumenico. In quale misura le idealità nazionali avrebbero inciso sulle sue potenzialità supernazionali, e di rimbalzo quale mai atteggiamento essa avrebbe potuto prendere di fronte alla Curia romana?

In ciascuna delle forti individualità delle quali abbiamo cercato di fissare l'atteggiamento religioso noi abbiamo creduto di scoprire che la saldatura fra idealità nazionali ed esperienza cristiana non riesce ad effettuarsi. E in linea logica non si poteva di fatto effettuare. Ogni soluzione avrebbe avuto carattere di provvisorietà e di precarietà: cosí la soluzione delle Guarentigie come probabilmente la soluzione concordataria. Si può mai estirpare dal cuore di un popolo educato da un millennio e mezzo di storia a vivere esso e ad impartire al mondo principî di universale fraternità nello spirito, il senso della supernazionalità di ogni genuina vita religiosa?

Gli Italiani aspiranti alla loro costituzione nazionale unitaria non avrebbero dovuto dimenticare che ci sono altissimi magisteri spirituali per mantenere i quali non c'è prezzo esorbitante. Mazzini, e solo lui, lo aveva capito. Si può essere a Roma senza idee universali e ci possono essere idee universali che non siano religiose, non religiose nel significato angusto e perituro di tradizioni codificate e farisaicamente vigilate, ma religiose nel significato solenne e trionfale di nuove realizzazioni nel mondo dei rapporti tra natura e spirito, tra finito e infinito, tra coscienza umana e luce prodigiosa della grazia e del perdono?

Ma era destino perfettamente logico e storicamente comprensibile che gli additamenti delle nuove vie dell'esperienza cristiana venissero dal paese che per primo aveva raggiunto nel passato in Europa una configurazione nazionale e che per primo aveva fatto dell'ecumenico messaggio cristiano un fattore, diminuito e vulnerato, delle sue circoscritte esigenze statali.

Alle origini, l'interpretazione universalistica del bando cristiano non era venuta dall'iniziale farisaismo di Paolo?

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