X L' IDEALISMO GERMANICO

Ci sono, nel linguaggio di popoli stretti fra loro dal medesimo còmpito di cooperazione alla creazione di una solidale civiltà, vocaboli cosí densi di sacrale virtú normativa, da imporsi, con la loro trascrizione da una lingua nazionale ad un'altra, senza alterazioni e senza deviazioni dal primitivo significato, quasi rappresentassero linee tendenziali e ceppi segnalatori in un cammino che non dev'essere smarrito e da cui non è consentita evasione.

Uno di questi vocaboli è nella nostra lingua italiana il vocabolo idealismo. Per quanto oggi ne possa essere stato stravolto il significato primordiale nel corrente linguaggio filosofico e culturale, non possiamo sottrarci all'impressione profonda che suscita nel nostro spirito l'analisi evocativa del valore iniziale ed embrionale dell'etimo di questo nostro vocabolo. È una delle parole classiche della nostra spiritualità mediterranea. Qualora essa avesse nell'uso corrente smarrito i connotati del suo primitivo conio, vorrebbe dire, e il fatto dovrebbe essere oggetto di lunga e accorata meditazione, che noi abbiamo abbandonato la classica direttiva di marcia della nostra tradizione spirituale.

Al primo suono del vocabolo ne riconosciamo immediatamente la etimologia ellenica: diciamo meglio, perché la sfumatura racchiude anche il suo profondo significato storico-psicologico, la sua etimologia ionica, da idéo che diventa eido nel dorico. Idea è pertanto, nella sua prima genesi idiomatica, l'aspetto esteriore di una realtà che si vede, che si coglie con gli occhi. Platone, volendo una volta esprimere la bellezza di un essere, la sua bellezza sensibile e appariscente, adopera precisamente l'inciso «bellezza, a norma della sua apparenza visibile». Ma la prima preoccupazione della nostra speculazione mediterranea, non appena essa albeggiò sulle coste ioniche, fu quella di ricercare, al di là delle apparenze sensibili, qualcosa di sostanziale e di costruttivo, che reggesse, come una impalcatura sensibilmente invisibile, ma spiritualmente percettibile, l'apparenza esteriore, la palpabilità superficiale.

Le indagini moderne hanno sempre meglio dimostrato come quella filosofia ionica che noi siamo abituati a chiamare naturalistica, fu tutt'altro che una nuda ed arida esplorazione di naturalisti, fu al contrario un progressivo tentativo di dare forma ideale e di ricavare una interpretazione ultrasensibile dal mondo, che si presentava ad occhi umani nella sua appariscenza esteriore, e di fronte a cui la spiritualità dei vecchi ionici delle coste anatoliche si prostrava ansiosa e curiosa, in un atteggiamento di venerabonda attenzione e di concentrata riflessione. Quei presunti naturalisti non erano che teologi, partiti alla ricerca di un nous di un logos, di un nomos, nella congerie tumultuosa e vorticosa dei fenomeni empirici. Quei filosofi ionici erano tutt'altro che naturalisti: erano semplicemente oggettivisti, negati a qualsiasi forma di soggettivismo. Perché, è bene proclamarlo a voce alta il piú possibile, la nostra tradizione filosofica e religiosa mediterranea è stata sempre, fin dai suoi primi albori, nettamente, imperiosamente oggettivistica. Il giorno in cui essa avesse cessato o stesse per cessare di essere oggettivistica, dovremmo riconoscere che noi avremmo rinunciato all'asse ereditario della nostra tradizione mediterranea.

Orbene: quel che ha accompagnato e caratterizzato in tutti i suoi stadi di sviluppo il cammino della speculazione ellenica, prima forma e viatico indeclinabile di tutta la speculazione mediterranea, è il passaggio dall'uso del vocabolo idea come designazione dell'apparenza esterna di una realtà, all'uso del medesimo vocabolo adoperato per designare la realtà profonda e trascendente di questa medesima realtà, apparsa dapprima ad occhi umani come sensibilmente afferrabile e sperimentabile.

Noi siamo nati nel mondo mediterraneo alla speculazione e alla religiosità quando, la prima volta, al di là delle apparenze sensibili, che non abbiamo però mai neppur lontanamente supposto preteribili o funzionalmente dipendenti dal nostro pensiero, ci sono apparse realtà trascendentali, raggiungibili, constatabili e definibili, attraverso un procedimento intimo e spirituale che non creava, ma avvertiva, non poneva, ma riconosceva. Tale procedimento è per Platone una reminiscenza, per Aristotele un'operazione ineffabile e misteriosa dell'intelletto agente. Ma né la reminiscenza, né l'intelletto poieticos condizionano il reale: ne sono piuttosto condizionati. Questo è il nostro idealismo mediterraneo: la posizione cioè di spirito di colui il quale, al di là del reale empirico, scorge e ritiene per eternamente sussistente un mondo di realtà trascendenti, che, in una foggia qualsiasi, è, di questo mondo empirico, la base prima, la sostruzione ultravisibile, il fondamento conservatore.

C'è poi un'altra forma di idealismo, ed è quello biblico, a norma del quale il mondo empirico, anziché retto da un mondo di realtà trascendenti, il quale impone al mondo fisico il decorso infallibile e regolare delle sue leggi e dei suoi scambievoli rapporti causali, deve piuttosto ritenersi sorretto da un intervento ininterrotto e sempre presente di Dio. In un passo memorando della sua prima lettera ai fedeli di Corinto, San Paolo, in continuità appariscente con la tradizione fideistica semitico-biblica, ammonisce i suoi corrispondenti di non essere increduli alla predicazione della resurrezione della carne. E l'argomento che egli adduce è che tutto, nel mondo fisico, dalla natura vegetale alla natura umana, tradisce permanentemente l'opera prodigiosa di Dio. Quando noi deponiamo nella terra, egli dice, la semenza del frumento, noi non facciamo altro che affidare all'azione provvidente e onnipotente di Dio gli elementi su cui egli opererà a suo modo. Che dalla semenza del grano nasca il grano, non è affatto il risultato di una legge inderogabile, è invece il risultato di un atto volontario di Dio. Allo stesso modo sarà il risultato di un atto volontario di Dio il nostro erompere dal dominio delle tenebre e della morte, il giorno in cui Dio verrà ad inaugurare il suo Regno trionfale, sulla nuova terra e sui nuovi cieli.

Per quanto, cosí, tradizione biblica e speculazione greca vedessero diversamente il rapporto fra il mondo trascendente e il mondo empirico, la prima facendo appello ad un miracolo permanente di Dio, la seconda appellandosi alle leggi infallibili del nous e del logos universali, entrambe però erano d'accordo nel ritenere che il mondo sensibile non fosse altro che la facciata esteriore e il fondamento palpabile di un processo trascendentale, al cui spiegamento presiedevano superiori realtà, che potevano benissimo essere metaforicamente chiamate idee, in quanto non erano che la trasposizione metafisica delle forme constatabili mercè la nostra virtú sensibile. Per secoli e secoli la cultura mediterranea si venne edificando su questi inconfondibili e indeclinabili presupposti. Per secoli e secoli, per millenni anzi, il nostro pensiero non decampò di un pollice da queste programmatiche posizioni preliminari. Mai si sognò neppure la piú lontana possibilità che il mondo reale fosse alla mercè delle nostre capacità cogitanti : queste piuttosto furono invariabilmente concepite e ritenute come attitudini mosse funzionalmente dalla realtà insopprimibile del mondo a noi estraneo, dell'altro da noi. Si poterono revocare in dubbio le nostre sensazioni della variabilità e del movimento; ci si poté domandare se la nostra percezione sensibile non avvertisse altro che le increspature superficiali di una realtà immobile e in se stessa immutabile, come sognarono sulla riva immensa del nostro Tirreno gli arditissimi speculatori della scuola eleatica. Ma anche in questo caso la speculazione mediterranea anelò alla definizione di una realtà assoluta ed infinita, contro cui dovessero risommergersi tutte le flessuosità superficiali del formicolante movimento cosmico.

Fu tanto inviolabile e inderogabile la posizione dell'idealismo oggettivistico, che dal mondo della speculazione, nel suo uso sempre piú vasto e universale, il termine idealismo venne a designare la posizione di spirito di chiunque sognasse, al di là del mondo sensibile ed empirico, un mondo di valori assoluti, per cui valesse la pena di immolare ogni giorno l'egoismo delle nostre basse aspirazioni e delle nostre velleità egocentriche.

Contro tutte le affermazioni del cosiddetto idealismo moderno, che è semplicemente la contrapposizione parodistica dell'idealismo classico mediterraneo, è ben giunto il momento di proclamare con la massima energia che il cristianesimo, lungi dall'avere sminuito, annullato e superato l'oggettivismo del pensiero greco anteriore, l'oggettivismo dei platonici, degli storici e dei tragici, lo assunse in pieno, lo ribadí in tutte le forme, lo applicò su piú vasta scala, possiamo anzi dire lo portò alla massima e piú violenta esasperazione.

Si suol dire che il cristianesimo è la rivelazione della intimità dello spirito, è la emersione della soggettività spirituale, è il riconoscimento della spiritualità del reale, a cui l'idealismo cosiddetto della filosofia germanica del secolo XIX incipiente avrebbe, dato il coloramento, con la discoperta dello spirito come storia.

Son tutte fatue e vane forme verbali. Il cristianesimo è il riconoscimento dell'intimità dello spirito proprio perché è la piú dura e violenta contrapposizione dello spirito al non spirito. Il cristianesimo è la sublimazione della personalità umana solo perché fa della personalità umana il risultato della sua piú audace e totalitaria negazione.

A norma del Vangelo, la spiritualità individuale tanto piú conta, quanto piú avverte e vive la sua dipendenza irresolubile, non solamente al cospetto dei valori trascendenti, bensí al cospetto dello stesso mondo empirico, cosí umano come extraumano, perché tutto nella vita è solidale e intercomunicante, tutto nella vita attende la reintegrazione finale del mondo superiore, che riassume la totalità dei valori e degli ideali: il Regno di Dio.

Nella preghiera classica dell'insegnamento evangelico il fedele di Gesù è stato tassativamente educato a non adoperare mai il pronome di prima persona singolare, ma a fare sempre ricorso a quello di prima persona plurale: noi, nostro, poiché solo nella collettività, anzi nella totalità della vita universa, misticamente intesa, è la pienezza dell'io.

L'idealismo cristiano pertanto è l'oggettivismo classico della conoscenza e della vita morale, portato alla piú energica e integrale espressione, come prostrazione permanente dinanzi alla figura di Quegli che ci è Padre.

Alla base di una tale posizione di spirito c'è un atto di fede cieca e assoluta, che non fa appello alla ragione se non per rinnegarla, che non fa appello alla libertà se non per sommergerla, che non fa appello al singolo io se non per farne omaggio al solo operatore di bene nell'universo, Dio Padre.

Sicché noi dobbiamo riconoscere che nell'odierno significato filosofico, idealismo è diventato precisamente il contrario di quel che fu l'idealismo nella concezione platonica del mondo, nella dottrina cioè che affermava e proclamava l'esistenza di un mondo ideale e trascendente, di cui il mondo empirico o sensibile non è che la copia impoverita ed il residuo edulcorato.

L'idealismo è diventato cioè il sistema nel quale la conoscenza o l'esperienza rappresentano un processo per cui i due coefficienti, il soggetto e l'oggetto, si trovano vicendevolmente in un rapporto di interdipendenza completa e totalitaria. Qualora si prescinda dall'attività del soggetto cosí nella reazione sensibile come nell'attività mnemonica, cosí nella capacità associativa come nella virtú fantastica, cosí nel giudizio come nella induzione e nella deduzione, non si dà alcun mondo oggettivo. Sicché una cosa in sé, che non sia cosa per una consapevolezza percettiva, è semplicemente inesistente, perché è un concetto contraddittorio. E d'altro canto anche il soggetto, indipendente dall'oggetto, è inconcepibile.

Noi non avremmo qui una particolare ragione di occuparci dell'idealismo germanico che ha avuto in Kant il suo corifeo e nella triade Fichte, Schelling, Hegel il manipolo dei suoi sistematori e risolvitori conseguenziari, anche se superficialmente insorti contro Kant, se questo idealismo, del resto con perfetta logica, non avesse preteso di giudicare e di interpretare il cristianesimo. Noi non avremmo ragione di farlo se, avendo creduto, illudendosi, di dare una forma definitiva alla cultura filosofica, questo pseudoidealismo non avesse cosí largamente e profondamente inquinato ed attossicato tutta la nostra spiritualità, da dare il palese contrassegno alla piena apostasia del mondo contemporaneo dalla tradizione cristiana.

Ci sono idealisti i quali vanno gabellando la loro forma mentale e la loro posizione spirituale come l'inveramento finale del cristianesimo. E non si accorgono, o mostrano di non accorgersi, nell'atto di mascherare la loro extracristianità, che la posizione fondamentale dello pseudoidealismo moderno, non solamente è per natura e per definizione difforme dalle basi stesse della tradizione cristiana e con esse incompatibile, ma è l'etichetta ufficiale della fuoruscita della nostra civiltà dal cristianesimo.

Noi abbiamo cercato già di mostrare come il primordiale atto di fede cristiana nel Padre inconoscibile e irraggiungibile condizionò e disciplinò per secoli l'evoluzione della spiritualità cristiana. Il cristianesimo, a norma dei suoi piú autentici rappresentanti antichi, fu e volle essere un fatto di natura extranozionale e tale rimase finché fu veramente operoso nel mondo.

Abbiamo tentato di chiarire come il cristianesimo do­minò negli spiriti fino al giorno in cui le stesse conquiste empiriche del Vangelo non indussero la riflessione teologale a cercare, in una dimostrazione razionale di Dio e in una propedeutica ragionata del dogma, basi all'edificio della collettività cattolica e curiale, diverse da quelle che avevano retto l'edificio della conquistante società ecclesiastica nei secoli aurei della Cristianità mediterranea. Noi abbiamo già veduto come le conseguenze di quella trasposizione ideale e mentale furono straordinariamente perniciose al successo e alla stabilità dei valori specificamente evangelici.

Agli albori della speculazione scolastica, Sant'Anselmo, col suo argomento ontologico, trasportò per la prima volta il centro dell'attività spirituale dal mondo esterno, mezzo e gradino indispensabile per ogni ascensione verso il mondo delle idee, nell'intimo della capacità cogitante dell'uomo, facendo del mondo reale una dipendenza, ideologica s'intende, del nostro mondo mentale. E abbiamo cercato di seguire il fatale andare di questa errata impostazione religiosa iniziale. Quando al tramonto del secolo XVIII l'apostasia progressiva del nostro mondo mediterraneo dalla pedagogia inconfondibile della propaganda cristiana si era andata appressando alla sua suprema consumazione, per confessare il proprio apogeo mascherandolo e camuffandolo onde renderlo irriconoscibile, tale apostasia assumeva, con una vera frode alla genuinità delle nostre tradizioni, il nome divenuto ormai menzogna di idealismo.

Già l'Illuminismo razionalistico, di cui abbiamo veduto le rovinose ripercussioni nella Francia del secolo XVIII, era insorto violentemente contro il soprannaturalismo tradizionale ecclesiastico e le sue pratiche conseguenze, abbattendo il vecchio dualismo di ragione e di rivelazione, ed annullando quindi potenzialmente qualsiasi dominio della rivelazione soprannaturale sulle espressioni civili e sociali della vita umana. Tale Illuminismo tendeva automaticamente ad una concezione immanentemente circoscritta della vita cosmica, basata sull'esercizio dei mezzi naturali di conoscenza, e sfociante in un ordinamento razionale della tecnica del vivere associato, al servizio di semplici finalità pratiche.

Ma l'Illuminismo tendeva inoltre automaticamente alla propria sistemazione ideologica e metafisica. Già Cartesio nell'ambito dell'esplorazione filosofica aveva riportato il centro di gravità, piú di quanto fosse stato mai fatto in precedenza, dal conosciuto al conoscente, dal mondo esterno dei fenomeni a quello intimo della coscienza.

Oltre Manica il pensiero inglese, istintivamente portato all'empirismo e alla praticità, aveva anch'esso affrontato il problema della conoscenza, iniziando col Locke quella tendenza inclinata a richiamare progressivamente dai fenomeni conosciuti all'attività conoscente la chiave di volta della filosofia, attraverso la dimostrazione che quelle che egli definiva le qualità secondarie delle cose, come odori, sapori e simili, non esistono nelle cose, bensí in noi, nella nostra soggettiva e circoscritta percezione. Berkeley dal canto suo aveva, da uomo di chiesa, continuato a battere il cammino aperto dal Locke, dimostrando che non solamente le cosiddette qualità secondarie, bensí anche le qualità primarie, quali l'estensione, la forma, il movimento, esistono unicamente nella nostra percezione.

Dal suo pensiero Cartesio aveva ricavato la certezza della esistenza. Nella percezione Berkeley concludeva il ciclo universale dell'essere, abbinando a questa disperata confessione dell'impossibilità di raggiungere una qualsiasi realtà delle cose, la fede in una partecipazione diretta da Dio delle percezioni sensibili, e quindi dell'idea del mondo esterno.

L'esse est percipi di Berkeley vale l'asserzione che nulla può esistere fuori della conoscenza, perché solo la conoscenza dà alle cose le qualità tutte necessarie alla esistenza. Traendo piú avanti le presupposizioni del Locke, Berkeley assevera: come non possono esistere rumori non uditi, odori non odorati, sapori non gustati, cosí l'estensione, la forma, il movimento non esistono in altro modo che nella conoscenza e attraverso la conoscenza che se ne ha. Nessun oggetto pertanto può esistere indipendentemente da un soggetto che lo conosca. David Hume, quegli che avrebbe rotto il sonno dogmatico nel cervello di Kant, andava ancora piú innanzi, e facendo saltare in aria la nozione stessa che aveva servito alla speculazione ellenica per erigere il suo sistema, la nozione cioè di causa, dava l'ultimo tocco alla costruzione dell'edificio dell'idealismo soggettivistico.

Secondo Hume le cose non presentano che una indifferente e extranormalizzata successione di eventi. La causalità non è in esse: è al contrario una nostra associazione mentale, che proiettiamo e inseriamo nella catena dell'apparente successione delle realtà.

Il processo della riduzione dell'oggetto al soggetto era cosí completo. Noi viviamo in un mondo precario, labile e inconsistente, di nostri collegamenti mentali, a cui manca qualsiasi fondamento reale e spoglio di qualsiasi adesione sostanziale all'altro da noi. Era il dominio dell'arbitrario e del relativo. Kant, col proprio idealismo trascendentale, doveva dare a questo idealismo soggettivistico la sua traduzione critica.

Ma prima di procedere oltre in una rapida delineazione del sistema kantiano, e soprattutto delle sue postulazioni religiose per valutarne la compatibilità o meno con le basilari posizioni della tradizione cristiana, non sarà male premettere un rilievo che ci sembra di cospicua importanza.

Quando si contrappone l'idealismo moderno al cosiddetto oggettivismo antico, quando soprattutto si pone di fronte all'idealismo critico la gnoseologia tradizionale aristotelico-scolastica, si suole molto comunemente dare a credere che l'oggettivismo antico prescindesse da qualsiasi apporto effettivo e sostanziale della nostra capacità cogitante alla costituzione del nostro pensiero metafisica, quasi questo oggettivismo presupponesse crudamente e nudamente che la nostra conoscenza è una riproduzione meccanica della realtà esteriore. Il che è semplicemente un assurdo. La gnoseologia tradizionale, da Aristotele a San Tommaso, non ha mai negato che la capacità cogitante dell'uomo sia, per una parte considerevole, nella costituzione del nostro pensiero metafisico. L'intelletto agente, nell'insegnamento aristotelico-scolastico, ha una funzione discernente e discriminante nel fascio delle esperienze sensibili, senza la quale la costituzione e la delineazione delle idee universali, di quelle idee cioè che costituiscono e condizionano la vera conoscenza scientifica, sarebbero letteralmente impossibili. Ma nella tradizione gnoseologica quel che è caratteristico è la saldatura, è la continuità fra il mondo reale e il mondo ideale; è la elaborazione intima, nel foro dell'umano pensiero, di tutto un materiale grezzo, acquisito di su il mondo esterno, attraverso la percezione sensibile. Il pensiero è in funzione del mondo, non il mondo in funzione del pensiero. Il che non limita e non disconosce affatto quel che lo spirito pensante pone di suo nell'atto della conoscenza metafisica.

Tanto è giusto e opportuno ricordare, perché si possa individuare equamente la posizione genuina di Kant nella linea di sviluppo della spiritualità e della speculazione contemporanea.

Ci si può in linea pregiudiziale domandare se si sarebbe mai giunti a quell'esplicito riconoscimento della capacità creatrice del pensiero, a quella identificazione della realtà con lo spirito, e dello spirito con la storia, che rappresentano i tratti differenziali dell'idealismo moderno, senza la preliminare proclamazione fatta dalla riforma che la giustizia e la salvezza sono il risultato irresistibile ed immancabile del nostro atto di fede. La transizione normale delle rivoluzioni spirituali non è quella che passa dal dominio dell'etica e della religiosità al dominio della speculazione e della metafisica?

Sta di fatto che, per una singolare convergenza di indirizzi e di orientamenti spirituali, in Emanuele Kant sono venute ad incontrarsi le esperienze del pietismo, tutto pervaso di infiltrazioni calvinistiche, e gli atteggiamenti fondamentali dell'esperienza luterana. Sotto la pressione e attraverso l'esercizio di una formidabile capacità speculativa, educata a tutte le sottigliezze dell'Illuminismo razionale da Cartesio in poi, questa fusione di elementi religiosi e teologali si è trasfigurata nella dottrina cosí intrinsecamente contraddittoria del maestro di Koenigsberg.

Perché effettivamente non ci si può sottrarre all'impressione che posizioni tipicamente e insanabilmente in contrasto si scontrino e si incrocino nella grande costruzione kantiana. Nulla del resto di sorprendente in tutto ciò. Noi abbiamo già visto, fin dall'epoca di Sant'Agostino, che nell'alveo di sviluppo della speculazione mediterranea o interferente con la mediterranea, le contraddizioni sono inevitabili. Soltanto si deve riconoscere che ve n'ha di salutari: quelle che contrassegnano il movimento ascensionale del pensiero; e di depauperanti: quelle che contrassegnano la parabola discendente.

C'erano state contraddizioni in San Tommaso, nel suo equilibrio instabile fra la dialettica aristotelica e la mistica cristiana. Maestro Eckehart era stato la prima vittima di queste contraddizioni. C'erano state contraddizioni in Lutero, in lotta fra il sacramentalismo medioevale e il personale messaggio della salvezza per fede. Nulla di anormale nel fatto che anche Kant fosse una specie di Giano bifronte, tra il realismo tradizionale, e l'estremo spiritualismo soggettivista alla Berkeley e l'estremo sensismo relativista alla Locke e alla Hume.

In verità il còmpito a cui Kant sentiva di doversi accingere, aveva qualche cosa di titanico: ricavare dalla frammentarietà incongruente e disparata delle posizioni filosofiche individualistiche, la saldezza e l'unità della filosofia critica. «Quando fra diversi uomini», egli ha scritto una volta, «ciascuno ha il proprio mondo, è da presumere che essi sognino». Come trarli via da questo sogno, come destarli? Come ridurre la molteplicità di questi mondi sognati all'unità di un mondo vitalmente posseduto? È l'eterno problema della disciplina spirituale della vita associata. È il problema che a distanza di un secolo e mezzo circa dalla morte di Kant cerca ancora la sua soluzione. Potremmo dire che la cerca piú ansiosamente che mai, perché né il criticismo kantiano, né le forme idealistiche in cui esso venne rapidamente a sboccare, hanno dato all'esperienza associata degli uomini la possibilità di trovare in se stessa centri di inibizione capaci di frenare quegli istinti belluini che sono, molto piú del male radicale che Kant individuava in ogni essere umano, il male radicale della collettività umana in cammino. Strano, paradossale risultato: si direbbe che le estreme forme del cosiddetto idealismo spiritualista non abbiano fatto altro che costringere vieppiú la vita associata degli uomini a cercare i suoi centri di inibizione e la sua disciplina nei mezzi meccanici ed empirici delle burocrazie statali, anziché in quelle forze imponderabili sgorganti dalla coscienza mistica della sacralità che investe e avviva i rapporti scambievoli fra gli uomini.

L'unica possibile forma di reazione al dissolvimento pulviscolare della filosofia relativistica del sensismo e dell'idealismo di Berkeley, sarebbe stata una reviviscenza e una riconquista della tradizionale visione cristiana: il rapporto diretto con l'azione di Dio operante nel mondo, visione che, unica, permette di rimbalzo di garantire alla subordinata presa di possesso filosofica del mondo condizioni di stabilità e possibilità di universale applicazione. Perché sempre, quando le tendenze filosofiche hanno compiuto il ciclo della loro funzione normativa come sistemazioni cristallizzate di una fede passata dalla fase della conquista alla fase del successo ecumenico, la filosofia non può trovare in se stessa la propria virtú di resurrezione e la propria rinascita. Occorre che una nuova eruzione di religiosità predialettica e di esperienza sacrale del mondo e dei suoi valori le ridiano materie incandescenti, su cui essa possa esercitare le sue possibilità e la sua perizia di forgiatrice e di schematizzatrice.

Kant non seguí questa via. Qualcuno fra i suoi contemporanei tentò di batterla per proprio conto: Schleiermacher. Ma il tentativo di questi era troppo cattedratico, teoretico, astratto, e per questo stesso troppo superficiale e incompiuto, perché potesse riuscire efficacemente e universalmente normativa. D'altro canto neppure la posizione di Emanuele Kant rappresentava l'ultimo sbocco possibile della filosofia che era partita alla conquista e all'assorbimento delle istanze specificamente religiose. Come Lutero ai suoi tempi si era trovato in una situazione singolarmente contraddittoria, fra la tradizione ecclesiologica del Medioevo e l'esperienza personale della salvezza imputata; come il duro e aspro sassone, pur nella iraconda e oltracotante violenza polemica contro Roma, era stato incapace di superare di colpo tutte le presupposizioni della disciplina sacramentale romana, e si era, per esempio, arrestato esitante di fronte alla capitale dottrina eucaristica, accettando la presenza reale ma non la dottrina sacrificate del Sacramento eucaristico e della transustanziazione, per non riammettere di straforo l'azione infallibile del ministro del Sacramento; cosí, a tre secoli di distanza, il prussiano di Koenigsberg, costretto, si direbbe, dalla stessa ineluttabile logica dell'evoluzione della spiritualità germanica, avrebbe cercato affannosamente di salvare la fede in un Dio trascendente e in un mondo noumenico inattingibile e misterioso, a dispetto dei suoi postulati critici che facevano l'intelletto e la ragione arbitri del loro mondo percepito e conosciuto.

Noi non dobbiamo qui entrare in una analisi specificamente filosofica del criticismo kantiano. L'evoluzione piú recente della filosofia, specialmente in Italia, sta compiendo magistralmente tale analisi. Il procedimento iniziale della critica kantiana, è stato fissato in una maniera che non si potrebbe immaginare piú graficamente lucida e incisiva: «Sul fatto, che Kant riteneva constatato, della inesistenza della scienza metafisica (non era scienza per Kant quella metafisica che esisteva, perché era diversa da pensatore a pensatore), egli fondò il diritto di invitare i metafisici a sospendere il loro lavoro, fino a che egli, Kant, non avesse risoluto il problema del come fosse possibile la scienza metafisica (filosofia prima, cioè filosofia senz'altro). E siccome – ecco almeno due cose in cui egli, Kant, pure andava d'accordo con i metafisici che diffidava – la scienza metafisica è la scienza; e la scienza, per essere conoscenza pura ed assoluta, deve essere fatta dalla ragione pura, che non attinga al fatto, suscettibile di mutamento, la necessità immutabile della scienza; il problema del come fosse possibile la scienza metafisica divenne una Critica della ragion pura, cioè un esame del come la facoltà pura del conoscere fosse capace di scienza. In questa impostazione del problema, Kant incorse in tre inesattezze fondamentali. La prima fu una dimenticanza. Dimenticò che egli stesso, Kant, aveva fatto prima della scienza (tutti sanno che egli cominciò col fare della cosmologia fisica), poi della metafisica, ed infine aveva istituito questa critica della facoltà della scienza; dimenticò in breve che la scienza non si fa senza lo scienziato, e cosí l'esame critico di tale facoltà della scienza non si fa senza colui che tale critica istituisce, sviluppa, conclude. Dimenticò sé e quindi – non sembri strano il passaggio – dimenticò me: dimenticando sé, fattore di scienza e istruttore di critica, dimenticò i soggetti, gli io, senza dei quali non si fa né scienza né critica. Questa dimenticanza non poteva non rendere astratta la sua filosofia critica: la critica voleva essere una critica fatta da nessuno, proprio per essere critica assoluta. La assolutezza quindi era soltanto impossibile astrattezza della ragione che criticava se stessa. La seconda fondamentale inesattezza, nella impostazione di questa critica della facoltà pura del conoscere, fu il presupporre il concetto del conoscere, per il quale, in base ad un gratuito dualismo, il conoscere è separato dall'essere (realismo). Terza inesattezza è il circolo vizioso fra la scienza, che Kant ammetteva di fatto, già fondata ed esistente, e la critica, che egli ammetteva come, di diritto, fondatrice della scienza».

Ma l'aver dimenticato i soggetti, gli io, nella istituzione della critica, non era che un aspetto di questo oblio radicale dell'altro da sé nella costituzione della spiritualità pensante, che Kant, inconsapevolmente, aveva ereditato, come ultima distillazione e decantazione della individualistica creazione della giustizia, attraverso l'atto di fede di luterana memoria. Il medesimo oblio noi lo troviamo, con conseguenze piú palesemente funeste, nella filosofia religiosa kantiana; in quella filosofia kantiana che oggi taluno reputa compatibile con il cristianesimo e che tradisce invece tutti i connotati di una vera e propria evasione dai valori e dalle posizioni tipiche e inconfondibili della rivelazione e della tradizione cristiane.

Le tappe salienti della esperienza e dell'insegnamento di Emanuele Kant sono state già da tempo nitidamente e definitivamente fissate. Al momento scientifico, piú che altro fisico, che si svolge dal 1747 al 1756, segue il passaggio alla metafisica, che dura fino al 1764. Siamo ancora in piena temperie leibniziana, come Kant stesso riconosce. È del 1763 quell'operetta Der einzige mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, in cui Kant manifesta il crescente bisogno di uscire dall'alveo della precedente metafisica, per arrivare alla conoscenza del primo principio, e di cercare una nuova via che non sia quella che ha trascinato nei suoi errori il vecchio razionalismo dogmatico, simile ad un fuoco fatuo. Il problema della dimostrabilità di Dio è sempre piú apertamente al centro delle preoccupazioni kantiane. Nell'atto stesso di voler trasvolare al di là dei vecchi metodi metafisici, Kant, anziché riconoscere l'insondabilità del mistero divino, in che è l'essenza dell'atto di fede già troppo violata e disconosciuta dalle consuetudini dialettiche della Scuola, cerca la dimostrazione di Dio, criticando le vecchie dimostrazioni. Le principali istanze della critica della ragion pura sono già qui preconcepite e accennate. Kant nega che si debba spiegare che da qualche cosa, come da fondamento reale, ne sgorghi un'altra; ma si tratta secondo lui di accertare che qualche cosa deve rappresentare un fondamento reale ed assoluto. Bisogna dimostrare non l'esistenza della causa o di una causa prima, grandissima e perfettissima, ma dell'Essere supremo fra tutti. Si deve dimostrare non l'esistenza di uno o piú di essi, bensí l'esistenza di uno unico. E non già con ragioni puramente verosimili e probabili, ma con l'evidenza e precisione matematiche; e già in quest'operetta sono prefigurate le confutazioni che nella Critica della ragion pura Kant istituirà delle prove tradizionali dell'esistenza di Dio. È difficile dire in qual misura l'asserzione kantiana contenuta in questa operetta («la esistenza è la posizione assoluta di una cosa, e in questo differisce da ogni predicato, che come tale è posto sempre in rapporto ad un'altra cosa») si diversifichi dall'argomento ontologico di Sant'Anselmo, di Cartesio e di Leibniz, che, come si sa, Kant esplicitamente ripudia. Probabilmente è da ritenersi che tale ripudio scaturisca unicamente dal fatto che la posizione di Kant è fondamentalmente diversa da quella dei precedenti assertori dell'argomento ontologico. Per questi il mondo era prepotentemente là, di fronte al loro pensiero, nell'atto stesso in cui facevano del pensiero l'autarchica dimostrazione di Dio, mentre per Kant, fin da questo momento, vi è già potenzialmente la posizione di riconoscimento della capacità creatrice del pensiero stesso, anche sul terreno della conoscenza trascendentale; quella posizione che dopo un decennio di intima e laboriosa maturazione troverà la sua solenne e grandiosa formulazione. È del 1770 la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, in cui per la prima volta la critica kantiana pone le sue posizioni basilari: la concezione dello spazio e del tempo come intuizioni a priori, che costituiscono il sentire e non appartengono alle cose nella loro intima essenza, e la dottrina delle categorie. La Critica dalla ragion pura verrà undici anni piú tardi ad inaugurare la grande trilogia, con le due Critiche susseguenti: Critica della ragion pratica e Critica del giudizio. Kant le pubblica fra i suoi sessanta e settanta anni. Era naturale che il filosofo di Koenigsberg coronasse la formidabile costruzione del suo edificio metafisica con quella opera, La religione entro i limiti della sola ragione, che, dal punto di vista religioso, non è soltanto, si potrebbe dire, il suo testamento personale, ma è il testamento di tutta l'età illuministica.

Kant ha avuto chiarissima, possiamo quasi dire presuntuosamente chiara, la sensazione della importanza della sua posizione critica. Da quando il pensiero europeo, diciamo meglio mediterraneo, aveva tentato le sue prime formulazioni, dagli albori cioè della speculazione ionica, la nostra cultura aveva costantemente ed invariabilmente posto, l'uno di fronte all'altro, l'oggetto pensato e il soggetto pensante. Aveva per secoli e secoli, attraverso le piú eterogenee scuole, esercitato e aguzzato le sue possibilità indagatrici per scoprire in qual maniera la nostra percezione e la nostra riflessione captassero il reale. Il problema del vero non era mai apparso altro che il problema della adeguazione fra conoscente e conosciuto, fra soggetto e oggetto, fra io e non io. Religione e filosofia si erano date costantemente la mano per discernere la sfera in cui lo spirito attinge l'altro da sé in atto di comunicazione extraconoscitiva e sacrale, e la sfera in cui lo spirito attinge l'altro da sé attraverso il veicolo della percezione sensibile e della trascrizione concettuale. Parecchie volte la speculazione universalistica aveva tentato di conglobare in sé e di trascrivere in proprio l'attingimento mistico del reale sussistente. Ma la pura speculazione metafisica tende, si direbbe sospinta in una maniera suicida, a divorare e a distruggere i frutti del proprio travaglio. Il sensismo aveva negato qualsiasi consistente ponte di passaggio fra la realtà e le nostre raffigurazioni categoriali. Kant, per primo nella storia del nostro pensiero, egli non mediterraneo, presumeva audacemente di rivelare la fonte prima dell'assolutezza del nostro pensiero metafisica, scoprendone le leggi infallibili nella stessa attività creante dello spirito che pensa. Egli stesso parlava per questo di rivoluzione copernicana nel mondo della filosofia.

Non è piú, secondo lui, il soggetto che rispecchia l'oggetto e che ad esso si conforma. La distinzione tra soggetto e oggetto è fenomenologica e illusoria. L'oggetto è formato, costruito, creato dal soggetto nell'atto di pensiero piú puro che sia immaginabile, antecedente ad ogni esperienza, unificante sinteticamente tutti i conoscibili. Ogni oggettività che l'individuo singolo esperimenta, però, non deve ritenersi che abbia la sua radice e il suo fondamento unicamente nella sua coscienza individuale. La coscienza individuale non fa che rivelarla. L'oggettività ha la sua sostruzione in una attività superindividuale che pone tutti i prodotti dello spirito in un complesso di rapporti determinati. Kant chiama questa attività superindividuale appercezione trascendentale e coscienza in generale. Ma ecco qui la prima grande contraddizione di Kant, la contraddizione kantiana, che sarà risolta dalle successive correnti dell'idealismo germanico. L'altro da noi, dal mondo empirico al mondo noumenico e a Dio, non rappresenta che una proiezione dello spirito pensante fuori di sé: cosí le correnti posteriori a Kant. Per Kant invece se da un lato lo spirito pone le forme del senso e dell'intelletto, dall'altro da sé qualcosa riceve: vale a dire il caos indistinto delle impressioni sensoriali che provengono dalla oscura fonte del mondo noumenico. Tali impressioni però sono prive di significato e di forma, materia amorfa e opaca, su cui soltanto il soggetto esercita la sua capacità apportatrice di luce e di calore. La sintesi a priori kantiana vuole indicare appunto questa attitudine del soggetto a disciplinare e a schematizzare l'oggetto. Ma come sarà mai possibile la sussunzione delle intuizioni empiriche da parte dei concetti puri, al cospetto dei quali esse sono del tutto eterogenee? Kant risponde: «Deve esistere una terza cosa, omogenea da un lato con le categorie e dall'altro lato col fenomeno. Essa sola può rendere possibile l'applicazione delle categorie al mondo fenomenico». Kant la chiama schema trascendentale. «Schema di un concetto è la rappresentazione di un processo universale mercè cui la immaginazione conferisce a tale concetto la sua immagine».

Ci sarebbe da domandarsi se in questa descrizione kantiana dello schema trascendentale non c'è, in altri termini, qualcosa che fa pensare all'azione dell'intelletto agente aristotelico. Ma evidentemente il quesito non può neppure porsi solidamente, perché già nella speculazione kantiana il fatto dei nostri rapporti col mondo esteriore è concepito in una maniera preliminarmente incompatibile con la tradizionale foggia di impostare, a norma della tradizione mediterranea, il problema del rapporto tra conoscenza umana e mondo conosciuto.

Sta di fatto che pure ammettendo non arbitraria ma conforme a certe leggi la funzione creante del soggetto che pensa, pure riconoscendo nello spazio e nel tempo per il senso, nelle categorie per l'intelletto, nelle idee per la ragione, maniere di esplicarsi non di questo o quel soggetto individuale e concreto, ma della soggettività in genere, Kant non avrebbe mai chiamato queste leggi oggettive se non nel senso che sono universalmente uniformi. Mentre a norma della gnoseologia e della antologia tradizionali mediterranee, le forme spaziali e temporali come le categorie metafisiche, pure rappresentando forme alle quali la nostra attitudine conoscitiva reca l'apporto di una sua capacità universalizzatrice, trovano un fondamento nella realtà, in quel che la realtà ha di specificamente tipico e vicendevolmente associabile.

Ai fini però della nostra esposizione, che non mira ad una ricostruzione e ad una rivalutazione puramente filosofica del pensiero kantiano, ma che vuole collocare la comparsa del sistema di Kant nel piano di sviluppo della spiritualità cristiana moderna, noi dobbiamo piuttosto proporci un altro quesito: in che modo cioè la religiosità kantiana, quale emerge dalla sua speculazione, deve essere considerata, posta di fronte alle posizioni centrali della tradizione cristiana.

Crediamo che per affrontare e risolvere tale quesito convenga attribuire un'importanza maggiore di quanto non si soglia comunemente ad una prolusione, tenuta da Kant nell'inverno del 1759 iniziando uno dei suoi corsi come magister legens a Koenigsberg, e pubblicata col titolo Versuch einiger Betrachtungen über den Optimismus. Il disastro di Lisbona del 1755 aveva imposto all'Illuminismo dominante da un confine all'altro dell'Europa colta il problema, sempre attuale, della conciliabilità dell'esistenza del male con la onnipotente bontà e sapienza di Dio. Il medesimo problema che aveva indotto Voltaire a riprendere in esame le sue prime avvisaglie contro il pessimismo pascaliano, induceva Kant a consacrare al problema del male nel mondo il suo corso universitario. E Kant si professa nettamente, irriducibilmente ottimista. Il ragionamento kantiano, di cui bisogna tenere il massimo conto perché trapela qui una posizione di spirito che non fu mai piú abbandonata e che probabilmente pervade tutta la meditazione del filosofo di Koenigsberg intorno agli ultimi fini dell'universo e alle possibilità che essi siano automaticamente attuati, parte dai seguenti presupposti. Non si può pensare che l'idea del mondo presente in Dio al momento della costituzione stessa del mondo, non sia stata l'idea del mondo piú perfetto possibile. Altrimenti noi saremmo costretti a supporre un mondo migliore di quello che Dio ha pensato, il che è incompatibile con la certezza assiomatica che Dio non può non rappresentarsi tutti i mondi possibili. D'altro canto, si deve necessariamente ritenere che il mondo piú perfetto possibile non può essere che uno solo. Se fossero piú di uno, sarebbero distinguibili l'uno dall'altro non sulla base della qualità, che non può essere distinguibile dal momento che i mondi sono ugualmente perfetti, bensi per la loro grandezza, sulla base cioè del diverso livello di realtà attuata, il che verrebbe a negare il presupposto della loro uguaglianza. Ora, questo mondo perfettissimo, anzi il piú perfetto possibile, noi dobbiamo dire che è precisamente quello che fu posto in atto da Dio; altrimenti si incorrerebbe nella conclusione che nella costituzione del mondo Dio non ha scelto il mondo migliore, ma un mondo inferiore; e ciò ripugna assolutamente alla sapienza e alla bontà di Dio.

Dopo di che Kant si dilunga a ribattere l'abbiezione di alcuni, secondo i quali il concetto di un mondo piú perfetto fra tutti i mondi possibili è un concetto contraddittorio, né piú né meno che il concetto del numero piú grande fra tutti i numeri. Secondo questi obbiettanti, come al totale delle unità di un numero si possono sempre aggiungere altre unità, cosí alla somma globale delle realtà di un mondo è logicamente consentito aggiungere sempre altre realtà. Kant risponde: «La nozione di un numero grandissimo finito è una nozione astratta di una molteplicità finita. A questa molteplicità si può sempre supporre aggiunto qualche elemento, senza che la molteplicità stessa finisca di essere finita. In questo caso la grandezza non ha limiti circoscritti, ma piuttosto indeterminati. Non può quindi ricevere quale predicato il superlativo della grandezza. Tutt'altro è il caso del livello di realtà in un mondo. Qui v'è qualche cosa di determinato. I confini imposti alla perfezione maggiore possibile di un mondo sono fissati e determinati in una data misura. Perché ad esempio la indipendenza, l'autosufficienza, l'onnipresenza, la virtú creatrice, sono perfezioni che non si possono in alcun modo attribuire a qualsiasi mondo. In questo caso non si verifica quanto si verifica nella infinità matematica, dove il finito si approssima e si fa contiguo con l'indefinito, mercè il progressivo accrescimento sempre possibile. Qui invece la differenza tra realtà infinita e finita, sul fondamento di una determinata e determinante grandezza, è irrevocabilmente fissata».

Kant non si dissimula neppure l'altra obbiezione, che si può fare, alla visione ottimistica del mondo: l'obbiezione, cioè, ricavata dal fatto che se il mondo posto in atto da Dio è il migliore dei possibili e non avrebbe potuto non essere il migliore fra i possibili, Dio non è stato libero nel porlo. Però la risposta di Kant a questa obbiezione non è e non può essere piú caratterizzata da quella matematica chiarezza, che accompagna la precedente risposta. Qui Kant avverte le formidabili difficoltà che accompagnano il voluto ottimismo al cospetto di un mondo in cui il male dilaga prepotentemente da ogni parte. Il suo istinto molto piú filosofico che religioso lo porta, come portava contemporaneamente Voltaire, ad una conclusione ottimistica pur che sia. Non senza esitazione, che egli vince però optando per una visione atta a lasciar placata la sua esigenza metafisica, confessa: «Se debbo assolutamente far cadere la mia scelta fra posizioni ugualmente erronee, io preferisco quell'alternativa necessaria in cui ci si può bene adagiare, e dalla quale non può ricavarsi che il meglio. La stima della mia esistenza si fa tanto piú alta quando io reputi di essere stato scelto ad occupare un posto in un mondo che non potrebbe essere migliore. Spazi e tempi incommensurabili si dischiudono agli occhi di chi tutto contempla e di chi riconosce e valuta le ricchezze della creazione in tutta la loro immensa distesa. Io, dal punto in cui mi trovo, fornito della visione che è concessa al mio fragile intelletto, riguarderò per quanto mi è consentito intorno a me, addestrandomi sempre piú assiduamente a ritenere che questo mondo è il migliore dei mondi possibili, e che tutto è bene, in vista del tutto».

È la fondamentalmente ottimistica tradizionale concezione del male come deficienza di essere e di bene colmabile nell'illimitato equilibrio della totalità universale. Manca qui completamente il senso tremante dell'agonia cosmica e del travaglio universale per il raggiungimento di una pace e di un equilibrio che trascendano, per virtú di un prodigioso intervento di Dio, di quel Dio che anche attualmente agonizza nella agonia universale, le illogicità e le iniquità del tempo presente; il senso che è tipico della religione. Il vecchio ottimismo della speculazione scolastica era insediato anche qui al fondo primo della visione kantiana dell'universo. Si comprende come in questa disposizione di spirito che rimane e rimarrà inalterabile in Kant, le sue enunciazioni religiose e le sue interpretazioni delle posizioni cristiane non potessero fare altro che tendere ad assommarsi in una visione finalistica, sgombra di qualsiasi postulazione sboccante nella fede della rivelazione e della grazia.

A distanza di un quindicennio, in una lettera del 28 aprile del 1775 a Giovanni Gaspare Lavater, Kant poneva già in embrione i dati della filosofia religiosa che sarebbe stata poi ampiamente spiegata nelle tre opere classiche della sua Critica trascendentale. Kant si rivela perfettamente consapevole della impossibilità radicale di ricavare una qualsiasi apologetica valida della religione dell'esercizio delle pure e semplici capacità teoretiche. Il suo Illuminismo è tutto pervaso da intenti prammatici e da consapevolezze morali. Egli avverte, nella sua fine acutezza, il carattere fatalmente areligioso di una «religione» che sia conseguita per vie astratte, per mezzo di puri procedimenti dialettici. In questa lettera insistentemente addita la fonte della religione nelle esigenze e nelle postulazioni della coscienza morale. La dogmatica e la disciplina esteriore, secondo lui, non sono altro che l'impalcatura eretta a sostenere i fianchi dell'edificio morale che sorge lentamente e faticosamente in grembo alla esperienza spirituale degli uomini. Quando l'edificio sia compiuto, la impalcatura si abbatte senza danno. Ma quando mai l'edificio sarà compiuto e in che modo giungerà al compimento?

Si potrebbe dire, dal punto di vista religioso, che la grande produzione kantiana è tutta una risposta a questo quesito. E in questa risposta la dialettica trascendentale kantiana e in pari tempo la sensibilità morale del filosofo di Koenigsberg hanno modo di esplicarsi sovranamente.

Se è vero, secondo Kant, che senza la creatura ragionevole l'universo sarebbe un arido deserto, vano e privo di meta, è anche vero che l'unica realtà, la quale conferisce all'esistenza umana un valore assoluto e di rimbalzo quindi imprime una teleologia all'esistenza del mondo, è una volontà buona. Ora è qui la condizione principale della religione. Poiché questa è essenzialmente riconoscimento dei nostri doveri come precetti divini, la nozione di Dio è inscindibile dalla coscienza delle nostre obbligazioni verso di Lui. Ma se riconosciamo l'uomo come scopo della creazione solo in quanto essere morale, noi poniamo con ciò stesso la condizione principale per poter considerare l'universo come un sistema di cause finali, al vertice del quale va collocato un principio che è anche il supremo ed ultimo bene, le proprietà del quale possono essere suggerite solamente dalla sua collocazione nel piano teleologico dell'universo.

Una conoscenza pertanto di Dio e della sua esistenza, una teologia cioè propriamente detta, è consentita e riveste la realtà oggettiva necessaria, solo a patto di essere inserita in un rapporto pratico, solo cioè a patto di essere riguardata dal punto di vista morale.

Inserire cosí il problema della conoscenza del divino nel piano generale della moralità e della vita cosciente e responsabile; riguardarlo dal punto di vista strettamente e tipicamente etico; ecco gli scopi che Kant, tratto logicamente dalle postulazioni e dalle esigenze dei suoi indirizzi speculativi, si è proposto di raggiungere nella Critica della ragion pratica. È qui che la filosofia di Kant ha avuto l'aria di avvicinarsi di piú alle posizioni e alle presupposizioni della religiosità cristiana. Ed è qui si può dire che la critica trascendentale ha avuto l'aria di potersi meno paradossalmente affiancare al cristianesimo. Ma c'è da domandarsi se una simile illusione non è stata e non è possibile solo per il fatto che attraverso il suo decorso storico e specialmente attraverso l'elaborazione razionalistico-scolastica il cristianesimo non aveva subìto un processo, attraverso cui i suoi tratti differenziali si erano affievoliti e le sue posizioni caratteristiche si erano obnubilate. È quel che ora cercheremo di dimostrare seguendo il procedimento argomentativo di Kant e studiando in particolare la palese contraffazione che i postulati cristiani subiscono nell'opera che coronò l'edificio kantiano: La religione entro i limiti della sola ragione.

Naturalmente non è da pensare neppure da lontano che Kant fosse consapevole della contraffazione che egli stava operando o, molto meno, che ne fosse responsabile. Ci sono momenti transitori e precari nella vita della spiritualità collettiva, in cui l'incrociarsi di fattori eterogenei e la speciale temperie della cultura impediscono di valutare con convenienza certe posizioni della religiosità, nei loro rapporti con i precedenti prossimi e lontani. Chi al tramonto del secolo XVIII sarebbe stato in grado di acquistare e di assimilare una diretta e schietta conoscenza dei documenti in cui il cristianesimo ha segnato le orme indelebili della sua sostanza inconfondibile, e chi a piú che due secoli dalla insurrezione luterana, sotto la pressione delle successive stratificazioni che si erano venute deponendo sull'annuncio della riforma, si sarebbe potuto sottrarre in Prussia all'influsso sottile della tradizione, ormai costituitasi, della Chiesa protestante?

In Emanuele Kant operano con singolare efficienza forze contraddittorie. La necessità di sottrarsi a qualsiasi sensismo e relativismo lo sospinge a cercare nelle leggi stesse immanenti e nelle capacità costruttive del pensiero il fondamento trascendentale della metafisica. Ma egli avverte il còmpito formidabile assuntosi e sente che a questa capacità creatrice del pensiero non può attribuire limiti superiori al mondo delle esperienze sensibili e al mondo delle intuizioni intellettive. La ragione si arresta dinanzi al mistero del noumeno. E per questo, respinge l'argomento ontologico di Sant'Anselmo e di Cartesio. Ma il bisogno dell'apprendimento dell'Assoluto è imperioso ed irresistibile in lui. Le sue esigenze morali, in lui pietista, sono costanti e assillanti. L'argomento antologico egli lo trasferirà nel dominio morale. Tutti sanno quale rispetto tremebondo Kant provasse per la luce della coscienza morale, paragonabile per lui soltanto alla vôlta stellata del cielo. La morale è Dio nell'animo umano. «Come le leggi pure dell'intelletto», scrive Kant, «sono assolutamente indifferenti al contenuto specifico dell'esperienza, e posseggono un valore universale ed aprioristico, applicabile ad ogni esperienza, cosí la legge morale è del tutto indifferente al contenuto della vita empirica. Essa vale aprioristicamente come la legge razionale per ogni essere razionale, qualunque possa essere il contenuto specifico e concreto della sua vita. Anzi, mentre è dato essenziale, affinché le leggi pure dell'intelletto posseggano una validità oggettiva, che siano confermate e controllate nell'esperienza, ché altrimenti apparirebbero vacue forme di pensiero; per garantire la validità della legge morale è completamente superfluo che essa sia praticata o no. Poiché la legge morale non determina l'essere, bensí il dovere, e questo rimarrebbe tale, qualora pure l'essere seguisse dovunque altre vie. La metafisica dei costumi non ha nulla da vedere con l'accaduto empiricamente, con la vita, con la storia, quali fatti empirici. La vita e la storia appartengono al campo della fisica dei costumi».

Di nuovo, l'eticità è tutta avvivata, pervasa e consacrata dalla razionalità. Una razionalità insidiata e permanentemente paralizzata dalla sensibilità inferiore, nella cui recalcitrante resistenza al dominio della legge è il nostro male radicale. Kant fa dell'imperativo categorico la formulazione suprema dell'eticità umana: «Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare per la tua volontà una legge universale della natura; agisci in modo da trattare l'umanità tanto nella persona tua quanto nella persona di ogni altro essere umano sempre nello stesso tempo come un fine e mai solamente come un mezzo; agisci in modo che la tua volontà possa, in forza della sua massima, considerare se stessa come istituente nello stesso tempo una legislazione universale».

Questa sorda resistenza, permanentemente viva, della nostra natura sensibile al superiore irraggiare della legge morale, di una legge morale che ha i fondamenti in se stessa, a prescindere da qualsiasi norma esteriore, e che ci costituisce liberi non già nel senso di optanti fra due alternative eticamente difformi, bensi nel senso di creatori permanenti del bene e della moralità, ci rivela lo stato originariamente malvagio della nostra costituzione. In un determinato momento, fuori del tempo, la virtú della moralità in noi è stata offuscata, vulnerata e paralizzata da una insurrezione degli elementi sensibili. Questo il male radicale della nostra natura. Non pretendiamo di spiegare come si sia operato questo processo inversivo degli elementi umani. Kant ripudia come mitico il racconto biblico del peccato originale, giudicandolo irragionevole e fantastico. Questo non toglie che egli senta il bisogno di una redenzione, la quale però non postula un intervento divino, un mistero di salvezza, una elevazione carismatica, una sublimazione nella grazia, come non li postula la posizione stessa della morale.

Il Figlio di Dio si è costituito ideale di umanità moralmente perfetta, e credendo in questo ideale, con lo sforzo attivo e continuo mirante a raggiungerlo, considerandolo come fine ultimo per la attuazione del Regno del Padre, si afferma la ragione e si ristabilisce la sua supremazia. Bando a qualsiasi visione di compensi ultraterreni e di qualsiasi instaurazione di Regno di Dio che non sia l'attuazione di quelle finalità che la nostra azione buona prefigura, ma non realizza. Dio è al termine della catena dei fini e la immortalità della nostra anima libera non è che un postulato stesso della coscienza morale.

«La legge morale», dice Kant, «mediante il concetto del sommo bene come oggetto e scopo finale della ragione pura pratica, conduce alla religione, cioè alla conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini, non già come sanzioni, vale a dire decreti arbitrari e per se stessi accidentali di una volontà estranea, ma come leggi essenziali di una volontà libera a se stessa; che però debbono essere considerati quali comandamenti dell'Essere supremo, perché soltanto da una volontà moralmente perfetta, cioè santa e buona e nello stesso tempo anche onnipotente, possiamo sperare il sommo bene, che la legge morale ci fa un dovere di porre come oggetto dei nostri sforzi; e quindi possiamo sperare di giungervi, mercè l'accordo con questa volontà».

Mai l'ardore e lo slancio della speculazione puramente umana si erano cosí da presso avvicinati alle posizioni cristiane, rinnegandone però implicitamente i capisaldi e le presupposizioni.

Il Dio kantiano è il termine delle nostre azioni finalistiche. Il Regno di Dio è la postulazione del nostro atto moralmente cosciente. Le possibilità della salvezza sono tutte nel nostro autonomo costituirci realizzatori di bene, dominatori della nostra sensibilità. Le idee ottimistiche e religiosamente razionalistiche della Critica della ragion pratica hanno modo di esplicarsi e concretarsi con molto maggior precisione ed ampiezza nell'opera religiosamente definitiva di Emanuele Kant: La religione entro i limiti della sola ragione. Non c'è già in questo titolo una impugnazione aperta di quel che è il carattere differenziale della religione cristiana? Che cosa avrebbe mai pensato un vecchio scrittore cristiano, come Tertulliano o diciamo pure come Sant'Agostino, di fronte a questa pretesa di ridurre la religiosità e la fede del cristianesimo nei confini dell'attività razionale? Non c'è già qui applicato all'uomo quel medesimo ottimismo che abbiamo veduto confessato da Kant al cospetto del mondo?

Scrive Kant nella prefazione a questa ultima sua opera: «Supponete un uomo pieno di rispetto per la legge morale, al quale venga l'idea di domandarsi (ciò che egli difficilmente può evitare) quale mondo egli creerebbe, sotto la direzione della ragione morale, se fosse in suo potere di farlo, ed anzi in modo che egli stesso potesse farne parte come membro; vedreste che egli, lasciato libero della scelta, non solo lo sceglierebbe esattamente quale lo esige l'idea morale del bene supremo, ma vorrebbe anche che un mondo qualsiasi esistesse, perché la legge morale esige che il piú gran bene, possibile per opera nostra, sia attuato. Egli lo vorrebbe anche se in séguito a questa stessa idea corresse il pericolo di perdervi personalmente molto in felicità, perché è possibile che egli forse non abbia modo di essere adeguato alla esigenza di una felicità condizionata dalla ragione. Egli si sentirebbe perciò costretto dalla sua ragione a prendere in una maniera del tutto imparziale questa decisione, come se venisse da un estraneo, ma che egli tuttavia riconoscerebbe come sua. Ciò prova appunto che nell'uomo è un intimo bisogno, che moralmente lo spinge a concepire· pure un fine ultimo ai suoi doveri come conseguenza di essi. La morale conduce dunque necessariamente alla religione, per cui si eleva cosí all'idea di un legislatore morale e onnipotente, al di sopra dell'umanità, nella cui volontà risiede quel fine ultimo (della creazione del mondo), che può e deve essere nello stesso tempo il fine ultimo dell'uomo».

L'insidia alla genuina tradizione del cristianesimo quale si nasconde nella metafisica religiosa kantiana è data dal fatto che, lusingando la superficiale dignità umana, Kant affida alla ragionevolezza dell'uomo certi poteri che sono nettamente in contrasto e incompatibili con la consapevolezza della radicale infermità e dell'assoluta eterogeneità, di fronte ai nostri poteri, del bene e della sua realizzazione nel Regno di Dio.

A ben considerare i dati centrali di quella che venti secoli di esperienza europea hanno riconosciuto come forma caratteristica della rivelazione di Dio nel Vangelo; istituendo uno scrupoloso bilancio comparativo fra le istanze cristiane e le istanze kantiane, si deve lealmente e onestamente riconoscere che mai posizioni di spirito furono cosí assolutamente in opposizione come le posizioni cristiane e kantiane, che altri si illude di giustapporre e di riconciliare.

Cristianesimo è credenza preliminare in un pervertimento iniziale, non del singolo uomo, ma della massa umana intiera. Non importa di quali forme fantastiche sia stata e possa essere rivestita questa credenza centrale. Il dogma del peccato originale, canonizzato una volta per sempre da San Paolo nel capo quinto della Lettera ai Romani, può essere variamente raffigurato. Esso implica però un dato capitale: l'assioma che l'inserzione dell'individuo nella vita associata è viziata e maculata in radice. Non ci si aggrega alla collettività senza un deperimento organico e senza un depauperamento funzionale. E poiché la vita associata implica una solidarietà infrangibile, non si può essere inseriti nella vita collettiva senza una oscura consapevolezza di contaminazione e di morte. Per questo la reintegrazione nel bene non è còmpito individuale ma collettivo, e la redenzione prima di essere un fatto individuale è un fatto associato. Usciti dalle mani di Dio, deviati lungo il nostro cammino lontano da lui, noi non possiamo essere reintegrati nel bene e nella sua realizzazione completa, che è il Regno di Dio, se non in virtú di una elargizione carismatica, che si sottrae alla presa delle nostre possibilità operanti. Per questo la palingenesi è un fatto universalmente umano, diciamo meglio cosmico, perché il male radicale non è soltanto nello squilibrio tra la nostra ragionevolezza e la nostra sensibilità, ma è nella contaminazione universale e nella inversione dei veri rapporti nell'universo sensibile animale ed umano. Tutta la creazione geme, secondo l'inciso mirabile di Paolo, nell'aspettativa della rivelazione dei figli di Dio. Nulla di piú anticristiano, se noi riguardiamo le cose nella loro vera realtà, dell'imperativo categorico kantiano. Sí, il cristianesimo ha per primo e meglio di ogni altra forma religiosa associato e vincolato la moralità umana all'azione di Dio e alla suprema realizzazione del bene. Ma lungi dal dire all'uomo di agire in modo che la massima della sua azione possa assumere valore universale, il cristianesimo ha imposto all'uomo di ricavare la massima della sua attività morale da quella totalità dei fratelli nel Cristo, che costituisce e rappresenta il corpo mistico del Signore nella storia. Dio cosí non è al termine della catena dei fini come un postulato della nostra azione morale. Dio, che non è una norma etica, ma è il Padre sofferente e agonizzante con noi, rivela la sua legge morale al di là di tutte le leggi empiriche, le piú sacrosante, le quali, procedendo da una natura universalmente viziata e retta da Satana, non possono portare che al peccato; e l'economia della Sua legge è un'economia tutta basata sul mistero permanente della grazia.

Sicché, qualora si mettano a confronto le posizioni della religiosità kantiana e quelle tipiche e inconfondibili della religiosità cristiana, non si può non concludere al loro insanabile e radicale divario, nonostante le illusorie assonanze, apparse tali soprattutto perché noi siamo stati troppo trascinati, attraverso i secoli del razionalismo casistico, alla obliterazione dei veri dati cristiani. Prendete ad esempio una pagina qualsiasi dell'ultima opera religiosa di Kant e voi non vi sottrarrete alla inesorabile necessità di tale constatazione. Scrive ad esempio Kant: «Una religione può essere naturale e nello stesso tempo rivelata, se è costituita in modo che gli uomini avrebbero dovuto e potuto, col semplice uso della loro ragione, giungervi da se stessi, sebbene non cosí presto e con una affluenza cosí grande, come è desiderabile che vi fossero giunti. Per conseguenza una sua rivelazione, avvenuta in un tempo e in un luogo determinati, poté riuscire cosa saggia e molto vantaggiosa per la specie umana, ma alla condizione che una volta che la religione cosí introdotta esiste e si è fatta conoscere pubblicamente, chiunque possa in séguito persuadersi della sua verità da se stesso e con la propria ragione. In questo caso la religione sarebbe oggettivamente naturale, mentre sarebbe soggettivamente rivelata; e perciò le spetta, a dire il vero, la prima qualifica. Perché potrebbe, nel corso degli anni, andare intieramente in dimenticanza l'avvenimento di una tale rivelazione soprannaturale, senza che perciò questa religione perda minimamente né della sua chiarezza, né della sua certezza, né infine del suo potere sugli istinti».

Si capisce a quale religione Kant riserva cosí in pari tempo la qualifica di rivelata e la qualifica di naturale: è la religione cristiana. Ma per vantarla cosí, Kant ha preliminarmente spogliato la rivelazione cristiana di tutti i suoi caratteri trascendenti. Essa diventa nella sua speculazione lo sbocco naturale della ragione e della moralità umana. Kant ha creduto di dare alla natura umana il senso piú augusto e piú solenne e piú alto delle sue possibilità etiche e spirituali. Ma ha rinnovato soltanto uno stoicismo pseudocristiano.

Il cristianesimo aveva operato con ben altra tattica e con ben altri strumenti. Aveva cominciato col deprimere l'uomo instillando alla di lui coscienza la sensazione della sua fragilità peccaminosa, del suo impasto deteriore, della sua ininterrotta soggezione alla morte. Ma non si era arrestato qui. La grande scoperta cristiana era stata, dal punto di vista pedagogico e morale, il rinvenimento di quella legge per cui l'uomo è tanto piú grande, quanto piú si sente piccolo, è tanto piú capace di eternità quanto piú si riconosce perituro, è tanto piú vicino a Dio quanto piú si sente lontano da Lui, è tanto piú realizzatore di beni quanto piú sa che la sua azione è fondamentalmente il male, e tanto piú esce dallo stato belluino in cui è naturalmente inserito, quanto piu, consapevole della sua ferinità, chiede alla grazia di Dio la possibilità del riscatto e della trasfigurazione. A norma di tale legge, soprattutto, tanto meno la creazione sociale dell'uomo sarà vulnerata dalla sua innata bestialità, quanto piú l'uomo sognerà l'avvento imminente della palingenesi universale, che è il presupposto della instaurazione del Regno di Dio. Qui le tavole di fondazione del cristianesimo: qui la pietra di paragone per giudicare del carattere cristiano o meno delle fatue ed effimere creazioni dell'umana ragione e della umanistica coscienza.

Qualcuno, a sette anni di distanza dalla pubblicazione della Religione entro i limiti della sola ragione, contrapponeva alla posizione critica di Kant una posizione religiosa molto piú aderente a quelle che sono le esigenze invalicabili di ogni religiosità autentica.

Il 15 aprile del 1799 da Potsdam, dove si era momentaneamente trasferito dal suo pastorato berlinese per sostituire un predicatore di corte, Federico Ernesto Schleiermacher spediva all'editore Unger, quasi testimonianza dell'epilogo in cui si andava risolvendo la crisi nella quale l'aveva gettato il passaggio attraverso l'atmosfera contaminante del romanticismo schlegeliano, il manoscritto dei cinque Discorsi della religione, indirizzati a quelli fra i suoi detrattori che portano nella polemica uno spirito colto e una preoccupazione nobile. Rifiutando, sdegnosamente, in linea pregiudiziale, gli argomenti che professionisti di convenzione e politicanti di calcolo raffinato sogliono artificiosamente accampare a favore della religiosità e della sua specifica consistenza, l'ex-allievo dei pietisti, continuatori dei Fratelli Moravi, ne andava piuttosto a ricercare l'essenza inalterabile nelle regioni autonome della coscienza senziente. Nella intimità consapevole dello spirito lo Schleiermacher scopriva le forze contrastanti – l'una che attira l'universalità della esperienza verso il soggetto e tende a sottoporla al dominio di questo, l'altra che sospinge alla espansione dell'io e alla rifrazione delle sue capacità attraverso la comunicazione extra-soggettiva – dal cui conflitto sgorga l'esigenza di un acchetamento, che non è nelle possibilità dell'essere finito. Spogliando quindi la religione da ogni collegamento, ch'egli reputava derivato ed avventizio, con la riflessione astratta e con le norme concrete della condotta, lo Schleiermacher circoscriveva il nucleo centrale della religiosità umana nella conquista della consapevolezza di un rapporto, che vincola l'essere finito e caduco all'Essere infinito e assoluto: nella rivelazione abbagliante di questo infinito nell'effimero. L'autonomia pertanto della religiosità occorre ricercarla, secondo lo Schleiermacher della prima maniera, in quel sentimento inconfondibile che suscita, nello spirito, la discoperta dell'orma dell'eternità sulle labili apparizioni del tempo. Lungi dall'essere in funzione della moralità o costretta all'aridità delle speculazioni dogmatiche, la religione rampolla dalle viscere profonde della coscienza sentimentale, sospinta dalla propria attività funzionale a ravvisare, nella molteplicità dei fenomeni di cui s'intesse la vita universa, il profilo dell'unità e dell'armonia. Ma appunto perché le scaturigini prime della religiosità vanno ricercate cosí a fondo nelle esigenze primordiali dello spirito; e appunto perché occorre disseppellirle da cosí schiacciante rivestimento di speculazioni razionali e di leggi morali; si intuisce come l'abito religioso debba sempre impregnare di sé e ripercuotersi potentemente in tutte le espressioni del pensiero e in tutte le discipline della prassi.

A sei anni di distanza, addestrato, attraverso il tirocinio professorale, alla conoscenza della teologia storica, lo Schleiermacher sviluppava la sua prima intuizione della religiosità, provandola al cimento con le altre valutazioni correnti, in un dialogo pieno di nobile ispirazione: La festa di Natale. Un giurista, Leonardo, personifica in questo dialogo l'atteggiamento del puro razionalismo il quale riconosce nella religiosità in genere e nel cristianesimo in particolare una squisita virtú di dominio spirituale, che occorre però non fare esulare dal limite sacro della coscienza. Le forme concrete della mitologia, come i riti tradizionali della mistica sacramentale, rappresentano per Leonardo tanti simboli, sotto le cui specie si sono solidificate, attraverso le tradizioni ortodosse, le esigenze morali della spiritualità umana. Al soddisfacimento di tali esigenze bisogna riportarsi ormai direttamente, fuori dalle convenzioni avvizzite della teologia. Edoardo invece rappresenta nel dialogo la posizione della speculazione teologica liberale. In Gesù Cristo l'identità del divino con l'umano ha sfolgorato per la prima volta nella sua misteriosa integrità. La commemorazione natalizia vuole appunto infondere la consapevolezza di questa identità, cui ogni anima umana può assurgere, attraverso una intima palingenesi. E la nascita del Cristo è annualmente evocata come la comparsa della realizzazione tipica dell'umanità. Ernesto infine enuclea, al cospetto dei suoi interlocutori, la visione, che è quella dello scrittore. Le sue parole e le sue idee mostrano quanta importanza lo Schleiermacher attribuisse ormai al dogma centrale della soteriologia cristiana. Nulla di comune, egli assevera, sussiste fra la spiritualità precristiana e quella germinata dalla predicazione del Nuovo Testamento: la prima, improntata ad una refrattaria insensibilità alle dure antinomie della realtà psichica; la seconda invece erompente dalla loro consapevolezza, spinta fino alla esasperazione. Simile ascensione è stata guadagnata a patto dell'apparizione di un uomo divino, nella coscienza religiosa del quale il dramma dell'universo poté risolversi in un puro atto di amore umano e di perfetta comprensione universale. Da Cristo in poi, la salvezza è, tutta, nella comunicazione con Lui.

Infine, nell'opera organica della sua maturità, La fede cristiana, Federico Schleiermacher imponeva alle idee dei suoi trent'anni quel rivestimento erudito e quella coesione sistematica, che l'approfondirsi della sua vita e l'arricchirsi del suo pensiero avevano reso possibili. Il sentimento religioso è ora con piú ricercatezza indagato come la consapevolezza della nostra assoluta dipendenza da Dio. Un sentimento di questo genere, capace di trasfigurare e di sublimare ogni nostra concezione del mondo e degli uomini, tende automaticamente a trasfondersi in una solidarietà credente. Questa è pervenuta alla sua piú alta realizzazione nelle religioni monoteistiche. Il cristianesimo si è assiso nel loro novero proclamando il proprio fondatore come il mediatore, nella cui coscienza e nella cui opera di riscatto la religiosità umana ha celebrato il suo esemplare fastigio e ha rinvenuto il suo indispensabile veicolo. Nel piano di sviluppo della spiritualità cosciente, il peccato appare come l'ostacolo frapposto alla libera esplicazione dell'anima religiosa; la colpa ereditaria è una incapacità radicale di aprire il varco alle concrete sue espressioni. La grazia invece è la trasfusione della virtú redentrice, che deve restaurare nel cuore dell'uomo la sfiorita vita divina. E la Chiesa, nella sua essenza divincolata da ogni contaminazione politica e da ogni istituto teorico e disciplinare, è la fraternità vivente di quanti, nella grazia del Cristo, portano alla piú alta intensità il senso religioso, onde è turgida l'umana coscienza.

Ma non certo alla Germania uscente dalla crisi napoleonica e dall'invasione potevano essere rivolte con frutto le ammonizioni religiose e cristiane dello Schleiermacher. L'apologetica religiosa di questi avrebbe atteso un lungo lasso di tempo, prima di poter risorgere dal suo letargo, corroborata e organicamente sistemata. A piú di un secolo di distanza essa era destinata a trovare in Rodolfo Otto, nel fitto di una profondissima crisi della Germania uscita da una piú rovinosa disfatta, qualcosa di equivalente ad una Critica della ragione religiosa.

Per ora, all'alba del secolo XIX, la Germania era chiamata ad ascoltare con molto maggiore possibilità di assimilazione e di riecheggiamenti l'appello della giovane generazione filosofica, che si apprestava ad enucleare e a svolgere in tutta la loro possibile e integra applicazione i principi della critica trascendentale kantiana. L'esperienza religiosa non è mai retaggio delle epoche di particolarismi nazionali. La religiosità è pascolo e sostegno di idealità universali. E la Germania del secolo XIX albeggiante era sulla via della sua fusione nazionale. Un forte appello filosofico, e la filosofia è sempre un po' la tentazione superba di Satana, rispondeva molto meglio alla temperie successa in Germania alla sconfitta di Jena. Giovanni Fichte, con i suoi Discorsi alla nazione germanica, mostrava quanto l'idealismo kantiano potesse dare di applicazioni stimolatrici allo spirito nazionale.

Si trattava essenzialmente di sistemare e di riconciliare le posizioni antitetiche del pensiero di Kant. Si trattava di superare quel residuo informe e contraddittorio di divario fra fenomeno e noumeno che Kant aveva lasciato come un sedimento inassimilato nella sua speculazione. Si trattava di portare alle ultime possibili conseguenze quell'affermazione della razionalità del reale e del morale, che, pur campeggiando sovrana in tutta la dialettica e in tutta la metafisica kantiane, sembrava essersi arrestata, esitante, di fronte alle estreme sue formulazioni. Kant stesso era stato straordinariamente incerto ed evanescente nell'affermazione e nel riconoscimento della cosa in sé. Si può dire effettivamente che noumeno, nella speculazione kantiana, è a volte qualcosa di nitidamente accentuato e circoscritto, e a volte è qualcosa invece di straordinariamente vaporoso. La sua comparsa e il suo profilarsi sul primo piano della scena o il suo dissimularsi e scomparire fra le sinuosità del pensiero pensante, dipendono dalle esigenze dell'una o dall'altra argomentazione. Quando vuole prevalentemente dare risalto al carattere oggettivistico della propria filosofia, in contrapposizione all'idealismo spinto di Berkeley, Kant insiste piú vigorosamente sull'affermazione del mondo noumenico. Quando invece vuol dare maggiore risalto al carattere di pura parvenza del mondo empirico, allora egli, addentrandosi nell'analisi delle forme dell'attività spirituale, sembra obliterare la consistenza profonda e inaccessibile del mondo ultraempirico. Si prenda, per esempio, la trattazione del rapporto fra anima e corpo nella Critica della ragion pura, Kant vuoi combattere qualsiasi derivazione dell'attività cogitante dalla realtà materiale, e allora la grande realtà ignota del noumeno è proiettata dinanzi allo sguardo del lettore, come un protagonista ineliminabile. L'antitesi anima-corpo, osserva Kant, è una contrapposizione illogicamente posta. La questione pertanto del loro rapporto è una questione inesistente. Tale questione esisterebbe solo se si trattasse di due cose in sé, mentre si tratta di due apparenze fenomeniche dell'oggetto ignoto. Nessuna difficoltà pertanto nell'immaginare l'unione della materia con l'anima, perché nessuna difficoltà c'è nel pensare che a quella serie di stati di coscienza o percezioni che noi chiamiamo corpo si accompagni un'altra serie ugualmente di stati di coscienza che noi chiamiamo pensieri. Nell'un caso e nell'altro si tratta di unione di cose della medesima natura, vale a dire di stati psichici. La materia «non è altro che una semplice forma o un certo modo di rappresentarsi un oggetto ignoto, per mezzo di quella intuizione che si chiama senso esterno».

Può darsi che esista fuori di noi qualcosa che corrisponda a questo fenomeno, ma «nella sua qualità di fenomeno essa non è fuori di noi, ma unicamente come un pensiero in noi». Essa è non alcunché di eterogeneo «dall'oggetto del senso interno (animo), ma soltanto la disparità dei fenomeni e degli oggetti (che in sé ci sono ignoti), le cui rappresentazioni noi diciamo esterne, in confronto di quelle che ascriviamo al senso interno, benché esse appartengano semplicemente al soggetto pensante né piú né meno di tutti gli altri pensieri». La questione pertanto viene risolta con la osservazione «che i corpi non sono oggetti in sé, ma un semplice fenomeno, chissà di quale oggetto ignoto». La difficoltà di comprendere come sussista un legame di connessione fra questi due ordini di fatti, assolutamente eterogenei l'uno all'altro, quali sono certi movimenti della materia (modificazioni del nostro sistema nervoso) e i nostri pensieri, svanisce, dappoiché anche quei cotali movimenti della materia sono, anziché qualcosa in sé, fenomeni che appaiono a noi, vale a dire nostre percezioni o rappresentazioni. Quei fatti esterni o corporei, riconosciuti in tal modo come puri fenomeni per un soggetto, perdono cosí la loro apparente irriducibilità di fronte al pensiero. Fenomeni esterni ed interni diventano della medesima natura, cioè tutti interni, salvo che i primi «hanno in sé questa illusione che, rappresentando essi oggetti nello spazio, sembrano sciogliersi quasi dall'anima e star sospesi fuori di essa»; illusione, perché lo stesso spazio è una rappresentazione nostra. E diventati in tal guisa i fenomeni esterni ed interni della medesima natura, resta soppressa l'impossibilità di capire come ad una serie di quelli corrisponda una serie di questi. Mentre «l'oggetto trascendentale che è a base dei fenomeni esterni, come quello che è a base della intuizione interna, non è in sé né materia né essere pensante, ma un principio a noi ignoto dei fenomeni che ci dànno il concetto empirico della prima come della seconda specie».

L'esempio è tipico. Formidabilmente agguerrito nella esplorazione del fatto conoscitivo, Kant ha nel medesimo tempo la suggestione e l'orrore della inattingibile realtà sottostante ai fenomeni empirici. Ne subisce la suggestione, perché senza quel substrato noumenico il mondo delle apparenze svanirebbe come una fata Morgana. Ne ha orrore, perché quella presenza irraggiungibile è una sfida permanente al suo bisogno divorante di assoluta ed esauriente chiarezza, nella tecnica e nella ginnastica del pensiero. Egli ha detto che le sensazioni senza le categorie sono cieche, ma ha detto pure che le categorie senza le sensazioni sono vuote. Proclama che non si conosce se non ciò che cade nell'esperienza, e che l'esperienza è la nostra sola fonte di cognizione; ed ecco allora il lato realistico, pressoché empirico, della bifronte speculazione kantiana. Ma dall'altra parte si può in nome degli stessi principí kantiani proclamare logicamente che tutto quello che l'esperienza ci presenta è pura apparenza, e che la vera realtà è l'oggetto sconosciuto, soprasensibile, metempirico di cui tutto ciò è soltanto l'apparire. Ed ecco la sagoma idealistica della speculazione del maestro di Koenigsberg.

Una posizione di tale equilibrio instabile non poteva diventare normativa, se non risolta e superata. Si sarebbe potuto superarla con un tuffo completo, ciecamente istintivo, nella realtà sacrale del mondo noumenico. Sarebbe stata una reviviscenza religiosa. I tempi non erano maturi. Alla formazione della cultura germanica occorreva piuttosto indietreggiare dalla parte del soggetto pensante e portare fino agli ultimi confini possibili la proclamazione paradossalmente audace e temeraria delle sue sconfinate capacità creatrici.

Quegli che poco meno che cinquantenne indirizzava alla risorgente nazione germanica i suoi sonori discorsi, Giovanni Fichte, aveva già compiuto da vent'anni la sua iniziazione kantiana. E fresco dei suoi contatti col maestro di Koenigsberg, aveva scritto il suo rumoroso saggio sulla rivelazione. Era un vero inno alla morale kantiana, con la sua esaltazione della libertà e dell'attività etica dell'uomo. Ma il mondo reale e supremo che Kant aveva lasciato nelle ombre misteriose della realtà noumenica, Fichte lo additava nelle insondabili profondità dell'Io cosciente. Se la filosofia è riflessione, e come tale astrazione, la filosofia, «astrazione riflettente», presuppone ed implica il sapere umano nella sua unica organicità sistematica. Al principio della filosofia non esiste che l'Io, io attivo, operante, creatore. La sua attività creatrice non ha per disciplina che il principio di posizione, a norma del quale l'Io pone alle origini assolutamente il proprio essere; il principio di opposizione per cui all'Io è opposto assolutamente un non Io; infine il principio di ragione, a norma del quale vengono conciliati e saldati i due precedenti principi contrapposti. Se l'Io e il non Io tendono a sopprimersi a vicenda, il principio di ragione ne definisce il rapporto scambievole come mutuamente limitabili. Tutta l'attività dello spirito, cosí la pratica come la teoretica, è un circolo svolgentesi intorno a questa polarizzazione della coscienza, duplice e insieme intimamente collegata nei termini della sua polarizzazione.

Piú nessuna preoccupazione, dunque, di tutte quelle che possono essere le specificazioni della esperienza sensibile, e bando a qualsiasi illusoria posizione di realtà soggiacente a questa esperienza. Per Fichte, qualunque dato esteriore alla coscienza scompare integralmente. Rimane, unica realtà, una coscienza cosmica che vive nei singoli individui e che per poter pensare se stessa e avere quindi a propria disposizione un campo su cui spiegare la propria attività, suscita essa stessa davanti a sé, e contrappone a sé, il non Io. Questa affermazione sovrana dell'Io creante, perduto dietro la conquista di una sempre piú alta consapevolezza di sé che è piú alta conoscenza e quindi piú alta moralità, dimostrava molto bene quale fosse ormai il cammino dell'idealismo germanico. Il cammino dell'uomo non è altro che il sollevarsi da un piú basso punto di riflessione, quello «dell'animale che calcola» a un punto di riflessione superiore, quello morale. Il come ciò possa avvenire, confessa Fichte, «rimane inesplicabile e si può solo spiegare mediante la libertà. In analogia con la piú elevata attitudine intellettuale, questa emersione potrebbe essere chiamata il genio della virtú».

Anche Fichte, come Kant, pone divario fra sensibilità e razionalità, e afferma che supremo dovere morale è obbedire al responso della coscienza, poiché non vi può essere mai coscienza erronea, e l'errore si può soltanto trovare nel cuore, mai nell'intendimento. Sicché è sempre e dovunque alla ragione che deve chiedersi la voce e l'indicazione del bene. Se è possibile che l'uomo rimanga tutta la sua vita nello stadio inferiore della riflessione, nel che consiste secondo Fichte la verità dell'affermazione kantiana che il male è innato nell'uomo, non è necessario affatto che vi rimanga. «Se l'uomo non si solleva ad un punto di vista superiore, la colpa deve assegnarsi alla sua libertà, di cui egli non fa uso, sebbene, dal punto di vista in cui si trova, possa non essere consapevole di questa sua colpa».

Nessun potere esterno può supplire lo slancio personale della coscienza. Fichte osserva che ad un uomo privo di iniziativa etica, moralmente accidioso, giacente in uno stadio basso di consapevolezza morale, nulla e nessuno, neppure l'Iddio onnipotente, potrebbe giovare. È perfettamente naturale, sempre secondo Fichte, che gli uomini nei quali si è venuta sviluppando e maturando una sottile e vibratile sensibilità etica «quasi per vero miracolo e senza causa esterna, non trovando la medesima sensibilità nei loro simili, abbiano interpretato ciò come se essa fosse stata operata in loro da un essere spirituale esteriore. Ma costoro hanno ragione solo se intendono parlare del loro Io empirico. Perché nessuno diventa, convinto, a meno che non penetri dentro di sé e senta internamente l'accordo del suo Io con la verità profferita».

Qui è eliminata pure quella catena gerarchica di fini che faceva balenare all'occhio stupito di Kant la visione della realizzazione completa del bene etico nella placazione di Dio. L'Io umano trova in sé la fonte e la sanzione dei propri valori. La spiritualità umana, indipendentemente da qualsiasi soccorrimento della grazia, al sicuro da qualsiasi insanabile ed incorreggibile deviazione, non ha da fare altro che appellarsi alle forze profonde della sua coscienza per salire di luce in luce, fino alla perfetta giustizia. Come siamo lontani da quella tremenda delineazione paolina delle molteplici e ingannevoli forze che si combattono in noi, permettendo, nell'individuo e nella collettività, la comparsa e a volte il trionfo della «sapienza della carne», che sembra essere la contropartita di quella «corporalità dello spirito» in cui si concreta e si celebra il senso sacro e mistico della vita associata, nella luce e nella speranza del Cristo.

Con ardimento pugnace e aggressivo, si direbbe quasi a passo di carica, Fichte aveva preso d'assalto la posizione residuale dell'oggettivismo kantiano, volatilizzandola e oltrepassandola. Al posto del noumeno, egli aveva collocato sul trono quel suo Io trascendentale che attraverso la proiezione da sé e la riconciliazione del non Io con l'Io, ascendente verso le forme superiori della coscienza e della moralità che è libertà, chiudeva in se stesso il ciclo dell'essere universale. Si potrebbe dire che il passo apparve, anche ai piú decisi a seguire, nelle rivendicazioni idealistiche, il solco aperto dalla critica trascendentale kantiana, cosí audace, cosí temerario, cosí folle, da imporre un arresto ed una revisione. Il problema della natura, il problema della storia, sembrava non trovassero posto nell'idealismo fichtiano. Per collocare convenientemente questi due problemi nella cornice della speculazione idealistica, spiegarono la loro attività sistematrice lo Schelling e Giorgio Hegel.

Piú giovane di Fichte di piú che un decennio, di Hegel di un quinquennio, Schelling doveva sopravvivere lungamente all'uno e all'altro. Hegel si spegneva nel 1831, Schelling nel 1854. D'altra parte, piú ricco ed elastico spiritualmente di entrambi, intimamente legato, attraverso gli Schlegel, a tutto il mondo romantico, compagno di scuola e amico stretto di Hölderlin alla Facoltà teologica di Tubinga, Schelling, pur avendo ricevuto l'iniziazione entusiastica alla scuola di Fichte, di cui aveva ascoltato a Jena le lezioni, porta nella sistemazione dell'idealismo una sua fisionomia non confondibile e preoccupazioni, si direbbe, irriducibilmente oggettiviste. La stessa precoce e insaziabile molteplicità dei suoi interessi culturali, la inesauribile ed esuberante mutevolezza dei suoi gusti, non solo lo conducevano a costituirsi, nell'ultima fase della sua vita, avversario di Hegel, pur legato com'era da tante affinità di scuola con lui, ma facevano trapelare, nella stessa fase del suo pensiero idealistico, istanze contraddittorie, quasi nostalgico e poco consapevole e poco confessato rimpianto di atteggiamenti spirituali, che l'idealismo, nelle forme assolute che veniva assumendo in Fichte e in Hegel, tendeva spietatamente a rinnegare.

Giovanissimo, appena diciassettenne, Schelling iniziava l'attività pubblica con due saggi di natura storico-religiosa. Il primo è un tentativo di interpretare allegoricamente il racconto biblico della caduta originale; il secondo è uno studio della revisione marcionitica del testo paolino. Che Schelling iniziasse cosí la sua brillantissima e movimentata carriera scientifica, con due studi di natura storico-religiosa, non è cosa che possa di per sé destare sorpresa. Si direbbe che dai primi albori dell'Illuminismo il problema delle origini religiose dell'umanità e piú specificamente quello delle origini cristiane si iscrivano all'ordine del giorno come punti di passaggio in declinabili. Nel fondo della coscienza collettiva vi è il senso indistinto che la posta delle discussioni accademiche e culturali è precisamente la morte o la sopravvivenza della tradizione cristiana. E tali problemi rimarranno sul proscenio ormai per generazioni e generazioni. Anche Giorgio Hegel comincerà la sua carriera studiando la vita di Gesù e le basi della predicazione cristiana. Può piuttosto costituire un indizio dello specifico temperamento di Schelling l'avere affrontato il problema del racconto genesiaco della caduta, e la posizione enigmatica di Marcione di fronte alla predicazione di San Paolo. A poco piú che un secolo e mezzo di distanza la figura di Marcione, la sua posizione nella linea di sviluppo del cristianesimo antico, rappresenteranno una zona bruciante e appassionante delle polemiche religiose.

Nel giovane Schelling si combatte pertanto un patetico duello fra le sue piú profonde aspirazioni e tendenze, portate, non senza venature romantiche, alla considerazione del problema del male e del dolore, e l'influsso prepotente dell'idealismo fichtiano. Egli non riesce ad acclimarsi in pieno nello sforzo audace e vigoroso che Fichte compie per superare i residui dualistici della critica kantiana. L'antitesi di oggettività e di soggettività non riesce in Schelling a ricomporsi dialetticamente, come si compone nella visione fichtiana dell'Io trascendentale. Per Schelling oggetto e soggetto rappresentano gli elementi indissolubili ed invalicabili di ogni conoscenza, e se la scienza della natura tende a scoprire una soggettività a cui l'oggettività si contrapponga nella foggia conveniente, la filosofia trascendentale ha il còmpito di trovare alla soggettività l'oggettività conveniente. Nella vita dello spirito pertanto oggetto e soggetto compaiono come termini iniziali equipollenti. Si potrebbe dire che questa posizione si fa sempre piú drammaticamente viva nell'evoluzione spirituale schellinghiana, fino al giorno in cui il profilarsi del superamento hegeliano determina sempre piú Schelling a prendere una posizione di combattimento accentuando egli gli elementi di antitesi, laddove Hegel era spinto a riconciliare le antitesi nella superiore unità dello spirito. Nella sua attività declinante Schelling non rifugge dal dichiarare che il sistema dell'identità è pura filosofia negativa, integrabile in quella superiore filosofia positiva che coglie, al di là del razionale, l'irrazionale. E lo Schelling che si avvicina alla morte torna ai suoi amori giovanili, vale a dire alla riflessione sulla religiosità cristiana, che egli vede avvicinarsi alla piena sua trasfigurazione nella filosofia mistica del logos giovanneo.

In fondo egli era piú che mai sollecitato dal problema del male, il vecchio problema di Marcione, e non potendo, in pieno secolo XIX, in trionfante orizzonte idealistico, acconciarsi ad una reviviscenza di posizioni dualistiche, si arrestava in quella che era stata la posizione mediana del mistico Böhme, ricercante negli abissi stessi di Dio la radice del male. Aveva sostenuto Böhme che la radice del male è in Dio il momento negativo, il fondamento dell'Inferno, quello che in Dio non è Dio, se col nome di Dio si intende solamente l'amore e non l'ira. Questo momento negativo non può non essere percepito disgiunto dall'armonia originaria. È, può dirsi paradossalmente, Dio contro Dio. Solo per questo i contrasti e le laceranti antinomie del mondo sono cosí gravi e violenti, perché le parti in contrasto incorporano nel loro duello forze divine. E il contrasto di forze divine non può che generare dolore e angoscia. C'è in Dio dunque un fondamento naturale e involontario in cui è l'origine prima del male. Lo Schelling delle Ricerche filosofiche sulla essenza della libertà umana e sugli oggetti che vi si collegano, si ricongiunge idealmente a Böhme, come questi si ricongiungeva, in qualche modo, a colui che era stato il primo padre della speculazione idealistica germanica, l'allievo di San Tommaso, Maestro Eckehart. Schelling proclama che poiché nulla esiste prima di Dio, è giocoforza riconoscere che Dio ha in se stesso il fondamento primo e la sorgente originaria della sua esistenza. Tale fondamento non è nel Dio già esistente, bensí, allo stato di vagheggiamento e di brama, nell'eterno Uno che aspira a generare se stesso. Non siamo ancora allo stadio della intelligenza, ma è un movimento verso l'intelligenza. Quando simile aspirazione, proiettata verso l'intelligenza, non dissimile dalla nostra aspirazione verso un bene ignoto e senza nome, genera in Dio stesso « l'intima riflessiva apprensione, in virtú della quale Dio contempla, in una immagine, se medesimo », Dio genera l'intelligenza, ma rimane il fondamento oscuro, il substrato latente della brama o volontà. E rimane non separato, ma distinto, precisamente come «nel corpo trasparente la materia, elevata all'identità con la luce, non cessa per questo di essere materia o principio tenebroso, come portatore e insieme conservatore del principio eccelso della luce».

Secondo Schelling, a spiegazione del male non è possibile invocare altro che due principî in Dio stesso. Dio come Spirito è l'amore purissimo, e nell'amore non può sussistere mai una volontà del male, soprattutto quando noi parliamo del principio ideale. Ma Dio medesimo, affinché gli sia dato di essere, ha bisogno di un fondamento, e questo non è e non può essere fuori di Lui, bensí è in Lui; e possiede in sé una natura tale che, pur appartenendogli, è fondamentalmente diversa da Lui. Il volere dell'amore e il volere del substrato sono due voleri diversi, ognuno dei quali è per sé. Il volere dell'amore però è impotente a debellare e a sopprimere il volere del substrato, perché altrimenti dovrebbe entrare in contrasto con se stesso. Il substrato deve pure spiegare la sua azione affinché possa sussistere amore; e perché questo amore operi attualmente e realmente, il substrato deve spiegare la propria azione indipendentemente da esso, affinché l'amore non cessi di essere tale. Alla nozione fichtiana dell'Io Schelling sembra cosí contrapporre il concetto dell'amore. Il suo funzionale romanticismo, la sua duttile versatilità spirituale, la sua desta sensibilità lo portano a trasportare su un terreno di maggiore consistenza psichica e morale la dialettica trascendentale fichtiana. Il problema del male è il suo pungolo assillante. E per spiegar meglio l'esistenza del male nell'uomo e nel mondo, Schelling non trova di meglio che trasportarne la genesi in Dio. Solo l'esistenza del male in genere può far comprendere l'esistenza del male nell'uomo. Perché anche l'uomo ha in sé, nella identità del suo principio, il doppio aspetto che Schelling ha individuato nella primordiale stessa sostanza di Dio. Anche l'uomo ha da un lato quel substrato, analogo a quello che è distinto in Dio dalla volontà amorosa. E anche l'uomo ha un lato tuffato nella rivelazione dell'intelligenza, che è l'esistenza dispiegata da Dio e che trasforma ed illumina interiormente il principio oscuro. Questo substrato continua «ad operare ininterrottamente anche nell'individuo umano, stimolando l'individualità e la volontà particolari, affinché per antitesi possa dischiudersi il volere dell'amore». Il male è pertanto un principio universale, che però è tale solamente per l'intervento del termine opposto; e la sua autocoscienza è innalzata solamente da tale intervento. Quei residui dualistici che affioravano nella speculazione kantiana e che l'idealismo fichtiano aveva cercato di sommergere nella drammatica raffigurazione della dialettica trascendentale dell'Io, riassumono qui, nelle estreme forme della speculazione schellinghiana, connotati etici e spirituali. Erano, si potrebbe dire, le estreme e declinanti resistenze di quelle postulazioni dualistiche, che il cristianesimo si era sempre portato appresso nella sua secolare trasmigrazione. Hegel doveva subissarle nel definitivo sforzo dell'idealismo, per comporre nell'unità dello spirito assoluto tutte le superstiti antinomie della esigenza cristiana.

Egli aveva già scritto la sua Vita di Gesù e il saggio su La positività della religione cristiana, quando nel 1801, protetto dallo Schelling, si trasferiva a Jena per iniziarvi la sua vita accademica. E il primo saggio che lo rese veramente noto fu precisamente quello dedicato ad individuare le differenze fra il sistema filosofico di Fichte e quello dello Schelling, piú giovane di lui ma prima di lui giunto ad una vasta notorietà. È impossibile sottrarsi all'impressione che questo freddo e arido spirito di nomenclatore e di riduttore all'unità sistematica fosse un istintivo calcolatore delle possibilità di successo. Fichte e Schelling erano gli idoli del momento; egli cerca di incunearsi fra loro. Se il suo definitivo assioma sarà «il reale è ideale» e «l'ideale è reale»; se tutta la conformazione del suo spirito, freddo agli spettacoli della natura, portato ad apprezzare tutto quello che rappresentasse la migliore sistemazione borghese, lo induceva istintivamente a identificare il pensabile col concreto, noi vediamo che questa sua funzionale adattabilità non cessò mai di pesare sulle sue valutazioni e sulle sue visioni. «Ho visto passare a cavallo l'anima del mondo», scrisse egli all'indomani di quel giorno di ottobre del 1806 in cui, dopo la grande vittoria, Napoleone entrava a Jena. E quando nel 1818 Hegel fu chiamato all'Università di Berlino e intorno alla sua cattedra cominciò a formarsi una scuola, e al maestro ormai divenuto insigne anche Goethe prestava omaggio, Hegel esaltava la Prussia come lo Stato che, oltrepassate le convulsionarie vicende della rivoluzione, si era costituito in un ordinamento razionale nel quale non avrebbe potuto fare a meno di fiorire in mirabile proporzione «il reame del pensiero». Egli vedeva ormai nella Germania la nazione che, realizzando in sé la pienezza del travaglio spirituale di millenni, era chiamata ad esercitare nel mondo una insurrogabile funzione didattica e dominatrice, alimentando, oltre e in virtú della sua consapevolezza etica, la fiamma dell'ideale filosofico e l'integrità della vita nello Spirito.

Nella filosofia di Hegel scompaiono definitivamente e senza rimpianto i superstiti elementi dualistici della filosofia kantiana. Rimangono le categorie, costituenti la essenza della realtà originaria o primordiale, ossia l'idea. Tali categorie, operando non piú solamente nella mente umana, al modo kantiano, ma come primordiale essenza cosmica si estrinsecano esse stesse da sé come leggi del mondo e come natura, giungendo nella mente umana allo stadio di poter pensare se medesime e scorgere se medesime esteriorizzate nella natura e nel mondo; assurgendo cioè al supremo stadio di Spirito, che dopo essere stato in sé e dopo essere divenuto per sé, ritorna definitivamente in sé e per sé. Tali categorie si estrinsecano come leggi supreme progressivamente creatrici del mondo, per forza ed impulso del loro dinamismo triadico, per cui ogni posizione affermativa determina dinanzi a sé la posizione negativa. Dal contrasto di due posizioni cosí contrapposte emerge sempre una posizione superiore, negazione della negazione, nella quale quelle due prime, conservate e nel medesimo tempo tolte di mezzo, si riconciliano e si superano.

Se c'è qualche cosa di veramente grandioso, superbamente grandioso, nella speculazione hegeliana, è questo tentativo di ridurre la realtà a pensiero e il pensiero a realtà, è questo tentativo di identificare la storia con la rivelazione, il divenire con l'essere, la spiritualità con la concretezza, l'eticità con la vita associata.

Fin dalle sue origini la speculazione mediterranea aveva sentito la drammaticità della vita universa nella contrapposizione dell'ideale al reale, del transitorio all'eterno, del sensibile allo spirituale, del percepibile all'immaginabile. Per comporre queste antinomie irriducibili la filosofia greca aveva scoperto la nozione del movimento e il concetto ciclico della vita universa tornante alle sue origini. La religiosità semitico-iranica aveva piuttosto immaginato il contrasto di due forze avversarie nel mondo e la composizione finale del dissidio nella vittoria del principio buono, nel definitivo regno del bene. Nel disposare queste due posizioni spirituali e culturali era stata tutta l'epica grandezza della cultura mediterranea. Ora, nella forma definitiva della speculazione hegeliana, l'idealismo germanico ripudiava nettamente cosí l'una come l'altra visione.

Noi abbiamo veduto come tutto il dramma della spiritualità cristiana nella storia sia stato il tentativo sempre rinnovato di abbinare la visione greca e la visione biblica del mondo e della vita. Le due posizioni fondamentalmente in contrasto non potevano essere composte che in forme di equilibrio instabile, sempre esposto ad essere perduto per essere riconquistato. Nulla di cosí antistorico e di cosí palesemente contraddetto dalla documentazione tradizionale del cristianesimo, come l'asserzione idealistica che l'esperienza cristiana avesse rappresentato la sostituzione dell'idea dello Spirito al cosiddetto oggettivismo della speculazione ellenica. In realtà né la speculazione ellenica era stato puro, corpulento e grossolano naturalismo, ignaro dello spirito, né il cristianesimo aveva voluto essere affatto un rinnegamento dell'oggettivismo della conoscenza. Il contrario è vero. Nelle sue forme piú alte la speculazione, l'arte, la religiosità dell'ellenismo, erano state sempre aspirazioni a un discoprimento dei rapporti possibili fra lo spirito e la natura. Anzi, nelle loro forme piú alte, l'arte ellenica coi Tragici, la speculazione ellenica con Platone avevano persino esasperato il senso della spiritualità, al cospetto della realtà fisica. Ma non avevano mai perduto di vista, come non l'ha mai perduto di vista la schietta e genuina tradizione della cultura mediterranea, che lo spirito, per essere veramente tale, non può non essere contrapposto al non spirito. La concezione della spiritualità è nulla se non ha presupposti dualistici. Il cristianesimo dal canto suo aveva risolto in qualche modo il problema dei rapporti fra lo spirito e la natura, non annullando l'oggettività del reale, ma esasperando ed esacerbando il dissidio fra essi. Perché solo nella consapevolezza acutissima della resistenza del non spirituale allo spirituale, lo spirituale può celebrare e consumare la sua piú alta e grandiosa vittoria.

Noi abbiamo visto come la conversione dei Germani al cristianesimo si era effettuata in un momento in cui il cristianesimo aveva già perduto qualcuno dei suoi connotati iniziali, impoverendosi e affievolendosi in quelli che erano i valori centrali, escatologici e trascendentali, della primitiva esperienza evangelica. Non bisogna mai dimenticare d'altro canto che i Germani arrivarono definitivamente al cristianesimo sotto la ferula cruenta e domatrice di Carlo Magno, rappresentante tipico e maturo di quella Gallia e di quella Francia cristianizzate che, proprio attraverso la loro cristianizzazione, avevano raggiunto un altissimo livello di potenzialità politica in Europa e di saldezza nazionale. Era naturale che il germanesimo covasse costantemente in cuore contro il cristianesimo, cosí tardi e cosí pesantemente ricevuto attraverso l'imposizione delle armi, un inconsapevole rancore e un senso irriducibile di insofferenza e di rivincita.

È arbitrario e ingiustificato sostenere che per secoli questo profondo strato di rancore fermentò oscuramente nelle lotte contro Roma?

Un giorno questa secolare recalcitranza al magistero e alla disciplina di Roma esplose nella insurrezione di Lutero. Ed esplose con la rivendicazione dell'Io credente, in diretta comunicazione con la grazia del Cristo, contro il sacramentalismo e contro la dottrina dell'ex opere operato che era stata solennemente e rigidamente formulata da un cristiano dell'Africa romana, Agostino.

La vecchia spiritualità germanica, mal domata dalla coatta iniziazione cristiana, cominciava a prendere la sua rivincita. E questa rivincita toccava nelle forme estreme dell'idealismo germanico la suprema e superlativamente organica espressione di sé. Hegel doveva portare questa opera al suo compimento. L'idealismo germanico rappresentava veramente la pietra tombale del cristianesimo storico: diciamo meglio, la pietra tombale della cultura mediterranea nei suoi caratteri primigeni e inconfondibili.

Non per nulla il giovane Hegel si era iniziato, da entusiasta, alla conoscenza del paganesimo ellenico. Se l'Illuminismo aveva rappresentato a suo modo la secolarizzazione dei principî cristiani, conservava però troppo palese sedimento di dualismo cristiano fra ragione e non ragione perché potesse essere universalmente normativo. Una filosofia totalitaria nei suoi principî e nella sua efficienza non può essere che arditamente, confessatamente monistica. Che cosa mai possono significare le polarizzazioni fra carne e spirito, fra bene e male, fra Dio e Satana, fra ragione e senso, fra individuo e vita associata, in una pedagogia che vuole dare all'individuo umano la piena consapevolezza dei suoi poteri e dei suoi diritti e allo Stato, come realizzazione della libertà collettiva, il senso delle sue capacità incontrollate e incontrollabili? Il giovane Hegel ammira nella grecità la soppressione di qualsiasi comportamento mistico al cospetto della realtà universale. Che cos'è la stessa incombente nozione del destino se non la proiezione sensibilizzata del senso della vita che noi nutriamo e ci portiamo in cuore?

Ed ecco Hegel di fronte al problema capitale della cultura europea uscita dall'uragano sconvolgente della rivoluzione francese. Il cristianesimo, nello sviluppo della vita e della cultura, ha rappresentato un elemento disarmonico o armonico? E Giorgio Hegel risponde. Risponde da europeo continentale, non mediterraneo: risponde da teutone, solo alla superficie cristianizzato, avversario per istinto e per funzione atavica di tutto quello che viene dall'Oriente, sia semitico, sia iranico. E risponde addebitando al cristianesimo giudaizzante, distinto da quel che era stato il genuino messaggio di Cristo, la responsabilità di avere rotto l'armonica visione ellenica della vita. E poiché non vuole disdire e annullare al cospetto della civiltà europea l'azione del cristianesimo, tenta di svellere la predicazione di Gesù da quelle che ne erano state le interpretazioni posteriori.

Schelling aveva cominciato i suoi studi sul cristianesimo affrontando l'enigmatica figura di Marcione. Aveva intuìto molto bene quale fosse, dal punto di vista della sopravveniente cultura idealistica, il punctum dolens dell'antica storia cristiana. Marcione era destinato a divenire come un vessillo delle nuove polemiche religiose. Per che cosa e in che modo? Ed eccoci dinanzi ad una delle piú paradossali inversioni della nostra storia spirituale. Predicazioni di pace, di fraternità universale, di solidarietà superiore di tutti gli uomini nel corpo mistico di Cristo e nella partecipazione ai carismi, il cristianesimo era apparso alle origini come antitetico al giudaismo, anche se nato dal giudaismo. Il giudaismo, in fondo, aveva avuto sempre due facce: la faccia strettamente nazionalistica della tradizione legalistica e farisaica, e la faccia universalistica del profetismo. Nel momento in cui Roma sentiva il bisogno di schiacciare la nazionalità giudaica per garantire il suo confine orientale, il cristianesimo era apparso nettamente antigiudaico in quanto contrapposto, con la visione del suo Dio di bontà e di amore, al mosaismo, col suo Dio vendicatore e nazionalista. Marcione aveva spinto alle ultime conseguenze possibili il contrasto fra mosaismo e cristianesimo, facendo di questo secondo la rivelazione improvvisa di un Dio buono, ignoto all'antichità biblica.

Sarebbe venuto il giorno – strano e paradossale rovesciamento di parti! – in cui si sarebbe visto nel giudaismo quel che Marcione vedeva nel cristianesimo, l'insegnamento cioè dell'universale fraternità nella pace.

Giorgio Hegel è il primo nella storia contemporanea che abbia dipinto gli ebrei come incapaci di costituirsi in un organismo statale autonomo, e proprio per questo tratti a sognare, in un Regno di Dio trascendente, instaurato per virtú di soprannaturale miracolo, la rivalsa e la riparazione della loro funzionale incapacità di creare grandezze terrene.

A Hegel sfuggiva completamente quella legge che noi abbiamo chiamato legge delle realizzazioni attraverso le antitesi, in virtú della quale la pedagogia del Nuovo Testamento, erede della pedagogia del profetismo, aveva insegnato agli uomini ad attuare il loro progresso nel mondo mercè il rinnegamento spietato del mondo. A Hegel sfuggiva completamente la mirabile legge discoperta dal cristianesimo per cui la visione del Regno di Dio, lungi dall'essere un surrogato e una riparazione degli insuccessi nel mondo, rappresentava il mezzo infallibile e prodigioso per ottenere i piú grandi successi nel mondo. O meglio, non ignorava del tutto questa legge, ma la trasferiva nel mondo della dialettica, con la sua concezione della sintesi che esce dalla contrapposizione dell'antitesi alla tesi.

Assegnando al malefico influsso delle tradizioni giudaizzanti una virtú deprimente e alterante, Giorgio Hegel giovane sosteneva nella sua Vita di Gesù e nella sua Positività della religione cristiana che il Figlio dell’Uomo si era sforzato di indurre il giudaismo del suo tempo a ritrovare Dio e la sua legge, soltanto nella voce della coscienza. Dall'epoca di Noè, all'indomani del diluvio universale, l'uomo era stato sottoposto a forze trascendenti, ad altri da sé, che venivano a violentare e a soffocare le libere energie dello Spirito. Marcione aveva chiamato Dio straniero il Dio buono del Nuovo Testamento. Giorgio Hegel chiamava Dio straniero l'Iddio prima rivelato nella Bibbia.

Da queste pregiudiziali posizioni polemiche, nettamente avverse al genuino cristianesimo storico, Giorgio Hegel, che fu sempre nella sua vita di una progressiva coerenza infrangibile, prendeva le mosse per avviarsi metodicamente e organicamente alla sostituzione dello Spirito a Dio e della coscienza immanente alla rivelazione soprannaturale, culminante nel miraggio cristiano del veniente Regno di Dio. In un atteggiamento di piú che superba autosufficienza, che sembra in realtà essere la realizzazione piú completa di quella aspirazione ad essere come Dio in che è la prima formula della tentazione di Satana, lo Hegel dell'Enciclopedia e della Fenomenologia dello Spirito identifica, in qualche modo, la riflessione e la storia della filosofia. C'è al fondo della speculazione hegeliana la convinzione profonda che lo sviluppo della filosofia sia giunto nell'idealismo al suo apogeo e al suo coronamento, e che alla Germania, che ha generato questo idealismo, spetti ormai una funzione non trasmissibile di predominio e di signoria non solamente intellettuali. Nella misura in cui la cultura europea avrebbe passivamente e supinamente accettato questa posizione, c'erano le condizioni preliminari di una affermazione egemonica nel mondo.

In tutti i suoi particolari, in tutti i suoi elementi, in tutte le sue ripartizioni, in tutta la sua intima dialettica, l'hegelismo, considerato nelle sue basi e nel suo spiegamento, appare veramente come la contraffazione parodistica delle posizioni centrali e basilari del cristianesimo.

Nel cristianesimo storico, a cominciare da Paolo, lo spirito è un'attitudine primordiale dell'essere vivente, umano e cosmico, pronto ad essere sollecitato e destato dalla grazia. È al di là e al disopra della carne e dell'anima, come una virtú obbedienziale dell'essere, soggiacente alla virtú meravigliosa dello Spirito trasfigurante di Dio. In Hegel lo Spirito è la realtà vera e assoluta dello universo, che prima però di possedersi in pieno nella eticità autocosciente, deve spiegarsi successivamente nel dominio della logica e nel dominio della natura. Se la logica è il sistema delle essenze pure, dello Spirito in sé, non ancora concretatosi e realizzatosi, la natura è lo Spirito che ha prodotto le forme della propria negazione.

Il cristianesimo aveva portato alle ultime applicazioni possibili il concetto biblico della creazione, raffigurandosi Iddio come un Padre che è sempre nello spiegamento prodigioso e benevolo della sua capacità generante. Tutto l'universo pende, istante per istante, dall'atto generatore di Dio, senza cui l'esistenza universale ripiomberebbe automaticamente nel nulla. Hegel, parodisticamente, immagina che il concetto spirituale si realizzi costantemente nella natura, dall'intimo di sé, per un processo costantemente triadico di tesi, antitesi, sintesi, che è una trasposizione del dogma trinitario nel dominio della fenomenologia spirituale. Avrebbero mai potuto immaginare i primi formulatori del dogma trinitario, Tertulliano e Ippolito Romano, agli inizi del terzo secolo, che si sarebbe giunti un giorno ad una cosí mostruosa deformazione delle esigenze e delle aspirazioni valutative che avevano sorretto la loro audace visione teologica dell'economia divina nel mondo? Ma lo spirito si redime dalle sue stesse incarnazioni esteriori (anche qui la filosofia hegeliana non è che la contraffazione miserevole del senso augusto della incarnazione divina nella rivelazione del discorso della montagna) per assurgere alla perfezione di Spirito assoluto. Lo Spirito che si pone come eticità (e veramente sul terreno dell'etica Hegel riecheggia questa volta fedelmente la posizione dell'etica kantiana, spingendola però alle sue applicazioni estreme) non può essere piú condizionato né limitato da esteriorità alcuna. L'individuo si costituisce libero nella misura in cui oltrepassa e vince la propria limitatezza, per realizzarsi progressivamente come valore universale. D'altro canto l'eticità è funzionalmente ed essenzialmente concreta eticità sostanziale e nazionale. L'individuo non vive che nella comunità e per la comunità. Essa non può essere concepita che come organismo unitario, spiegantesi nei suoi organi che sono la Famiglia e lo Stato. Nessuna zona etica fuori della statale, ché lo Stato incarna la spiritualità universale, la quale attua nello sviluppo storico la propria assoluta verità e la propria incontrollabile ed invulnerabile coscienza.

Soggetto universale, lo Spirito assoluto, oltrepassata e valicata la ristrettezza delle sue trascorse esperienze, ne consuma la celebrazione perfetta e ne sintetizza i principî. L'arte, la religione, la filosofia, non sono che forme collegate dell'essenza assoluta. L'arte è apparizione dell'idea in foggia sensibile. La religione è rivelazione oggettiva dello Spirito a se stesso, in quanto realizzato nelle sue intime determinazioni. Ma solo la filosofia costituisce e rappresenta l'inveramento delle altre categorie, in quanto è adeguazione completa di soggettività e di oggettività. Se la storia della filosofia segna il processo dell'idea, l'idealismo germanico, per confessione boriosa del suo sistematore Giorgio Hegel, segna di questo processo il coronamento supremo; e lo Stato prussiano ne sarà il gestore infallibile.

L'Illuminismo, che gli idealisti tedeschi si davano l'aria di combattere e di soppiantare, non aveva invece qui che la sua conclusione logica, inflessibile, totalitaria. Ma era anche il congedo definitivo dato al cristianesimo come forza disciplinare ed educatrice dell'umanità associata.

Il cristianesimo era nato come contrapposizione del secolo presente al secolo futuro. L'idealismo germanico chiudeva definitivamente le porte a qualsiasi prospettiva escatologica. Il mondo ha raggiunto definitivamente il pieno coronamento di sé nella assoluta autocoscienza dello Spirito.

Il cristianesimo aveva inserito nella coscienza degli uomini la sensazione tremebonda di un altro da noi, che è il Padre e il giudice della nostra effimera, ma eternabile esistenza. L'idealismo germanico sopprimeva qualsiasi linea separatoria fra l'Io e l'altro da sé, per sostituirlo con la spiritualità autospiegantesi attraverso forme successive, senza possibilità trascendenti.

Il cristianesimo aveva nettamente distinto il mondo della natura peccaminosa dal mondo trasfigurante della grazia. L'idealismo germanico distruggeva ogni antitesi ed ogni contrasto nella indiscriminata spiritualità del reale.

Il cristianesimo distingueva la natura dalla rivelazione, la storia degli uomini dalla superstoria di Dio. L'idealismo germanico faceva della storia il dominio integrale della spiritualità che si spiega.

Infine, sulla base di tutti i suoi precedenti dualismi, il cristianesimo distingueva nettamente i valori della religione dai valori della politica, come due sfere destinate a procedere mescolate e in pari tempo inconguagliabili, fino al giorno della comparsa del vaglio infallibile, che avrebbe disciolto la «città di Dio» dalla «città di Satana». L'idealismo germanico unificava valori politici e valori religiosi in una sola manifestazione progressiva dello Spirito assoluto.

Là dove l'idealismo germanico avesse gettato le sue ramificazioni, si doveva dire che il cristianesimo sarebbe ben morto. Che il mondo pertanto si avviasse, senza soprannaturali presidî, al cimento delle sue esperienze e ai tentativi delle sue costruzioni: gli uomini avrebbero veduto di quali risorse esso era provvisto e di quali realizzazioni sarebbe stato capace.

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