IX LA REAZIONE DEL CONGRESSO DI VIENNA

Si è soliti considerare, del Congresso di Vienna, solamente le decisioni politiche e territoriali. E non si è mai tenuto sufficiente conto dell'importanza di tale Congresso e della conseguente Santa Alleanza, come nuova configurazione delle forze spirituali operanti in Europa, dopo che, con Alessandro I, la Russia entrò come fattore temporaneamente preponderante nel giuoco delle forze politiche europee.

Noi abbiamo visto nella parte medioevale della nostra storia come l'alba civile della Russia si sia trovata strettamente legata alla Bisanzio rivale di Roma. Abbiamo minutamente visto come la emulazione e la rivalità fra la Chiesa romana e la Chiesa bizantina, nel rivendicare l'iniziazione e la disciplina cristiane dei nuovi popoli slavi scendenti verso il Sud e verso il mare, nei loro primi contatti con le popolazioni dell'Occidente e del Vicino Oriente, dessero luogo ad episodi drammatici e a volte tragici, in cui andò spesso a repentaglio il decoro religioso delle due tradizioni imperiali.

Abbiamo visto come tale emulazione e tale rivalità fossero per una parte cospicua nella rottura tra Roma e Bisanzio. Abbiamo visto infine come, dopo la ricostituzione unitaria del mondo mediterraneo per opera di Giustiniano e dopo la irruzione islamica venuta a determinare in questa unità mediterranea una cosí profonda ed insanabile frattura, mentre Roma dal canto suo riusciva a costituire una nuova unità continentale che riceveva il suo battesimo attraverso la consacrazione di Carlo Magno, Bisanzio tentò, si direbbe, la sua rivincita, cercando di costituire in unità sotto il suo predominio le popolazioni slave, gravitanti verso i margini settentrionali del suo territorio.

Per secoli la Russia visse religiosamente la vita del mondo bizantino, sostanzialmente estranea alla vita del continente europeo e dell'Occidente romano, estranea a qualsiasi interesse continentale e mediterraneo. Solo la caduta di Bisanzio determinò fatalmente nuovi orientamenti in seno alle popolazioni slave ortodosse. Tali orientamenti impiegarono un lungo lasso di tempo per giungere a maturazione. L'ora della maturazione fu quella dello zar Pietro il Grande.

Sono note le romanzesche e, diciamo pure la parola, geniali vicende della sua vita. L'Occidente esercitò sempre su di lui uno strano fascino. Salito al potere attraverso una lotta cruenta, lo esercitò spiegando fino alle ultime possibilità la sua avidità di apprendere e di copiare dall'Occidente quella che al tramonto del secolo XVII era la incipiente tecnica moderna. Studiava quindi matematica con l'olandese Timmermann. Sotto la guida dell'olandese Brant compí i suoi primi saggi di tirocinio navale. Quando, poco piú che ventenne, vide per la prima volta il mare ad Arcangelo, la navigazione suscitò i suoi piú impetuosi entusiasmi. Nel 1697, venticinquenne, intraprendeva lui, lo zar, sotto il nome di Pietro Michajlov, accompagnato da un largo séguito, un lungo viaggio nell'Europa occidentale. Se lo scopo palese della missione era quello di costituire fra i regnanti cristiani una specie di nuova crociata contro la Turchia, in realtà Pietro mirava ad un vasto arruolamento di artigiani e di mastri occidentali, esperti nella tecnica delle costruzioni marittime. Volle personalmente conoscere da presso tutto ciò che costituiva la caratteristica delle discipline militari e navali nelle varie parti d'Europa e tutto quello che poteva essere utilizzato ed applicato trapiantò poi nel suo immenso paese, cui le spedizioni militari accrebbero la vastità del dominio e il prestigio internazionale. In altri tempi la crociata era servita al Papato come mezzo di amplificazione di potere morale e politico nel Vicino Oriente, talora si era automaticamente trasformata in una impresa antibizantina. Ora il motivo crociato serviva all'ortodossia slava, erede di Bisanzio, per strappare all'Occidente molte delle sue armi e aguzzarle per una eventuale rivincita della ortodossia, uscita da Bisanzio, contro Roma.

Prima che il secolo XVIII tramontasse, la Russia aveva un'altra occasione singolare di entrare in rapporto con l'Occidente e a suo modo di incorporarne e di sfruttarne le risorse, per potersene, quando che fosse, avvantaggiare contro l'Occidente stesso. E fu quando, dopo traversie e peripezie inaudite, Clemente XIV, il 21 luglio 1773, sopprimeva la Compagnia di Gesù, già successivamente espulsa dal Portogallo e dalla Francia, dalla Spagna e dalle Due Sicilie, da Malta e da Parma. In soli due paesi la soppressione di Clemente XIV non fu riconosciuta, e il Breve pontificio che la sanzionava non fu potuto promulgare: nella Prussia di Federico II , amico di Voltaire, e nella Russia Bianca, governata dalla zarina Caterina II. La cosa evidentemente non manca di un certo significato. Si potrebbe dire anzi che da questo superstite angolo rimastogli il gesuitismo mosse i primi passi per la riconquista dell'Occidente. La Russia ortodossa salvò il gesuitismo per il dí della sua rinascita. Un fenomeno analogo si sarebbe ripetuto altra volta nella storia successiva.

Alla morte di Clemente XIV, il successore Pio VI aveva dovuto fare buon viso a cattivo giuoco, e permetter nella Russia Bianca lo stato di cose autocraticamente sostenuto da Caterina. Pio VII a sua volta, con Breve del 7 marzo del 1801 , sanzionava l'esistenza dei gesuiti nell'Impero russo, per estendere poi questa approvazione, tre anni piú tardi, al Regno delle Due Sicilie. Finché il 7 agosto 1814 lo stesso Pontefice Pio VII ristabiliva la Compagnia nel primitivo stato, proprio nel tempo stesso in cui si aprivano le sessioni del Congresso di Vienna, che cercava di dare assetto reazionario all'Europa, sotto l'egida di quell'Alessandro I, nipote di Caterina II, destinato a viziare l'atmosfera spirituale di Europa con i principî della Santa Alleanza. I quali non erano altra cosa, a ben considerarli, che l'Illuminismo francese filtrato attraverso il misticismo slavo, come il comunismo sarebbe stato un giorno il risultato di una filtrazione del materialismo marxista attraverso l'anima slava.

L'incontro e lo scontro di Napoleone e di Alessandro I segnano effettivamente un momento di una culminante drammaticità nella storia dell'Europa post-rivoluzionaria.

Portando in giro per l'Europa, al séguito della sua irresistibile aggressione piratesca, le idee dell'Illuminismo francese, era fatale che Napoleone si incontrasse nella piú singolare e contraddittoria figura che l'autocrazia russa, erede del cesaro-papismo bizantino, potesse offrire all'Europa del secolo XIX albeggiante.

Nonostante la breve parentesi seguita alla pace di Tilsit, le due figure, ugualmente autoritarie, ugualmente totalitarie, ugualmente votate all'imperialismo piú sfrenato, non potevano non scendere ad un epico duello, che doveva concludersi con un asservimento mistico-iniziatico dell'Europa intiera alle idee abnormi e paradossali dello zar di tutte le Russie

Alessandro I passò come un enigma per i suoi contemporanei, ed enigmatico appare tuttora a molti storici della Santa Alleanza. La sposa Elisabetta, dopo quasi trent'anni di vita coniugale, lo definiva un angelo. Giuseppe De Maistre, che ebbe agio di conoscerlo da vicino a Pietroburgo, non esitava a riconoscerlo come un'anima d'eccezione, ma universalmente disconosciuta. I suoi intimi non potevano però fare a meno di addebitargli qualcosa di piccolo, di basso e di angusto, pur nel suo temperamento di eccezione. Napoleone, che lo aveva avuto in pari tempo alleato e avversario indomabile, denunciava qualcosa in lui di indefinibilmente disarmonico, pur nel fascio delle sue eccezionali qualità intellettuali e sullo sfondo di una sottile capacità di seduzione captivante.

Il Metternich, che ebbe modo di studiarlo bene a Vienna, disse di lui: «V'è in lui un non so che, v'è qualcosa che io non posso spiegare in altro modo, se non dicendo che sempre e dovunque gli manca qualche cosa, e, tratto ancora piú singolare, non si è mai in grado di prevedere quel che gli mancherà in una determinata evenienza, poiché le sue deficienze e le sue lacune variano all'infinito».

Nel 1817 un diplomatico svedese a Parigi lo definiva «fine in politica come la punta di un ago, aguzzo come la lama di un rasoio, falso come la schiuma del mare». Napoleone lo giudicò un bizantino del basso Impero e forse vide giusto.

Perché appunto la malattia di Bisanzio si è trasmessa invariabilmente nei secoli all'anima russa, che da Bisanzio chiese ed ebbe la sua prima iniziazione religiosa e civile. Il cristianesimo slavo è una sontuosa e pomposa mistagogia, sotto le cui forme solenni palpita una visione totalitaria della sacralità cosmica e umana che non riesce piú a distinguere il sacro dal profano, il bene dal male, Dio e Satana: non riesce cioè piú a fare quella distinzione radicale di valori nella cui antitetica complementarità e nella cui drammatica e agonica contrapposizione, è il senso intimo ed instabile del progresso cristiano.

Su quest'anima tipica di slavo, quale ci si rivela fin dalla sua piú giovane età il nipote di Caterina II, era venuto ad inserirsi lo spirito dell'Illuminismo occidentale, determinando uno strano amalgama, di cui i contemporanei avvertirono il fascino sottile e nel medesimo tempo la repellente anormalità.

Caterina II stessa, la nonna, volle che al fianco del giovanetto Alessandro, fin dalla sua piú tenera età, vigilasse come pedagogo Federico Cesare La Harpe. Forse l'apporto del La Harpe alla formazione spirituale del futuro zar del Congresso di Vienna non è stato sufficientemente valutato.

Il La Harpe veniva da quel Cantone di Vaud che rappresentava probabilmente in Europa l'angolo privilegiato, nel quale le piú singolari, sottili e pregnanti esperienze della spiritualità moderna hanno avuto modo di depositarsi, di concretarsi e di creare un inconfondibile ambiente.

Sottratto ai duchi di Savoia e annesso al Cantone di Berna nel 1536, il Cantone di Vaud era guadagnato al messaggio riformato dalla predicazione di Guglielmo Farel. Ma al messaggio riformato la popolazione del Cantone offrí elementi spirituali cosí originali, cosí equilibrati, cosí ricchi di istintiva moralità e cosí dotati di armonia intima, da far sí che attraverso i secoli la comunità riformata del Cantone appaia come uno dei complessi sociali piú mirabilmente retti da una nobile consapevolezza religiosa e da una squisitissima sensibilità evangelica. D'altro canto, la stessa condizione geografica fa del Cantone di Vaud in Europa un recinto aperto a tutte le correnti spirituali che traversino l'atmosfera europea con il loro fermento innovatore.

Il La Harpe, che Caterina II nel 1784 poneva al fianco del settenne Alessandro, era un esemplare tipico di quello spirito largo e duttile del Cantone vaudese, che nella seconda metà del secolo decimottavo era aperto a tutte le azioni e reazioni dell'Illuminismo enciclopedico. Il La Harpe era nato a Rolle, nel Cantone di Vaud, nel 1754. Allo scoppio della rivoluzione francese egli, già alla corte di Caterina, si mostrò convinto sostenitore dei principî rivoluzionari. Può darsi che egli fosse per qualcosa nell'indurre la sovrana russa a non assumere un atteggiamento di netta ostilità contro la Francia. La sua condizione alla corte di Caterina si fece però con gli anni insostenibile, e nel 1795 egli doveva abbandonare il suo posto. Ma ormai la sua opera presso il giovanetto Alessandro era compiuta, e non è azzardato il ritenere che nell'avvicendarsi dei consiglieri e dei pedagoghi, l'azione del La Harpe sia quella che rimase sempre nel suo subcosciente fattivamente predominante. Donde quel singolare innesto e quell'eccentrica mescolanza di Illuminismo razionalista e di misticismo piú o meno morboso, che contrassegnarono costantemente l'azione politica pubblica di Alessandro, chiamato per la prima volta nella storia, dopo che Pietro I il Grande si era avvicinato all'Occidente in atteggiamento di discepolo, ad apparire nell'Europa sconvolta dalla rivoluzione e dall'avventura napoleonica come reintegratore di valori abbattuti ed elargitore di un'età di universale pace e messianica prosperità.

Napoleone era andato a cercare nelle steppe russe il suo emulo proporzionato e il suo rivale vittorioso. Il contrasto non era soltanto di due grandi personalità storiche, era di due vecchie antagonistiche civiltà, che si ritrovavano ora, in uno sforzo gigantesco dell'Europa per ricuperare la sua unità, avvicinate in qualche modo da una comune solidarietà in alcune visuali della vita e del destino storico degli uomini, che erano come la decantazione laicizzata e la distillazione profana di vecchi principî cristiani, caduti, si direbbe, in desuetudine, e precipitati dal soglio del loro secolare predominio.

La grande avventura napoleonica era un po' anch'essa a suo modo la continuazione del programma illuministico che aveva presieduto alla esplosione e all'affermazione dei principi rivoluzionari. Alessandro I dal canto suo personificava la vecchia tradizione cesaro-papistica di Bisanzio, contaminata però da infiltrazioni illuministico-rivoluzionarie, che il pedagogo La Harpe, della cui azione Alessandro non si sarebbe dimenticato nei giorni del Congresso di Vienna, aveva instillato nel suo spirito di giovanetto precoce. Per questo lo spettacolo dell'incontro drammatico di Napoleone e di Alessandro non rappresenta soltanto un momento episodico nella storia dell'Europa post-rivoluzionaria: rappresenta piuttosto una reviviscenza diversamente atteggiata di un contrasto fra Oriente e Occidente che si era tante volte presentato nella storia della civiltà mediterranea; rappresenta un'ora veramente capitale nello sviluppo dei rapporti fra mondo continentale europeo e mondo slavo, ora che se ne annunciano altre di altrettanto grave e significativa entità.

Il Lamartine ha scritto una volta: «La guerra del 1812 non fu una lotta di interessi, ma di fazioni. Una guerra antica, una lite di re, decisa dal sangue dei popoli. La vittoria avrebbe dimostrato se in Europa dovesse dominare un solo zar nel Nord o se nell'Occidente vi fosse ancora posto per due potentati di pari grado».

Con tali parole non è neppure detto tutto. Quel che al conflitto del 1812 e al suo epilogo drammatico, con il conseguente ingresso trionfale di Alessandro a Parigi e con il suo assidersi da dominatore e da arbitro al Congresso di Vienna, dà il carattere peculiare, è che i due personaggi di fronte, pur portando ciascuno una sagoma inconfondibile, si muovevano in un'atmosfera comune di presupposizioni e di visuali che, mentre da una parte sembrava dovesse esasperare i connotati tipici di ciascuno, li condannava a muoversi su un terreno uniforme e dietro finalità analoghe.

Napoleone aveva mostrato a tutte le riprese della sua vita di subordinare nettamente i valori spirituali e religiosi alle esigenze del suo progrediente Impero, con un atteggiamento d'animo bizantinamente cesaro-papistico, il che lo riavvicinava stranamente al temperamento e alla psicologia del suo rivale russo.

E Alessandro d'altro canto aveva cosí sottilmente assimilato dall'insegnamento del La Harpe gli orientamenti dell'Illuminismo, da trasformare automaticamente e inconsapevolmente il suo istinto cesaro-papistico di successore dei basileis bizantini in una illuministica certezza di potere instaurare solo, di suo arbitrio, la giustizia e la pace sulla terra.

Due fenomeni psicologicamente aberranti, resi possibili dalla progressiva profanizzazione che la tradizione cristiana e cattolica aveva, attraverso gli ultimi secoli, subìta, per oblìo di quella incolmabile separazione fra valori politici e valori religiosi che aveva costituito l'originalità del messaggio cristiano nella storia, e rese possibili nel Medioevo le grandi creazioni della civiltà europea.

Qui, e qui solo, la grandezza tragica del duello fra Napoleone e Alessandro. Qui, e qui solo, il significato epico della campagna di Russia e delle sue conseguenze, prologo titanico, si direbbe, di una nuova storia europea, nella quale l'Europa, uscita ormai dal solco genuino della tradizione cristiana, andava a gettare allo sbaraglio, Dio sa in quale irreparabile naufragio, i suoi valori, la sua grandezza, la sua originalità.

La Russia cominciava a rigettare sull'Europa, amplificate nelle loro capacità funeste, le arie attossicate che ne aveva assorbito.

Quel 31 marzo 1814 in cui Alessandro entrò a Parigi vittorioso, qualcuno gli gridò dalla folla acclamante: «Da quanto tempo vi aspettavamo!». La Francia illuministica aveva qualche cosa da apprendere e da ricevere dallo zar illuminista di tutte le Russie? Alessandro rispose alla voce invitante: «I vostri bravi soldati non mi hanno permesso di arrivare prima!». La risposta era piena di simbolo: le lunghe tradizioni dell'Occidente avevano tenuto per secoli e secoli serrata la Russia nei suoi confini etnici, territoriali, morali e religiosi. Il vecchio Impero carolingico non era stato forse il contrafforte e il baluardo della Cristianità occidentale di fronte all'orientalismo bizantino? Ma i vecchi ideali della Cristianità d'Occidente si erano logorati e si erano affievoliti. Oriente e Occidente sembravano aver trovato una comune piattaforma in una progressiva laicizzazione razionalistica ed illuministica del mistero cristiano, e la Russia di Alessandro poteva calare verso Parigi, avanguardia di altre calate altrettanto abnormi per la mentalità millenaria dell'Occidente, che era venuto però sciaguratamente abdicando ai suoi titoli di preminenza e di magistero.

Al Congresso di Vienna, Alessandro spiegò un'azione palesemente predominante. E il Congresso diede all'Europa il nuovo assetto, dopo il fulmineo sgretolamento dell'Impero napoleonico. Non fu un Congresso di pace, non fu neppure una specie di Assemblea costituente per una federazione di Stati europei. Fu qualcosa di piú e qualcosa di meno. I problemi lasciati insoluti dalla pace conclusa a Parigi il 30 maggio 1814, concernenti la Polonia, la Germania, l'Italia, ricevettero una loro soluzione provvisoria. Per la prima volta si tentò di dare all'Europa una Magna Charta territoriale, giuridicamente garantita dal riconoscimento solenne di tutti gli Stati. I quali avallarono l'opera del Congresso, sebbene in realtà l'effettivo potere durante le discussioni del Congresso fosse stato esercitato soltanto dalle grandi Potenze strette in un Comitato comprendente, in un primo momento, le quattro nazioni cui risaliva il merito della vittoria antinapoleonica: Austria, Russia, Prussia e Inghilterra.

A Vienna, l'autocrate russo si atteggiò ancora una volta a combattente per la giustizia e a difensore dei deboli e degli oppressi. In realtà qualcosa di mistico era nella sua consapevolezza di arbitro della situazione. Alessandro si considerò a Vienna strumento della Provvidenza, mentre intorno a lui i plenipotenziari dei popoli, ai quali il sangue degli eserciti russi aveva arrecato libertà e indipendenza, non miravano che a farlo strumento duttile dei loro circoscritti interessi. Non a caso Talleyrand e Metternich furono dalla logica della situazione indotti ad assumere la parte di antagonisti intransigenti dello zar russo.

All'inizio dei lavori del Congresso Metternich aveva detto ad Handerberg: «I posteri non ci perdoneranno mai se noi non conterremo la Russia nelle sue vecchie frontiere». C'era qualcosa di presago nelle parole del ministro austriaco. Dominato da simile preoccupazione, Metternich dovette destreggiarsi con un'abilità piena di finzione. Egli promise alla Prussia la Sassonia, qualora la Prussia avesse fiancheggiato l'Austria nel suo proposito di neutralizzare il piano russo in Polonia. E in pari tempo sottoponeva allo zar il proposito di sostenere il suo progetto polacco, a condizione però che Alessandro inducesse la Prussia a rinunciare alla Sassonia. La vecchia Austria cristiana e cattolica temeva ugualmente la espansione della Prussia e la calata in Europa della Russia. Il suo motto era: «I Russi a Varsavia e ai Carpazi, i Prussiani a Lipsia e alla frontiera della Boemia, giammai!». Ma il doppio giuoco era troppo trasparente perché Alessandro non ne avesse il sentore e non fosse tratto a fare le sue rimostranze.

Metternich era ossessionato dalla volontà di frapporre tutti gli ostacoli ad un rafforzamento qualsiasi della posizione russa sul continente. Ma la logica della storia ormai impegnata in una parificazione del mondo europeo e russo in una visione puramente razionale e immanentista del mondo fu e sarebbe stata ancora in séguito infinitamente piú forte e piú travolgente dei propositi di Metternich e dei valori che si agitavano alle sue spalle.

All'indomani del Congresso di Vienna, Alessandro, spinto inconsapevolmente da un nisus che trascendeva effettivamente le singole personalità degli uomini pubblici per condurre la politica e la spiritualità europee verso quello che doveva essere l'epilogo della loro pervicace apostasia dalle tavole di fondazione del cristianesimo, rivelava la sua volontà di dare all'Europa non piú soltanto un assetto territoriale, bensí una forma mentis e un'anima profonda, che fossero come la realizzazione concreta ed empirica dell'ideale evangelico del Regno di Dio.

Ancora in piena guerra napoleonica, il 25 gennaio 1813, egli aveva scritto al mistico Kochelev: «La mia fede è ardente e sincera. Ma non crediate sia nata oggi. Già da parecchi anni io cercavo questa via. La lettura dei libri sacri di cui avevo una conoscenza molto superficiale mi ha fatto un bene che difficilmente potrei esprimere. Rimpiango che le nostre conversazioni siano cadute troppo spesso nella politica invece di rimanere nel puro campo spirituale. Pregate l'Ente supremo [il modo di rivolgersi a Dio con questa frase illuministico-rivoluzionaria va messo in risalto], il nostro Salvatore, lo Spirito Santo che da essi deriva, affinché mi guidino e mi fortifichino nella sola via che conduce alla salvezza, affinché mi concedano le facoltà necessarie a compiere la mia missione per il bene non volgare della nostra patria. Affrettare l'avvento del Regno di Gesù Cristo: ecco dove io ripongo tutta la mia gloria».

Affrettare il Regno di Dio! Il cristianesimo antico non aveva conosciuto altro modo di affrettare il Regno di Dio che quello di invocarlo veniente, perché il miglior modo di affrettare il Regno di Dio è quello di porsi nell'aspettativa della fiducia che è in pari tempo l'atteggiamento del disinteresse di fronte a tutto quello che non è Dio e il suo Regno. Ora lo zar delle Russie, l'erede del cesaropapismo bizantino, arieggiando anche lui quelle concezioni dell'Illuminismo che reputavano le capacità umane in grado di realizzare la giustizia e il bene nel mondo, credeva di potersi costituire strumento di Dio, nella realizzazione della giustizia fra gli uomini. Lo zar delle Russie pertanto si costituiva cosí interprete di quel liberalismo, di quella concezione cioè ottimistica della vita umana e dei suoi poteri, che avrebbe rappresentato il contrassegno di tutta la cultura e di tutta la mentalità del secolo XIX.

La vittoria strepitosa su Napoleone aveva rafforzato fino all'esasperazione nell'animo di Alessandro la fede messianica nell'imminente inizio di una nuova età mitica. L'incontro con Giuliana von Krudener fece il resto. Era nata costei a Riga nel 1764. Fin dalla sua prima gioventú aveva rivelato spiccatissime tendenze ad esaltazioni di tutti i generi. Maritata nel 1783 con il von Krudener, aveva menato vita irregolare e avventurosa. Infedele al marito con un altro diplomatico, aveva finito col ridurre l'amante al suicidio. Era seguita poi la morte improvvisa dello sposo. Fu il momento di una crisi spirituale che la Krudener rappresentò in un suo romanzo intitolato «Valérie». Presa da una febbre mistica, alimentata dalle idee di Svedenborg e dalle dottrine dei Fratelli Moravi, la Krudener cominciò a propalare i suoi presagi, annunciando per il 1815 la caduta dell'angelo nero e la comparsa dell'angelo bianco «nuovo Ciro chiamato a radunare tutti i popoli della terra sotto l'unico scettro di Dio».

Gli annunci della visionaria che Alessandro conobbe personalmente per la prima volta il 4 giugno 1815 ad Heilbronn, sembravano dover dare forma concreta alle aspirazioni confuse dello zar Alessandro. Da quella fermentazione oscura nacquero gli articoli della Santa Alleanza. Lamartine vi ha apposto questa epigrafe: «La storia deve ridare a quest'opera il suo vero valore. La Santa Alleanza ispirata allo zar russo da una donna romantica e mistica, una specie di Sibilla cristiana, nacque nella intimità di un cenacolo e non in una conferenza di diplomatici. Fu il pio romanzo di un'anima esaltata, degno, per la santità del suo scopo, di appartenere al pensiero di un grande uomo, dominatore del mondo».

In realtà la Santa Alleanza ha nello sviluppo della Cristianità moderna un'importanza molto piú rilevante e un significato molto piú vasto. Si sa come fu concepita e presentata al mondo. Difformemente da tutti i patti di alleanza precedenti, questa alleanza, conchiusa a Parigi il 26 settembre 1815 fra Alessandro I, imperatore di Russia, Francesco I, imperatore d'Austria, e Federico Guglielmo III, re di Prussia, muniti di pieni poteri, senza alcun intervento di agenti diplomatici, senza alcuna speciale formalità protocollare, ma sottoscritta direttamente e personalmente dai tre sovrani sotto il controllo e la garanzia del piú in vista, del piú potente fra loro, Alessandro stesso, non era uno dei soliti documenti diplomatici stilati alla fine dei grandi conflitti bellici i quali avevano devastato l'Europa negli ultimi secoli, ma era un singolarissimo, abnorme, si direbbe quasi eccentrico miscuglio di formule religiose e di presupposti pseudo-cristiani, invocati e formulati a garanzia di un consiglio di dominatori europei, che avrebbero voluto attrarre intorno a sé, con la forza suggestiva delle stesse loro untuose dichiarazioni sacre, l'adesione, e quindi in qualche modo la sudditanza delle altre minori Potenze europee.

Vi si diceva preliminarmente: «Confessiamo che la nazione cristiana di cui i tre monarchi e i loro popoli fanno parte, non ha realmente altro sovrano se non quegli a cui solo spetta in proprietà la potenza, perché in Lui solo si ritrovano tutti i tesori dell'amore, della scienza e della sapienza infinita, vale a dire Dio, il nostro Divin Salvatore Gesù Cristo, il Verbo dell'Altissimo, la parola di vita».

Sul fondamento di tale presupposto, che sarebbe stato molto meglio e avrebbe figurato molto piú convenientemente nel prologo della professione di fede di una comunità religiosa anziché in un testo diplomatico destinato a dar tregua all'Europa squassata fino alle radici dall'uragano rivoluzionario e dalla meteora napoleonica, i tre potentati, fra i quali del resto solo la volontà di Alessandro contava, innalzavano l'edificio di quel che poteva apparire il loro programma messianico di fronte ai popoli europei.

I tre sovrani continuavano col dichiararsi convinti della necessità di assumere a regola e a disciplina di ogni loro azione di governo, per tutto ciò che investiva la gestione dei rispettivi Stati e le loro relazioni ufficiali con gli altri governi, « le sublimi verità insegnate dall'eterna religione del Dio salvatore » . Si impegnavano pertanto, non senza solennità, di fronte al mondo, a conformarsi da allora in poi a quei precetti di giustizia, di carità e di pace, inculcati dalla santa religione cristiana, che soli appaiono capaci di consolidare le istituzioni civili e di colmare le loro naturali imperfezioni.

I tre sovrani quindi si impegnavano a mantenersi strettamente uniti nei collegamenti di una vera e indissolubile fratellanza, pronti, ad ogni evenienza, a prestarsi vicendevolmente sostegno e soccorso.

Al cospetto dei loro popoli i tre sovrani promettevano di mantenersi nell'atteggiamento condiscendente di padri di famiglia, sulla base del medesimo spirito fraterno che li animava e sorretti dal proposito immutabile di tutelare la religione, e con essa la pace e la giustizia. Promettevano cosí di ritenersi sempre come membri di una medesima e solidale nazione cristiana, il cui Capo era Dio. Di Dio i sovrani dovevano professarsi delegati, assumendo l'obbligo scambievole di prodigarsi a vicenda aiuto ed affetto, e raccomandando contemporaneamente ai popoli soggetti di volersi fortificare, con la piú vigile cura, nei principi e nelle pratiche dei doveri che il Divino Redentore ha inculcato agli uomini. Ogni altro reggitore di popoli che avesse voluto fare atto di adesione ai sacri principi sui quali l'atto di Parigi era fondato, era assicurato in anticipo ehe sarebbe stato introdotto nell'Alleanza di nuovo genere, chiamata, non senza prosopopea, Santa, con le espressioni piú candide di cordialità, di fraternità e di benevolenza.

Metternich bollò argutamente i tre sovrani con il nomignolo di «Re Magi». E il nomignolo sortí una grande fortuna: poiché esprimeva non senza lepidezza l'atteggiamento singolare di questi tre sovrani che, capeggiati dal cesaro-papista zar di tutte le Russie, sembravano trarsi in posa di peregrini verso la cuna santa dei principî cristiani. In realtà c'era da domandarsi se, anziché portare la vita europea verso le fonti primigenie della rivelazione e dell'esperienza cristiane, i tre potentati non cercassero di trascinare i principî del cristianesimo ad una visione e ad una pratica della vita politica europea completamente difformi dall'autentica visione evangelica dei rapporti fra vita politica e vita religiosa.

Già il fatto che tre firmatari della Santa Alleanza appartenessero a tre confessioni cristiane diverse avrebbe dovuto essere un sintomo piuttosto inquietante, quanto alla conformità dei loro mirabolanti piani politici alla tradizione vera della prassi cristiana. Il De Maistre, che pure conosceva molto bene il mondo russo, scriveva a proposito del singolare documento a Vittorio Emanuele I: «Lo spirito che ha dettato il manifesto non è né cattolico, né greco, né protestante. È uno spirito particolare che io vado studiando da trent'anni, ma che richiederebbe troppo spazio per essere qui pennelleggiato».

In realtà, lo spirito duramente e fieramente intransigente e reazionario del De Maistre non era in grado, nonostante la sua innata acutezza, di scorgere fino in fondo quel che il manifesto della Santa Alleanza rappresentava a quel crocicchio di sentieri in cui si trovava la spiritualità europea all'indomani della bufera napoleonica.

Sta di fatto, lo ripetiamo, che la visione illuministica della vita e del destino umano, quale si era venuta instaurando nella cultura occidentale alla vigilia della rivoluzione francese, non solo aveva determinato lo scardinamento della tradizione gallica, ma attraverso la pedagogia del La Harpe era arrivata fino in Russia a saturare di sé il trono russo, erede di Bisanzio. La Santa Alleanza non era che il tentativo di costituire un'Europa sulle forme di un Illuminismo filtrato attraverso il cervello funzionalmente bizantino di un basileus moscovita.

A buon conto il re di Francia prima, il principe reggente di Inghilterra poi, finirono con l'aderire al patto della Santa Alleanza, a titolo però puramente personale. Luigi XVIII non volle farne una questione di Stato, e d'altra parte la consuetudine del Parlamento britannico impediva al governo di impegnarsi in una dichiarazione formale e di principi che potesse rappresentare e costituire per l'avvenire un impaccio e un imbarazzo nello svolgimento dello politica realistica. A distanza di qualche mese aderí anche il sovrano dei Paesi Bassi. Dopo di che, l'uno dopo l'altro, gli Stati maggiori e minori d'Europa ritennero anch'essi necessario sottoscrivere.

Rimasero fuori dal fascio di forze politiche e spirituali cosí collegate la Santa Sede e gli Stati Uniti d'America. Fu, questa, cosa di grande significato. Il Pontificato romano rivelava sempre meglio la paradossale e contraddittoria situazione in cui si era venuto a trovare e sempre piú si sarebbe venuto a trovare sotto l'impulso e l'imperio delle sue energie tradizionali e delle sue nuove compromissioni politiche.

Noi siamo venuti pazientemente vedendo, attraverso questa lunga e minuta esposizione, come le prime fonti dell'Illuminismo, che è visione e valutazione puramente razionale della natura e della storia, risalgano molto lontano nel tempo. Abbiamo trovato nei primi decenni dopo il Mille tutta una nuova fermentazione della società cristiana che l'ha indotta piú o meno consapevolmente ad abbandonare in maniera brusca e improvvisa le direttive di marcia su cui il cristianesimo si era fino allora mosso nello spiegamento della sua pedagogia e delle sue funzioni reggitrici in mezzo agli uomini. Lo stesso sforzo di affidare e di raccomandare ad una propedeutica razionale e filosofica il suo magistero e la sua amministrazione carismatica, aveva trascinato il cristianesimo ufficiale a fare alle possibilità cogitanti dell'uomo concessioni rischio se che si sarebbero rivolte contro la Chiesa stessa. Il processo che doveva portare a piena maturazione questi germi funesti era stato molto lungo; e quasi impercettibile. Noi abbiamo cercato di seguirlo momento per momento, attraverso tracce a volte appena riconoscibili e quasi totalmente dissimulate; oggi lo vediamo giunto al suo epilogo. La rivoluzione francese, e, strano paradosso, la stessa Santa Alleanza, soggiacevano al medesimo presupposto illuministico di poter costruire una convivenza umana su basi illuminate dalla ragione, quasi questa fosse il prodromo e l'avviamento indeclinabile all'attuazione dei principî cristiani. Di fatto i principî cristiani nella loro inconguagliabile natura non sono trasferibili e raccomandabili in alcuna maniera ai principî della pura ragione. Nonostante le contrarie apparenze, i principî della rivoluzione francese erano meno difformi da quelli della Santa Alleanza di quanto non si sarebbe potuto pensare a prima vista e date le circostanze esteriori nelle quali questi secondi venivano proclamati. Gli uni e gli altri aprirono il varco a quella concezione liberalistica della vita e del mondo che, senza far piú professione di aperto cristianesimo, avrebbe parimenti sotto mano lavorato a creare con forze umane e con principî razionali una forma di vita associata rispondente cristianamente a giustizia, mentre la forma di vita veramente cristiana non è altra se non quella che sogna l'attuazione per opera di Dio di un Regno di giustizia, di pace e di bontà, cui gli uomini sono per natura funzionalmente e irrimediabilmente negati.

Ed ecco il patetico ed ineffabile dramma della Chiesa quale si sarebbe profilato nel secolo decimonono ed oltre. Tutto il sedimento della pietà popolare, tutta la residuale forza dei valori carismatici, l'avrebbero portata ad avvertire nell'intimo e in profondità la incompatibilità radicale fra le nuove dottrine sociali e le genuine formule programmatiche del messaggio cristiano nella storia.

Ma d'altro canto un oscuro senso di corresponsabilità e di correità l'avrebbe costantemente avvertita di essere essa stessa parte di quel processo di laicizzazione e di deformazione razionalistica, in cui la pratica del cristianesimo si era venuta, anche per sua colpa, ottundendo e depauperando. Come atteggiarsi veramente ad avversaria recisa di un mondo della cui prima genesi essa portava in qualche modo la responsabilità? La Chiesa avrebbe cercato di rifarsi mercè la stipulazione di concordati, che l'avrebbero messa in guardia di fronte a configurazioni politiche statali riconoscibilmente impregnate di spirito anticristiano. Ma la stessa stipulazione di concordati avrebbe implicato sempre una compartecipazione ai medesimi rischi religiosi, alle medesime contraffazioni spirituali.

La Santa Alleanza, del resto, piú che una conformazione nuova della politica europea, fu un'affermazione di principî il cui significato è da collocarsi piuttosto nella storia della Cristianità moderna anziché in quella della politica europea del secolo XIX incipiente.

La risonanza pratica del documento fu soprattutto legata al fatto che si finí col riferire alla Santa Alleanza tutto quanto le grandi Potenze operarono in difesa dell'ordinamento territoriale e politico costituito dal Congresso di Vienna per i paesi europei.

Del resto le vicende stesse personali dello zar Alessandro stettero a dimostrare quale anormale situazione di cose fosse uscita dall'innaturale mescolanza di tradizioni mistico-bizantine e di Illuminismo enciclopedista, che si era venuta determinando nel suo spirito sotto la duplice pressione delle tradizioni ancestrali e della sua iniziazione alla cultura dell'Occidente.

Negli anni che seguirono immediatamente alla costituzione della Santa Alleanza sembrò che lo zar Alessandro, avendo compiuto il piú spasmodico e innaturale degli sforzi, avesse perduto ogni interesse interiore per le vicende europee e tendesse a dedicarsi esclusivamente alla disciplina interna della Russia.

Dal 1816 in poi compí lunghi viaggi attraverso la sua sterminata terra, passando da santuari, mete consuetudinarie di pellegrinaggi popolari, a colonie militari disseminate lungo la linea confinale dell'Impero. Non poté sottrarsi effettivamente alle responsabilità assunte con la sua decisiva partecipazione alla politica europea.

Lungi dall'avere assicurato all'Europa un periodo di pace, di ordine e di salda ispirazione cristiana, il Congresso di Vienna, su cui la Santa Alleanza aveva presuntuosamente tentato di stendere una insegna evangelica, non aveva fatto altro che aprire il varco ad una serie confusa di agitazioni rivendicanti in Europa la costituzione di Stati nazionali.

I principî illuministici non erano in grado di infondere alla costituzione della vita europea un senso intimo di sacralità che frenasse le velleità dei vari movimenti rivoluzionari. I congressi che seguirono a quello di Vienna, da quello di Aquisgrana a quello di Verona, non fecero altro che sanzionare provvedimenti intesi a mantenere i popoli nel servaggio dei principati ricostituiti.

Dopo il 1815 la Santa Alleanza diviene sempre piú palesemente una lega dell'assolutismo contro ogni movimento di evoluzione o di rivoluzione, mentre nell'interno della Russia il regime di Alessandro non fu che un regime sempre piú reazionario, diretto, ad imitazione delle vecchie tradizioni bizantine, ad imporre una fede uniforme e una regola religiosa calata dall'alto. Gli stessi piani di riunione delle Chiese, escogitati da Alessandro I, non erano altro, a distanza di secoli, che riproduzioni ed imitazioni inconsapevoli di quelli che erano stati i tentativi di unificazione religiosa perpetrati nei vecchi secoli dai sovrani di Bisanzio, con la molteplicità dei loro editti e dei loro aulici schemi di fede.

Quando nel 1822 Alessandro si recò a Vienna in séguito ad esplicito invito di Metternich – e allora l'ascendente di Metternich sull'imperatore russo aveva raggiunto il livello piú alto – si disse che Alessandro mirasse a proseguire per Roma per tentare le basi di una riconciliazione religiosa fra ortodossia romana e ortodossia slava. Una lettera del conte Lascarène a Carlo Alberto convaliderebbe questa ipotesi. «La famiglia imperiale», scriveva il conte, «pensa che Alessandro abbia grandi simpatie per la Chiesa romana. Ma l'imperatrice madre, Maria Feodorovna, teme molto che l'incontro di Alessandro col Papa induca quegli a convertirsi al cattolicesimo, e per questo ha impiegato tutta la sua energia perché Alessandro rinunci al viaggio di Roma ». Sta di fatto che Alessandro non continuò il viaggio oltre Vienna, e in questa città ebbe una lunghissima intervista col principe Hohenlohe, alla quale non sembra che argomenti religiosi e confessionali fossero estranei. Ma, caso mai, la velleità rimase allo stato puramente potenziale.

C'è qui un oscuro dramma di coscienza, che è il dramma secolare di tutta quanta la spiritualità cristiana.

Dai tempi di Pietro il Grande la Russia aveva aperto largamente le finestre della sua antica clausura sull'Europa occidentale. Bisanzio aveva cessato fatalmente di essere il suo punto di richiamo, il suo principio di riferimento. Ma, affacciandosi sul mondo occidentale, con quale mai occhio la Russia avrebbe potuto riguardarlo? Ci sono tradizioni e consuetudini che non si espellono e non si trasformano d'un tratto. Troppo lungo era stato il dissidio fra Roma e Bisanzio; troppo in profondità avevano scavato le diverse fogge di intendere i rapporti fra spirito religioso e tattica politica, perché l'avviarsi della Russia verso l'Occidente potesse nascondere nel proprio grembo possibilità di riconciliazione e di intesa. Quante volte nei secoli del Medioevo Bisanzio e Roma erano venute a contatto, senza procedere però oltre formule esteriori di benevolenza reciproca? Neppure il pericolo turco era riuscito ad infondere un'anima di lealtà e di concordia al Concilio di Firenze. Poi l'occupazione di Costantinopoli aveva lasciato la Russia al suo destino, e la Russia aveva cercato di rifarsi aprendosi un varco verso il mondo occidentale. Ma non vi portava, e non vi avrebbe mai portato, spirito di solidale fraternità e uniformità di propositi. Avrebbe preso in accatto dall'Occidente le direttive del suo Illuminismo, ma le avrebbe rielaborate a suo modo mercè quel costante spirito messianico ed apocalittico che ha rappresentato sempre il fermento fondamentale della religiosità slava. Alessandro si era illuso, dopo le sue strepitose vittorie su Napoleone, di poter dare una configurazione cristiana all'Europa: non aveva fatto altro che ingenerare una inquietudine rivoluzionaria, la quale si sarebbe illusa di poter raggiungere l'equilibrio della vita europea sul riconoscimento delle varie unità nazionali. Ma queste stesse sarebbero salite a tale esasperato livello di scambievole rivalità, che l'Europa avrebbe conosciuto lo sconquasso di formidabili conflitti territoriali e politici su cui un giorno la Russia, non piú in nome del Vangelo, ma in nome stesso dell' antivangelo, avrebbe cercato di ripristinare le vecchie velleità imperialistiche di Bisanzio.

Quasi consapevole di questa formidabile responsabilità che si portava nel cuore, Alessandro I, il vincitore di Napoleone, l'arbitro del Congresso di Vienna, il corifeo della Santa Alleanza, doveva chiudere nella maniera piú drammatica la sua movimentatissima esistenza.

A mezzo novembre del 1824 una impressionante inondazione devastava Pietroburgo. Alessandro dovette scorgere nel fatale evento un monito imperioso. Che cosa era Pietroburgo, se non la scolta avanzata di quel movimento verso Occidente che Pietro il Grande aveva iniziato e di cui egli, Alessandro, era chiamato dal destino a fare la piú amara e significativa delle esperienze? Che cosa mai restava, a dieci anni di distanza, di tutto il suo vasto programma con cui a Vienna aveva cercato di dar nuova forma cristiana alla fisionomia politica dell'Europa?

Come si sa, la fine di Alessandro I è avvolta nel mistero. Il suo successore, il fratello Nicola I, distruggendo un gran numero di documenti relativi alla drammatica scomparsa di Alessandro, ha reso impossibile squarciare il velo oscuro che avvolge gli eventi di quell'epoca. Si disse che Alessandro cadesse in uno stato di disturbo mentale. Si disse che la malattia dell'imperatrice esigesse il trasferimento a Taganrog. In realtà, per una sovrana malata, qualsiasi luogo della costa meridionale della Crimea sarebbe stato piú adatto. Ad ogni modo, colà si diressero i due sovrani: piú che un luogo di cura si sarebbe detto che essi avessero cercato un angolo solitario dove isolarsi dal mondo e dalla vita. E Taganrog, città primitiva, di limitatissima notorietà, con un trascurabile traffico portuale, dove per i sovrani non esisteva neppure domicilio acconcio, era l'ideale. Si sarebbe detto che Alessandro cercasse soprattutto di aprire un abisso fra sé e il suo passato, di far disperdere le proprie tracce.

Alessandro non si arrestò neppure a Taganrog. A distanza di poche settimane dal suo arrivo colà, riprese il suo girovagare inquieto, dapprima lungo il Don, poi in Crimea. Il 27 ottobre 1825 compí un pellegrinaggio al convento di San Giorgio, a Balaclava. Da qui si recò a Sebastopoli. Ai primi di novembre tornava a Taganrog, dove fu colpito da una misteriosa malattia che lo portava in breve volger di tempo al sepolcro. Siccome le circostanze di questa morte rimasero oscure, si favoleggiò che egli continuasse ancora le sue peregrinazioni nel mondo in veste di mendicante o di monaco accattone.

Nulla doveva mancare del fantastico e del romanzesco alla carriera di colui che aveva sognato l'impossibile: la cristianizzazione della politica e la instaurazione del Regno di Dio per opera puramente umana.

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