I LA DISSOLUZIONE DELL'UNITÀ MEDIOEVALE

I consuetudinari criteri nel delimitare cronologicamente il Medioevo, per separarlo dall'età moderna, come analogamente i criteri applicati per delimitare la fine del mondo antico e le origini del Medioevo, non corrispondono affatto alla realtà.

Noi abbiamo avuto in Europa una prima rinascita nel secolo duodecimo, col fermento introdotto nella spiritualità cristiana dalla riforma cistercense, dalla predicazione di Gioacchino da Fiore, dal movimento francescano.

Poiché la teologia è sempre religione congelata, e la filosofia è teologia scarnificata, mentre la religione è innanzi tutto visione drammatica degli ultimi eventi, cioè a dire escatologia, la storia della religiosità umana, e in particolare la storia della religiosità mediterranea e cristiana, hanno avuto le loro tappe segnate costantemente dalle reviviscenze escatologiche, da rinnovate aspettative cioè di radicali palingenesi spirituali.

Come noi abbiamo visto nel primo volume di questa nostra Storia, il cristianesimo primitivo, non difformemente da tutte le altre religioni riformate o messianiche, quali la religione di Zarathustra e la predicazione di Buddha, era stato essenzialmente visione degli ultimi eventi e, sulla base di tale visione, era stato rovesciamento di valori e consegna precisa di trovare la vera vita, attraverso il rinnegamento della vita empirica, e il genuino progresso del disvelamento della regalità di Dio.

Questa visione degli ultimi eventi si era venuta poi progressivamente solidificando in una serie di correnti teologali, che avevano tutte in pari modo contribuito alla formazione della ortodossia ecclesiastica.

Al declinare del Medioevo, anche la predicazione di Gioacchino da Fiore fu essenzialmente visione di quegli ultimi eventi, che avrebbero sciolto la tradizione codificata della dogmatica cristiana in una originale economia spirituale, fatta di contemplazione e di esperienza mistica.

Come abbiamo poi veduto negli ultimi capitoli del volume precedente, un'analogia veramente impressionante esiste fra i movimenti in cui si venne solidificando, agli inizi del cristianesimo, la materia incandescente della primitiva esperienza evangelica, e i movimenti culturali e filosofici in cui, undici secoli piú tardi, dopo la tumultuosa crisi degli spirituali francescani, si venne solidificando il commovimento spirituale suscitato dalla predicazione gioachimitica. Fra i due momenti della storia del cristianesimo corre però una differenza sostanziale.

La primitiva esperienza cristiana recava in sé sconfinate possibilità di conquista. Portava i germi di una originalissima creazione storica. E la teologia e la filosofia, che uscirono da quella esperienza messianica, offrirono le linee direttive ad una civiltà nuova, che fu la tipica e inconfondibile civiltà del Medioevo.

L'opposizione dura e decisa della Chiesa al messaggio di Gioacchino da Fiore, che il francescanesimo aveva cercato di incorporare nella sua religio, frustrò le virtú creatrici della nuova esperienza mistica. I vari orientamenti filosofici che uscirono dal dissiparsi del movimento gioachimita e francescano non furono che risurrezioni di vecchi indirizzi intellettuali e culturali, che il cristianesimo ufficiale del Medioevo aveva potuto utilizzare senza rischio, solo in virtú della sempre presente consapevolezza delle realtà trascendenti ed eterne, che il Vangelo aveva conglobato e racchiuso nella sua visione estatica del veniente Regno di Dio.

La rinascita di queste correnti filosofiche aveva ora valore di sintomo e di presagio. Con le vecchie concezioni filosofiche rinascevano le concezioni precristiane, cosí della vita individuale come della vita associata.

Le idealità ecumeniche della fraternità nella fede e nei carismi, che si erano polarizzate nei due valori affiancati della Chiesa e dell'Impero, e che avevano sorretto la grande costruzione politico-sociale dell'Europa medioevale proprio in virtú di quel principio squisitamente cristiano che fa della vera civiltà morale degli uomini il risultato di un rinnegamento pregiudiziale della stessa capacità umana di costruire una civiltà, si erano andate cosí intimamente affievolendo e logorando, da essere ormai destinate a cedere il posto a ideali nazionali circoscritti e a programmi angusti di autonomia etnica e, di rimbalzo, di profana autosufficienza civile e religiosa. Le nazioni moderne erano alle porte, anche se si doveva aspettare molto tempo ancora perché della nazionalità si intuisse l'indagine e si fissasse la definizione. Gli istituti umani precedono sempre lo sforzo di farne la teoria, e la realtà preesiste sempre in qualche modo alla sua trascrizione nazionale ed ideologica.

La Romània, l'unione cioè dei popoli rivieraschi del Mediterraneo, sotto l'egida, la guida e la insegna di Roma, era esistita già da parecchi secoli, prima che gli scrittori del circolo di Sant'Agostino, come Possidio e Paolo Orosio, adoperassero il vocabolo e ne erigessero la teoria.

Anche ora, al tramonto del secolo decimoquinto, le nazionalità europee cominciavano ad avere una sagoma e un programma, molto tempo prima che si fosse escogitata una qualsiasi teoria della nazionalità.

Una teoria infatti della nazionalità non nasce in Europa, si può dire, effettivamente, prima di Gian Giacomo Rousseau e di Herder. È Rousseau che, superando il cosmopolitismo individualista che aveva signoreggiato nel Settecento, darà con l'assioma ubi patria, ibi bene, un contenuto morale all'idea nazionale. E Herder dal canto suo, partendo dal presupposto caro alla cultura germanica del suo tempo, che nel decorso secolare della storia la humanitas non ha possibilità di concretarsi e di realizzarsi se non attraverso gli organismi nazionali, darà alla nazione i suoi connotati di individualità storica. Ma dovremo scendere ancora piú tardi, vale a dire fino ad alcuni saggi di Ernesto Renan, rimasti memorandi, per trovare una indagine seria e scientificamente concepita, consacrata alla delimitazione del contenuto di una entità nazionale. Anche allora però si rimarrà molto nel vago e nell'indeterminato, lasciando successivamente o contemporaneamente spiegare una parte non trascurabile agli elementi etnici, morali, religiosi, tradizionali, capaci di suffragare un concetto pur che sia della nazionalità.

Si direbbe una volta di piú che là dove manca un addentellato qualsiasi nelle concezioni e nella tecnica organizzativa di Roma per definire una delle nozioni dominanti oggi, noi ci troviamo nella inguaribile impossibilità di farci una nozione chiara di un determinato nostro fenomeno sociale.

Ora il concetto di nazione, nonostante la sua etimologia latina, anzi, proprio sulla base della sua etimologia latina, si rivela, in pieno, un concetto non romano o meglio, antiromano.

Natio, nel suo significato originario romano, come indica la sua etimologia, non designa altro che tutto quello che nasce. Varrone, il grande Varrone, adopera il vocabolo per esprimere, come sempre con un certo senso di augusta venerazione, il prodotto del suolo, tutto quello che germina e nasce dalla capacità produttiva della terra. E poiché anche l'umanità è a suo modo una terra feconda e le generazioni umane sono le sue periodiche messi, nazione, per gli scrittori latini, ha un valore tipicamente e fondamentalmente etnico. Nazione pertanto è sinonimo di popolo e di razza. In questo senso lo usano gli scrittori latini, cosí classici come cristiani. L'organizzazione statale, il regime politico, la res publica, sono tutt'altra cosa, e prescindono completamente dai connotati etnici. Poiché una solida organizzazione statale, per la intuitiva sapienza romana, ha esigenze imperiose e leggi indeclinabili, che non hanno nulla a vedere con il decorso fluido e precario delle correnti migratorie dei popoli, e della installazione topografica delle razze.

La Cristianità medioevale aveva ereditato da Roma, trasumanandola con la sua visuale del Regno di Dio e dei suoi inviolabili interessi, la concezione romana della res publica e della civitas. E sotto l'impulso dei suoi presupposti dualistici e trascendenti, aveva avviato la collettività credente europea sul binario rappresentato dalla concezione delle due città, dualisticamente escogitata e patrocinata da Sant'Agostino.

Ora, in séguito alla profonda rivoluzione dei tessuti demografici e costituzionali della civiltà europea, le concezioni agostiniane si rivelavano superate dal decorso fatale degli avvenimenti. La grande famiglia europea si disgregava, e ogni popolo prendeva la sua via. Le ripercussioni nella struttura della società ecclesiastico-cattolica ne sarebbero state funestamente incalcolabili e irrimediabili.

È indiscutibile che il fatto nazionale, prima ancora che il concetto, è nato in Inghilterra. Sicché, quando poi l'Inghilterra si è fatta fautrice e banditrice del principio di nazionalità e dei conseguenti principi liberali, essa oltre a patrocinare un ideale che, applicato in Europa, non poteva non tornare a vantaggio del suo comportamento di fronte al complesso della vita continentale europea, non faceva altro che raccomandare e celebrare un suo peculiare modo di vivere la sua vita associata.

Sono soprattutto gli storici inglesi, con a capo il Creighton, che hanno riconosciuto essere stata l'Inghilterra il primo Paese in Europa a sviluppare in sé un carattere nazionale, tendendo cautamente a ritrarsi dal complesso sistematico della politica europea, per battere la propria via. Nel mondo antico la città era stata la sola vera unità ed è soltanto attraverso lo stoicismo e poi, ben piú e meglio, attraverso il cristianesimo, che l'idea della comunità universale degli uomini ha trovato il modo di affermarsi e di concretarsi nella nostra storia mediterranea. Per la sua stessa costituzione geografica l'Inghilterra doveva esser tratta prima di ogni altro Paese in Europa a orientarsi su basi nazionali, cosí dal punto di vista politico come da quello economico.

Ed è singolare osservare che con l'emergere di questo sentimento nazionale, cosí in Inghilterra e poi, in linea conseguente, in Francia, al tramonto del secolo decimoterzo, una delle prime manifestazioni che si hanno è quella dell'antisemitismo e della espulsione degli ebrei. La Bolla Aurea dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo del 1356 sta a segnare in qualche modo l'atto ufficiale e la epifania pubblica della lacerazione della ideale unità, rappresentata da quell'Impero che i Pontefici avevano creato all'alba del nono secolo, come contropartita necessaria e insurrogabile del proprio magistero religioso universale.

Coronato con la corona del regno italico nella basilica ambrosiana di Milano il 6 gennaio 1335, Carlo IV scendeva a Roma nell'aprile successivo per ricevervi la corona imperiale. Ma subito dopo, sempre per quella latente rivalità che aveva messo di fronte l'uno all'altro il Pontefice e l'imperatore, nonostante il carattere sacrale dei loro rapporti teorici, aveva dovuto riprendere la via del Nord, trovando dovunque ambienti ostili e volti minacciosi. L'Italia soggiaceva ormai con i segni della piú palese impazienza ed insofferenza, ai rappresentanti dell'autorità imperiale. Rivalicate le Alpi, Carlo IV si dava al riordinamento della sua nativa Boemia, elargendo precisamente quella Maiestas Carolina, e procedendo a quella riorganizzazione delle elezioni imperiali e dei diritti dei principi elettori che, fissate con la cosiddetta Bolla Aurea, venivano in pratica effettivamente a riconoscere le varie configurazioni nazionali nell'àmbito dell'Impero.

La vita universitaria parigina del secolo decimoterzo come del secolo decimoquarto aveva conosciuto già la divisione delle nazioni sulla base dei gruppi etnici, conglobati nello stesso territorio francese: ma si trattava di distinzioni puramente accademiche.

Il grande scisma, con la sua lotta pertinace fra Italiani e Francesi nel tentativo di subordinare la dignità papale a correnti nazionali, era stato un sintomo ben piú eloquente ed inquietante del largo abisso che veniva scavandosi fra nazione e nazione in Europa. La incapacità dell'Europa cristiana, all'indomani della caduta di Costantinopoli nel 1453, di compiere un concorde sforzo contro l'espansione minacciosa dei Turchi, nonostante gli appelli reiterati di Callisto III e di Pio II, fu un segno inoppugnabile delle linee ormai divergenti seguìte dalle varie nazioni europee.

Se Costanza segnò l'ultima occasione per l'imperatore di spiegare una missione internazionale, il Congresso di Mantova fu in qualche modo la prima assemblea di Potenze nazionali che l'Europa conoscesse.

Quando, nel 1457, Ladislao Postumo, re cosí di Boemia come di Ungheria, morí, le due nazioni, prescindendo completamente da qualsiasi considerazione dinastica, si eleggevano sovrani distinti, e Mattia Corvino saliva al trono ungherese, mentre il trono di Boemia era occupato da Giorgio Podiebrad.

Sicché si può dire che al tramonto del decimoquinto secolo tutti i principali paesi europei avessero trovato il centro della loro unità nazionale e il simbolo della loro vita e dei loro interessi autonomi in una monarchia assoluta, ad eccezione dell'Italia e della Germania, che appunto per il loro secolare e sostanziale collegamento con le idee universali della Chiesa e dell'Impero, dovevano stentare ancora per qualche secolo ad avviarsi sul sentiero della loro circoscritta fusione nazionale.

Questo processo di fusione nazionale non avrebbe potuto effettuarsi in questi due paesi, dove la universalità dell'idea cristiana medioevale nella sua duplice incarnazione ecclesiastica ed imperiale aveva gettato le sue profonde radici, senza una revisione opportuna e conveniente delle idee religiose che avevano signoreggiato, condizionato e disciplinato la universalità spirituale del mondo medioevale.

La costituzione nazionale della Germania e dell'Italia doveva essere fatalmente preceduta dai due grandi movimenti della riforma e della controriforma.

Alla vigilia della riforma la Germania imperiale comprendeva un territorio immenso, dalle coste dei Paesi Bassi alle regioni ungheresi del Danubio. Sotto l'uniforme, greve pesantezza del regime unitario, assistito dal consiglio della grande assemblea feudale, la Dieta, pullulava una incomposta molteplicità di principati indipendenti, ecclesiastici e laici, capricciosamente innestati l'uno sull'altro. Giuridicamente elettivo, sebbene per generazioni la suprema dignità non fosse mai esulata dalla casa di Absburgo, l'Impero era, dal 1356, affidato alla designazione di sette principi elettori; tre: il re di Boemia, gli elettori di Sassonia e di Brandeburgo, sull'Elba; quattro: il conte Palatino e gli arcivescovi di Magonza, Treviri, Colonia, sul Reno. Un'oscura inquietudine sospingeva latentemente l'immensa e molecolare vita della Germania imperiale, insufficientemente ormai salvaguardata dagli allentati vincoli della Germania civile e religiosa, verso nuove forme di organizzazione spirituale. Il programma massimo di una rifusione morale mirava a stabilire, dallo stretto di Dover alla Vistola e dal Baltico all'Adriatico, una suprema Corte di Giustizia unica, un comune conio della moneta, un'unione doganale. Ma i metodi piú o meno consapevolmente vagheggiati per la instaurazione di un cosí allettante miraggio non erano concordi. I principi da un canto erano decisi a mantenere integra la loro indipendenza, e tutte le loro mosse verso un'intesa unificatrice postulavano invariabilmente la prospettiva di una oligarchia dotata di poteri, e di parallele limitazioni alla potestà imperiale. Gli imperatori dall'altro non concepivano un rafforzamento dei rapporti unitari che non rappresentasse un irrigidimento della loro potenza autocratica.

Eletto re dei Romani nel 1486, Massimiliano era successo nell'Impero al padre Federico III nel 1493. Figura di singolare rilievo, anima ricca ed eccezionalmente duttile, piena di affascinante entusiasmo, aveva impresso un ritmo intenso alla spiritualità germanica del cadente secolo decimoquinto. Ma gli interessi dinastici avevan preso piú di una volta il passo sulle sue piú solide aspirazioni all'unificazione teutonica. Alla morte inattesa di Massimiliano, il 12 gennaio 1519, le ripercussioni funeste della sua politica bifronte si fecero efficacemente risentire.

Per cinque mesi gli intrighi più sottili furono spiegati dai partigiani di Francesco di Francia e dal giovane re di Spagna, Carlo, nipote di Massimiliano, per assicurare il diadema imperiale all'una o all'altra costellazione politica, tra cui oscillava in quel momento l'asse della politica europea. Il partito francese poté lusingarsi un istante di aver guadagnato mercè la corruzione la maggioranza degli elettori. Ma la netta preferenza delle masse si era pronunciata per l'erede spagnolo di sangue germanico. E il consenso pubblico dovette pesar qualcosa nella decisione dei convocati a Francoforte sul Meno, che il 28 giugno 1519, dalla cappella di San Bartolomeo, proclamavano erede del Sacro Romano Impero Carlo V. Ma aveva avuto veramente un lucido fiuto la voce del sangue? Può darsi che mai nella storia quella tradizione exogamica, a cui sembrano volersi mantener fedeli le case regnanti, abbia piú decisamente sconvolti ed alterati i tipi e le attitudini dei regali rampolli. Carlo aveva ereditato solo dalla madre le qualità caratteristiche del proprio temperamento. A Worms, in quella medesima Dieta che cercherà di instaurare un Reichsregiment limitativo del potere sovrano, da cui Carlo fu ben felice di affrancarsi mercè la cooperazione delle città libere, Lutero, piú che un germanico, si troverà di fronte uno spagnolo. E il dato è pieno di significato.

Frattanto, tutte le forze latenti della vita associata germanica convergevano automaticamente verso un rinnovamento integrale delle consuetudini tradizionali e delle forme tecniche e culturali ereditarie dal Medioevo. Soggiacente a tutto il sistema sociale medioevale è il presupposto che la terra costituisca l'unica base economica della prosperità e del benessere. Nella Germania dei secoli di mezzo, specialmente, l'economia agricola domina incontrastata e provoca, con logica ferrea, la configurazione dei rapporti sociali. Ogni distretto produceva quanto occorreva ai propri circoscritti bisogni. L'efficienza economica della città era tutta compresa nella capacità delle sue corporazioni artigiane di scambiare i prodotti della propria industria con il superfluo della produzione agricola, affluente al mercato. Il commercio, rapidamente incanalatosi lungo i grandi corsi fluviali, vere arterie della incipiente circolazione manifatturiera, creò le nuove fortune dei centri cittadini e suscitò la nuova classe ricca e le nuove associazioni degli interessi borghesi. Le scoperte geografiche e il conseguente sforzo per la formazione di una genuina rete di traffici mondiali alimentarono in singolare misura lo sviluppo crescente delle fortune commerciali e dei ceti capitalistici. Le sùbite ascensioni della vita economica provocavano di rimbalzo l'innalzamento progressivo del tenore normale della quotidiana esistenza, e, col rapido moltiplicarsi della popolazione, procedevano di pari passo l'elevazione della cultura e il logoramento delle tradizionali consuetudini della moralità. Il graduale processo di capitalizzazione dell'industria aveva sgretolato i vecchi organismi dell'artigianato cittadino, creando, di rimbalzo, un proletariato aperto a tutti i rancori e a tutti i risentimenti, alle cui sorde irritazioni e alle cui inquietudini incomposte doveva offrire agevolmente materiale infiammabile l'elemento agricolo, che non era riuscito a salvare la continuità dei propri interessi con le trasformate condizioni ambientali.

La Germania plebea del secolo decimoquinto è tutta pervasa dal senso perturbatore di un disagio che non si placa e non si compone, da un'inquieta e indistinta aspirazione ad una forma superiore di assestamento, che cerca invano il suo nuovo equilibrio. Nell'ultimo quarto del secolo soprattutto la predicazione ruvida e accesa di Hans Böhm commosse piú profondamente gli strati sofferenti della plebe germanica. Mosso da quel distretto che può raffigurarsi come un triangolo, fra le città di Aschaffenburg, Würzburg e Crailsheim, nelle vallate dello Spessart e del Taubergrund, il messaggio di questo cantastorie di villaggio, assurto ad un tratto alle mansioni di un'infocata propaganda mistico-sociale, destò entusiasmi travolgenti ed emozioni violente. Hans Böhm appariva improvvisamente nella domenica di Mezza Quaresima del 1476, bruciando clamorosamente al cospetto della folla i suoi strumenti, e dichiarando in aria contrita che se fino allora si era costituito ministro della pubblica dissipazione, da quel momento sarebbe stato un puro araldo di grazia. La forma della sua convertita esistenza, l'accento della sua oratoria ispirata, attrassero fulmineamente la fraterna simpatia delle masse. Suo pulpito poteva essere indifferentemente una bigoncia rovesciata, la finestra di una casa campestre, il ramo di un albero. Egli assicurava i suoi ascoltatori che l'angolo piú venerando del mondo, ben piú santo della menzognera profanità romana, era la cappella della Madonna a Niklashausen e che il nocciolo della religione consisteva nel presentare omaggio alla Vergine. Le sue invettive contro il clero raggiungevano un tono di inconsueta violenza: lo poneva al di sotto dei giudei. La sua rampogna investiva l'imperatore, doppio e miscredente, che nutriva e pasceva il vile gregge dei principi e dei latifondisti, dei gabellieri e degli speculatori viventi alle spalle del popolo. La sua beffa coinvolgeva le dottrine dei meriti e del purgatorio. Sarebbe presto spuntato il giorno, prognosticava, in cui ogni principe, ogni ecclesiastico, ogni vescovo, l'imperatore in persona, dovrebbero tutti ugualmente acconciarsi a lavorare per vivere. Sosteneva che tutte le imposte erano ugualmente inique e che l'universo costituiva l'indiscriminata proprietà di tutto il genere umano.

Scarsa attenzione prestarono in sul primo momento alla folle predicazione le autorità cosí civili che ecclesiastiche. Ma quando Hans Böhm, tratto in inganno dall'apparente acquiescenza, annunciò che era scoccata l'ora di tradurre la teorica prospettiva in realtà, bastarono pochi cavalieri del vescovo di Würzburg a disperdere la folla ebbra di aspettative profetiche e ad assicurare alla fortezza di Frauenberg il predicatore inesperto. Cantando inni alla Vergine, questi era bruciato come eretico. Ma il movimento amorfo e tumultuario non si spense con lui. E le febbrili aspettative ch'egli aveva suscitato rivissero in tutte le successive rivolte agricole, da quella del Bundschuh alla grande e cruenta sollevazione dei contadini, che credé nel 1525 di far leva sull'insurrezione religiosa scatenata da Lutero.

In questo mondo in preda a cosí complessi e malfermi coefficienti di fermentazione, un monaco di Wittenberg sarebbe venuto a gettare il suo sconcertante messaggio di interiorità religiosa e di affrancamento disciplinare.

Dinanzi a lui, l'imperatore Carlo V. Questi era nato il 24 febbraio 1500 a Gand dall'arciduca d'Austria, Filippo il Bello, figlio di Massimiliano d'Absburgo imperatore, e da Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia. Per una singolarissima e imprevedibile coincidenza storica, questo personaggio, dal sangue cosí composito, era chiamato non solamente a raccogliere nelle proprie mani le redini di quel sacro Impero che la Roma cristiana medioevale aveva potuto suscitare da vecchie reminiscenze romane, rielaborate attraverso secoli di signoria spirituale del Vangelo, ma, per diritto di eredità, a vedere anche i limiti politici dell'Impero straordinariamente allargati.

Chi avrebbe mai potuto pensare che il fratello e la sorella maggiore di Giovanna sarebbero precocemente morti, senza lasciare eredi, e che quindi il vasto Impero spagnolo sarebbe passato a lei e da lei, impazzita, al marito Filippo e da questi, morto nel 1506, al figlio Carlo di sei anni? Ecco uno stranissimo e impensabile insieme di circostanze dinastiche, tale da porre l'Europa in una delle piú inquietanti situazioni che si potessero immaginare, propizia a tutti i rivolgimenti e a tutte le sorprese. Solamente principe dei Paesi Bassi, come nipote di Maria di Borgogna, ultima erede del ducato di Borgogna e sposa di Massimiliano di Absburgo, Carlo veniva improvvisamente a raccogliere un'eredità sconfinata, la quale lo faceva arbitro delle sorti europee.

Nel 1516 infatti egli, alla morte di Ferdinando il Cattolico, ereditava la Castiglia e l'Aragona, di cui prendeva personalmente possesso. Infatti il matrimonio di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d'Aragona aveva, con la convenzione stipulata fra i due sposi nel 1447, determinato l'unione fra la monarchia castigliana e la monarchia catalano-aragonese. Per merito loro la Spagna aveva cominciato ad avere una vera unità morale, accompagnata da una salda organizzazione modello, che permetteva la trasformazione della monarchia in grande Potenza.

L'avvento di Carlo sembrò dovere sconvolgere la tradizione, che, seppur di non vecchia data, era riuscita a costituirsi nella Spagna gloriosa di Ferdinando e nella Spagna del reggente castigliano, il cardinale Jimenez de Cisneros. L'instaurazione di Carlo d'Absburgo in Spagna in nome dei suoi diritti ereditari non andò esente da tempeste e da resistenze. L'annunzio poi della sua elezione imperiale nel 1519 alla morte di Massimiliano, elezione conseguita non senza arti corruttrici e procedimenti subdoli, non faceva che rinforzare le ire spagnole, gelose della preponderanza degli interessi fiamminghi e teutoni nella vecchia Spagna. In Germania d'altro canto non potevano mancare diffidenze principesche al cospetto di questo sovrano imperiale, piovuto da un contaminato ceppo spagnolo. Tale groviglio di circostanze politiche doveva potentemente pesare sugli avvenimenti religiosi.

Il cristianesimo primitivo non avrebbe certo avuto le possibilità di diffusione che ebbe di fatto, se Roma, impegnata nella lotta a fondo contro gli ebrei recalcitranti della Palestina, non avesse nel '70 lacerato il nodo gordiano della situazione palestinese nel Vicino Oriente, con la distruzione di Gerusalemme.

Circostanze politiche avevano favorito in maniera prodigiosa l'espansione della Cristianità primitiva: circostanze politiche dovevano provocarne la lacerazione nel secolo decimosesto.

Il Sacro Romano Impero, carolingio prima, germanico poi, era nato e aveva compiuto i suoi primi cicli storici, come abbiamo visto ampiamente nel volume precedente, per niente affatto come una risurrezione pura e semplice dell'Impero romano. Esso era nato dalle piú profonde e genuine viscere della tradizione cristiana e agostiniana, come tentativo di fondere in un'unica famiglia, dai connotati squisitamente spirituali, i popoli del continente europeo. L'universalità stessa della Chiesa aveva automaticamente portato la Curia romana (prescindiamo pure per un istante dalle condizioni ambientali che possono aver provocato la decisione, sùbita soltanto in apparenza) a porre dinanzi a sé, quando l'Impero d'Oriente ebbe manifestato le sue irriducibili idiosincrasie, un'autorità imperiale che permettesse alla Cristianità ecumenica di avvertire sensibilmente il dualismo di valori introdotto dal Vangelo nel mondo. Lo spirito intimo dell'istituzione imperiale non poteva non essere uno spirito tipicamente dualistico e agostiniano.

Il lento trasformarsi dei tessuti politici ed economici dell'organismo europeo; le lotte dinastiche e territoriali a cui la trasmissione della dignità imperiale aveva dato luogo in Germania; il silenzioso e progressivo insinuarsi delle tendenze particolaristiche e nazionali per entro al grande organismo unitario imperiale; avevano fatalmente corroso la soggiacente ispirazione religiosa dell'istituzione dell'Impero.

Ed ora, per uno strano paradosso, l'Impero assumeva le sue piú vaste proporzioni territoriali, quando proprio l'Europa sentiva grandeggiare sempre piú lo spirito nazionale. Quel che rende tragico il destino di Carlo V e cosí patetico il suo ritiro dal mondo, in séguito ad una triste abdicazione, è appunto il contrasto fra le velleità sconfinate di questo rampollo di dinastie incrociate, che ci dà ancora, dai suoi ritratti per mano di Tiziano, cosí diretta e cosí imperiosa l'impressione della sua raffinatissima signorilità, e la resistenza degli elementi con i quali egli avrebbe dovuto realizzare il suo sogno imperiale. Spagnoli contro Fiamminghi, e Fiamminghi contro Spagnoli; principi tedeschi istintivamente avversi all'imperatore di sangue misto; Spagnoli vagheggianti la tutela dei loro interessi mediterranei ed atlantici, infinitamente piú che quella dei territori continentali dell'Impero, e quindi preoccupati piú delle sorti di Milano e dell'Italia meridionale che delle decisioni dietali in Germania; tutto questo strano groviglio di interessi in conflitto sullo sfondo epico della lotta cristiana contro l'Islam, piú petulante e minaccioso che mai: ce n'è abba

Bologna del 1530, e le sue, altrimenti inesplicabili, oscillazioni al cospetto del Papato da una parte, e del monaco ribelle di Wittenberg dall'altra. Ce n'è abbastanza in pari tempo per comprendere l'importanza decisiva di questa storia religiosa del secolo XVI incipiente, e per tutto il posteriore sviluppo spirituale europeo.

Non per nulla·Carlo V si trova di fronte quattro volte il rappresentante di quella dinastia capetingica, i cui re, dal secolo XIV, avevano usato chiamarsi «cristianissimi», e che, non rivestendo autorità imperiale che avvolgesse di sacralità la loro corona, avevano pensato di far dichiarare assoluti e di origine divina i propri poteri dai loro addomesticati giuristi.

Straordinariamente movimentata era stata la storia di questa monarchia capetingica. Dal giorno in cui, al tramonto del secolo decimo, ne era stato segnato l'albeggiare con Ugo Capeto, aveva affrontato lotte secolari contro rivali e pretendenti: contro i Normanni di Guglielmo il Conquistatore, contro i rivali principi feudali, contro i Plantageneti, contro gli Svevi. La spedizione di Carlo d'Angiò nel regno di Napoli aveva dato origine alla sua grande partecipazione alla politica internazionale. Può darsi che l'occupazione dell'Italia meridionale e della Sicilia apparisse agli occhi di Luigi IX semplicemente come un elemento di successo propizio, nella sempre sognata Crociata in Egitto ed in Africa. Sta di fatto che quella spedizione angioina in Italia riscaldò nel popolo francese una presunzione orgogliosa e spiccate velleità egemoniche.

La cattività avignonese aveva in piú rinfocolato ed esasperato la albagia gallica. Quando nel 1328 la dinastia dei Valois raggiungeva il trono in Francia, la Francia poteva dirsi già una delle piú potenti nazionalità europee. Essa aveva soprattutto beneficiato del formidabile attacco che la nuova economia rurale, di cui il movimento cistercense non era stato che una delle espressioni, aveva inferto al regime feudale. La guerra dei Cento Anni fu, è vero, un colpo serissimo a tutta la struttura politica che la Francia si era venuta costruendo nei secoli della monarchia capetingica: ma nel medesimo tempo mostrò quanto le popolazioni francesi fossero tenacemente attaccate ormai all'istituto monarchico, simbolo dell'unità nazionale. La grandezza di Giovanna d'Arco sta tutta nell'avere espresso le esigenze piú profonde dell'anima nazionale. Tra il 1431 e il 1451 la Francia riesce a sbarazzare tutto il proprio territorio dagli invasori d'oltre Manica, e se la pace di Arras segna una diminuzione cospicua delle pretese francesi oltre confine, la monarchia può ora riprendere in pieno il suo lavoro di organizzazione interna, del quale una delle manifestazioni piú salienti fu quella Prammatica Sanzione di Bourges del 1438, che limitava i diritti della Santa Sede, cosí nel campo finanziario come nel campo economico, e riaffermava la preponderanza e il controllo della Corona sulla Chiesa nazionale.

Il tramonto del secolo XV e l'inizio del XVI avevano

visto una ripresa in grande stile della politica estera francese con la calata di Carlo VIII in Italia e con l'attività non sempre bene ispirata di Luigi XII. Sebbene, alla morte di questo re, il bilancio francese segnasse innegabili insuccessi, Francesco I, suo successore, poteva riprendere una energica azione offensiva in Italia, riconquistando con la battaglia di Marignano il Milanese, e poteva conchiudere con la Svizzera una pace perpetua, che poneva alla mercè della Francia i mercenari elvetici.

Un'altra pace stipulava in quel momento il re francese, ed era la pace con Leone X, a cui Francesco I strappava uno dei piú famosi concordati: il concordato di Bologna del 18 agosto 1516. Abolendo la Prammatica Sanzione di Bourges, questo concordato faceva del re francese l'effettivo proprietario delle sconfinate proprietà ecclesiastiche. Al re era riservato, in virtú di tale concordato, il diritto di nomina su 10 arcivescovadi, 82 vescovati, 527 abbazie. Si capisce come il sovrano se ne sarebbe servito per assicurarsi la fedele devozione della venale feudalità superstite e per elargire lauti compensi a tutti gli stranieri figli di principi e di mercanti, che gli fosse apparso necessario mantenersi fedeli. Il re era autorizzato a ricavare 200.000 ducati dal complesso di ogni decima ecclesiastica. Cosí il Papato espiava la sua partecipazione politica alla Lega di Cambrai come alla Lega Santa, che si erano presentate in Italia quali Crociate per la liberazione del suolo nazionale dagli stranieri, con con cessioni che investivano in pieno e vulneravano le autonomie ecclesiastiche in Francia.

Facendo una politica empirica il Papato veniva automaticamente ad autorizzare i governi terreni a fare empirica anche la superpolitica religiosa. Roma papale aveva combattuto l'Impero d'Oriente per il suo cesaro-papismo.

Ora, facendo un papismo cesareo, finiva con l'indurre sulla via del cesaro-papismo i nuovi grandi poteri politico-nazionali che sorgevano in Europa. È questo proprio il momento piú drammatico, dal punto di vista religioso, della storia europea. Quando sarebbe stato necessario intensificare fino all'esasperazione la coscienza delle grandi realtà spirituali e carismatiche, per opporre un margine al processo disgregativo che le stesse forze nazionali minacciavano di introdurre nella compagine unitaria della unità europea, la Curia scendeva sul terreno delle competizioni politiche, per destreggiarvisi con armi e metodi non suoi.

Non essendo riuscito ad impedire la designazione di Carlo alla dignità imperiale, Francesco I non poteva non entrare in campagna contro quel palese tentativo di accerchiamento, che la fusione di cosí vasti poteri nelle mani di Carlo rappresentava per la Francia.

Lo scoppio del movimento riformatore sembrò offrirsi come un elemento propizio, nel giuoco sottile della sua diplomazia e della sua politica internazionale. Ma, d'altro canto, la sollevazione infiammata di Lutero contro Roma e contro l'imperatore spagnolo non avrebbe mancato di suscitare ripercussioni vaste in territorio francese. Se per la Germania la riforma poteva assumere carattere nazionale, in Francia non poteva non avere carattere antimonarchico. E Francesco I, tentato da una parte di favorire i príncipi riformatori d'oltre Reno, doveva ben temere, dall'altra, per la sua dinastia e per la regalità, di fronte alle infiltrazioni insurrezionali religiose, tutte pervase da fermento sociale ed economico, in territorio francese.

Cosí, la intricatissirna rete dei fattori politici era venuta preparando l'ambiente piú acconcio alla tragica lacerazione di quella che non avrebbe mai dovuto cessare di essere la inconsutile veste del Cristo: la Sua Chiesa.

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