II «PECCATOR ET IUSTUS»

I movimenti religiosi nascono tutti da esperienze individuali di eccezione. Sono tentativi di trasformare l'esperienza individuale in esperienza collettiva, di fare di un atteggiamento personale un atteggiamento normativa per i molti. I caratteri di queste peculiari esperienze e le circostanze ambientali rendono possibili il proselitismo e la diffusione.

L'esperienza del Vangelo era stata una singolarissima esperienza nella quale gli elementi costanti dell'atteggiamento religioso avevano trovato una loro sistemazione paradossalmente e portentosamente suscettibile di piú vasta disseminazione, proprio perché piú tipicamente eccezionale.

Come noi abbiamo visto nei primi capitoli del primo volume, l'esperienza cristiana alle sue origini si era principalmente basata sul rovesciamento dei valori, imposto, piú che suggerito, dalla certezza fascinante del prossimo avvento del Regno di Dio.

Insurrezione quindi passiva di fronte alla caducità di tutti i valori terreni, il cristianesimo, con le consegne tremende della sua antropologia violentemente scissa fra gli interessi della terra e gli interessi del veniente Regno di Dio, con la sua predicazione di una supermorale eroica fatta di rinuncia, ma in vista di una conquista; aveva effettivamente gettato nel mondo un lievito destinato alla piú vasta fermentazione.

Noi abbiamo fatto del nostro meglio per seguire passo passo la costruzione della unità spirituale europea, che il cristianesimo è venuto compiendo in virtú dei suoi originali presupposti. Abbiamo visto come, nel momento del suo massimo successo, la cattolicità ufficiale romana, di fronte alla predicazione gioachimitica che annunciava ormai chiuso il ciclo della costituzione ecclesiastica e bandiva la necessità di uscire dal mondo dei simboli per entrare nel mondo delle realtà simboleggiate da undici secoli di vita ecclesiastica, tendesse a irrigidirsi sulle posizioni acquisite della sua dogmatica e della sua disciplina, lusingandosi di potere con questa solidificare per sempre la sua costituzione gerarchica. Ma abbiamo visto in pari tempo come alla grande costruzione unitaria della società medioevale fosse venuto a mancare adagio adagio lo spirito avvivatore, lo spirito del dualismo antropologico e sociologico agostiniano.

Altre esperienze eccezionali ma individuali dovevano fatalmente tentare di divenire a loro volta normative.

Noi abbiamo visto, nel primo nostro volume, come, super-ascetico per natura, il cristianesimo avesse accettato le forme dell'ascetismo organizzato, quali erano state praticate dalle espressioni piú alte della spiritualità precristiana, quando, divenuto religione di maggioranza con la «conversione» di Costantino, il cristianesimo stesso minacciava di perdere i suoi connotati originali e la sua peculiare metodica sociale. Ma abbiamo visto anche come l'ascetismo organizzato del quarto secolo avesse conservato tanto del suo iniziale fervore apocalittico.

Poi l'ascetismo era veramente divenuto un organismo a sé, povero di ripercussioni e di collegamenti con la vita collettiva. Come avrebbe potuto, l'ascetismo codificato delle Regole monastiche, mantenere l'altezza del suo mistico eroismo, quando non fosse piú sorretto e infiammato dalla consapevolezza della sua funzione insurrogabile, nell'orizzonte integrale della collettiva vita religiosa? La riforma in Germania non è altro che la esperienza di un monaco ribelle ad una ascesi fatta passivamente fine a se stessa, la quale si trasforma, in maniera sorprendente, in una ribellione collettiva alla ufficialità cattolica universale.

Per questo, per intendere la riforma in Germania, occorre innanzi tutto e prevalentemente rifarsi alla esperienza monastica di Lutero.

Fu il 17 luglio 1505 che Martin Lutero entrava come novizio nel chiostro agostiniano di Erfurt. E fra le mura di quel chiostro cominciava, con il suo, il dramma grandioso dell'animo europeo moderno.

Ogni vocazione religiosa è funzionalmente un'ipoteca accesa sull'avvenire. Che cosa può maturare nell'anima di chi, in un'ora di sùbito entusiasmo o di fosco scoramento, sotto l'impressione fulminea di sconvolgenti avvenimenti esteriori o sotto il pungolo di un'innata inclinazione al senso vivo e opprimente delle infinite insoddisfazioni dell'esistenza, contrae solennemente un impegno irrevocabile per il suo futuro destino? Il quotidiano esercizio dell'autolimitazione; l'appello di ogni istante ai piú energici centri di inibizione, per il dominio inviolabile della propria azione cosciente; possono addestrare le facoltà dello spirito ad una tale virtú eroica di abnegazione e di altruismo, da condurre trionfalmente il «chiamato» ai fastigi della perfezione religiosa. Ma la piú lieve condiscendenza agli istinti della inferiore natura, di cui l'ideale della vocazione vagheggia la cancellazione integrale; il piú fugace e momentaneo rilassamento nella vigilanza della propria disciplina spirituale, scatenano a volte conflitti drammatici, il cui epilogo può essere ugualmente o l'abiezione dell'apatia e dell'indifferentismo etico o lo sforzo disperato della ribellione, accompagnato dalla ricerca avida della sua astratta e teorica giustificazione. In generale, degli spiriti, l'azione pubblica dei quali segue un periodo di incubazione ascetica nella vocazione sacerdotale o nel silenzio claustrale, occorre ricercare la genesi e la formazione nella traiettoria oscura della loro prima esperienza.

Come tutte le reminiscenze familiari e scolastiche della puerizia e dell'adolescenza di Lutero, cosí pure i ricordi del suo primo tirocinio hanno subìto, nei riferimenti apologetici del riformatore e nelle testimonianze della tradizione confessionale luterana, una sensibile deformazione. La tradizione riformata si è compiaciuta nel dipingerci il giovine novizio Martino sottoposto a tutte le angherie di una comunità invida e dispettosa, avida di fargli assaporare, raddoppiate, tutte le asprezze di una disciplina cordialmente osteggiata, quasi a vendicare le già patite durezze. Lutero dal canto suo, tutto preoccupato di mostrare come l'osservanza scrupolosa della Regola, accettata come mezzo infallibile di giustificazione e di salvezza, non avesse mai generato nella sua anima serenità e pace, ma scatenato le angosce di una perenne e indomabile inquietudine, fa risalire agli inizi stessi della sua vita monastica le trepidazioni che solo piú tardi il pungolo della sua rilassatezza deve avere provocato e lo sforzo estremo di avvalorare la sua teoria della giustizia passiva deve avere, per necessità polemica, esagerato. In realtà, i primi passi del monaco ventiduenne nella via della sua disciplina religiosa non debbono essere stati diversi da quelli che sogliano muovere, sotto l'impulso di un impetuoso fervore, tutti coloro che portano nel chiostro il fuoco di una entusiastica vocazione. Lutero ci rassicura di aver preso alla lettera le piú minute ingiunzioni della Regola, tutt'altro che lievi, agevoli o accomodanti, e di avervi mantenuto fede con proposito rigido e scrupoloso. «Sono stato monaco», proclama egli nel 1531, «e ho vegliato la notte, ho digiunato, ho pregato, ho mortificato e crocifisso la mia carne, onde mantenerla docile e sottomessa in castità, piú di quanto non sia consentito di riscontrare tra i preti e frati e monache. Intendo parlare dei monaci pii e genuini, la cui volontà è seria e risoluta, che si sottopongono alla stessa ruvida disciplina, che hanno ostinatamente cercato di conseguire quell'ideale stesso che Cristo personifica, onde raggiungere la beatitudine. Ebbene: che cosa ne hanno ricavato? Cristo dice: voi vi troverete ad essere rimasti nei vostri peccati e morirete. Questo han ricavato». Potremmo pensare che Lutero faccia cosí del millantato credito, non tanto per ostentazione di un suo speciale postumo amor proprio di asceta pentito, quanto per spiegare in maniera piú suggestiva l'amarezza della sua delusione monastica e per accreditare di rimbalzo piú validamente il suo appello alla pura fiducia in Dio giustificatore.

Ma testimonianze parallele, anche di avversari, convalidano la sua parola. Mattia Flaccio Illirico racconta di aver ricevuto da un compagno di clausura di Lutero, rimasto fedele alla sua professione, l'assicurazione esplicita e solenne che la primitiva vita monastica del riformatore era stata ineccepibile. E il Dungersheim von Ochsenfart già nel 1531 raccontava che il Nathin, uno dei professori del convento di Erfurt, predicando una volta ad una comunità di monache a Mühlhausen, aveva additato Lutero come un nuovo San Paolo, prodigiosamente convertito. D'altro canto gli appelli di Lutero alla irreprensibile sua iniziale condotta monastica risalgono troppo indietro nel tempo, si avvicinano troppo da presso alla memoria delle sue esperienze recenti e coincidono troppo strettamente col periodo delle sue piú fiere polemiche, perché se ne possa revocare in dubbio la bontà e l'attendibilità e perché si possa spiegare, qualora si tratti di deformazione degli avvenimenti , il fatto che nessuno dei suoi avversari prende ad impugnare – e sarebbe stato argomento tanto valido – il valore della sua parola, specialmente là dove egli pone a contrasto la foggia della sua disciplina, con i disordini dei suoi confratelli. Del resto, il fervore esuberante e lo zelo irreprensibile con cui, nel recinto monastico, Lutero si accinse ad attuare il suo sogno di perfezione, traspaiono dal privilegio stesso concessogli di abbreviare il tempo del suo noviziato e di affrettare il giorno della sua professione.

Nel Natale del 1505, a meno di sei mesi dal suo primo ingresso nel chiostro, Lutero era ammesso all'emissione solenne dei voti, che lo aggregava definitivamente all'Ordine riformato degli agostiniani tedeschi. Indossava cosí la divisa candida, stretta ai fianchi dalla cinghia di cuoio nero, su cui, nella recitazione delle ore maggiori, nella predicazione, nelle ore dell'uscita dal convento, si sovrapponeva l'abbondante cappa scura, a larghe, maniche, e la cocolla, con cappuccio e mantellina. Né era questo il solo favore concesso alle qualità eccezionali e alla esemplare diligenza della nuova recluta. Nel gennaio successivo, Lutero era autorizzato dal vicario generale degli agostiniani tedeschi, Giovanni Staupitz, a frequentare regolarmente le scuole teologiche della Università. Il chiostro si presentava dunque allo spirito avido e sensibile del giovane universitario pieno di allettanti attrattive, nonostante le dure asprezze della quotidiana disciplina. La Bibbia costituí fin dagli inizi il pascolo preferito della sua lettura appassionata. Qualcuna delle figure ch'egli incontrò nel chiostro dovette imprimersi nella sua memoria con impressione indelebilmente grata ed amabile. In momenti di lucida oggettività, anche dopo la ribellione clamorosa, Lutero ha piú di una volta esaltato, come attraverso sprazzi improvvisi di un rimpianto nostalgico, le sottili dolcezze della vita monacale, della solidale comunanza in un identico ideale di perfezione religiosa. Cosí, evocando nella risposta al duca Giorgio, del 1533, una sua giovanile visita al convento degli scalzi ad Arnstadt e ricordando l'elogio del «Battesimo» monacale pronunciato dal Kühne, confessa che egli e i suoi compagni ne furono tutti inteneriti.

E dieci anni piú tardi, pur nell'atto di lanciare contro la vita monacale uno dei suoi strali avvelenati, Lutero lascia intendere che essa era apparsa alla sua anima giovanile come fonte di una serenità paradisiaca. Lutero ricordava allora come, dopo due anni circa di vita monastica, nei giorni che precedettero la celebrazione della sua prima messa, il 2 maggio 1507 – quella prima messa che destò nella sua anima un'impressione cosí profonda da dargli brividi di commozione e di spavento quando si trovò a pronunziare le solenni parole del canone – egli, chiedendo amorevolmente al padre le ragioni dell'opposizione alla propria vocazione, non aveva esitato a designare la vita monastica come ricolma di un incanto divino.

Sotto lo stimolo di quali intimi, drammatici contrasti; attraverso quali dilaceranti crisi di coscienza una vocazione monastica iniziatasi sotto cosí limpidi e promettenti auspici si è risolta nella piú violenta, pertinace e vasta ribellione alla disciplina visibile della Chiesa che la storia del cristianesimo europeo ricordi? In virtú di quali fattori, mercè l'utilizzazione di quali elementi, a causa di quali contaminazioni spirituali, una cosí volonterosa accettazione degli oneri gravi ma trasfiguranti della ascesi associata, si è trasformata nella piú audace celebrazione della salvezza individuale, per merito d'un unico atto di abbandono al perdono invisibile di Dio? Che cosa si è verificato nell'anima del monaco ventiduenne che, entrato nel chiostro nel 1505 con il cuore rigurgitante di ideali di purificazione nella solitudine e nel silenzio, ne esce nel 1517 bandendo un manifesto contro i poteri carismatici della Chiesa visibile, delle cui ripercussioni latenti sono tuttora sature la spiritualità e la cultura moderne?

La vita della perfezione ascetica non può essere coerentemente menata che nella solitudine, nel raccoglimento, nel quotidiano assiduo controllo su tutte le vive attitudini dello spirito e su tutti gli indocili movimenti del pensiero. L'ideale che è segnato nel programma dell'esistenza claustrale è cosí arduo e cosí periglioso, che la sua pratica deve essere volonterosamente raccomandata ad un'aspra e ininterrotta vigilanza, il cui momentaneo, anche inavvertito, rallentamento può determinare conseguenze irreparabili. Potrebbe pensarsi che l'allontanamento del giovane dottore dalle consuetudini della vita accademica e dalla assorbente tensione dello studio fu troppo breve, perché la sua anima si familiarizzasse intimamente con le pratiche e le forme di occupazione che una disciplina di secoli ha sanzionato come appannaggio indispensabile dell'ideale monastico. Martin Lutero riprese troppo presto la frequenza universitaria e si rituffò troppo sollecitamente nella preoccupazione della indagine speculativa, perché il suo spirito potesse temprarsi validamente in quel brusco e deciso distacco dal sottile fascino dell'esistenza mondana, che solo aiuta al conseguimento delle altezze, su cui brilla il miraggio della perfezione morale. Le dure penitenze che egli prese ad imporre al suo corpo nei primi momenti del suo entusiasmo monastico, non contemplate né volute dalla Regola, dovettero essere di ben corta durata. Presto le intense occupazioni intellettuali e didattiche, la dissuetudine dalla quotidiana osservanza della disciplina regolare, l'abbandono progressivo dei freni imposti dall'autocontrollo, determinarono in Lutero un ripullulare violento degli stimoli e degli istinti che nessun diuturno governo aveva adeguatamente macerato e che cercarono accortamente nelle tradizioni dottrinali, quali il monaco veniva a sua guisa esplorando e assimilando, i principi e i canoni onde fosse consentito ad una esperienza tutta personale, non nuova e non d'eccezione, di divenire in qualche modo normativa.

Gli avvenimenti esteriori della vita claustrale di Lutero dal dí della sua professione al momento della sua prima insurrezione contro l'amministrazione delle indulgenze, si racchiudono fra i limiti di alcune date salienti. Autorizzato a frequentare la Facoltà teologica universitaria agli inizi del 1506, Lutero vi segue regolarmente i corsi per piú di un biennio. Agli inizi dell'inverno del 1508 egli era chiamato dal suo vicario generale, lo Staupitz, a Wittenberg, dove sei anni prima l'elettore di Sassonia, Federico il Saggio, aveva, sotto lo stimolo di rivalità familiari e politiche, inaugurato una nuova Università, per occuparvi una cattedra di filosofia nella Facoltà delle Arti e in pari tempo per continuarvi il suo tirocinio teologico. Nel marzo del 1509 Lutero conseguiva colà il primo grado teologico, era cioè proclamato Baccalaureus biblicus e poteva, per incarico della Facoltà, oltre le sue lezioni di filosofia aristotelica, dare spiegazioni su testi scritturali. Poiché gli statuti della Università, emanati nel 1508, esigevano dal Baccelliere biblico un solo semestre di esercizio per la sua ammissione agli esami di Sententiarius, alla fine del semestre estivo del medesimo anno Lutero sosteneva la sua nuova prova e conseguiva il secondo titolo. Ma subito dopo era rinviato ad Erfurt, dove l'Università lo ammetteva «cum omni difficultate» all'esercizio di commentatore delle Sentenze di Pier Lombardo.

Nell'ottobre del 1510 Lutero, con un compagno, era mandato a Roma onde interporre appello in nome di sette conventi agostiniani contro una decisione del Generale che, d'accordo con lo Staupitz, il quale però intendeva servirsi ai suoi fini dell'agognato privilegio onde erano accresciuti sensibilmente i suoi poteri, sanzionava la fusione della carica di provinciale della Sassonia con quella di vicario della congregazione alemanna, nella stessa persona. Il ricorso fu respinto: e Lutero tornò guadagnato alla causa che era venuto ad impugnare. Quale l'impressione suscitata nella sua anima dallo spiegamento monumentale e liturgico della città madre del cattolicesimo, sogno e meta d'ogni spirito credente? Piú tardi, negli anni della sua ribellione, Lutero si appellerà al suo viaggio romano per accreditare in qualche modo le sue invettive contro gli Italiani, i Romani, la Curia. Ma non è la permanenza di quattro settimane a Roma che può avergli dato cosí furioso odio contro la città dei suoi primi ideali religiosi. In qualche istante di lucido intervallo, Lutero ha ricordato l'emozione provata dalla sua pietà fra le memorie sacre dell'Urbe. Nel 1530, dedicando ad Hans von Sternberg la sua spiegazione del Salmo 117, rievoca i suoi pellegrinaggi attraverso le chiese e le cripte di Roma, e la devozione delle messe colà celebrate in suffragio dei trapassati, in uno stato di vera folle esaltazione mistica. Paolo Lutero, il figlio del riformatore, in una relazione autografa del 1582 conservata nella Biblioteca di Rudolstadt, testimonia, attingendola da un racconto orale del padre, l'impressione profonda suscitata nel monaco a Roma dalla Scala Santa; in cui però non avevano mancato di insinuarsi le preoccupazioni e le visuali dei suoi posteriori cambiamenti. Ripartendo dalla città che Lutero chiamerà piú tardi abitualmente «la nuova Babilonia», il monaco portava probabilmente qualcosa nel suo subcosciente che sarebbe piú tardi maturato. Egli riprendeva la via della Germania, incerto del proprio avvenire, che il cambiamento dei suoi sentimenti circa il programma dello Staupitz e le richieste dei protestatari rendevano quanto mai problematico. La ribellione dei sette conventi al programma dello Staupitz, ormai fiancheggiato dal generale, continuò viva ed imperterrita ancora per parecchio tempo. Lutero non dovette ormai trovarsi molto a suo agio tra i suoi confratelli di Erfurt. Lo Staupitz lo tolse dalla sua situazione incresciosa, chiamandolo nuovamente a Wittenberg, dove egli, nell'ottobre del 1512, conseguiva la licenza e il dottorato in teologia, succedendo immediatamente allo Staupitz stesso nella cattedra biblica, ch'egli avrebbe ora occupato ininterrottamente fino a pochissima distanza dalla sua morte. Il monaco trentenne raggiungeva cosí quella posizione ufficiale che doveva costituire, fino al tramonto dei suoi giorni, la palestra drammatica della sua militante propaganda.

Ma questa raffigurazione esteriore del tirocinio teologico e della carriera claustrale di Lutero, prima della sua definitiva sistemazione; questa determinazione in confini puramente cronologici della sua vita ufficiale prima della sua destinazione accademica a Wittenberg; non offrono che dati indiretti e indicazioni superficiali a chi voglia ricercare, negli anni della sua intima e silenziosa preparazione, il processo di formazione di quella particolare forma di dottrina relativa alla salvezza religiosa, a cui egli raccomandò la capacità persuasiva della sua violenta esperienza. Attraverso quale specifica educazione teologica egli venne affilando le armi che dovevano servirgli nella sua quasi trentennale campagna in favore della giustizia imputata? Quali furono le circostanze intime ed esterne in virtú delle quali la sua sconcertante crisi di coscienza, che in altri momenti si sarebbe potuta contenere ed esaurire nei limiti personali e circoscritti da cui non esularono crisi analoghe, come quella del monaco sassone Godescalco nell'epoca carolingica, sboccò invece in un epilogo cosí drammatico e cosí rumoroso, costituendo il punto di partenza di un immenso rivolgimento etico-disciplinare, di cui tuttora la società cristiana soffre nelle fibre piú sottili della sua organica struttura? Ecco il problema che lo storico deve amorosamente esplorare, se vuole porre allo scoperto le scaturigini remote e se vuole individuare i coefficienti sociali del movimento che travolse il cattolicismo in Germania. Occorre pertanto ricercare a quali tradizioni teologiche si informava l'insegnamento che Lutero ricevette nel biennio di studi compiuti ad Erfurt: indagare quindi lo sviluppo della sua formazione spirituale a Wittenberg, determinando i caratteri della sua crisi interiore e fissando la natura delle fonti religiose, dalle quali si sforzò di attingere il rasserenamento delle sue angosce e i principi della sua rielaborazione, che egli pretese fosse squisitamente cristiana, anzi paolina.

Le due grandi correnti in cui si polarizza la speculazione scolastica nel secolo decimoquarto sono la corrente mistica, che culmina in Eckehart e in Tauler, e la corrente razionalistico-pelagiana che trova la sua espressione saliente nell'opera immensa di Guglielmo Ockham. La prima, come abbiamo visto, facendo leva sulla dottrina tomistica dell'ente, e spingendo alle ultime possibili applicazioni alcune tesi audaci che San Tommaso aveva lasciato nell'ambito problematico delle supposizioni razionali, corrette e smentite dalla rivelazione, quali la non-assurdità della creazione eterna, aveva rischiosamente abbassato la barriera che separa l'Infinito dal finito e lo spirito dallo Spirito. La seconda, sciogliendo quella mirabile armonia fra natura e grazia, conoscenza e fede, libertà e assistenza carismatica, in che era stata tutta la grandiosità e tutta la vitalità della costruzione ideale di San Tommaso, abbandonava la ragione al destino fallace delle sue raffigurazioni soggettive, prive di ogni presa sulla realtà universale, e assegnava alla fede un suo dominio autonomo ed arbitrario, la cui accettazione si riduceva a un puro ed esteriore ossequio della volontà.

Gabriele Biel era stato il fortunato divulgatore di Ockham in Germania, nel secolo decimoquinto. Il suo Collectorium ex Occamo super quattuor libros Sententiarum era il testo ufficiale delle Facoltà teologiche tedesche, quando Lutero era iscritto in quella di Erfurt. E a quest'opera, che era stampata in due volumi a Tubinga nel 1499, si deve riferire Melantone, quando, nella sua prefazione alla prima edizione completa delle opere di Lutero, dice di lui che «Gabrielem... paene ad verbum memoriter recitare poterat». E soggiunge: «Diu multumque legit scripta Occam. Huius acumen anteferebat T homae et Scoto». Potremmo pensare ad una delle consuete applicazioni laudative dell'amico e del seguace, se Lutero stesso, ogni volta che accenna alla sua formazione teologica, non desse entusiastica espressione al suo amore iniziale per il Biel e il suo occamismo. Egli riconosce esplicitamente di esser stato formato alla scuola dei «moderni», vale a dire alla scuola occamistica degli interpreti del Biel. Di questo numero erano stati di fatto i suoi maestri ad Erfurt: Bartolomeo Arnoldi von Usingen e Jodoco Truttvetter. La prima iniziazione pertanto del giovane agostiniano alle concezioni teologiche della colpa e del riscatto, della caduta e della redenzione, è stata presieduta dai presupposti di una filosofia e di una apologetica, tutte imbevute di soggettivismo gnoseologico e di esteriorismo soteriologico. Riducendo le categorie universali, che sono i veicoli naturali della nostra capacità di esplorazione nel mondo del reale e dei vincoli delle causalità, a pure qualitates mentis, la filosofia occamistica strappava alla ragione ogni potere di raggiungere, per vie dialettiche e metafisiche, quelle realtà trascendentali, la cui determinazione concettuale costituisce l'immediato preambolo della fede. La quale pertanto viene ad innestarsi sulle attività dello spirito come qualcosa di avventizio e di supererogatorio, che non riesce a saldarsi con le altre virtú potenziali e non costituisce il coronamento appropriato delle sue intime attitudini obbedienziali. Di rimbalzo, la rivelazione e la salvezza cristiana appaiono alla teologia di Ockham come avvenimenti esteriori, non postulati da sostanziali alterazioni dell'anima umana, maculata e debilitata dalle funeste ripercussioni della colpa, ma unicamente predisposti dalla liberissima volontà di Dio, dal cui decreto sovrano dipendono ugualmente il bene e il male, il destino felice e la eterna rovina.

Ad una valutazione cosí relativistica e cosí contingentistica dei criteri etici e del fatto della spirituale redenzione, l'occamismo accompagnava una concezione sostanzialmente pelagiana delle possibilità di cui la natura umana dispone, per conquistare il merito della grazia e l'abito della virtú. Ockham aveva definito la libertà come la capacità in virtú della quale l'uomo può indifferentemente porre o non porre un determinato atto, senza che la decisione alteri in qualche modo le sue soggettive attitudini. Il bene o il male ricavano la loro specifica connotazione unicamente dalla libera ed assoluta decisione di Dio. La virtú o il peccato sono nella uniformità o nella difformità dalla prescrizione di Dio. E se la redenzione e la salvezza sono il risultato di una generosa elargizione di grazia, l'anima può riescire, contraendo abiti virtuosi attraverso la medesima ripetizione degli atti, a meritare, se non «de condigno» almeno «de congruo», se non cioè con una proporzionalità esatta, per lo meno con una convenienza ragionevole, il conferimento delle grazie salutari.

Gabriele Biel aveva esplicitamente ammesso che l'uomo può cosí atteggiare le sue facoltà sentimentali all'amore amichevole di Dio, da portare la propria anima a quei fastigi della purificazione interiore, che la luce e il calore della grazia rivestono automaticamente.

Lutero commentatore biblico ripete le medesime conclusioni, quantunque la sua esperienza lo induca a tacciare di pelagianesimo aperto la fiducia che esse implicano nelle virtú preparatorie della natura, un pelagianesimo da cui solo si sarebbe salvato Gregorio da Rimini, col suo sforzo di innestare la dottrina agostiniana della colpa sul naturalismo occamista.

Ma se sotto il pungolo di delusioni morali e di preoccupazioni religiose Lutero concepisce un orrore cosí violento contro ogni posizione che arieggi da presso o da lontano l'apprezzamento pelagiano delle umane capacità nel processo della salvezza e nel conseguimento dei privilegi carismatici, chi potrebbe dire che, nonostante tutto, il rapporto fra l'esercizio della ragione e la virtú della fede, la vita della natura e il mistero della grazia, il corso dell'attività etica e la sua connotazione meritoria al cospetto di Dio remuneratore, non sia rimasto, tenacemente, nella raffigurazione luterana, quale l'aveva foggiato l'estrinsicismo della iniziazione occamistica? E, se ciò è vero, attraverso la mediazione di quali elementi psichici, mistici e dottrinali, il seguace del Biel all'Università di Erfurt, professante una concezione tutta esteriore e tutta pelagianamente naturalistica della vita interiore, si è trasformato nel pessimista rigido del De Servo Arbitrio?

Il monaco Lutero potrebbe, innanzi tutto, avere ricevuto, parallelamente all'educazione universitaria di Erfurt, una formazione claustrale, che di quella avrebbe potuto costituire il complemento, se non proprio la correzione. Anche dopo il trionfo decisivo delle correnti aristotelico-scolastiche, l'agostinismo aveva avuto una lunga dinastia di rappresentanti tipici, la cui eco può essersi verosimilmente sentita fin tra le mura del convento di Erfurt. L'Ordine agostiniano ha sempre mantenuto una speciale fede alla teologia del Padre, di cui porta il nome e conserva la disciplina. Una quantità di posizioni metodologiche e dottrinali, che Lutero porterà alla loro paradossale espressione, si possono segnalare in teologi agostiniani del secolo XIV e del XV. In particolare l'identificazione del fomite della concupiscenza col peccato originale, la nozione della concupiscentia invincibilis, l'affermata impossibilità della justitia perfecta durante la vita, il postulato della giustificazione mercè la sola fede, perfino quella teoria della duplice giustificazione, che il Seripando patrocinerà invano al Concilio tridentino, sono altrettante proposizioni luterane a cui è lecito trovare parallelismi non privi di significato nella tradizione dottrinale dell'agostinismo medioevale.

Il Generale degli agostiniani Agostino Favaroni, morto a Prato nel 1443, nei trattati annessi al suo commento sull'Apocalissi, come nella sua esposizione delle lettere paoline; Giacomo Perez, vescovo titolare di Crisopoli, in commentari sui Salmi e sulla Cantica e in un trattato contro gli ebrei, ripetute volte stampati fra il 1484 e il 1582; Simone Fidati da Cascia nei quindici libri De Religione Christiana stampati la prima volta nel 1480 e poi ristampati, perché «temporum vetustate in desuetudinem et in abdita dilapsi» nel 1517; sostengono concordemente punti di vista che si avvicinano, in una maniera veramente sorprendente, a molte delle piú tipiche asserzioni di Lutero.

Ma non sembra consentito trasformare parallelismi e coincidenze, che per quanto copiosi rimangono sempre occasionati e disorganici, in argomenti di scambievole dipendenza. Lutero, è vero, è costantemente scarso di riferimenti alle fonti del suo pensiero. Ma quelli che egli dissemina nei suoi scritti sono sufficienti a una delineazione approssimativa delle vie lungo le quali si è sviluppata la sua cultura religiosa; e d'altro canto, se egli avesse potuto collocare le formulazioni tipiche della sua predicazione sotto l'egida di una insigne tradizione teologica, patrocinata ininterrottamente da un venerando Ordine claustrale, non avrebbe certo rifiutato l'uso di una arma cosí efficace per dare credito alle sue idee e sostegno alla sua polemica. Infine i maestri e i consiglieri privati che Lutero ha trovato negli anni primi della sua vita claustrale non tradiscono affatto orientamenti intellettuali da lasciar supporre ch'essi abbiano potuto addestrare efficacemente la giovane recluta alla conoscenza delle tradizioni agostinistiche. Giovanni von Platz, morto nel 1511, è un occamista non diverso dai docenti universitari, e del Nathin non conosciamo nulla che tradisca una peculiare competenza nelle sottigliezze differenziali delle scuole teologiche.

Bisogna dunque chiedere a Lutero stesso, alle confidenze sporadiche e monche delle sue intime prove e delle sue spirituali traversie; al corso intenso e multiforme delle sue letture e delle sue esplorazioni patristiche ed ecclesiastiche; al suo stesso affannoso lavoro intellettuale; la spiegazione del problema offerto dalla sua palingenesi e dalla sua ribellione. La vita culturale e strettamente accademica assorbí ben presto quasi integralmente le energie del monaco. I primi scritti di Sant'Agostino che Lutero annotò furono le Meditazioni, i Soliloqui, le Confessioni. Nel suo primo insegnamento erfurtiano, commentando le Sentenze, egli si accinse, con i R u d i menta del Reuchlin, allo studio dell'ebraico. Passato a Wittenberg e addottorato, iniziava il suo insegnamento commentando i Salmi.

Cercava in pari tempo di affinare la sua claudicante e superficialissima conoscenza del greco, mentre lo sviluppo delle sue indagini, lo stimolo della sua curiosità, la febbre delle sue agitazioni interiori lo spingevano assiduamente ad ampliare la sua dimestichezza con Sant'Agostino e con i mistici.

Preso cosí intensamente dalle sue occupazioni intellettuali; in una casa religiosa dove la vita regolare lasciava straordinariamente a desiderare; tenuto, dalla carica di vice-priore, che il Capitolo di Colonia gli aveva affidato fin dal maggio del 1512, ad assolvere complesse mansioni di sorveglianza e di responsabilità; Lutero si lasciò andare ad una rilassatezza di pratiche devozionali che, acuendosi, dové provocare una attenuazione progressiva di quella capacità di pronta rispondenza di tutti i centri inibitori, di cui non può fare assolutamente a meno una vita consacrata a un arduo ideale di rinuncia e di purezza.

Le ripercussioni morali di tale intima dissipazione non possono non essere state funeste. A noi non è dato di coglierle in pieno. Ci sono abissi della coscienza nei quali noi difendiamo quasi rabbiosamente dallo sguardo dell'altrui curiosità il segreto piú geloso della nostra vita morale. Sono gli abissi in cui si accumula oscuramente il tesoro dei nostri meriti nell'esercizio del bene e l'onere gravoso delle nostre spirituali disfatte. Quando piú tardi – fattosi patrocinatore e banditore indefesso di un messaggio, secondo il quale la salvezza religiosa non era condizionata da un'assidua cura della purificazione morale, ma etica e religiosità procedevano su due piani distinti, senza alcuna interferenza e proporzionalità reciproca – Lutero confesserà brutalmente le macchie della sua vita interiore, proverà quasi uno strano compiacimento a denudare le vergogne della sua coscienza, per avere motivo, in virtú di un brusco contrasto di luci e di ombre, ad esaltare piú trionfalmente la virtú riparatrice della giustizia del Cristo.

Ma nei ricordi sporadici della sua intima vita claustrale egli soggiacerà all'antitetica ma ugualmente comprensibile preoccupazione di non lasciar scendere troppo a fondo nella notizia dei suoi trascorsi l'occhio avido dei suoi seguaci e dei suoi avversari, perché altri non abbia ragione di pensare che la teoria dell'imputazione sia scaturita dalla torbida fermentazione di una coscienza traviata, partita alla ricerca di un'agevole giustificazione delle sue irregolarità e di una comoda pacificazione dei propri assillanti scrupoli.

Sta di fatto che tutti gli studiati e coartati appelli di Lutero alla fosca disperazione a cui aveva minacciato di gettarlo in braccio la visione ch'egli definisce come «papistica» del Cristo giudice, in atto di pesare i meriti individuali e il cumulo delle opere buone prima di concedere la giustizia e la pace, tradiscono irresistibilmente le strettezze di un'anima che ha sperimentato, sulla via del bene, il piú atroce ed allarmante disinganno. Nei tardi anni del suo proselitismo Lutero si è compiaciuto di dipingere, con tratti che vogliono essere a volte incisivamente ironici e finiscono con l'essere piuttosto o sguaiati o grotteschi, il tipo ideale del santo cristiano, come l'asceta duro e inabbordabile, che realizza nella solitudine e nel cilizio l'opera della sua salvazione. Da tale raffigurazione tipica, che si riduce ad una parodia scarna e stilizzata, egli rifugge con orrore. Ma in pari tempo, pretende di avere fatto del suo meglio per praticare fino all'ultimo àpice la lettera delle sue costituzioni monastiche. E soggiunge di non essere riuscito con questo a colmare le sue trepide ansie e le sue costanti agitazioni interiori. Segno questo evidente che, a un certo punto, all'alto ideale è venuta a mancare la forza, e che fra il programma etico inizialmente concepito e la realtà della prassi quotidiana si è stabilito un divario sempre piú vasto, che ha dato alla coscienza annuvolata del monaco l'angoscia inenarrabile di un'infinita confusione e di un fosco sgomento.

Due vie si sono allora inconsapevolmente offerte all'anima di L utero, bisognosa di armonia e di riposo: o la via dell'umile riconoscimento della propria fragilità e della necessità di far piú insistente appello alla grazia, per corroborare le proprie fatiscenti energie, o la via della superba affermazione di una giustizia piú alta, capace di sussistere in uno stato inferiore di manchevolezza e di disordine, abbandonato al capriccio di una natura irresponsabile.

Coefficienti di molteplice natura hanno spinto il monaco verso la seconda alternativa.

Il senso terrificante della sproporzione fra le capacità innate della nostra natura, turbolenta e recalcitrante, e la perfezione religiosa e morale cui Dio giusto può condizionare la prospettiva immancabile della eterna salvezza, ha accompagnato gli anni claustrali di Lutero e ne ha riempito di una angoscia drammatica l'esistenza quotidiana.

Filippo Melantone ne ha graficamente descritto l'assillo incessante: «Come Lutero stesso soleva narrare e molti sanno, la ragione che lo spinse ad entrare nel chiostro, ambiente da lui reputato piú di ogni altro acconcio alla pietà e all'esplorazione dei problemi divini, fu questa. Quand'egli, come spesso gli accadeva, si poneva a riflettere all'ira di Dio e alle pene orrende della colpa, era all'istante assalito da cosí implacabili terrori, da venir quasi meno. Io stesso mi san trovato una volta nel corso di una discussione a vederlo improvvisamente costernato andarsi a gettare sul letto di una stanza contigua, ripetendo con voce rotta: – Tutti cacciò nella colpa, onde di tutti potesse avere misericordia... – Non dunque l'indigenza, ma la brama della perfezione lo condusse alla vita monastica. In cui, pur attendendo assiduamente allo studio delle discipline teologiche, all'esplorazione dei sentenziari, alla dilucidazione delle piú sottili disquisizioni dogmatiche, tuttavia, poiché non cercava guerra ma solo pascolo alla sua sete di pietà, tutto come superfluo e inconcludente reputava. Frattanto cercava avidamente le fonti della dottrina celeste, i profeti e il Nuovo Testamento, per scoprire alla sua anima la volontà del Signore e alla sua fede e al suo timore le riserve piú sostanziose. Era indotto piú assiduamente a tale ricerca dalle insane tensioni delle sue ambasce e dei suoi terrori. Raccontava di essere stato piú e piú volte confortato nel collegio agostiniano di Erfurt dai discorsi di un vecchio, il quale, alla confessione dei suoi terrori, rispondeva parlando a lungo della fede e arrestandolo su un articolo del simbolo: – Credo nella remissione delle colpe. – Articolo che quegli interpretava non nel senso doversi ritenere il perdono di alcune determinate colpe, di Pietro e di David, putacaso, come credono anche i demoni, ma nel senso che è preciso comando di Dio dover tutti noi credere al condono delle nostre miserie».

A parte qualche pennellata di colore, gettata là con accortezza comprensibile dalla mano delicata e sagace dell'amico e del cooperatore, la fonte dell'amara e persistente incertezza di Lutero, se non spiegata nei suoi motivi intimi, è qui indubbiamente determinata con intelligenza. La coscienza di gravi defezioni dalla legge tassativa del bene e della dignità interiore deve aver dato sollecitamente al monaco di Erfurt e di Wittenberg un travaglio spirituale tetro e desolato. La terribile soggezione al male, il quale con la fatalità dei suoi ritorni offensivi e vittoriosi insinua, nelle anime vigili e ansiose dietro il miraggio della perfezione, una cosí avvilente nozione dell'umana fragilità, deve essere apparsa a Lutero come una catena infrangibile, a spezzare la quale la stessa virtú dei carismi doveva rivelarsi inefficace. Dove avrebbe egli trovato calma e riposo, donde avrebbe attinto la certezza interiore, che, nonostante tutto, le vie della salvezza non sarebbero state sbarrate per lui? Nel momento della sua piú cocente angoscia, del suo piú periglioso smarrimento, gli si levò a fianco una enigmatica figura di confortatore e di maestro: la figura del suo vicario generale, di Giovanni Staupitz. Questi addolcí le febbrili ansie della sua anima in pena, additò i sentieri del suo stabile rasserenamento.

Il 17 marzo 1509, a pochi mesi di distanza dall'inizio del suo corso sulla filosofia morale di Aristotele a cui egli era stato destinato dal Capitolo di Monaco dell'ottobre 1508, Lutero scriveva da Wittenberg all'amico Braun, rimasto ad Erfurt: «Eccomi qua per volere, o quanto meno per permissione, di Dio. Se ti prende vaghezza di conoscere le mie condizioni di spirito, sappi che lo studio non mi riesce troppo gradevole e troppo spontaneo, specialmente della filosofia, che io ben volentieri avrei cambiato fin dal principio con quello della teologia, intendo quella che sa andare al nocciolo della noce, alla pura polpa del grano, alle midolla stesse delle ossa. Ma solo Dio è Dio: l'uomo, spesso, per non dir sempre, falla nelle sue valutazioni. Il nostro Dio ci governerà per i secoli, con la sua soave assistenza».

Indirizzate ad un amico, queste parole, pur nella loro laconicità, hanno tutta l'aria di tracciare di scorcio il genuino stato d'animo del non ancor trentenne maestro di morale.

Se già le sue agitazioni, nonché i suoi turbamenti di coscienza erano venuti a funestare e a intorbidare le sue limpide esperienze claustrali nella vita universitaria di Erfurt, non avevano ancora raggiunto quell'intenso grado di drammaticità, da cui doveva balzare l'esplosione del suo bando rivoluzionario. I terrificanti rimorsi di quell'anima pertinacemente presa dall'ideale smarrito della sua illibata purezza e della sua irreprensibile integrità, e insieme progressivamente consapevole della sua funzionale incapacità di attuarlo, non avevano ancora assunto tutta la violenza della suprema crisi. E lo Staupitz non aveva ancora contratto col giovane monaco «dagli occhi pensosi», il cui profilo scarno e sconcertante aveva destato in lui fin dal primo incontro cosí vivace interesse, quella familiarità che sarà il risultato delle diuturne confidenze vittenberghesi.

Ma là, fra le preoccupazioni dissipatrici della intensa vita accademica, in un ambiente monastico di fiacca e disgregata disciplina, Lutero fu esposto alle prove piú rischiose della sua vita interiore e, di rimbalzo, alle piú assidue incertezze sul suo destino morale. Si determinò cosí in lui uno di quegli stati d'animo di fluttuante angoscia e d'esitazione sull'orientamento da imprimere al corso delle proprie aspirazioni e della propria condotta, dal cui oscuro processo di fermentazione nascono o le rivoluzioni eroiche che guidano sulla via aspra del proprio integrale rinnegamento o la rassegnazione quietistica, che lascia adagiare la coscienza nella illusoria supposizione di una bontà sotterranea, capace di sussistere a dispetto delle piú avvilenti abiezioni. Lo Staupitz fu là a precipitare l'anima dell'allievo sulla china fatale del suo accomodante abbandono.

Lutero ha accennato, con una parsimoniosa discrezione che si è andata adagio adagio facendo piú attenta e misurata, all'azione esercitata dallo Staupitz su di lui. Le sue laconiche e sporadiche indicazioni al riguardo possono essere interpretate e valutate con una larghezza di criteri che la delicatissima posizione del ribelle di fronte al maestro rimasto fedele alla ortodossia premunisce dal cadere nell'arbitrario. La testimonianza piú preziosa è quella lasciata andare nel 1518, nella lettera di accompagnamento allo Staupitz delle sue Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute.

«Ben ricordo, o padre reverendo, come nel corso di una di quelle allietanti e salutari tue divagazioni, con le quali il Signore Gesù è solito darmi squisite consolazioni, capitò una volta di pronunciare la parola: penitenza. E allora, mosso a pietà dalle innumerevoli coscienze cui altrettanti carnefici insegnano, come dicono, a confessarsi attraverso tutta una minuta e impraticabile precettistica, te udii annunciare, quasi dal cielo, che l'unica vera penitenza è quella che sgorga dall'amore della giustizia e di Dio, onde debba dirsi che il principio della penitenza è proprio ciò che viene reputato suo fine e suo coronamento. Questa tua parola si apprese alla mia anima e da allora cominciai a confrontare le Scritture, là dove parlano della penitenza. Ed ecco che, come ad un divertentissimo giuoco, da tutte le parti affluivano a me gli incisi che si accordavano con questa sentenza, si che mentre prima non c'era per me in tutta la Bibbia parola che sonasse piú amara di questa: penitenza (e sí che di frequente, al cospetto di Dio, mi davo a credere e mi sforzavo di formulare l'espressione di un finto imposto amore), ora nessun'altra, piú di questa, mi suona dolce e gradevole. Cosí si addolciscono i comandamenti di Dio, quando ci proponiamo di intenderli, non soltanto nei libri, bensí nelle piaghe del dolcissimo Salvatore. Si aggiunse a ciò che sotto la guida dei dotti che ci istruiscono nel greco e nell'ebraico, appresi come il vocabolo è, nel greco, metànoia, vale a dire viene da dopo e mente; onde penitenza valga resipiscenza, cioè comprensione del male dopo il danno ricevuto e l'errore conosciuto, il che non può verificarsi senza una metamorfosi del proprio sentimento. Tutto ciò è tanto adeguatamente rispondente alla teologia paolina, che in nessun modo si può meglio di cosí, a mio parere, andare a fondo del pensiero dell'Apostolo. Infine avanzai ancora e potei constatare che metànoia non soltanto da dopo e mente può farsi derivare, ma anche, sebbene non senza un po' di violenza, da al di là e mente, onde possa interpretarsi come trasformazione e capovolgimento dell'affetto, e lasci cosí insinuare non soltanto l'accadimento interiore, ma anche la maniera in cui si verifica, cioè la virtú della grazia divina. Ché di fatto tale transito dello spirito, quella cioè che è la vera penitenza, rifulge nettamente nelle sacre carte. Lo significò il vetusto passaggio, Cristo lo additò, e molto tempo prima Abramo stesso lo simboleggiò quando cominciò ad esser chiamato Ebreo, vale a dire il transeunte, una volta trasferitosi nella Mesopotamia... Di ciò edotto, giunsi a reputare menzogneri coloro che ponevano la penitenza solamente nelle opere, sí da lasciare a noi ben poca possibilità di vera penitenza, al di fuori di poche aride pratiche satisfattorie e di una faticosa confessione, ingannati dal vocabolo latino, il quale, difforme in tutto dal greco metànoia, vale piú porre un'azione, che capovolgere gli affetti».

Se Lutero stesso non si fosse preoccupato di dimostrarci cosí, agli inizi della sua campagna sovvertitrice, l'importanza che aveva assunto nello sviluppo della sua vulcanica esperienza simile approfondimento nella comprensione del vocabolo metànoia e dei suoi equivalenti, tale importanza ci apparirebbe indiscutibile da tutta la sua produzione, specialmente parenetica, da tutta la sua polemica teologica, specialmente dai concetti centrali di quello che fu il suo primo manifesto, le tesi sulle indulgenze.

Ora, nella candida confessione del 1518, alla sorgente di questa rivoluzionaria azione, noi troviamo, incitatore e maestro, lo Staupitz. Il particolare non corre rischio di essere esagerato nel suo valore, anche se le dichiarazioni posteriori di Lutero, fattesi piú caute e circospette, non daranno piú al vecchio vicario un rilievo cosí imponente e cosí memorando. Certo non doveva essere quella l'unica volta in cui l'autorevole, enigmatica ed evasiva parola del superiore dovette imprimersi nell'anima turbata del discepolo e lasciarvi i segni di una metamorfosi radicale. Qualche altra rapida reminiscenza di Lutero può servire convenientemente di delucidazione e di commento alle confidenze del 1518, sempre però che si supponga aver Lutero diuturnamente lavorato sugli spunti che la mistica quietistica del precettore aveva offerto al suo spirito, avido di una tranquilla trasposizione di imputabilità che sedasse le inquietudini incessanti della sua coscienza vulnerata.

Nel passo riferito Lutero ricorda come il fugace accenno dello Staupitz alla differenza fra il significato etimologico di metànoia e quello del suo equivalente latino poenitentia, l'aveva indotto a ricercare nella Scrittura l'uso del pregnante vocabolo, e che tale esplorazione gli aveva fatto vedere come «attraverso le piaghe del Cristo» si addolcissero le piú ardue e severe prescrizioni bibliche. In una Tischrede del 1532 Lutero lascia cadere una reminiscenza che si presta ad un eloquente avvicinamento. «Il dottor Staupitz mi disse una volta: – Quando si vuole discutere intorno alla predestinazione, sarebbe molto meglio non pensarci affatto, ma trar principio dalle piaghe di Cristo, e figgersi bene netta dinanzi agli occhi l'immagine sua. Se ne andrebbe via immediatamente il fantasma della predestinazione, ché Dio previde bene che il suo figliuolo avrebbe patito per i peccatori. E chi crede ciò, quasi deve essere (predestinato), chi non lo crede no –»

Ma che cosa significa rifarsi costantemente e fiduciosamente alle piaghe di Cristo, ogni volta che assalga il dubbio sul proprio destino d'oltre tomba; che cosa vale precisamente raffigurarsi senza interruzione il sembiante del Crocifisso, ogni volta che pulluli su dalla coscienza inquieta il morso della propria indegnità e del proprio contaminante peccato? Significa precisamente attutire le trepidazioni sgorganti da simile consapevolezza della colpa; soffocare ogni accenno di disperazione rampollante dalla fatale incapacità di affrancarsi dalla oscura insidia del male, attraverso una trionfale fiducia nella volontà di Dio di trarci a felice salvamento, nonostante tutta la nostra ripugnante e aderente indegnità.

Lo Staupitz era sembrato al principio non aver compreso tutta la vastità della crisi che si abbatteva nell'anima del suo giovane monaco e non averne afferrato i motivi reconditi. Ma seguendo con occhio vigile, nell'uniformità della vita comune a Wittenberg, l'andamento spirituale del giovane docente, verso cui, dopo il momentaneo rabbuiamento dei loro rapporti in occasione del viaggio d'appello a Roma e in séguito all'avvenuta riconciliazione, dovevano andare cosí spontaneamente il suo interesse e la sua simpatia, si rese conto con sufficiente approssimazione delle ragioni da cui erano alimentate le sue visibili agitazioni, e si accinse di proposito a temperarne la violenza.

Lo Staupitz, a quanto trapela dalle monche reminiscenze di Lutero, non tradí mai troppo apertamente le sue intime e decise convinzioni. La sua assidua opera di addolcimento degli scrupoli e dei terrori di quell'eccitabile allievo si esplicò soprattutto attraverso moniti ed aforismi tranquillanti, lasciati cadere accortamente nelle ore di piú disperato cordoglio e mediante l'avviamento sagace verso letture mistiche che promettevano di riuscire piú atte a trasfondere sentimenti di conforto e di fiducia.

«Molte volte», racconta Lutero, «ho esposto allo Staupitz le mie intime angosce, non tanto a proposito di tentazioni quanto a proposito di reali e aggrovigliate difficoltà. Ed egli mi diceva: – Non capisco. – Ecco un bel modo di consolare. Quando mi rivolgevo a qualche altro, mi capitava lo stesso. In una parola, nessun confessore ne voleva sapere. E allora io andavo riflettendo dentro di me : nessuno sperimenta il genere di tentazioni che hai tu. Ed io ero ridotto come una povera cosa morta. Ecco che un giorno lo Staupitz mi disse a tavola, mentre ero piú triste e piú disfatto: – Perché sei abbattuto? – Ed io risposi: – Che cosa sarà di me? – Ed egli: – Ah, che non sapete come questa tentazione vi sia necessaria, ché altrimenti non diverreste nulla di buono. – Probabilmente in questo stesso non capí la portata del suo ammonimento. Pensava che, senza tentazioni, la mia dottrina potesse indurmi a superbia. Ma io ascoltavo i suoi accenti come la voce dello Spirito Santo che mi consolava».

In realtà lo Staupitz capiva ormai molto bene dove poteva andare a parare l'oscura agitazione di Lutero: e pensava di trarlo a salvamento, instillandogli quei principî di quietismo ascetico-mistico, di cui egli stesso si era imbevuto. Una volta che Lutero, prima di appressarsi all'altare per celebrarvi la messa, confidò allo Staupitz le lacerazioni della sua anima esacerbata, sopraffatta dal pensiero della sua indegnità e della discontinuità tragica fra i suoi propositi di bene e la fosca realtà della vita morale, si ebbe questa risposta: «Gersone e gli altri Padri han detto che l'uomo non deve fare altro che sforzarsi di rimanere nella sua primiera intenzione. Orbene: la vostra prima intenzione è stata quella di conseguire la remissione».

Gersone è, con San Bernardo e Guglielmo di Parigi, lo scrittore mistico che Lutero ha imparato dallo Staupitz a conoscere e che egli chiama, per eccellenza, il doctor consolatorius. È uniformandosi allo spirito di Gersone che lo Staupitz ammonisce Lutero a riconoscere che non c'è piú l'azione del Cristo, dovunque si delineano un turbamento e un timore di coscienza; che lo premunisce dall'esagerare la portata delle sue colpe e, a suo conforto, gli conferma come, dopo avere mille volte promesso al Signore l'emendazione della propria vita e avere, altrettante volte, constatato la propria radicale impotenza, si era rimesso, completamente e fiduciosamente, alla misericordia sconfinata del Cristo. L'iniziazione di Lutero alla mistica gersoniana non è stata sterile.

In verità, comparando molte affermazioni dell'ardito cancelliere dell'Università parigina nell'epoca dello scisma d'Occidente, con alcune delle iniziali delineazioni della dottrina etico-teologica di Lutero, si colgono agevolmente le sorprendenti affinità reciproche. Lutero stesso ne ha dato la giustificazione, quando ha sentenziato che, unico fra i piú insigni scrittori ecclesiastici, Gersone ha avuto un nitido sentore di quelle oscure tentazioni di spirito che nascono dallo scoraggiamento e dal dubbio intorno alla salvezza.

L'efficacia di Gersone sulla soluzione cui pervennero negli anni del piú acre travaglio le agitazioni interiori di Lutero, appare perfino in alcuni particolari concreti, degni veramente di molto rilievo. Nella testimonianza di Melantone già segnalata, il monaco è dipinto come sopraffatto dal pensiero della giustizia punitiva di Dio, ma risollevato però dalla prospettiva della divina misericordia. Lutero, secondo tale testimonianza, avrebbe calmato le sue angosce ripetendo, come un motto ed un aforisma, le parole: «Tutti confinò sotto la colpa, onde di tutti potesse trarre misericordia». Ora le parole costituiscono una alterata reminiscenza paolina. L'Apostolo parla della Scrittura e dice di essa che «conclusit omnia sub peccato, ut promissio ex fide Jesu Christi daretur credenti bus». Lutero attribuisce a Dio direttamente quel che Paolo attribuisce alla Scrittura. Ebbene: in simile sostituzione Gersone ha preceduto Lutero: «Collaudandus benignissimus et omnipotens Deus, qui motis nostris non solum non vincitur, sed ex iis operatur bonum nostrum: sic enim dicitur omnia sub peccato conclusisse, scilicet permisisse, ut omnium misereatur».

Molto, in realtà, Lutero poteva imparare da Gersone. Le peculiari condizioni d'incertezza e di trepidazione, in cui lo tenevano gli scrupoli della sua coscienza inquieta, dovevano rendere per lui eccezionalmente efficaci le ammonizioni del mistico. Questi aveva paragonato la vita morale del cristiano ad un tetragono invincibile: «In venitur quadruplex meditatio quae velut in tetragono firmissimo gestat spem: una meditatio divinae iussionis, ut speres; altera, divinae promissionis, si speres; tertia, immensae Dei pietatis, ne desperes unquam de suis miserationibus; quarta, propriae fragilitatis, ne speres in te vel in propriis viribus». Ce n'era abbastanza per infondere nell'animo turbato del monaco un senso nuovo di sicurezza e di serenità, che offrendo la via della salvezza attraverso il gesto dell'umile abbandono e della invincibile fiducia, legava il problema del destino a un puro atto di orientamento interiore. Il giorno in cui un'esperienza di questo genere fosse riuscita ad apparire e ad essere di fatto normativa, la compagine esteriore della disciplina carismatica e della amministrazione ecclesiastica avrebbe ricevuto un colpo fatale.

Il processo della formazione teologica e l'ampliamento della cultura mistica condussero automaticamente Lutero ad una ricca elaborazione dei motivi attinti da Gersone. Egli constatò che le dottrine tanto confortanti che aveva cosí avidamente assorbito dalla mistica gersoniana erano state professate in Germania da scrittori domenicani, in opere di altissimo valore edificativo. Non è arrischiato il pensare che fu lo Staupitz stesso ad iniziarlo alla conoscenza di questa letteratura mistica del secolo XIV, in cui lo spiritualismo idealistico tedesco diede per la prima volta, in una lingua propria originale e potente, espressione grandiosa di sé. Il 4 dicembre del 1516 Lutero stesso pubblicava, presso Giovanni Grünenberg a Wittenberg, una notevole parte di un «nobile e spirituale libretto, che parla della giusta differenza e della nozione di quel che sia l'uomo vecchio e l'uomo nuovo, di quel che sia esser figlio di Adamo e di Dio, e come Adamo in noi muoia e Cristo risorga». Due anni dopo lo ripubblicava col titolo che doveva restare definitivamente allo scritto: Eine deutsche Theologie. Quale gioia deve aver provato il monaco di Wittenberg al ritrovare espresso nella lingua che assurgeva, come espressione di una razza e di una cultura raggiungenti la maturità nazionale, a dignità letteraria, il senso vivo della sicurezza religiosa e della fiducia interiore, ch'egli aveva fino allora cosí avidamente attinto dai mistici stranieri! «Lasciate pure che dicano di noi che siamo dei teologi alemanni: ci guarderemo bene dal negarlo! Sono riconoscente a Dio che mi si è fatto trovare in lingua germanica, quale né io né altri avevamo mai trovato in lingua latina, greca o ebraica. Dio faccia sí che questo libretto si divulghi largamente, perché cosí si constaterà agevolmente come i teologi tedeschi sono, a non dubitarne, i migliori fra tutti». Cosí Lutero proclamava solennemente nella sua prefazione. Il piccolo libro l'aveva, evidentemente, scosso fino alla profondità dell'anima. Quello sforzo serrato ed anelante dell'amico di Dio di Francoforte per educare l'anima ad uscire eroicamente da sé, per tuffarsi in Dio e berne a larghi sorsi inebrianti la luce e la pace nella imperturbabile serenità dell'impassibilità – meta e sogno di ogni forma di misticismo individualista; – quel proposito insistente e uniforme di sollevare l'anima dal fascino caduco ed illusorio della fantasmagoria sensibile, per trasportarla nella zona della visione ultraempirica; quella riduzione intransigente della vita dello spirito alla contemplazione ideale dell'Essere unico ed assoluto che di fronte all'Imperfetto e al Perituro è il teleion di cui parla San Paolo nell'inno all'amore; avevano nutrito la coscienza esitante del monaco, fino a dargli tutta una nuova concezione dei poteri e dei fini della vitalità spirituale.

Gersone aveva perentoriamente assicurato che la perfezione di un'anima è nella persistenza indefettibile nella sua intenzione di aderire a Dio. L'amico di Dio dal canto suo asseverava: «La Scrittura, la Fede, la Verità stessa ci insegnano che il peccato consiste semplicemente nell'allontanamento della creatura dall'Eterno immutabile, dal perfetto, per correr dietro all'imperfetto: per arrestarsi, innanzi tutto, su se stessa. La creatura si allontana da Dio quando attribuisce a sé qualcosa su cui affermiamo la volontà, come l'esistenza, la vita, la coscienza, la conoscenza, il potere. Quando la creatura dice: – Io sono questo o questo è cosa mia – essa è già remota da Dio».

La via della perfezione non è altro che il progressivo discioglimento dell'essere umano da ogni ingombro opprimente del suo individualismo egocentrico, il suo successivo annullarsi per il perfetto ritrovamento nella totalità dell'Essere divino, il suo radicale annegamento nell'unica realtà del bene e del giusto sussistente.

«L'anima creata dell'uomo», aveva scritto l'amico di Dio di Francoforte, «possiede due occhi. L'uno consiste nella capacità di guardare nell'Eternità; l'altro in quella di guardare nel Tempo e nelle cose sensibili. Ma i due occhi non possono esercitare simultaneamente la loro virtú visiva. Se l'anima vuoi contemplare con l'occhio destro il dominio dell'eternità, l'occhio sinistro occorre si affranchi da tutte le azioni proprie e si reputi morto. Ché se l'occhio sinistro vorrà esercitarsi nell'opera sua, perdendosi dietro al Tempo e alle cose create, l'occhio destro ne sarà automaticamente paralizzato nella sua virtú di contemplazione».

Le preoccupazioni etiche, da cui era assediata l'anima di Lutero, debbono averlo indotto a intendere in un valore prevalentemente soteriologico le dichiarazioni che la mistica formulava in un significato puramente psichico e gnoseologico. Del resto Lutero, secondo la sua stessa dichiarazione, ha inizialmente considerato il libretto da lui pubblicato come un riassunto delle prediche di Giovanni Tauler. In queste prediche egli ha trovato, rinvigorite ed enucleate, le posizioni mistico-quietistiche che già in Gersone avevano lusingato il suo animo inquieto e placato le sue ansie spirituali.

Non si possono appunto convenientemente indagare e oggettivamente circoscrivere gli effettivi rapporti fra l'evoluzione intima del riformatore e la tradizione mistica germanica se non si tiene costantemente presente il fatto che, con ogni probabilità, la conoscenza di questa tradizione venne a sovrapporsi ad uno stato d'animo già foggiato dal quietismo di Gersone e sospinto dal bisogno di placare ostinate preoccupazioni d'indole nettamente etica. L'incontro di Lutero con i principali rappresentanti della mistica tedesca del secolo XIV deve essere accaduto ad uno stadio molto avanzato della sua evoluzione. È a partire dal commento alla Lettera ai Romani negli anni accademici 1515 e 1516, che Lutero esalta la dottrina di Giovanni Tauler come l'espressione piú alta della speculazione teologica. Egli prova un ostentato compiacimento a dire che ne preferisce lo spirito e la dottrina spirituale a quelli di cui fanno sfoggio i piú insigni teologi delle scuole. Ma che cosa precisamente aveva richiamato piú direttamente la sua attenzione e che cosa aveva suscitato piú fervidamente la sua simpatia nelle dilucidazioni esegetiche piene di finezza, di penetrazione e di efficacia con cui Tauler aveva deliziato i suoi ascoltatori di Strasburgo?

Non è corretto scientificamente rispondere a questo quesito in base a una tesi presupposta sui precetti dottrinali del pensiero luterano, quasi che le analogie fra questo e l'atteggiamento mistico di Tauler dovessero essere valutate in funzione della comune dipendenza da fonti tradizionali; e non è neppure scientificamente giustificata una valutazione della giustezza o meno della pretesa del monaco riformatore che la sua esperienza e il suo orientamento religioso combaciassero del tutto con gli indirizzi mistici del grande predicatore domenicano. Lutero ha creduto sinceramente che la sua personale visione della salvezza nel Cristo, adattata inconsapevolmente ad una peculiare esperienza della sua vita etica, trovasse nella mistica tauleriana il suo parallelismo adeguato. Tale credenza lo ha corroborato nella proclamazione del suo messaggio e nella divulgazione delle sue idee. Tauler, è vero, non fu mai un deprezzatore delle opere cosí radicale come il riformatore di Wittenberg. Ma è altrettanto vero che la mistica del suadente predicatore di Strasburgo, meno metafisica di quella di Eckehart e in pari tempo meno erudita di quella di Seuse, poggiava tutta sul precetto dell'autorinnegamento interiore e della assoluta fiducia nel Cristo, precetto che si prestava pertanto magnificamente ad una predicazione religiosa che annullava e cancellava senza risparmio l'opera dell'uomo nel processo della salvezza, ridotta senz'altro ad una consapevole assimilazione del merito infinito del Cristo.

Questa distruzione radicale della propria individualità finita, che la mistica poneva come condizione indispensabile ed esigenza preliminare di un avvicinamento beatificante al divino, Lutero l'interpreta come eliminazione di ogni contributo responsabile al raggiungimento dell'eterno riposo. Quella identificazione sublime col Cristo che la mistica additava come la suprema meta dell'idealità religiosa, Lutero la raccomanda come la mediazione necessaria per la redenzione della propria natura, perdutamente, maledettamente peccaminosa.

La Kreuzseligkeit di cui Lutero parla con cosí vivo e schietto compiacimento è precisamente quel rifugiarsi beato a ridosso del legno salvatore della croce, che i mistici avevano raccomandato come unica via di scampo, quando la muta delle tentazioni assalga con piú accanita rabbia la nostra incolumità morale. Ma nella appropriazione dei motivi centrali della mistica, che non aveva mai dimenticato le sue scaturigini propriamente filosofiche, Lutero porta una preoccupazione molto piú assidua di mantenersi aderente alla realtà storica del Cristo e alla concretezza del suo messaggio.

Cosí Lutero, attraverso una crisi che doveva aver investito molto presto la placida serenità della sua iniziale vita monastica; mercè il sussidio di una educazione teologica nominalistica ed estrinsecistica; di una iniziazione mistica fatta di quietismo e di abbandono; di una rapida e non perfettamente fedele tradizione contemplativa piú vicina, che aveva assegnato una importanza preponderante, nel processo dell'interiore perfezione, al completo annullamento di tutte le velleità dell'individuo personale di fronte alla dilagante comunicazione della sussistenza infinita; trovava, in una posizione instabile di contigue posizioni spirituali, in cui si accoppiavano paradossalmente insieme la consapevolezza rassegnata della colpa e la certezza trionfante della giustizia, il vantato riposo di una intima, lacerante disarmonia. Avrebbe potuto essere l'assurda risorsa di un'anima disperata, presa fra l'impossibilità del suo ideale morale e l'esigenza inarrestabile del suo propizio destino: fu invece il principio di una vasta insurrezione religiosa.

Traducendosi in una impugnazione rumorosa dei poteri carismatici della ufficiale società cristiana; propagandosi come ribellione a una disciplina che, presupponendo tassativi oneri morali, implicava il controllo della autorità sulla vita dello spirito; l'esperienza di Lutero doveva gettare, nel recinto della tradizione religiosa governata da Roma, il fermento oscuro di una formidabile disgregazione. Le circostanze favorirono la disseminazione dell'inconsueto messaggio: la capacità proselitistica di Lutero riuscí a crearsi le armi per la sua violenta propaganda. Racconta egli stesso, nella prefazione alla raccolta delle sue opere, nel 1545: «Frattanto, in quello stesso anno (si riferisce al 1519) ero tornato di nuovo ad interpretare (nella scuola) il Salterio, sembrandomi di poterlo fare ormai con tanto maggior addestramento, dopo aver commentato le Lettere paoline ai Romani, ai Galati, agli Ebrei. Ero stato preso da un'intensa brama di conoscere a fondo il pensiero di Paolo nella sua Lettera ai Romani; ma mi era stato d'impedimento fino allora non tanto un'arida freddezza di cuore, quanto un inciso che è nel primo capitolo: – La giustizia di Dio si rivela in esso. – In verità provavo nell'anima un vero odio contro questo termine, giustizia di Dio, che dall'uso di tutti i teologi ero stato accostumato ad interpretare, diciamo cosí, filosoficamente, nel senso della giustizia formale o attiva, come dicono, per la quale Dio è giusto e punisce i peccatori e gli ingiusti. Per mio conto, sentendomi peccatore al cospetto di Dio, agitato da una coscienza turbatissima, sebbene vivessi irreprensibilmente come monaco, e non riuscendo a raffigurarmelo placato dalle mie opere satisfattorie, finivo non con l'amare, ma con l'odiare un Dio giusto e puniente i peccatori, e mi irritavo sordamente con lui, con una tacita prolungata mormorazione, se non addirittura con un'aperta bestemmia. E gli dicevo: – Non era stato forse abbastanza che i disgraziati peccatori fossero sottoposti ad ogni genere di iattura e di pena, sotto l'influsso malefico della colpa originale, eternamente dannatrice, e attraverso l'onere della legge del decalogo? Era proprio necessario che Dio, mediante il Vangelo, aggiungesse dolore a dolore, e facesse unicamente balenare dinanzi a noi lo spettro della sua giustizia e della sua ira? – Il cruccio offuscava e sconvolgeva la mia coscienza. Ed io continuavo a rimuginare incessantemente quel passo di Paolo consumandomi dal desiderio di comprenderne il significato. Finché, per la misericordia di Dio, mentre giorno e notte cogitabondo andavo meditando l'intima connessione delle parole di Paolo, di quelle precisamente: – La giustizia di Dio si rivela in esso, secondo quel che è scritto: il giusto vive nella fede, – cominciai, per la giustizia di Dio, a comprendere quella giustizia, nella quale il giusto vive per dono di Dio, vale a dire quella giustizia che rampolla dalla fede. Il valore della sentenza mi si rivelava pertanto cosí: – La giustizia di Dio, che si manifesta attraverso il Vangelo, essere quella giustizia passiva con la quale Dio misericordioso ci giustifica mediante la fede, come è scritto: il giusto attende dalla fede la sua vita. – A questo punto mi sentii rinascere e a me parve che si schiudessero le porte del Paradiso. Di colpo tutta la tessitura della Scrittura mi apparve diversa. Per quanto la memoria mi soccorre, andavo rivedendo le sue testimonianze. Cercavo in termini analoghi. quali l'op e ra di Dio, vale a dire l'attributo con cui ci conferisce la potenza, la sapienza di Dio, vale a dire la proprietà con cui ci fa sapienti, la forza di Dio, la salvezza di Dio, la gloria di Dio, sussidî alla mia interpretazione. Sicché ormai con la stessa intensità con la quale in antecedenza avevo odiato il termine giustizia di Dio l'amavo ora e l'esaltavo. Il passo paolino fu per me veramente la porta del Paradiso. Dopo mi diedi alla lettura del De spiritu et littera di Sant'Agostino, dove, fuor di ogni aspettativa, mi imbattei in passi che mostravano come egli avesse interpretato allo stesso modo la giustizia di Dio, come quella giustizia cioè di cui Dio ci riveste, quando ci giustifica. E sebbene le sue formule vi siano ancora imperfette e sebbene egli non chiarifichi a sufficienza tutto ciò che si riferisce alla imputazione, mi diede viva soddisfazione il constatare ch'egli parlava di quella giustizia di Dio, con la quale noi siamo giustificati».

Questa esplicita e solenne testimonianza di Lutero, a cui parecchie altre di minore ampiezza ed entità fanno corona e vengono a dare rincalzo, solleva molteplici problemi.

Innanzi tutto, è esatta la determinazione cronologica che Lutero indica della sua illuminante e sùbita esperienza? O non piuttosto, attraverso la naturale deformazione che i suoi ricordi hanno subìto nella diuturna milizia della sua campagna innovatrice, egli giunge a fissare per il principio del suo nuovo insegnamento una data, la quale, se rappresenta una piú conveniente collocazione e una piú appariscente celebrazione del motivo polemico che sarà l'arma preferita del suo combattimento, costituisce però una confusione e un anacronismo? E in secondo luogo, in che consiste realmente questa improvvisa scoperta, a cui Lutero riannoda la Virtú pacificatrice del suo Vangelo? Ed è corretta l'asserzione sua che i Padri e i Dottori del cristianesimo tradizionale avessero interpretato il passo memorando di Paolo in un valore cosí pessimistico e cosí tetro, da infondere alla sua anima tremebonda l'orrore che dà la saetta piombante dal cielo?

Al suo primo quesito permettono di dare una risposta sicura, almeno nel suo valore negativo, i documenti superstiti dell'insegnamento accademico di Lutero, nei primi anni della sua carriera a Wittenberg.

Lutero cominciava il suo tirocinio di lettore biblico commentando i Salmi. I suoi Dictata super Psalterium raccolti dal Kawerau di su due esemplari, quello delle sue note interlineari conservato a Wolfenbüttel e quello dei suoi scolii conservato a Dresda, mostrano chiaramente che già nel 1513, durante la sua esegesi salmistica, a partire specialmente dal Salmo trentacinquesimo, Lutero adotta il termine iustitia Dei nel significato specifico di misericordia divina che non punisce dopo avere severamente giudicato, ma perdona, e, perdonando, corona.

Soprattutto in quel commentario alla Lettera ai Romani del biennio 1515-1516, il quale, ritrovato e pubblicato non molti anni fa, ha cosí profondamente rivoluzionato la leggenda luterana tradizionale sugli inizi del nuovo Vangelo, noi troviamo, per lungo e per largo, la visione della giustizia passiva, di cui Lutero aveva tentato di accreditare il sùbito ritrovamento ponendolo nel 1519. Noi pertanto dobbiamo piuttosto pensare che il capovolgimento della nozione della giustizia divina, da attiva in passiva, come del resto solo molto piú tardi Lutero si compiacerà esplicitamente di chiamarla, si è effettuato nell'animo di Lutero parecchi anni prima di quella data.

Tratto automaticamente dal lavorio silenzioso che si era operato nel suo subcosciente a sdoppiare la vita della personalità ragionevole in una zona di insopprimibili ed indomabili manifestazioni attive, funzionalmente peccaminose, e in una sovrapposta zona di imperturbabile e gioiosa fiducia nella salvezza, guadagnata dal Cristo e da Lui generosamente donataci, Lutero doveva logicamente trasformare il concetto dei rapporti fra Dio e l'anima redenta. Tali rapporti si riducevano per lui a quelli del donatore signorile e gratuito, che elargisce, senza nulla attendere e nulla chiedere, se non la fiducia nel dono conseguito. La giustizia di Dio, da questo speciale punto di vista, non poteva avere che un solo significato: quello dello speciale abito di esteriore giustificazione che il Signore conferisce in virtú dei meriti guadagnati mercè un soprannaturale riscatto.

L'esperienza personale del monaco si trasforma cosí in un criterio esegetico per l'insegnante. Può darsi che nei primi fervori della mischia questa nozione sia apparsa all'iniziatore del movimento riformato con piú netto ed incisivo rilievo. Conveniva ad ogni modo al veterano e al trionfatore del 1545 dare una data a quella che era stata la lenta conquista del suo intelletto, mosso da una turbinosa esperienza, e che, dopo essere stata una regola esegetica nella scuola, doveva essere un formidabile strumento di lotta nella campagna scatenata nel 1517. E quella data non poteva essere segnata in nessun altro momento, che nella vigilia agitata dell'Exurge e nella preparazione oscura della Dieta.

Ogni intensa e personale esperienza religiosa nel cristianesimo, sia che abbia le sue prime sorgenti in una acuta preoccupazione delle possibilità etiche della disciplina associata, sia che muova da una inquietudine assillante per il problema della individuale salvezza, deve logicamente, necessariamente rifarsi alla Lettera ai Romani di San Paolo. Dopo aver commentato i Salmi, Lutero, poco piú che trentenne, iniziava nel 1515, a Wittenberg, il suo commento alla piú solenne e densa lettera dell'Apostolo.

Giovanni Oldecop, giunto all'Università nella primavera di quell'anno, trovava Lutero tutto preso dalla sua esegesi paolina. Delle sue postille e dei suoi scolii fu ritrovato dal Ficker, aiutato dal suo allievo, il Vopel, un esemplare, nel 1899, nel fondo della Palatina al Vaticano; e poco piú tardi l'originale stesso nella Biblioteca Reale di Berlino.

Lutero iniziava la sua ardita ed originale esegesi neotestamentaria nel momento stesso in cui le indagini testuali intorno alla letteratura del cristianesimo primitivo prendevano, soprattutto per merito di Erasmo, il piú fervido sviluppo. La prima edizione critica del Nuovo Testamento in greco è quella appunto pubblicata dall'umanista fiammingo a Basilea nel 1516. Lutero l'ha conosciuta a un certo momento del suo corso universitario e si è compiaciuto di citarla negli Scholia. Abitualmente il suo commento si svolge sul testo latino della Volgata, su un codice a stampa dai margini spaziosi, capaci di raccogliere fedelmente e comodamente le sue annotazioni. La delucidazione del testo non avviene nel senso critico moderno, che mira soprattutto a collocare il messaggio paolina nel quadro storico, sotto la cui efficienza impalpabile si è foggiato e si è diffuso, ma in senso teologico ed edificativo. E si comprende perfettamente come un maestro dalla profonda e ricca vita spirituale fosse automaticamente indotto ad interpretarlo alla luce della sua personale esperienza. Quando, verso l'aprile del 1515, Lutero svolgeva il suo commento, le principali posizioni del suo sistema erano già nettamente delineate e radicate nella sua anima.

Quegli stessi teoremi di cui piú tardi vorrà riportare il raggiungimento ad una speciale e prodigiosa illuminazione dall'alto, si erano già esplicitamente elaborati in virtú dell'azione composita del suo travaglio intimo e della sua formazione nominalistico-mistica. La dottrina intorno alla giustizia di Dio appare dal commento completamente chiarita.

Nel primo capitolo del suo vibrante messaggio ai credenti di Roma, Paolo spiega le ragioni che lo hanno spinto a rivolgersi ad una comunità che, essendo stata fondata da un altro banditore della buona novella, non aveva avuto fino allora alcun rapporto con lui. Paolo proclama di non sapersi vergognar mai del Vangelo, «perché è racchiusa in esso una eccezionale potenza di Dio, atta a realizzare la salvezza di ogni credente, israelita prima e greco poi». E soggiunge: «Poiché la giustizia di Dio si discopre in esso (nel Vangelo) da fede in fede, come è scritto: il giusto trarrà vita dalla fede». Lutero commenta: «Va notato che la potenza di cui qui si parla, non è già quella in cui Egli (Dio) è formalmente potente in se stesso, ma quella per la quale Egli fa potenti e valenti gli altri... (In quanto al versetto successivo) va notato che attraverso le dottrine umane si manifesta e si insegna la giustizia degli uomini, appare cioè chi e in che modo sia e divenga giusto dinanzi a sé e dinanzi agli uomini. Solo nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio (vale a dire chi sia giusto al cospetto di Dio e in che modo costui lo divenga), in virtú della sola fede, con cui si creda alla parola di Dio. Poiché solo la giustizia di Dio è causa della salvezza».

Che cosa si aggiungerà in piú dal '19 in poi a questa concezione della salvezza conseguita attraverso un'elargizione sovrana della giustizia misericordiosa di Dio, se non una piú radicale e violenta impugnazione delle opere, sotto lo stimolo polemico contro l'autorità della Chiesa visibile, amministratrice dei meriti sgorganti dalla pratica della disciplina esteriore?

Ma la pienezza, ormai acquisita, della esperienza religiosa di Lutero nel momento del suo commentario ai Romani; la netta e individualissima sua foggia di intendere e di rivivere, fuori di ogni schema concettuale, l'atteggiamento e l'insegnamento di Paolo, appaiono nei minimi particolari.

Uno dei passi piú eloquenti della lettera è quel tratto del capo ottavo in cui l'Apostolo immagina che tutta la creazione, quasi essere umano capace di inquietudine e di gioia, si protenda, vigile, in una attesa febbrile, verso la manifestazione prodigiosa dei figli di Dio. Si tratta di una raffigurazione cosmico-escatologica della natura, nella quale si suppone che l'universo abbia soggiaciuto, nolente, alla schiavitú derivata dal peccato, e che attenda ora la trasfigurazione nella libertà, che non potrà mancare quando sia effettuata nel suo ciclo completo la redenzione dell'uomo. Chi sa non nasca da questa intuizione paolina il nuovo senso della natura, non piú concepita come esteriore spettacolo di bellezza, ma totalità di esseri, partecipi a tutte le nostre angosce e a tutte le nostre speranze? Lutero sente la vivezza straordinaria e la novità incontestabile dell'idea paolina, e la commenta: «L'Apostolo specula sulla realtà e ne ha un sentore in modo sostanzialmente difforme da quello dei filosofi e dei metafisici. Infatti i filosofi tuffano cosí perdutamente il loro sguardo nella presenza attuale delle cose, da intravvederne unicamente le quiddità e le qualità. Paolo invece allontana le nostre pupille dalla percezione delle cose presenti, della loro essenza e dei loro accidenti, e ce le fa cogliere in quel che esse saranno». Lutero rileva con compiacimento che la visione paolina del mondo non è la visione filosofica: l'Apostolo mira a trasfondere il senso del movimento delle cose create, a trasportarci in pieno nella simpatia dinamica con la natura, mentre i metafisici ne irrigidiscono il meccanismo in una traduzione concettuale statica e fredda. Al confronto con i voli corroboranti del misticismo paolino, la speculazione astratta è uno sterile logorio di tempo. Lutero concede che la si coltivi, ma solo per combatterla; che se ne acquisti la terminologia, ma solo per adoperarla come strumento di distruzione.

Ma nel commentario alla Lettera ai Romani un'altra posizione centrale di Lutero appare nitidamente delineata: quella intorno alla concupiscenza invincibile. Il docente universitario l'identifica col peccato originale e ne fa qualcosa che ha sconvolto sostanzialmente il nostro essere ed ha irrimediabilmente annullato tutte le nostre capacità di bene. Cercando di rendersi ragione del concetto paolina di peccato ed invocando lume in proposito dalla teologia di Sant'Agostino, Lutero si chiede a che cosa si riduce la colpa d'origine. E risponde distinguendo recisamente le sottigliezze dei teologi, secondo i quali non è altro che la privazione o la mancanza della giustizia originale, dal concetto dell'Apostolo, perfettamente aderente al senso evangelico, secondo cui tale colpa non è tanto la privazione di una dote della volontà, quanto genericamente la sottrazione della rettitudine e la paralisi di tutte le energie corporali e spirituali, cosí dell'uomo interiore come di quello esteriore. «È l'inclinazione al male, la ripugnanza al bene, l'insofferenza della luce e della sapienza, la cupidigia e la voluttà dell'errore e delle tenebre, il rifuggire e l'odiare le opere buone, il pencolare fatalmente verso il male ». Concezione, come si vede, estremamente pessimistica, che scorge nel fallo dei primi parenti una debilitazione funesta ed insanabile di ogni nostra attitudine, che non solamente implica la nostra dannazione, ma, avendoci depauperati e isteriliti per il bene, ci ha posti fin nella impossibilità di guadagnare col nostro merito il primo stimolo della grazia. Il pungolo indomabile di questa caduta iniziale ci è crudelmente fitto nelle carni, ed è la legge oscura delle nostre membra, il languore mortale delle nostre capacità, il tiranno invisibile della nostra natura. Noi siamo ormai pertanto sempre esseri che pencolano automaticamente verso il male. Nessuna adeguazione è quindi possibile tra la nostra vita morale e la grazia. La giustizia e la salvezza sono dono squisito di Dio: unico modo di meritarle, la confessione della propria incapacità di meritarle. Perché, quando noi ci presentiamo al cospetto di Dio e ci riconosciamo destinati infallantemente alla perdizione qualora egli non ci elargisca la sua onnipotente grazia, noi implicitamente riconosciamo la nostra inettitudine, proclamiamo la sua giustizia, ch'egli solo può comunicarci. Abbiamo già qui, nel suo concetto centrale, se non nelle sue formule esplicative, tutta la teoria della giustizia passiva, teoria la quale scaturisce dalla paradossale esperienza del contrasto fra un ideale etico che si è constatato superiore alle proprie capacità e la volontà prepotente della sicura salvezza. Il fedele deve ritenersi giustificato anche attraverso la sensazione delle sue inevitabili colpe. Il giorno in cui egli riesca a sentirsi nel medesimo tempo iustus et peccator (è la formula di Lutero), avrà effettivamente realizzato il misterioso ideale della perfezione cristiana.

Nella sua esegesi alla principale Lettera di Paolo, Lutero pretende di restare aderente e fedele al valore del testo interpretato: pretende inoltre di intenderlo sulla luminosa traccia di colui, che aveva, agli inizi del quinto secolo, meravigliosamente escogitato e patrocinato le dottrine antropologiche e soteriologiche che sarebbero state per sei secoli quelle del cristianesimo occidentale, di Sant'Agostino. Giudicare la illegittimità o meno di questa pretesa, significa né piú né meno pronunciarsi sul formidabile problema dei rapporti fra messaggio cristiano primitivo ed ortodossia cattolica, fra la tradizione e la riforma.

Sta di fatto che intendere San Paolo in tutte le sfumature piú esili delle sue complesse posizioni, senza coartarlo, deformarlo, impoverirlo, parodiarlo, è còmpito eccezionalmente malagevole. Un osservatore superficiale può cogliere nell'epistolario paolina dichiarazioni sconcertanti e in apparenza contraddittorie. Se a volte l'Apostolo sembra impostare il problema della salvezza da un angolo visuale strettamente individualistico, suscettibile di una soluzione che implichi unicamente il rapporto fra l'anima e la giustizia infusa da Dio, tal altra il senso della disciplina carismatica e della vita associata irrompe cosí dominante, che le prime imbarazzanti formulazioni ne sono corrette, chiarite, inquadrate.

La Chiesa è per Paolo il corpo mistico del Cristo che si proietta e si moltiplica nella storia: è attraverso alla Chiesa che è possibile aderire al Cristo. A Lutero è venuta progressivamente a mancare la nozione appunto delle esigenze ecclesiologiche di ogni esperienza cristiana e la consapevolezza dei doveri che legano il singolo alla comunità. Le dichiarazioni spesso cosí audaci intorno all'inserzione delle opere sul processo della spirituale redenzione sono imposte a Paolo dalla decisiva lotta antinomistica e dalla necessità di rivendicare la sua predicazione universalistica di fronte al giudaismo. Ma Paolo si guarda bene dallo scindere la vita intima della coscienza in una duplice zona, l'una di peccato, l'altra di grazia. Del resto, l'ardita e pericolosa posizione di Paolo, letteralmente intesa, non è sempre riproducibile nell'ambito della società cristiana: a tal fine è necessario rivivere in una di quelle ore solenni e drammatiche di transizione da una economia religiosa ad un'altra, che consentono la alegalità del processo della salvezza. Lutero ha dimenticato che, costituitasi la Chiesa con una disciplina saldamente organizzata in virtú dello stesso apostolato paolino, era assurda ai suoi tempi una riproduzione integrale della esperienza del grande convertito di Damasco che non violentasse la logica della tradizione.

Qualcosa di analogo può dirsi della posizione di equilibrio instabile di Sant'Agostino. Se nella diuturna e serrata lotta contro il naturalismo razionalistico di Pelagio egli ha parlato del peccato e della grazia in termini cosí vivaci e cosí esclusivi, da porre veramente in imbarazzo chi voglia conciliarli col riconoscimento della libera decisione umana, nella campagna antidonatistica egli ha elaborato una parallela e correttiva dottrina della Chiesa, in cui veramente la piú grande creazione paolina, la ecclesiologia mistica, ha trovato una celebrazione grandiosa.

Anche l'ipponese ha parlato di un «servus peccati» e di un «servus iustitiae», ma quella che era in lui una elevatissima visione di mistico, immediatamente corretta da una ecclesiologia vigile e gelosa, eliminante tutti i pericoli dell'individualismo, è divenuta in Lutero una deformazione dell'antropologia e della dottrina della salvezza. Ponendo l'uomo direttamente a contatto con Dio, senza il controllo di un'autorità esteriore, Lutero non ha potuto piú impedire che la vita religiosa si andasse dissipando, disgregando, frantumando nelle esperienze dei singoli, e ha abbattuto, nell'atto stesso in cui credeva di ribadirli, i canoni e i capisaldi dell'insegnamento di Paolo e di Agostino.

Egli stesso del resto non è riuscito a dissimularsi l'enorme difformità del suo messaggio dalla tradizione storica del cristianesimo organizzato. Nel rilevarla anzi ha ostentato soddisfazione, quasi che egli riportasse in auge, in una Cristianità deviata e degenere, il succo prelibato del primitivo annuncio cristiano. Può darsi che quella soddisfazione nascondesse una segreta, pungente angoscia. Se non vogliamo rilasciargli senza giustificazione una patente di incoscienza, dobbiamo a forza ritenere che non andasse esente da cupe preoccupazioni lo sforzo di sovvertire cosí radicalmente la teoria e la prassi della moralità religiosa, nell'ambito della società cristiana. È vero: la vantata novità della sua interpretazione della «giustizia di Dio», di cui parla San Paolo nel suo preambolo ai Romani, era molto meno grande di quanto il riformatore non volesse dare a credere a sé e agli altri. Ma la novità non era tanto nella forma teologica della interpretazione esegetica, quanto nel soggiacente proposito che l'ha preliminarmente ispirata, di servirsene per la risoluzione di una tremenda crisi interiore, e nella volontà che l'ha successivamente elaborata, perché potesse assurgere a principio normativa di una originale esperienza religiosa. Tanto vero questo, che l'aforisma stesso sulla giustizia passiva di Dio viene formulato da Lutero piú tardi, quando la parabola completa della sua intima tragedia e gli insegnamenti della sua campagna innovatrice lo inducono a precisare un concetto che gli si era offerto inizialmente in forma ancora poco precisa e non cosí bruscamente paradossale, come negli anni del suo piú violento battagliare.

Nel primo periodo, infatti, della intensa formazione della sua teologia, ch'egli rivendica come puramente paolina ed agostiniana, Lutero adopera ancora le formule piú generiche e piú accomodanti di iustitia fidei, iustificatio passiva Dei, iustitia Christi. Ma già in questi concetti, superficialmente ambigui e apparentemente innocui, è nascosto tutto il contenuto personale della esperienza luterana: il programma cioè della guadagnata certezza della salvezza in un assorbimento e in una assimilazione puramente esteriori di quella giustizia del Cristo, di cui sono esaltate la gratuità e l'intimità. Questo contenuto attendeva l'occasione propizia per porre allo scoperto tutta la sua radicale incompatibilità con la concezione tradizionale della perfezione religiosa, consistente nella partecipazione riflessa ad una esplicita fede, nella solidarietà cosciente in un'identica speranza, nell'appartenenza visibile ad una uniforme disciplina. L'occasione non si fece attendere a lungo.

Nella primavera del 1517 giungeva a Jüterborg, con tutto il corteggio fastoso del suo séguito ecclesiastico, con tutta la solennità e con tutta la pompa consuetudinarie ormai nello spiegamento delle sue mansioni, Giovanni Tetzel, vice-commissario generale dell'indulgenza papale, incaricato dall'arcivescovo Alberto di predicare e distribuire la cosí detta indulgenza «magontina». Jüterborg era a circa 60 km. a nord-est di Wittenberg, fuori dei confini della Sassonia elettorale, dove era stato vietato l'ingresso ai banditori del perdono romano. I fedeli che bramavano di usufruirne, dovevano pertanto recarsi colà, per partecipare alle funzioni che accompagnavano il conferimento dell'indulgenza e versare la somma fissata per la concessione dei singoli privilegi. Molti vi dovettero accorrere da Wittenberg. E cosí Lutero, insegnante e religioso, uomo di studio e di Chiesa, di cultura e di ministero sacerdotale, dovette misurare tutto quello che il regime indulgenziale, portato da amministratori poco scrupolosi fino agli estremi limiti della sua degenerazione fiscale, implicava di meccanicistico nella concezione della grazia, di burocratico e di pelagiano nella pratica della spiritualità.

Il Tetzel si era specializzato attraverso un diuturno tirocinio nella predicazione e nella amministrazione delle indulgenze. Nato a Pirna nella Sassonia nel 1460, era entrato, giovane, nell'Ordine domenicano, e aveva compiuto il ciclo dei suoi studi teologici a Lipsia. Nel 1505, quarantacinquenne, aveva iniziato la sua carriera di vicecommissario per le indulgenze nelle diocesi di Merseburg e di Naumburg, per conto dell'Ordine dei Cavalieri Teutonici. Nel 1515 egli era nominato dall'Arcimboldi suo rappresentante nella diocesi di Meissen. Il chierico di Curia Giovanni Angiolo Arcimboldi, di famiglia milanese, era stato eletto da Leone X commissario per l'indulgenza di San Pietro in una larghissima zona di territorio imperiale. Tale indulgenza, bandita per la prima volta da Giulio II il 12 febbraio 1507 con la Bolla Salvator Noster; revocata, secondo il costume, dal Papa mediceo all'inizio del suo Pontificato, era stata sollecitamente ripristinata fin dal 20 ottobre 1513, e, affidata da prima alla gestione dei francescani, era stata successivamente promulgata nelle varie province dell'Ordine e nelle diocesi ultramontane. Quando poi al tramonto del 1516 l'Arcimboldi si trasferí nelle regioni settentrionali, il Tetzel fu assunto dal principe Alberto per la divulgazione della sua indulgenza magontina. Non ci voleva meno di un tale commissario per non mandare a rotoli l'arduo affare. Roma questa volta aveva richiesto piú larga partecipazione agli utili e il pubblico, stanco e leggermente scettico se non ostile, aveva bisogno di essere ruvidamente scosso, perché rispondesse non inadeguatamente al nuovo salasso. In realtà il bilancio si chiuse in pura perdita: economicamente e, molto peggio ancora, spiritualmente.

Possiamo immaginarci lo zelo col quale il Tetzel si accinse all'impresa. Oltre a tutte le altre ragioni d'indole, diciamo cosí, privata, che dovevano indurlo a centuplicare i suoi sforzi, per destare il piú fervido entusiasmo religioso in mezzo alle masse e tradurlo in moneta sonante per il suo signore, una, di natura pubblica, doveva piú sottilmente sferzare il suo ardire: la ragione politica. Tra i Wettin, che signoreggiavano la Sassonia, e il ramo degli Hohenzollern, nelle cui mani era la Marca di Brandeburgo, la rivalità era ininterrotta e mortale. Con l'assunzione di Alberto alla sede magontina, l'elettore Gioacchino era riuscito a sottrarre all'influenza sassone una zona di territorio non indifferente. Nei momenti in cui, attraverso l'azione religiosa, era possibile propagare le radici di una sottile penetrazione politica, anche la predicazione dell'indulgenza di San Pietro, bandita sotto gli auspici della sede, cosí ignominiosamente conquistata, poteva costituire un'arma formidabile di lotta e un veicolo propizio di accaparramento. Il Tetzel, sui confini della Sassonia elettorale, era un emissario politico, oltre che un addestrato e poco scrupoloso collocatore di indulgenze. Laggiú, a Wittenberg, qualcuno doveva averne la sensazione, e insorgendo contro l'indecoroso mercimonio in nome di una piú pura concezione religiosa, non doveva obbedire unicamente a intenti e a preoccupazioni spirituali.

Il Tetzel procedeva nella esplicazione del suo mandato con grande sfarzo e imponente solennità. La Bolla con cui Leone X aveva nominato commissari pontifici per l'indulgenza l'arcivescovo di Magonza e il guardiano locale dei francescani, fissava minutamente la estensione dei loro poteri. I quali erano molto vasti. Facoltà eccezionali erano conferite all'uno e all'altro, per l'assoluzione di colpe canonicamente riservate e il condono di oneri morali e giuridici avvertitamente o inavvertitamente contratti. Privilegi indulgenziali cosí larghi e cosí rari coinvolgevano in una maniera o nell'altra tutta l'economia della vita etica e della vita religiosa, in mezzo a una vasta massa di credenti. A renderne l'amministrazione piú pronta e piú sicura, l'applicazione piú rapida e piú precisa, l'arcivescovado magontino provvedeva alla compilazione e alla pubblicazione di una ampia i struzione, la quale, mentre sul modello di precedenti istruzioni indulgenziali enucleava i poteri canonici conferiti alla Chiesa romana, stabiliva le modalità pratiche per la comunicazione delle grazie concesse, ne teorizzava la sostanza e prescriveva le pratiche da compiere e le tasse da versare per il loro legittimo ed efficace conseguimento. L'istruzione arcivescovile riduceva a quattro tipi principali le grazie elargite per virtú della Bolla pontificia e dopo aver assicurato che il raggiungimento dell' una era indipendente da quello delle altre, raccomandava calorosamente ai predicatori di spiegare ben nettamente il significato e la portata delle singole. «La prima grazia consisteva nel perdono plenario di tutti i peccati, grazia invero eccezionale, di cui nessun'altra se ne poteva immaginare di piú insigne, dappoiché il peccatore, che è spoglio della grazia divina, in virtú di essa consegue la completa remissione e riguadagna la grazia. Il secondo privilegio era rappresentato dal titolo confessionale, ricco di inaudite facoltà; con esso infatti, destinato a durare anche al di là dell'ottennio concesso alla validità della indulgenza magontina, si concedeva di scegliersi un confessore fuori degli ecclesiastici della giurisdizione abituale, sul quale, in virtú della sola presentazione della lettera acquistata, confluivano poteri eccezionali cosí in vista della remissione delle colpe, come in vista della elargizione di particolari privilegi disciplinari. La terza grazia principale consisteva nella partecipazione ai beni spirituali della Chiesa universa, vale a dire nel diritto conferito ai contribuenti per la fabbrica vaticana, e, per il loro tramite ai loro defunti, di usufruire dell'immenso tesoro di meriti accumulati nella Chiesa dalle opere pie di tutti i giusti. La quarta infine, nel condono di ogni pena alle anime sofferenti del Purgatorio, garantito ad esse mediante il contribuente alla cassa indulgenziale, che versasse per loro la somma pattuita».

L'Istruzione si diffondeva nell'ammonire i confessori e i penitenzieri ad indagare la potenzialità finanziaria degli accorrenti al beneficio spirituale delle indulgenze, onde potessero con maggior cognizione di causa stabilire la misura delle quote che erano tenuti a sborsare. Poiché, se per lucrare la prima grazia la quota era categoricamente fissata in una misura minima variabile secondo la condizione sociale ed economica dei postulanti, per lucrare le altre occorreva una somma la cui quantità era lasciata all'accorta discrezione dei penitenzieri.

In calce al testo ufficiale della Istruzione, la Curia di Magonza aveva posto una serie di schemi di sermoni, redatti, probabilmente, dal Tetzel, che avrebbero dovuto servire di modello a quanti fossero stati chiamati a bandire e ad amministrare l'universale perdono. I motivi ne sono a volte piuttosto grossolani e banali: la preoccupazione fiscale vi trapela insistente e petulante. «Rifletta bene il popolo», dovevano gridare alto i predicatori, «che qui è Roma. Questa è divenuta la chiesa di San Pietro, e le chiese che si dovranno ora visitare sono quelle stesse che si dovrebbero visitare a Roma. Dio, dunque, e San Pietro, o popolo, ti chiamano. Chiunque mormori, vilipenda e, in qualunque modo, diretto o indiretto, pubblico od occulto, insidi lo spiegamento delle pratiche indulgenziali, si sappia immediatamente scomunicato dal nostro Papa Leone e caduto nello sdegno di Dio onnipotente e dei beati Apostoli Pietro e Paolo. Riflettete: chi voglia andare a Roma o voglia compiere un qualsiasi altro viaggio rischioso, deposita il suo denaro in un banco, pagandovi il tasso del cinque, del sei o anche del dieci per cento, affinché a Roma, o altrove, con le lettere di credito del banco stesso, possa avere del denaro a sua disposizione. E voi non vorrete per un quarto di fiorino ricevere questa lettera, la cui virtú farà sí che voi possiate ritrovare, al posto suo, cioè in Paradiso, assicurata l'anima vostra?». I sermoni tradiscono cosí quello spirito basso e grossolanamente ciarlatanesco e venale che il Tetzel, spiritualmente logorato dal suo diuturno tirocinio di commissario indulgenziale, aveva contratto. Ché la gestione dei carismi nella Chiesa è affidata ad un delicatissimo equilibrio fra i valori dello spirito e i valori della grandezza umana, la cui rottura è stata sempre foriera di irreparabili iatture e di rovinosi naufragi.

Nella sua pura essenza la dottrina delle indulgenze non è che l'applicazione completa di un postulato, che è alla scaturigine stessa della vita associata nello spirito e nella redenzione del Cristo: il postulato della comune solidale fraternità nella partecipazione ai medesimi meriti extranaturali. Tale dottrina è logicamente connessa con una speciale concezione, che noi troviamo compiutamente enunciata e calorosamente patrocinata dai grandi teologi del secolo III. È la concezione di un inesauribile thesaurus meritorum nel quale sono raccolti e quasi posti a frutto i meriti eccezionali di Gesù Cristo, della Vergine, dei Santi. Questi meriti possono trasfondersi nelle anime di coloro che si trovino nello stato di grazia indispensabile perché possano essere assorbiti. Simile concezione, che potrebbe definirsi dei vasi spirituali comunicanti, è una semplice applicazione e una logica trasposizione di quel dogma della comunione nelle realtà sante, della «Communio Sanctorum», già formulato dal cosí detto simbolo degli Apostoli, che è espressione grandiosa di quell'unità di vita carismatica che investe e lega i partecipi alla medesima società religiosa.

Naturalmente la facoltà di attingere da questo inesausto tesoro di meriti e di farne rifluire vivi rivoli nelle anime, le colpe delle quali, pur rimesse quanto al vincolo del reato, lasciano un immancabile strascico di deformazioni interiori, che solo il bene super-erogatorio di anime privilegiate può aiutare a cancellare, è solamente in coloro che per investitura tradizionale reggono il governo della Chiesa. Se nel corpo mistico del Cristo, che è la Chiesa, circola una vita spirituale eminentemente sovrabbondante, perché molti hanno operato un bene eroico superiore a quello che sarebbe stato necessario per la loro individuale salvezza, la distribuzione di tale vitalità esuberante spetta ai poteri medesimi a cui è demandata la giurisdizione disciplinare, ed è condizionata dalla carità di chi è chiamato a goderne. Questi i capisaldi centrali e inconcussi della dottrina indulgenziale ortodossa.

Nel secolo XVI poteva esistere ancora qualche ambiguità di concetto e qualche incertezza di vocabolario a proposito della distinzione fra pena e colpa eterna da una parte e pena temporale dall'altra o a proposito della applicabilità delle indulgenze ai trapassati. I meriti prodigiosi conservati nel tesoro mirabile della Chiesa possono estendersi anche ai defunti, o pure questi, passati ormai sotto il diretto governo di Dio, esulano completamente dalla giurisdizione ecclesiastica? Anche nell'ingorda procedura del Tetzel, pure sfrondata delle enormità che le attribuisce la primitiva polemica riformata, è possibile ritrovare una terminologia capziosa, mirante ad allettare i possibili contribuenti della cassa indulgenziale con le piú mirabolanti promesse di garanzie spirituali per l'oltretomba: quell'oltretomba, la cui prospettiva costituisce cosí terrificante incubo per le anime di coloro che vivono tuffati nelle lusinganti materialità di ogni giorno.

Ma quello che dovette far trasalire di sdegno Lutero, laggiú nella sua monastica cella di Wittenberg, non fu tanto una possibile inesattezza teologica della predicazione indulgenziale del vice-commissario per il privilegio magontino, bensí la sfacciata avidità di denaro che accompagnava la sua propaganda, condotta petulantemente sui confini sassoni, quasi a ostentare la potenza spirituale del Brandeburgo e ad attrarre nell'orbita della loro efficienza spirituale i sudditi dell'elettore sassone il Saggio e del duca Giorgio.

Quando l'eco della propaganda tetzeliana, specialmente attraverso i reduci dalle prediche di Jüterborg, giunse all'orecchio dell'agostiniano di Wittenberg, questi aveva già compiuto, nella sua interezza, il ciclo della sua metamorfosi spirituale. La sua vita religiosa e la sua concezione cristiana si erano già atteggiate in modo da escludere recisamente ogni nozione di partecipazione carismatica visibile ed ogni necessità di disciplina esteriore. La spirituale salvezza, nel pensiero di Lutero, attraverso la penosa crisi soggettiva e la diuturna elaborazione mistico-quietistica, si presentava ormai già realizzata nella volontà indefettibile del supremo abbandono al Cristo e alla sua onnipotente opera redentrice, al di fuori di ogni fermentazione della natura peccaminosa. Il tempo e le circostanze esteriori non avevano ancora dato agio al monaco interiormente ribelle e risolutamente affrancatosi dagli oneri consapevoli della disciplina associata, di ricavare dalla propria personale posizione di fronte al messaggio salvifico del Vangelo tutte le sue implicite e sovversive postulazioni. Ma il mistero del merito e del destino eterno era già da lui raffigurato celebrantesi e consumantesi nell'inafferrabile clausura della coscienza, che non perde mai i diritti acquisiti mercè il divino riscatto, sol che si tuffi, qualunque sia la sua indegnità etica, nella grazia sconfinata della Vittima restauratrice, con la sua fede viva e la sua sicurezza piena.

Che cosa significava piú ormai per Lutero, coerentemente al suo preliminare postulato, una partecipazione esteriore a pratiche religiose nella formazione della pura fede interna, e quale contributo efficace alla realizzazione della salvezza potevano apportare riti e formalità visibili, dal momento che la salvezza era tutta alla mercè della trasfigurazione ininterrotta dello spirito, in virtú del suo umile abbandono alla capacità perennemente risanatrice del sacrificio di Cristo?

In alcuni sermoni pronunciati nella chiesa del Castello a Wittenberg in occasione di qualche solennità del 1516 – uno di essi tenuto proprio la vigilia della festa di tutti i Santi, che era la festa titolare e assumeva un particolare rilievo per la eccezionale ricchezza di reliquie onde la chiesa andava famosa – Lutero aveva già mostrato chiaramente, pur con tutte le misure prudenziali, quale fosse il suo atteggiamento di fronte a tutte le pratiche miranti ad agevolare il còmpito della salvezza in base ad una concezione meccanicistica della colpa e della possibilità della sua espiazione. «Le indulgenze cancellano unicamente gli oneri della privata satisfazione. Onde c'è da temere che esse, molto spesso, congiurino ai danni dell'interiore penitenza. La quale, unica, rappresenta la genuina contrizione, la vera confessione, la autentica satisfazione dello spirito. Quando il penitente si duole purissimamente in se stesso di tutto quel che ha fatto, e quando realmente ci si rivolge a Dio e sinceramente si riconosce la propria colpa, e quando ci si getta col proprio cuore contrito nelle braccia di Dio, allora la vera penitenza è consumata».

Ma fu l'anno 1516 che vide l'acuirsi della ostilità di Lutero contro tutto un apparato disciplinare esteriore, inteso ad assicurare in una maniera grossolanamente meccanica una salvezza eterna, scaturiente secondo lui unicamente dalla immedesimazione della coscienza con la dignità inoffuscabile del divino messaggero della Redenzione. Impalpabili coefficienti politici, morali, ecclesiastici, dovettero invisibilmente premere sul suo pensiero e sul suo operato, inducendo subitamente la sua volontà ad una decisione brusca e gravida di ripercussioni.

I fedeli che nel pomeriggio del 31 ottobre 1517 entrarono nella chiesa di Ognissanti annessa al castello di Wittenberg poterono leggere, affissa nell'albo dove erano preannunciati tutti gli avvenimenti accademici, novantacinque proposizioni, che il prof. Martin Lutero si proponeva di sostenere pubblicamente contro chiunque si fosse presentato ad impugnarle. Il procedimento dell'affissione non aveva di per se stesso nulla di inconsueto e di eccezionale. Ogni discussione accademica era preannunciata e bandita in anticipo dagli stipiti della porta d'ingresso alla chiesa del Castello. La novità era piuttosto nell'argomento prescelto per la pubblica disputa e nella foggia di formularlo. Ché quanti avevano avuto notizia della intensa propaganda per l'indulgenza magontina, quale si andava svolgendo nel territorio confinante della Marca di Brandeburgo, compresero quale violento sapore di ribellione assumessero in quel momento le proposizioni accampate dal prof. Lutero e come le sue asserzioni costituissero un'impugnazione diretta, formale, precisa, dei postulati e delle conclusioni da cui prendeva le mosse la predicazione del Tetzel.

E in verità, le tesi, piú che rispondere ad un piano dottrinale organico e ad uno schema teoricamente coerente, seguivano passo passo le piú compromettenti asserzioni della Istruzione indulgenziale, pur prendendo lo spunto da alcune posizioni religiose preliminari, che rappresentavano la conquista personale del monaco, nel suo diuturno travaglio interiore. Lutero cominciava col circoscrivere, alla luce della sua esperienza e delle istruzioni ricevute dallo Staupitz, il valore del vocabolo penitenza. E asseverava: «Il Signore e Maestro nostro Gesù Cristo, prescrivendo: – Fate penitenza – (Mt. IV, 17), volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza». La seconda tesi delucida: «Il quale vocabolo penitenza non può in nessuna maniera intendersi di quella penitenza sacramentale, consistente nella confessione auricolare e nella soddisfazione (con le opere), la quale si celebra mercè il ministero sacerdotale». Si direbbe a prima vista che queste modeste rettifiche di significato, in cui cogliamo quella amplificazione del valore della metànoia evangelica, di cui Lutero andava debitore allo Staupitz, non contengano alcunché di pericolosamente nuovo e di dogmaticamente azzardato. Che cosa di piú edificante, moralmente, che un riconoscimento esplicito del carattere penitenziale, diciamo cosí, della vita del credente, chiamato a realizzare, nella compunzione e nella umile consapevolezza di sé, il proprio riscatto?

Ma al Lutero del 1517, già familiarizzato con la concezione della salvezza imputata, il concetto della penitenza appare ben nettamente delineato, piú di quanto la nuda formulazione delle sue prime tesi non lascerebbe a divedere. Ed esso vale tutta una nuova attitudine dell'anima cristiana che, ininterrottamente rinnegando col suo essere superiore la insopprimibile natura peccatrice che essa reca in sé, aderisce immutabilmente a Dio, al di fuori di qualsiasi mediazione esteriore, e, nell'atto dell'adesione, consegue e mantiene la sua inoffuscabile giustizia. Il problema della salvezza, pertanto, alla luce di simile postulato, non implicava altri termini che l'anima vulnerata e l'Iddio restauratore. Cosí tutta la tradizione visibile della Chiesa era colpita alle radici.

Lutero procedeva ancora straordinariamente cauto nella enunciazione dei propri capisaldi. Il ciclo delle sue tesi indulgenziali costituisce ancora uno strano amalgama di posizioni leggermente contraddittorie, in cui le sottili impugnazioni della disciplina delle indulgenze, che il monaco sapeva di poter lanciare senza eccessivo scandalo in mezzo ad una popolazione insofferente dei troppi assidui salassi curiali, sono abilmente accompagnate da espliciti riconoscimenti della necessità delle opere esterne per raggiungere la salvezza e da ossequiosi accenni alla potestà delle somme chiavi.

Lutero investe con particolare vivacità, senza bisogno di clausole prudenziali, le genuine o presunte asserzioni del Tetzel, la cui brutale grossolanità suscitava nel pubblico piú spontanea ed acre ribellione. Sulla sostanza della disciplina penitenziale lascia invece andare dichiarazioni meno arrischiate. Ma chi, alla luce della precedente evoluzione del monaco universitario, sappia ricavare dalla enumerazione scolastica delle asserzioni luterane il principio programmatico da cui ricevono norma, ispirazione e collegamento, riconoscerà agevolmente come esse fossero tutte pervase da un sottile spirito antiecclesiastico, di cui l'occhio esperto avrebbe potuto nettamente antivedere le immense possibili ripercussioni.

La parte centrale delle tesi, come quella che tocca la dottrina dei meriti su cui poggia tutto l'edificio carismatico e disciplinare della Chiesa visibile, si inizia dalla tesi 56: «Il popolo cristiano ha sempre poco nominato e poco conosciuto i tesori della Chiesa, ponendo mano ai quali il Papa distribuisce le indulgenze». Essi non possono essere propriamente costituiti dai meriti del Cristo e dei Santi, perché, osserva Lutero, cotali meriti operano senza interruzione, indipendentemente dal Papa, la grazia dell'uomo interiore, e la croce, la morte e l'inferno dell'uomo esteriore. Cosí il monaco, già potenzialmente ribelle, fa esulare dall'ambito della giurisdizione sensibile della Chiesa i meriti reintegratori del Cristo, la cui virtú salvatrice e corroboratrice è chiusa nel chiostro invisibile della coscienza credente. I poteri della Chiesa hanno il medesimo àmbito delle sue capacità legislative. Il Papa può assolvere solo ciò che egli ha legato, Del resto, proclama solennemente il docente di Wittenberg: «Il vero, il genuino tesoro della Chiesa è costituito, unicamente, dal sacrosanto Vangelo della gloria e della grazia di Dio... In verità, i tesori evangelici sono reti con le quali, in altri tempi, si operò la pesca degli uomini carichi di ricchezze. Oggi i tesori delle indulgenze non sono altro che capaci reti, per trarre in cattura le ricchezze degli uomini» (tesi 62, 65, 66).

Cosí affermava rumorosamente Lutero. E per il loro penetrante spirito antiecclesiastico e antiromano le tesi affisse, nella vigilia della festa titolare, alla chiesa del castello di Wittenberg, la festa di tutti i Santi del 1517, costituivano realmente un altissimo grido di guerra.

E l'eco ne sarebbe stata per tutto vasta e insurrezionale. La Chiesa di Roma ne avrebbe sofferto la piú profonda ferita della sua storia in Occidente.

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