4.

La crisi del portofranco – Commercio e transito – Cecità statale e illusioni irredentiste – La smentita dei fatti – L'unità d'Italia contro l'italianità dei traffici triestini – La contraddizione ferroviaria – La minaccia dei canali – Il perché dell'impotenza economica dell'Italia di fronte alla Giulia – Le ripercussioni nazionali – Gli interessi balcanici italiani – Nuovi spunti di antitesi future: l'unità jugoslava – Il «trialismo», l'Italia e la Giulia

L'antitesi tra il fattore economico e quello nazionale è, lo vedemmo, il filo conduttore di tutta la storia triestina; antitesi che si ripercuote ormai su tutta la Giulia, specie sulla parte di essa (costa occidentale istriana e Friuli) la quale, anche nell'avvenire, comunque si foggi, è difficile immaginare di destino politico ed amministrativo diverso da quello del suo capoluogo naturale, Trieste.

Inutile dilungarsi sulla storia economica anteriore al portofranco, Trieste, nonostante la strapotenza veneziana e la debolezza asburghese, riesce, pur con molti alti e bassi, a conservarsi e a sviluppare, specie fra il 1400 e il 1600, un suo commercio, che è, come l'attuale, prevalentemente di transito ed ha per principali porti di sfogo, gli scali dell'opposta sponda. La sponda orientale (Istria e Dalmazia) è interdetta da Venezia, concedente ai suoi sudditi soltanto di commerciare con lei e al servizio di lei. Invece Trieste, appunto perché non veneziana, reca bensì a Venezia il legname e il ferro del propriohinterland e ne trae lo zucchero, le droghe, più tardi il caffè, ma può, contemporaneamente, stringer rapporti autonomi d'affari con Ferrara, Ravenna, Pesaro, Brindisi, Otranto, aver suoi consoli in Ancona, Bari, Manfredonia, fornire Lubiana, Graz, persino Praga e Vienna, del canape di Romagna, degli oli e delle frutta del Mezzogiorno, nonché del vino dei propri vigneti, del sale delle proprie saline, contese tenacemente alla distruzione veneziana; può svolgere insomma, benché burrascosa e oscillante, una vita economica via via evolventesi, col rinsaldarsi dello Stato austriaco, col decader di Venezia e conseguente affermarsi della libertà dell'Adriatico e isterilirsi della concorrenza istriana; infine, last not least, col portofranco.

La cancelleria viennese, prima di decidersi a concentrare a Trieste il massimo sforzo statale in pro dei traffici, aveva pensato anche ad altre rade della costa occidentale giuliana. Se il portofranco fosse piovuto su una di queste, sarebbe presumibilmente divenuta, benché senza passato commerciale, la... Trieste del secolo XIX. Oggi ancora, finito il portofranco, una tradizione secolare agirebbe contro Trieste e la sua eventuale maggior vicinanza, come molo di transito, a certe parti del hinterland austroungherese verrebbe facilmente annullata (lo vedremo meglio in seguito) da altri espedienti statali, a favore del porto storico della monarchia.

È fama che a far pendere la bilancia a favore di Trieste nei consigli dell'imperatore sia stato un principe di casa Savoia, quel principe Eugenio che, respinto dalla Francia, aveva messo la propria spada e il proprio ingegno al servizio dell'Austria.

Il portofranco, nella seconda metà del secolo XVIII, cambia le basi economiche di Trieste: da piccolo scalo di transito fra la costa orientale italiana e i paesi giacenti alle spalle della città, ne fa un grande mercato internazionale, il magazzino, la fiera permanente, l'emporio, in cui le regioni dell'Adriatico, dell'Egeo, dell'Europa e dell'Africa mediterranea, vengono a scambiare i loro prodotti con quelli dell'Europa centrale: commercio precipuamente europeo o dell'Oriente prossimo (le regioni transoceaniche sono ancor troppo remote e caotiche; per le Indie manca la strada di Suez), in cui perciò l'Italia attuale seguita ad aver parte e funzione importantissime. Arrestato brevemente dalla burrasca napoleonica, l'emporio riprende subito dopo l'ascesa, sin proprio alla vigilia dell'unità italiana.

Da allora, cominciano ad avvertirsi nei traffici triestini i sintomi della lunga crisi che, mutatis mutandis, li riporterà al carattere originario, rifarà dell'emporio, essenzialmente, un molo, un luogo di transito. È il fenomeno universale, dovuto al vertiginoso accelerarsi delle comunicazioni che minano e sconvolgono la funzione classica del commercio, funzione di intermediario fra il produttore di materie prime e il trasformatore o il consumatore immediato di quelle. Sotto il pungolo del vapore e dell'elettricità, le merci non rimangono più, normalmente, nei porti a subirvi le contrattazioni commerciali; sbarcate dalle stive dei piroscafi, vengono ingoiate dai vagoni, e occorre che ferrovie e piroscafi sieno rapidi e copiosi ed economici; altrimenti il transito prende altre strade. Ed ecco la necessità di altre forme di provvedimenti statali (portuali, tariffari, daziari, ecc.) intesi sia ad accrescere il transito, sia a trattenere, con qualche artifizio, una parte almeno del commercio fuggente.

La crisi è maggiore là dove si è peggio preparati ad affrontarla e più lenti e restii a correre ai ripari. L'Austria del ventennio 1840-1860 è ben diversa dall'Austria teresiana di un secolo prima, agile e intelligente promotrice dell'emporio: la politica economica austriaca, specie durante il regime Metternich, risente tutti gli influssi opprimenti e deprimenti del misoneismo assolutista: è pigra, disorientata, incoerente. Trascinata dall'incubo della perdita dell'egemonia sull'Italia e dalla speranza di avvincer meglio il Lombardo-Veneto, sembra dapprima, contro la storia e la geografia, di voler far Venezia e non Trieste sbocco ferroviario del hinterland austriaco; certo e che si incomincia a costruire la linea Venezia-Verona-Milano, prima assai di quella Lubiana-Trieste, e, sino al 1866, i politicanti dell'economia affermano che Venezia è la chiave o la porta dell'Austria e della Germania sull'Adriatico.

Nel decennio 1849-1859, l'influenza del Bruck, formatosi nell'ambiente commerciale triestino, porta qualche spunto economico più moderno; la nuova tariffa doganale è ispirata a maggior liberismo dell'antica; si allarga il territorio doganale, comprendendovi i ducati di Modena e di Parma, e il traffico italiano a Trieste ne approfitta largamente. Ma l'atonia caratteristica della burocrazia assolutista, il crescente disagio finanziario, paralizzano ogni sana iniziativa; gli atteggiamenti statali sull'Adriatico sono particolarmente infelici e contrari agli stessi interessi dinastici e militari: la ferrovia Trieste-Vienna si compie troppo tardi, contemporaneamente a quella Venezia-Milano, nel 1857, mentre la locomotiva unisce già Praga con Vienna dal 1845 e coi mari del nord dal 1851.

L'assolutismo austriaco sembra, insomma, voler aiutare le speranze dei suoi più acerrimi avversari, rallentando, con una politica economica assurda, i vincoli fra Trieste e il suo hinterland, proprio nel momento in cui l'evoluzione dei traffici viene per conto suo a rinsaldarli. E proprio allora, lo vedemmo, fra il 1859 e il 1866, nasce la propaganda separatista giuliana. I Valussi, i Combi, i Bonfiglio, sono tratti a dare ai fatti economici, alle cifre delle statistiche commerciali, l'interpretazione che collima coi loro desideri. L'osservatore, specie l'osservatore appassionato, può, forse, fino ad un certo punto illudersi e credere che i vincoli economici leganti Trieste all'Austria, si vadano rallentando e che i rapporti con l'Italia sieno invece destinati a intensificarsi vieppiù.

Parecchie pagine del già citato opuscolo del Valussi, Trieste e l'Istria; loro diritti nella questione italiana, sono destinate a dimostrare che neppur l'interesse raccomanda ormai l'unione di Trieste all'Austria e la dimostrazione si appoggia ad indici statistici in gran parte esatti.

Il volume, più dotto e diffuso del Bonfiglio L'Italia e la confederazione germanica, che applica le sue osservazioni al quinquennio successivo a quello contemplato dal Valussi (1860-64), conclude col proclamare Trieste porto essenzialmente italiano, contrapponendo gli scambi rigogliosi con l'Italia a quelli, in realtà allora assai più smilzi e tisici, coi paesi della confederazione germanica.

Chi rilegga oggi, queste ed altre simili pubblicazioni, viene colpito soprattutto dalla bizzarria particolare di un contrasto. Proprio negli anni in cui i propagandisti dell'irredentismo economico si affannano a dimostrare rallentati i vincoli fra Trieste e il suo hinterland non italiano, e in via di progressivo sviluppo i rapporti con l'Italia, proprio in quegli anni si svolge la crisi che condurrà alla situazione economica attuale, in assoluta e flagrante antitesi con quelle previsioni. E le radici del fenomeno non erano neppure allora tanto riposte, da sfuggire all'analisi di osservatori meno appassionati.

L'indice più concludente per la tesi del Valussi e del Bonfiglio stava nello squilibrio fra importazione terrestre ed esportazione marittima, equivalente a fiacchezza ed anemia negli scambi fra il hinterland e i paesi oltremarini.

«Colpisce – dice il Valussi – che le importazioni dall'interno dell'impero rappresentino, in media, appena un terzo dell'esportazione marittima». L'indice è esatto fino ad un certo punto. Nel 1857, non le sole importazioni dall'impero ma tutta l'importazione terrestre, pressoché equivalente, era veramente di poco superiore al terzo dell'esportazione marittima (78 milioni di corone contro 182); ma qui la data sola avrebbe potuto essere una rivelazione.

Poiché, come dissi, il 1857 è l'anno della prima e tardiva congiunzione ferroviaria di Trieste con l'interno della monarchia; linea per di più consegnata allo sfruttamento e al monopolio di una compagnia di capitalisti francesi. Ma già nel 1861, quando si pubblica l'opuscolo, l'indice non calza più; l'importazione terrestre aveva già incominciato a rintonarsi e a rincorrere l'esportazione marittima: è di 124 milioni contro 172; non più un terzo ma quasi tre quarti. In mezzo secolo, il traffico terrestre è ottuplicato: nello stesso periodo di 53 anni (1857-1910) le importazioni ed esportazioni via mare risultano appena triplicate. Oggi, i due miliardi e mezzo di corone (valore tondo complessivo degli scambi triestini) possono dividersi assai più esattamente di un tempo, nell'incrocio delle due grandi correnti che costituiscono il nerbo dei traffici attuali: i prodotti industriali o industrializzati che il hinterland getta sulle calate del porto per essere spediti nei paesi mediterranei o transoceanici (importazione terrestre-esportazione marittima) e le materie prime che quei paesi inviano verso il hinterland per i suoi consumi e le sue industrie (importazione marittima, rispettivamente esportazione terrestre). Nel 1910 importazioni terrestri ed esportazioni marittime rappresentavano (cifre tonde) un valore di 1.356 milioni, esportazioni terrestri ed importazioni marittime di 1.222 milioni. L'Austria-Ungheria e la Bosnia (cioè il hinterland statale) partecipavano al traffico terrestre di importazione ed esportazione per quattro quinti del totale, l'importazione dall'interno dello Stato e dalla Germania ascendeva a 614 milioni sui 640 complessivi: il Valussi non potrebbe dunque più dire che «considerata la quantità minima di prodotti importati dalla Germania e dall'Austria, Trieste non ha alcun vantaggio ad unirsi all'uno o all'altro di questi due Stati» (op. cit., p. 29).

Che cosa significa tutto ciò?

Significa che, nonostante l'insipienza di uomini e di governi, la crisi è stata superata: il vapore e le altre scoperte tecniche hanno compiuto anche sui traffici triestini la loro azione rivoluzionaria, creando, come sostitutivo all'antico emporio, un nuovo e non meno importante traffico di transito. Questa trasformazione ha rinsaldato, e più strettamente che mai, i vincoli fra Trieste e il suo hinterland, vincoli che si erano andati realmente rallentando nel troppo lungo periodo di transizione, mentre mancavano o erano deficientissime ed antieconomiche le congiunzioni ferroviarie, epperò poco sviluppate quelle marittime, e mentre il privilegio del portofranco andava via via perdendo di per sé la sua efficacia. Il portofranco aveva fatto di Trieste una specie di grande magazzino in cui Oriente e Settentrione si scambiavano i prodotti, attraverso una doppia catena d'intermediari: la merce del Mezzogiorno o dell'Oriente, acquistata dal mercante triestino, veniva, di solito, ceduta ad altro mercante, che a sua volta la rivendeva al consumatore o industriale dell'interno e viceversa. Da ciò lunghe soste e numerose manipolazioni e contrattazioni locali. Il mare era, assai più d'oggi, veicolo esclusivo di molti scambi, donde l'indice, in proporzione al terrestre assai più alto, del traffico marittimo, svolgentesi indipendentemente o quasi dal hinterland e nel quale avevano poi parte precipua i paesi mediterranei in confronto ai transoceanici. Nel 1848 un osservatore dei commerci triestini poteva giustamente qualificarli quasi intieramente europei; l'Adriatico vi aveva la parte del leone: circa la metà del traffico marittimo si svolgeva tra porti delle due coste adriatiche, oggi italiani od austriaci; nel 1846 su 157 milioni di traffico marittimo, poco più di una trentina di milioni toccavano paesi non europei; oggi, su un traffico marittimo complessivo di circa un miliardo e un quarto di corone, almeno 700 milioni spettano al mondo non europeo.

Il commercio incomincia a declinare, sotto la pressione del mutato strumento tecnico, e Trieste si trova del tutto impreparata ai nuovi destini, proprio nel momento in cui l'industrializzarsi progressivo del hinterland triestino avrebbe dovuto ravvivare i suoi traffici, pur cambiandone in gran parte la natura: ed è il decennio 1855-1865.

Perciò il Valussi, il Combi e il Bonfiglio possono richiamarsi alle cifre, relativamente esigue, dei prodotti industriali importati a Trieste dall'interno o delle materie prime esportate colà, per concluderne che Trieste non ha alcun interesse a rimanere unita alle regioni slavo-tedesche, anzi che l'interesse le ordina di liberarsi e di invocare la dissoluzione di questo «mostruoso amalgama di popoli che non possono tenersi uniti se non con reciproco danno!» Così il Valussi, nel più volte citato opuscolo, ed è un evidente sproposito economico che solo la passione politica può far scusare.

Il Combi si lascia trascinare a un'affermazione anche più paradossale: «Trieste incatenata all'Austria dovrà inevitabilmente assistere alla rovina dei propri traffici i quali si avvieranno negli altri porti italiani!» Il Bonfiglio, preoccupato specialmente dalla sua tesi mirante a dimostrare la mancanza di ogni vincolo fra la Giulia e la confederazione germanica, si fa forte delle cifre, allora tenuissime, delle importazioni tedesche e calcola il commercio tedesco inferiore alla quarantacinquesima parte dei traffici triestini. Nel 1910 esso ne rappresentava, per valore, quasi la decima parte.

Insomma, i traffici triestini sono divenuti prevalentemente anzi «eccessivamente austriaci» e in seconda linea germanici, mentre nel periodo osservato dal Valussi e dal Bonfiglio erano in realtà assai meno austriaci, quasi punto tedeschi e assai più italiani.

E qui interviene un nuovo bizzarro fattore evolutivo. L'unità d'Italia, la quale, insieme ai progressi tecnici, rende sempre meno «italiano», nel senso commerciale della parola, il porto di Trieste. Prima dell'unità, Trieste è la grande approvvigionatrice di un'Italia quasi priva di produzione industriale e di commerci autonomi. Nel 1857, un terzo delle importazioni degli Stati pontifici viene da Trieste; fra il 1849 e il 1859, i ducati di Modena e Parma fanno parte del territorio doganale austriaco e Trieste è il loro massimo porto di rifornimento e importantissimo mercato italiano di zucchero, caffè, tessuti, spiriti, ecc. Tutto questo, che in gran parte è vero e proprio commercio e non transito, scompare col progredire economico del nuovo Stato. Naturalmente, l'evoluzione non succede da un anno all'altro, anzi, il primo effetto dell'unità italiana si manifesta in un accrescimento di bisogni; l'organizzazione nazionale che dovrebbe soddisfarli attraversa, negli esordi, lunghe e spesso burrascose peripezie. Ecco perché, ancora nel 1874, un altro e più sereno osservatore dei rapporti economici fra Trieste e l'Italia, il prof. Alberto Errera, può notare che le importazioni marittime da Trieste in Italia sono in aumento, nel sessennio 1865-1871, e specificare gli aumenti, che riguardano particolarmente i prodotti industriali.

Ma, aumentando l'autonomia economica dell'Italia, la funzione di mercato d'approvvigionamento, che Trieste esercitava largamente prima dell'unità e che continuò per qualche tempo ad esercitare anche dopo, va progressivamente annullandosi. Oggi, la posizione commerciale dell'Italia a Trieste ha tutt'altro carattere. Trieste non è più un mercato italiano che potrebbe guadagnare d'intensità con l'annessione politica e la conseguente caduta delle barriere doganali. L'Italia ritira in parte per la via di Trieste certe merci di cui non ha il succedaneo (primo il legname dei boschi carniolici e carinziani) e avvia verso Trieste alcuni suoi prodotti del suolo (agrumi, frutta, canape, riso, ecc.). Trieste è così un punto in cui si toccano certi scambi austro-italiani, che si toccherebbero altrove se Trieste diventasse porto nazionale italiano e l'Austria se ne facesse un altro sull'Adriatico.

Per questo riguardo dunque, Trieste non può dirsi porto italiano più di quanto sia inglese o egiziano o turco, ecc. Anzi, i rapporti commerciali con la Turchia, l'Egitto, le Indie inglesi, ecc. sono più intensi e cospicui di quelli con l'Italia. I quali infatti, in confronto al passato, risultano o scemati relativamente d'intensità o rimasti stazionari, com'è avvenuto per l'importazione marittima in Italia, mentre l'esportazione che, ancora nel ventennio 1866-1886, rappresentava da un quinto a un settimo della totale, nel decennio 1900-1910 (benché in certo aumento assoluto) oscilla da un undicesimo a un sedicesimo (1910). Quanto agli scambi terrestri, abbiamo veduto che rappresentano una frazione tenuissima del traffico (nel 1910: 13 milioni su 640 di importazione e 8 su 574 di esportazione), benché l'Italia sia il paese ferroviariamente finitimo e la provincia di Udine venga già oggi contesa all'attrazione di Venezia. Ciò che significa assenza di hinterland italiano sfruttabile, epperò evidente deficienza di esso, anche qualora, incorporata doganalmente all'Italia, Trieste dovesse contenderlo alla sfera d'attrazione di Venezia o di Genova.

E anche quanto resta d'italiano nel lavoro del porto triestino è fatalmente minacciato di progressiva anemia; la tendenza alle vie più dirette ed all'eliminazione degli intermediari va estenuando il commercio agrumario, l'unico mercato prettamente italiano superstite. I produttori di Sicilia vengono in contatto diretto coi commercianti del nord e spediscono loro gli aranci e i limoni per ferrovia, oltre lo stretto, sino al cuore della Germania. Il legname austriaco entra sempre più copioso in Italia per le vie di terra, saltando Trieste, grazie a speciali facilitazioni ferroviarie e alle migliorate comunicazioni fra la Carniola, la Carinzia ed il regno.

Per contro, la stessa tendenza trionfante getta sempre più copiosi i prodotti industriali del hinterland triestino dai vagoni nelle stive dei piroscafi e carica da queste su quelli le materie prime dei paesi d'Oriente e transoceanici che il hinterland assorbe per le sue industrie ed i suoi consumi; aumenta dunque l'«austriacantismo» del porto collo scemare della sua funzione di mercato.

Il portofranco, che era connesso strettamente alla funzione di «emporio», poté così, nonostante le alte strida di Trieste, essere soppresso nel 1891 senza che si verificassero quei disastri economici che furono l'incubo della città nel lungo periodo in cui la scomparsa della secolare franchigia teresiana si profilava all'orizzonte come la minaccia di una sentenza di morte.

D'altra parte, però, l'era nuova esigeva nuovi provvedimenti statali: copiose e rapide comunicazioni ferroviarie e marittime a buon mercato, vasti impianti portuali, congegni tariffari e daziari atti a trattenere, almeno in parte, i mercati fuggenti, ecc.

Ed ecco crearsi nuovi e più urgenti bisogni che Trieste deve impetrare dallo Stato, che lo Stato deve soddisfare e cui, benché tardivamente e parzialmente, soddisfa. Così, al vecchio e mal situato impianto portuale, compiuto intorno al 1880, si è aggiunto testé il nuovo porto di S. Andrea, sbocco della seconda congiunzione ferroviaria col hinterland, la quale dovrebbe integrare la linea Trieste-Lubiana-Graz-Vienna, tardiva e tardigrada e in mano di compagnia privata. Trieste durò quasi mezzo secolo a chiedere una seconda congiunzione indipendente, sottratta alla speculazione privata e atta a congiungerla col suo hinterland specifico: una linea dunque statale ed austriaca.

E qui ci si presenta un altro contrasto, quasi epigrammatico.

Il liberalismo triestino, anche quello imbevuto di spiriti separatisti, invoca la politica ferroviaria più austriaca. Vienna, cioè l'Austria, lascia passare cinquant'anni prima di compiere la seconda linea e, quando la fa, sceglie un tracciato meno "austriaco" di quello richiesto dai rappresentanti della città... ribelle! È il fattore economico che preme su tutte le altre ideologie e le perturba.

La lotta per la seconda congiunzione ferroviaria incomincia prima del 1866, quando Trieste e Venezia appartengono ancora al medesimo Stato. I tracciati che si presentano dapprima agli sguardi dei triestini come linee emancipatrici dalla Meridionale sono due: la Pontebba e il Predil. La prima, prosecuzione della ferrovia detta Rudolfiana, da Villacco, per il passo di Seifniz, lungo la valle del Fella sbocca ad Udine, epperò mira assai più a Venezia che a Trieste; l'altra percorre invece la valle dell'Isonzo e, sboccando a Gorizia, è linea assai più logicamente triestina. Il consiglio della città è «predilista» prima del 1866 e anche più intensamente per qualche anno dopo; la camera di commercio invece caldeggia, sin verso il 1870, il tracciato della Pontebba. Eppure nel consiglio predomina il liberalismo, mentre la camera di commercio è composta allora esclusivamente di fedeloni. Il liberalismo vede più chiari gli interessi triestini e non dissimula la fatale antitesi in cui essi si trovano di fronte a quelli di Venezia. Dopo il 1866, il comitato ferroviario municipale, di cui sono membri influenti molti consiglieri di parte liberale, ha cura di mettere in rilievo i nuovi argomenti a favore del Predil, derivanti dal distacco del Veneto e dalla necessità di contrapporre alla linea pontebbana, che lo Stato italiano sarà per costruire a totale vantaggio di Venezia e dell'Italia, l'altra linea, rispondente agli interessi specifici della città e dello Stato austriaco. L'opuscolo Deduzioni del Comitato municipale ferroviario (1868) parla chiaro! «Gli avvenimenti del 1866 – dice fra l'altro – fecero cessare i motivi finora accampati dai pontebbanisti... da quell'epoca incominciò l'aspra guerra che muovono a Trieste i porti italiani onde attrarre la corrente commerciale fra l'Asia e l'Europa per il canale di Suez», ecc. Altrove, il comitato ritorce contro la camera di commercio il biasimo inflitto da un giornale di Udine a un «predilista» di Cividale: «Non è certo encomiabile chi si associa ad avversari appartenenti ad altro Stato»; e ricorda che il Predil era allora considerato dall'Italia come linea militare pericolosa, ecc. L'unico uomo del liberalismo, sempre tiepido amico e primo avversario del Predil, fu il Hermet, ma non certo per il motivo affacciato da uno studioso tedesco del nostro problema ferroviario, che cioè «i progressisti abbandonarono il Predil per non aver nulla, poiché con una più stretta unione di Trieste con l'interno, avrebbero perduto le ragioni della loro potenza politica». Questo machiavellico autonichilismo contrasta troppo con la mentalità essenzialmente commerciale della borghesia triestina e con quella del Hermet in ispecie. Può darsi che il Hermet ed i suoi amici abbiano abbandonato volentieri, anche per ragioni sentimentali, il tracciato «antiveneziano» del Predil ma, se si fossero lasciati rimorchiare dal sentimento unitario, avrebbero dovuto ripugnare tanto maggiormente dal nuovo tracciato per il quale prendono a combattere dopo il 1870. Allora cioè le parti si mutano: la camera di commercio, da «pontebbanista», diviene fautrice del Predil; il consiglio comunale si volge invece ad un altro tracciato che viene a collidere molto meno con gli interessi di Venezia, ma che, appunto per questo, è più austriaco. Si tratta di una linea, la quale da Trieste per il passo di Prawald avrebbe dovuto toccare la vecchia ferrovia Rudolfiana nelle vicinanze della stazione di Laak e di là, oltre il valico del Loibi, Klagenfurt. Questa linea, detta della «Laak», rappresenta una concezione e una funzione diverse da quelle attribuite al Predil. Il Predil infatti ha, per prosecuzione logica, il massiccio occidentale dei Tauri (Tauri di Gastein) e tende quindi a riavvicinare Trieste specialmente alle regioni industriali svizzere e germanico-orientali, cioè al hinterland conteso fra Trieste, Venezia e Genova. Il hinterland austriaco invece viene assai parcamente toccato; appena una zona di Boemia e l'Austria superiore (per parlar soltanto di regioni industriali) possono giovarsi del raccorciamento. La «Laak» invece, poggiando più verso nord-est, mira al massiccio orientale dei Tauri, oltre il quale rappresenta una più diretta congiunzione col hinterland storico e statale di Trieste, con le massime regioni industriali dell'Austria (Boemia centrale e orientale, Moravia, ecc.); ferrovia, dunque, conforme alle tradizioni economiche della città, ma legante più strettamente che mai Trieste ai destini dei paesi austriaci, epperò in flagrante contrasto con l'ideologia annessionista.

Ciononostante, il tracciato Laak-Tauri occidentali diventa, per trent'anni, il segnacolo in vessillo della politica ferroviaria del liberalismo triestino: duce instancabile di essa un consigliere liberale, Cesare Combi, che raccomanda la sua tesi ai più rigidi criteri di determinismo economico, desunti dalla posizione e dalla funzione di Trieste nello Stato. Già nel 1874 (La questione ferroviaria triestina) il Combi scriveva: «Spingiamo di preferenza la nostra attività con le nostre provincie di qui, verso settentrione, con questa zona assegnataci dalla natura e popolata di non pochi milioni di abitanti». Venti anni dopo, ribadiva così il suo programma: «Mettere, per quanto possibile, gli interessi di Trieste d'accordo con quelli dell'interno» ed esortava «a conservare ed estendere il nostro commercio di importazione ed esportazione nel cuore del nostro impero, attraverso le nostre provincie, a non aprire altre vie ad interessi stranieri», ecc. (Ancora una parola sulle linee ecc., Caprin, 1894, p. 6).

Il Combi sostiene, del resto, una causa ottima per ogni riguardo: il tracciato da lui propugnato non è soltanto la miglior congiunzione fra Trieste e il suo hinterland austriaco, ma può sostenere, con lievi differenze chilometriche, anche il paragone col Predil-Tauri orientali, come raccordo ai centri industriali sud-germanici epperò come concorrente a una parte del hinterland estero, veneziano e genovese.

Ciò non impedì al governo di scegliere, dopo trent'anni di traccheggiamenti, un tracciato pressoché eguale, nelle sue direttive economico-politiche, a quello del Predil e giungente infatti, come sarebbe giunto il Predil, ai Tauri occidentali, alla grande galleria di Gastein; un tracciato dunque più estero che interno, più svizzero-tedesco che austriaco, più antiveneziano e in parte antigenovese che triestino. E anche qui vi è un'antitesi suggestiva da rilevare: il Predil venne eliminato dalla gara per ragioni militari e, in suo luogo, venne scelta come allacciamento fra Trieste e i Tauri una linea parallela, più costosa, lungo la valle della Sava di Wochein, donde il suo nome. Ora, la Wochein, forse più del Predil, rappresenta un tracciato quanto mai avverso alla conservazione della supremazia italiana a Gorizia: la linea del Predil avrebbe percorso in tutta la sua lunghezza la valle dell'Isonzo, cioè la regione compattamente slovena del Goriziano, la quale ha sempre gravitato su Gorizia; la Wochein invece, deviando a un certo punto dalla Slavia goriziana, congiunge addirittura Gorizia con la Carniola, ne fa il centro più vicino della Carniola occidentale e rinforza, così, meglio del Predil, la progressiva, automatica penetrazione slovena nella città, rendendo con ciò sempre più difficile la continuità del processo assimilatorio. La ragione nazionale avrebbe dunque dovuto imporre a Gorizia, se non una politica di semiverginità ferroviaria (cioè l'adesione al tracciato Laak che non l'avrebbe toccata se non indirettamente con una trasversale) almeno la più decisa opposizione alla variante della Wochein.

Invece, la ragione economica prevalente fa Gorizia, senza distinzione di stirpi, predilista accanita, finché c'è speranza che il Predil si effettui, e poi, quando il veto militare elimina quel tracciato, è proprio dai circoli anche italiani di Gorizia, d'intesa con capitalisti carniolici, che parte l'idea della Wochein!

Con la seconda congiunzione ferroviaria, finita di attuare nel 1909, non sono scomparsi i pericoli che insidiano, nel presente e nell'avvenire, i rapporti fra Trieste e il suo hinterland; anzi, mentre il tracciato prescelto devia dalla zona d'attrazione del porto triestino, questa sta sotto un'altra minaccia: la minaccia del perfezionamento delle vie fluviali che già ora fanno gravitare verso i porti del nord una parte dei traffici del hinterland triestino.

Più che la concorrenza di Genova ed anche di Venezia, la Trieste commerciale del secolo XX teme quella di Amburgo e di Brema. Abbiamo visto che Trieste si urta con Venezia al di fuori del suo retroterra austriaco, dunque in una zona d'attrazione supplementare: ma i porti germanici del nord, e specialmente Amburgo, contendono a Trieste la sua sfera centrale e specifica, le regioni industriali di Vienna, della Boemia, Moravia, Slesia, ecc. Il maggiore strumento di concorrenza sta nella posizione geografica di Amburgo, alle foci dell'Elba, la quale, per la Moldavia, la congiunge naturalmente alla Boemia: e la via fluviale, riuscendo meno costosa della terrestre, è preferita dal commercio per molti e ricchissimi articoli. Ma la natura può venire ulteriormente influenzata dall'uomo: un sistema di canali può congiungere i fiumi tra loro, allargare così la zona di traffici di un determinato porto, attrarre nell'ambito fluviale regioni più discoste, far sentire, indirettamente, le sue ripercussioni sopra territori vastissimi.

Ecco l'incubo che grava sui traffici triestini: il progetto – già votato dal parlamento, ma sinora non eseguito – di una rete di canali che unirebbero il Danubio con l'Elba, l'Oder, la Vistola e il Dniester, sicché ne risulterebbero allacciate Boemia, Moravia, le due Austrie, Slesia, Galizia e Bucovina fra loro e con Amburgo, Brema, Stettino da un lato, Odessa dall'altro. Il Mare del Nord e persino il Mar Nero, congiuranti a sviare la corrente dei traffici del retroterra specifico di Trieste!

Nella lotta contro i canali si manifesta anche più acuto il contrasto fra l'interesse economico e le idealità nazionali. Una politica tendente a staccare le regioni industriali austriache dall'Adriatico e a favorire, anche artificialmente, la loro gravitazione verso il nord, sarebbe politica separatista per definizione, anzi l'unica forma efficace e concludente di rompere il vincolo secolare che unisce la Giulia a organizzazioni statali non italiane, di mettere cioè il fattore economico a servizio del separatismo. Ma vi si oppone la ragione suprema del vivere; e il grido d'allarme contro la legge dei canali e la documentazione dei danni irreparabili che essi infliggerebbero ai traffici triestini, vengono proprio da uomini e da organi proclamantisi fervidamente nazionalisti, senza che protestino perciò le mentalità irredentisteggianti.

Forse molti fra loro non avvertono neppure tutta la profondità della contraddizione. Perché proprio nei pericoli che minacciano Trieste dal nord e nella necessità di provvedimenti statali per paralizzarli sta la risposta a un ragionamento abbastanza specioso col quale si tenta i talvolta di vincere il contrasto fra i destini economici della Giulia e le aspirazioni politiche dell'Italia su di essa. Gli irredentisti d'oggi non possono più affermare, come i loro predecessori del 1861 e del 1866, in decadenza progressiva gli scambi fra Trieste e il suo hinterland austriaco e in fiore invece l'italianità del porto triestino. Tutti i ragionamenti e le previsioni del Valussi, del Bonfiglio, del Combi, ecc., oggi, lo vedemmo, non calzano più, anzi hanno ricevuto dai fatti patenti e drastiche smentite. E allora, nel tentativo di conciliare le idealità con gli affari, si ricorre a un altro argomento. «Se Trieste – si dice – rappresenta il punto più conveniente di rifornimento e di scambio per i produttori e consumatori dell'Austria, costoro seguiterebbero a servirsi del porto triestino anche se annesso all'Italia, e l'Italia avrebbe tutto l'interesse a tener loro aperta la porta».

Chi ragiona così fa pura teoria commerciale, in contrasto con la pratica. In pratica, l'arbitro dei destini di un porto è, oggi più di ieri, lo Stato padrone del hinterland del medesimo. Oggi, invece dei poveri sbarramenti di vie del Medio Evo, lo Stato ha a sua disposizione tutto un armamentario squisito e delicato che si chiama organizzazione ferroviaria e marittima, e, più ancora, noli, tariffe, premi, dazi differenziali, ecc. Anche qui l'arte e l'artifizio premono spesso sulla natura e la vincono. La ferrovia più rapida e più diretta può essere paralizzata da un gioco di tariffe e di noli. Ammesso anche che Trieste, unita all'Italia, possedesse le migliori comunicazioni ferroviarie col suo hinterland austriaco (e vedemmo che ciò non è avvenuto sinora nemmeno in regime statale austriaco ed essendo Trieste l'unico grande porto di un grande Stato!), basterebbe che lo Stato, padrone del hinterland, combinasse delle tariffe e dei noli diretti a favorire, in luogo di Trieste, un altro suo porto, anche più discosto di qualche cinquantina di chilometri dai paesi industriali ed importatori del hinterland, per vedere sviarsi da Trieste ed affluire verso quel porto il nerbo dei traffici triestini. E – si capisce – lo Stato cui Trieste non appartenesse più sarebbe tratto a combatterla a favore dei porti suoi, lotta ineguale, in cui lo Stato italiano, anche ammesse le migliori disposizioni e la massima potenzialità della sua organizzazione economica, non potrebbe che soccombere.

In un caso soltanto il hinterland straniero potrebbe essere costretto a scendere ai porti italiani, nel caso cioè che tutti gli sbocchi austriaci della sponda orientale adriatica appartenessero all'Italia. Ma qui l'irredentismo entra nell'imperialismo utopistico e non mi pare che si possa seriamente affrontare questa ipotesi. Contro la quale poi sorgerebbe, in ogni modo, ben più minaccioso di quanto oggi non sia, il pericolo delle vie fluviali miranti a intisichire l'Adriatico a favore dei mari del nord e del Mar Nero.

Oggi (poiché non si può concepire un'Austria cospirante contro il suo unico porto), anche se la legge dei canali in tutto o in parte si attuasse, l'interesse dello Stato gli imporrà di menomarne gli effetti dannosi a Trieste con alcuno di quei numerosi artifizi che stanno a sua disposizione. Ma domani, perduta Trieste o comunque diminuita l'importanza dell'Adriatico per l'organizzazione o le organizzazioni statali dei popoli abitanti nel retroterra della Giulia, basterebbe che lo Stato o gli Stati padroni del hinterland facessero una politica fluviale, disinteressandosi dell'Adriatico, per veder esulare da questo la corrente più larga e redditizia dei suoi traffici: quella che lo fa veicolo di scambio fra le regioni industriali dell'Europa centrale e l'Oriente e i paesi transoceanici. Ciò si verificherebbe in qualunque regime politico; e tanto se l'Austria attuale si sfasciasse per rientrare in altre unità statali (irredentismo tedesco, panslavismo), quanto se si componesse per conto proprio in forma diversa dall'attuale (federalismo, trialismo, ecc.).

Da tutte queste constatazioni di fatto sorgono molti e non lievi punti interrogativi, connessi al problema cui queste pagine vorrebbero portar contributo, al problema cioè, più attuale che mai, dei rapporti austro-italiani.

Quale dev'essere la politica dell'Italia sull'Adriatico? Ha l'Italia altre ragioni, oltre quelle meramente sentimentali derivanti dalla presenza di italiani sulla costa orientale, a una politica, anche soltanto tendenziale, di annessioni su quella costa? E tale politica a quali risultati, anche nazionali, condurrebbe? Gioverebbe all'Italia di trovarsi di fronte al mondo slavo adriatico-balcanico, quale conquistatrice di centinaia di migliaia di slavi? E gioverebbe, alla conservazione dell'italianità sull'Adriatico orientale, una incorporazione di territori allo Stato italiano?

Ancora: tale incorporazione, per impotenza assoluta e manifesta dell'Italia a far fiorire economicamente la costa giuliana, non segnerebbe la decadenza fatale di quel tratto di costa a profitto dell'altro, rimasto a disposizione del hinterland ora attratto verso Trieste? Non segnerebbe perciò insieme la decadenza dell'unico grande centro prevalentemente italiano dell'Adriatico orientale, di Trieste? E in che modo tale politica potrebbe giovare agli italiani «redenti» e «irredenti»?

Domande tutte che non vengono affacciate mai alla discussione da quanti riluttano, per motivi puri od impuri, a vederle chiarite; ma chi voglia studiare l'irredentismo in tutte le sue facce, deve affrontare questa indagine, se non per rispondere definitivamente a così complessi e poderosi quesiti, almeno per impostare un dibattito senza il quale è impossibile il formarsi di un'opinione pubblica orientatrice.

Che l'Italia, sull'Adriatico, si trovi attualmente in condizione di decisa e schiacciante inferiorità economica in confronto all'Austria-Ungheria, è pacifico. Non voglio abusare di citazioni a buon mercato; rimando chi desidera conoscere le cifre comparative delle due marine mercantili, ecc. all'accuratissimo studio dell'on. Maggiorino Ferraris nella «Nuova Antologia» del 15 maggio 1910.

«Appunto per questo – obietta il nazionalismo italiano, specie quello nuovo, di marca letteraria – occorre che l'Italia riacquisti il primato dei tempi passati»; e qui i ricordi di Roma, il Sinus Venetiae, ecc. Senonché, neppure il passato, a chi lo interroghi serenamente, dice tutto quello che la retorica nazionalista vorrebbe fargli dire. La conquista romana delle regioni orientali adriatiche fu sterile, né lasciò le traccie nazionali indelebili della signoria sulla opposta sponda. Roma poté latinificare qua e là la costa ma non giunse neppure a sottomettere il retroterra. Venezia, lo vedemmo, appunto perché situata sulla costa orientale, poté signoreggiare l'Adriatico innaturalmente, cioè soltanto a patto di soffocare le energie dei centri marinari istriani e dalmati, e ciò in tempi in cui il hinterland di quella costa non esisteva, almeno nel significato attuale della parola. Col progredire dell'economia capitalistica, la capacità esportatrice e assorbitrice del hinterland andò sempre più normeggiando e delimitando le sfere d'influenza marittime dei singoli aggregati statali; non basta possedere la costa per dominare una zona di mare; anzi il possesso della costa, senza quello del hinterland, a nulla giova: il vero padrone dei traffici e quindi del mare è lo Stato del retroterra. Da ciò l'intrinseca e insanabile inferiorità sull'Adriatico dell'Italia, che ne possiede il hinterland men favorito dalla natura (costa occidentale), più smilzo e, nella sua zona più ricca, conteso vittoriosamente dall'attrazione mediterranea di Genova. Neppur l'acquisto di tutta la costa orientale, avulsa dal suo retroterra, potrebbe sanare tale inferiorità: staccate dall'Adriatico, le regioni industriali dell'Austria consentirebbero – lo avvertimmo – alle attrazioni dei fiumi e dei mari del nord e forse anche dell'Egeo e del Mar Nero. L'annessione poi di una piccolissima zona di costa orientale (quella giuliana rappresenta a mala pena un quarto dell'intera costa orientale) porterebbe a conseguenze economiche anche peggiori, così per la Giulia come per lo Stato italiano. Questo sarebbe tratto a cercar di compensare il nuovo suo porto (Trieste) del hinterland specifico sfuggitogli: e non potrebbe farlo che toccando la zona d'attrazione degli altri porti adriatici e specialmente di Venezia. La lotta fra Trieste e Venezia risorgerebbe fierissima e ben più ampia che nell'era preteresiana. Non più le povere carovane dei mercanti carsici e carniolici contese da Capodistria veneziana a Trieste: col "mondializzarsi" dei traffici, le sfere di attrazione dei due porti si urtano nella Germania orientale e centrale e nella Svizzera; nelle regioni cui tende tanto il nuovo tracciato dei Tauri quanto tutte le linee "veneziane" fatte e da farsi, del Brennero, della Valsugana, del Cadore, ecc. Oggi, la lotta per la conquista di quei transiti e di quei mercati non costituisce certo un elemento vitale dei traffici triestini, imperniati, come vedemmo, sul loro retroterra austriaco; ma domani, perduto questo retroterra, è soltanto da quella parte che Trieste e la Giulia potrebbero trovare un relativo (molto relativo!) succedaneo. Ed ecco lo Stato italiano esaurire se stesso e i suoi porti adriatici (e, per ripercussione, anche i mediterranei) nello sforzo di dividere un pane, troppo esiguo per tante bocche, col risultato inevitabile di non saziarne alcuna. Informino le beghe recenti fra Bari e Venezia a proposito delle convenzioni marittime. Non parlo nemmeno di una possibile concorrenza tra Venezia e Trieste per il servizio del hinterland specifico italiano: Venezia, congiungibile per le vie fluviali al cuore della Lombardia e del Piemonte, batterebbe senz'altro Trieste.

La politica di conquista territoriale, verso la quale il neonazionalismo vorrebbe spingere l'Italia, appare dunque, nell'ambito dell'Adriatico, un assurdo economico. Ricordo queste parole di Cesare Combi che uccidono l'irredentismo economico del suo omonimo e congiunto: «Chi possiede un porto di mare di un valore apprezzabile per l'economia nazionale, deve avere in mano tutte le strade che vi adducono». E ciò l'Italia per Trieste non potrebbe mai, se non conquistando... l'Austria intera e magari anche un po' di Germania e di Svizzera tedesca!

Sono, tutte queste, constatazioni che potranno spiacere al sentimento nazionale; ma occorre che chi ha ufficio di guidarlo, o di interpretarlo, ne tenga conto, poiché un'annessione cui manchi la radice economica, anzi in contrasto fondamentale col fattore economico, minaccia di riuscire sterile anche nei riguardi nazionali.

Per farsi un concetto preciso del valore intrinseco dell'irredentismo, anche come elemento di irradiazione e di conservazione nazionale, non bisogna dimenticare che le conquiste dell'italianità nella Giulia, si dovettero essenzialmente allo sviluppo dei traffici triestini. Trieste sarebbe rimasta la cittadina di 3.000 abitanti, sperduti nella campagna slava soverchiante, privi di ogni energia assimilatrice sopra di quella e di ogni forza di irradiazione sugli altri centri urbani minori, se il flusso rigeneratore dei traffici non le avesse permesso di assorbire e di italianificare via via le decine di migliaia di stranieri accorrenti da ogni parte e specialmente le masse rurali slave divenute, automaticamente, il nerbo dell'italianità attuale tergestina e giuliana.

Soltanto così poté formarsi il blocco, probabilmente definitivo, dei 140.000 italiani indigeni, della grande Trieste del secolo XX, cioè l'unico cospicuo centro di italianità della costa orientale adriatica. Ed esso vive e prospera della vita e della prosperità dei traffici. Che avverrebbe di esso, e quindi dell'italianità adriatica orientale, il giorno in cui i traffici emigrassero verso un'altra rada o tendessero ad allontanarsi dall'Adria? Si inaridirebbero bensì la corrente proletaria slava e il flusso economico tedesco, ma, insieme a quelli, perderebbe la sua ragione di essere anche l'immigrazione che, nell'ultimo quarantennio, ha triplicato il numero dei regnicoli (precipuamente proletari) a Trieste. Né avrebbe allora efficacia durevole, neppur nei riguardi nazionali, il loro tramutarsi istantaneo in cittadini dello Stato.

Con ciò, naturalmente, non si nega che l'Italia abbia, oltreché dei sentimenti, anche degli interessi da tutelare sulla costa orientale adriatica. Ma è per lo meno discutibile se ulteriori annessioni costituirebbero il mezzo ideale di tutela di questi interessi. È discutibile, ma non viene discusso; anzi il ritenere che l'irredentismo, se fosse attuabile, risponderebbe ai fini dello sviluppo nazionale, è una specie di pregiudiziale tacita, cui non contrastano, in fondo, neppure gli antirredentisti. Che cosa significa, infatti, la «rinunzia», che è il vocabolo e il pensiero cui più spesso ricorre chi affaccia i danni e i pericoli di una politica intesa a rivendicazioni territoriali nella Giulia? Evidentemente questo: "Sarebbe una gran bella cosa se si potesse, ma... non si può".

Sarebbe poi "una gran bella cosa" davvero?

E "bella", per una concezione politica, vuol dire inquadrata nelle linee normali di ascesa di un popolo e di uno Stato. Conducono esse l'Italia proprio verso una politica di conquista dell'opposta sponda adriatica?

Una politica di conquista (facciamo anche qui indagini su forze e ideologie del presente, non speculazioni e anticipazioni di un più civile avvenire), una politica di conquista può essere raccomandata e magari imposta alle classi dominanti lo Stato da tutto quel complesso groviglio di interessi, reali o illusori, che si chiamano sinteticamente, e spesso impropriamente, coloniali.

Non occorre dire che la costa orientale adriatica (e specialmente la parte austriaca di cui qui si discorre) non risponde affatto, di fronte all'Italia, al concetto economico, anche preso nel suo significato più largo, di "colonia", da appetirsi e progressivamente da conquistarsi. Bastano due elementi negativi: l'impossibilità di sottomettere economicamente il hinterland e l'alta potenzialità capitalistica già toccata da esso.

La posizione si modifica alquanto, epperò gli interessi italiani adriatici vanno studiati da una visuale diversa, se si prendono a considerare in rapporto alla costa non austriaca; cioè a quelle regioni balcaniche che toccano e gravitano o possono in tutto o in parte farsi gravitare verso la sponda orientale adriatica (Epiro, Albania, Montenegro, sangiaccato di Novi-Pazar, Serbia, Macedonia, ecc.).

Qui il problema giuliano si inanella a quello balcanico e qui sussiste una certa forma di attrazione economica che potrebbe sembrare incoraggiante per certe velleità di espansionismi; i paesi del hinterland adriatico balcanico, a differenza di quello austriaco, costituiscono un campo di penetrazione industriale in cui l'Italia cerca e può trovare la sua parte.

Non bisogna però esagerarne la potenzialità e l'importanza. L'Egeo e il Mar Nero contendono all'Adriatico il hinterland di molte regioni balcaniche (parte della Macedonia, Bulgaria, Rumenia, un po' di Serbia); inoltre anche i Balcani si vanno industrialificando sotto l'influsso della civiltà capitalistica destinata a intensificarsi man mano che si rafforzeranno i rispettivi organismi statali; sicché è prevedibile che, nell'avvenire, quei paesi perderanno a poco a poco la loro capacità assorbitrice dei prodotti industriali altrui. Né il traffico italiano volge o può volgere verso la sponda adriatica, col ritmo incalzante che lo spinge, sia oltre le Alpi, verso i suoi massimi mercati europei di rifornimento e di sfogo: la Germania, la Francia, la Svizzera, l'Austria stessa, ovvero al di là degli oceani, negli Stati Uniti, o verso quella seconda patria del lavoro ed ormai anche del capitale italiano che è l'America del Sud. I filatori di cotone italiani fanno nei Balcani le loro prove, in concorrenza con gl'inglesi, tedeschi ed austriaci, e vi notano già, e più vi potranno notare in avvenire, dei buoni successi; suscettibile di sviluppo può essere pure l'importazione in Italia di qualche prodotto del suolo balcanico. Ma tali modeste correnti economiche, lungi dal giovarci, non potrebbero che venire perturbate da una politica di conquista sulla costa orientale od anche soltanto dal sospetto di una tale politica. A questo proposito alcune cifre che lessi testé, sulle esportazioni italiane ed austriache in Albania, invitano a meditare, più di un intero trattato di politica estera: secondo quei dati, nel 1900, l'esportazione austriaca era ancora pressoché il quadruplo dell'italiana, nel 1907 l'italiana superava di, più di un milione di franchi l'austriaca. Certo è che l'Albania è fra le poche regioni balcaniche dove la penetrazione capitalistica italiana poteva segnare – almen prima dello sconquasso tripolitano – costanti e rapidissimi progressi, dovuti senza dubbio a fattori tecnici ed economici, ma anche, e forse in prima linea, ad un fattore morale: cioè alla maggiore fiducia che l'Italia gode presso gli albanesi, in confronto all'Austria sospettata, a torto o a ragione, di segrete libidini annessioniste. E l'Albania, così profondamente solcata da divisioni religiose, si accorda in una nota: nell'abborrire ogni forma di centralismo statale, quindi ogni regime che non le dia affidamento di autonomia. Bastò il viaggio di Vittorio Emanuele in Grecia (che ha conati di conquista sull'Albania meridionale) per intiepidire l'italofilia albanese.

Ora occorre non dimenticare che, al di fuori dell'Albania autonomista e dell'Epiro forse in parte ellenizzante, il resto e il grosso delle regioni in gravitazione verso l'Adriatico orientale è slavo. È il mondo slavo meridionale che cerca ancora il suo ubi consistam, preso in mezzo da due opposte correnti: la tedesco-magiara (dualismo) e la russo-zarista, nazionale-religiosa. L'Austria (e qui per Austria intendo l'agglomerato di popoli abitanti fra le Alpi e i Carpazi e gravitanti più o meno intensamente verso l'Adriatico orientale), l'Austria ha, per sua ragione storica di essere, l'esercizio dell'equilibrio fra queste due forze in contrasto e serve, in tale funzione, anche ad interessi italiani che sarebbero compromessi in caso di vittoria dell'una o dell'altra delle due tendenze.

Oggi, questa funzione equilibratrice dell'Austria è ancora, bene o male, esercitata dagli attuali organismi statali, dall'impero dualistico asburghese, che, bizzarramente, è stimolo e, insieme, controstimolo alla corrente tedesca: le giova cioè in quanto, come grande potenza burocratico-militare, è tratto a fronteggiare la corrente russa; ma nello stesso tempo, per l'influsso crescente dei suoi sudditi slavi e per la propria intrinseca potenzialità, è sempre il centralismo austriaco ad impedire il formarsi della grande Germania «dal Belt all'Adria».

Il centralismo, come ogni cosa umana, non sarà eterno; anzi la sua attuale struttura dualistica è forse prossima ad esaurirsi. Ma quali sieno per essere le forme del suo divenire, e comunque venga divisa la sua eredità, certo è che il mondo slavo meridionale, dentro e fuori i confini dell'odierna monarchia, è in prima linea chiamato a continuarne la funzione equilibratrice e compensatrice. Il panslavismo, cioè lo Stato mostruoso da Mosca a Costantinopoli, appare sempre più, anche agli occhi degli slavi del sud, una brutta utopia e il neoslavismo (unione intellettuale di tutti gli slavi), che vorrebbe ringiovanirlo, un'iridescenza sentimentale vuota di contenuto politico. Gli slavi meridionali dell'Austria, dell'Ungheria e dei Balcani si sentono trascinati, man mano che procede la loro evoluzione, capitalistica ed intellettuale, a sviluppare le proprie autonomie, a formare propri aggruppamenti.

E qui la nostra indagine si incrocia con quella del futuro assetto degli jugoslavi (slavi meridionali), cioè con l'ardua e complessa questione dell'unità jugoslava, auspicata, come vedemmo, fin dal 1848, da Cavour, Valussi, Valerio, ecc. È tema che, a essere svolto anche per sommi capi, richiederebbe un altro volume. Tenendomi nei limiti e negli scopi di questo scritto, voglio rilevare soltanto una nuova antitesi che accenna a delinearsi nei riguardi del problema jugoslavo e delle sue possibili soluzioni.

Gli jugoslavi (cioè serbi, croati e sloveni) possono arrivare per due vie all'unità, intesa naturalmente nel senso più largo:

1) Attrazione degli indipendenti (Serbia e Montenegro) su quelli, ora sudditti dell'Austria-Ungheria o della Turchia (in Croazia-Slavonia, Dalmazia, Istria, Bosnia-Erzegovina, sangiaccato di Novi-Pazar, eventualmente Vecchia Serbia, ecc.). È, in sostanza, l'aspirazione dell'irredentismo serbo o panserbismo, che Vienna e più Budapest cercarono di indebolire e scompaginare con ogni arma. Mantenendo e favorendo le scissure e gli equivoci fra serbi e croati che convivono, diversamente commisti, in tutti quasi i paesi jugoslavi soggetti agli Asburgo; governando o sgovernando da Budapest la Croazia (ove sta il grosso degli jugoslavi asburghesi: circa due milioni e mezzo), con le peggiori corruzioni e le più sfacciate violenze, facilitate dal suffragio ristrettissimo, dal voto orale, dalla depressione economica, ecc. Ma, anche là, l'urto e l'attrito produssero effetti opposti a quelli sperati e valsero a rinsaldare il serbocroatismo che, deluso dal patto di Fiume (1905: tentativo di accordo coi kossuthiani), messo alla prova del fuoco dal famigerato processone di Zagabria e dagli scandalosi suoi strascichi (processo Friedjung), sta ormai, rappresentato dalla coalizione serbocroata, a testimoniare il progressivo e fatale fondersi di due popoli gemelli, unilingui, divisi soltanto da odi di religione e da astuzie di governanti. Caratteristiche, a questo proposito, le ripercussioni a Sarajevo, a Spalato, a Ragusa, fra serbi come fra croati, delle recentissime violenze commesse dal regime magiaro a Zagabria.

Tutto questo, ed altro ancora, agirebbe a favore del panserbismo (cioè della tendenza centrifuga degli slavi asburghesi) nonché, indirettamente, dell'idea della Federazione balcanica la quale potrebbe essere composta dal nuovo Stato jugoslavo in spe, dalla Bulgaria, Rumenia, Grecia, persino forse dalla Turchia. (Son passate poche settimane dal convegno a Sofia, per la maggiorennità del principe Boris, dei rappresentanti di tutti gli Stati balcanici ortodossi, presente un granduca russo.) Ma è piano irto di ostacoli, cui forse tre quarti d'Europa (la stessa Russia) sarebbe, per varie ragioni, avversa, senza contare gli antagonismi formidabili tra i «federandi».

2) Irredentismo a rovescio: gli jugoslavi di fuori dell'Austria-Ungheria, attratti da quelli dentro, dopoché questi saranno riesciti a comporsi in unità autonoma nazionale. Per esso sta la legge fisica di attrazione, crescente in ragion diretta della massa: gli jugoslavi soggetti agli Asburgo rappresentano ormai oltre sette milioni compatti, contro forse nemmen quattro, fra Serbia, Montenegro, Vecchia Serbia e frazioni minori.

Questi sette milioni di jugoslavi, nonostante o forse grazie alle resistenze di Vienna e di Budapest, sentono ormai l'impulso all'unità. L'idea non nuova, ma sin qui oscura, del «trialismo» è giunta testé fino a concretarsi in un memoriale al sovrano, firmato da deputati serbocroati alla camera di Vienna (di Dalmazia ed Istria), e alle diete di Zagabria e di Sarajevo. In quel memoriale si chiede che i paesi serbocroati sieno riuniti più strettamente fra loro entro la cornice della monarchia. Deputati sloveni non appaiono tra i firmatari, ma nel memoriale si accenna anche all'Istria slovena e alla lotta nazionale giuliana. La meta sarebbe il «terzo» Stato della monarchia, formato con la riunione degli jugoslavi ora divisi fra l'Austria, l'Ungheria e le provincie occupate; da qui, all'irredentismo a rovescio, la via sarebbe forse men lunga e difficile che dal dualismo di oggi al trialismo di domani. Poiché contro il trialismo lotterà disperatamente l'oligarchia magiara che ne avrebbe il maggior danno, tagliata fuori come sarebbe dal mare e indebolita di fronte alle altre nazionalità (rumeni e tedeschi) che già a stento tiene compresse nel suo seno. Minori forse le resistenze dei tedeschi dell'Austria, benché non si veda ancora che cosa potrebbe succedere, in sistema trialistico, del grande pomo di discordia slavo-germanico: la Boemia. Certo è che, oggi, a Zagabria si guarda con minor sfiducia verso Vienna tedesca che verso Budapest magiara, la quale a sua volta diffida più dei croati, sospettati austrofili, che dei serbi, bollati e perseguitati fino a ieri come irredentisti cospiranti con Belgrado.

Tutto ciò è ancor troppo caotico per erigervi anche delle previsioni, né starebbe d'altronde nell'ambito di questa indagine. Si può dire soltanto che il trialismo, per nascere, presuppone la fine dell'Austria attuale e il sorgere di quell'Austria nuova di cui pure, sotto la scorza vecchia, si avverte qualche sintomo precorritore; indice e leva: il suffragio universale che non potrà essere negato troppo a lungo, nemmeno all'Ungheria.

E vengo, senz'altro, al contrasto suaccennato: l'Italia (regno) non ha motivo di allarmarsi per l'eventuale costituzione del «terzo» Stato (chiamiamolo) asburghese, anzi potrebbe salutarlo con soddisfazione, come elemento di tranquillità e di equilibrio ai suoi confini orientali, finché però esso non fosse per diventare così forte e omogeneo da esercitare una forza attrattiva sugli jugoslavi di fuori (Serbia e Montenegro). L'ingoiamento di questi due Stati limiterebbe certo, pur senza esagerarne l'importanza, la possibilità di penetrazione industriale balcanica dell'Italia e creerebbe, sull'opposta sponda, un organismo economico-militare potente.

Vero è che l'equilibrio potrebbe ristabilirsi mediante una forma di protettorato italiano sull'Albania, certo ripugnante a farsi ingoiare dalla Jugoslavia. Comunque, qui l'avvenire presenta delle eventualità oscure. Invece per gli italiani della Giulia la cosa è diversa. La costa giuliana (e lo si avverte già in qualche manifestazione, finora privata e accademica) sarebbe logicamente contesa tra l'Austria tedesca e l'Austria slava, come sbocco di unhinterland che è, in realtà, slavo-tedesco; anzi oggi ancora, per maggior sviluppo capitalistico, forse più tedesco che slavo. Ciò spiega (fra parentesi) l'importanza economica crescente del germanismo, pur dopo fallita la sua azione nazionale, la folla di allievi italiani alle scuole tedesche, primarie e secondarie, il monopolio bancario che i tedeschi dividono con gli slavi, l'immigrazione di impiegati tedeschi favorita da quegli stessi negozianti nazionalisti italiani che arruolano proletari slavi, ecc.

Ed ecco, dal cozzo di queste due forze, delinearsi una situazione da cui gli interessi, anche nazionali, degli italiani della Giulia potrebbero trarre partito; risorgerebbe il pensiero dominante della storia triestina, il voto di Francesco Dall'Ongaro, l'augurio di Nicolò Tommaseo: Trieste, veicolo ed anello di congiunzione tra correnti etniche ed economiche diverse, in regime necessariamente neutrale ed autonomico che dovrebbe comprendere, per servire a tutti i suoi scopi, anche un più ampio cerchio di costa orientale adriatica, cioè almeno da Trieste a Pola. Donde risulterebbero di per sé espulse e incorporate amministrativamente al retroterra di cui son porzione le parti più compattamente slave della Giulia. Nel resto, le due stirpi avrebbero a cercare le basi di una convivenza nazionale pacifica, agevolata dall'evidenza di una comune posizione economica da tutelare; e la coltura italiana, smesse le punte che la rendono ancor minacciosa, potrebbe diffondersi, con ritmo più largo di quanto abbia potuto o saputo fin qui, tra connazionali ed estranei.

Musica dell'avvenire?... Certo, ma insieme nuovi spunti di antitesi, non soltanto economiche, che si profilano, confuse ancora, all'orizzonte. Comunque, a prescindere anche da esse e quale sia per concretarsi l'assetto futuro del mondo slavo meridionale e slavo in generale, certo è che il distacco politico della Giulia deve essere fra le eventualità contro le quali esso è chiamato a combattere con tutte le sue forze. Poiché è proprio la Giulia il suo sbocco più prossimo e più logico al mare. Certo, ilhinterland è più indispensabile alla Giulia di quanto la Giulia lo sia al hinterland, ma gli interessi di questo, anche soltanto economici, sono forti abbastanza per farlo insorgere contro l'annessione della Giulia all'Italia.

La realtà potrà essere dolorosa per molti, ma non è per questo meno realtà. Essa ci dice che gli aggruppamenti futuri dello slavismo, per essere solidi e fecondi, dovranno percorrere le grandi vie economiche che uniscono gli slavi centrali e meridionali al di sopra e al di fuori di convenienze e compressioni militari e dinastiche. Non dimentichino gli indagatori del fenomeno irredentista giuliano che queste correnti procedono da oriente a occidente, dal bacino del Danubio a quello della Sava, e da questo alla sponda orientale adriatica. E proprio la costa adriatica giuliana ha una sua funzione specifica di sbocco sul mare non soltanto alle energie slave meridionali, ma anche a quelle, ancor più robuste, dei cechi di Boemia e Moravia. Corrente nazionale ed economica, che serve, a sua volta, a bilanciare la gravitazione tedesca e il suo impulso a riunire, in un nesso politico-economico, l'Adriatico coi mari del nord. E qui l'interesse della Giulia torna a collimare con quello, nazionale e politico, del regno.

Trieste insomma, nell'economia mondiale, si vede assegnata proprio anche quella funzione di porto della «futura Slavia» che Cesare Cantù avrebbe voluto auspicare sul giornale della risorta italianità triestina.

Allora, bastò il «veto» di un governatore austriaco, fiduciario del centralismo germanizzante, per sopprimere quel pensiero; ma, nonostante i «veti» il pensiero, che ha per sé la forza suprema della vita, si va compiendo e gli stessi italiani della Giulia (lo vedemmo abbastanza in questo capitolo) son trascinati a invocarne e affrettarne il compimento.

Contraddizione fatale che spinge, loro malgrado, gli irredentisti contro l'irredentismo; contraddizione che ha radici profonde e indipendenti da volontà d'uomini e di gruppi, e nella quale è racchiuso il punto interrogativo più formidabile contro l'aspirazione separatista giuliana.

A questo punto interrogativo, nell'interesse degli italiani di qua e di là dell'Iudrio, occorre ormai dare definitiva risposta. Quando questa suonasse sfavorevole alle speranze dell'irredentismo, l'Italia (è intuitivo) non potrebbe giovare meglio agli italiani della Giulia che proclamando, altamente e lealmente, di non aspirare, in nessun caso, per alcun evento, a conquiste territoriali, ad annessioni dell'opposta sponda adriatica. La frase, probabilmente sincera, di Bismarck, che sarebbe pazzo colui che volesse incorporare alla Germania i tedeschi dell'Austria, ha giovato e giova ai loro interessi, anche nazionali, certo più di ogni agitazione separatista.

Share on Twitter Share on Facebook