3.

Il germanismo come fenomeno etnico – Italiani e slavi – Assopimento ed assimilazione – Il porto della «futura Slavia» - Le due stirpi della Giulia nel 1848 – Il pensiero di Valussi e di Tommaseo – Gli inizi del conflitto – Le origini del movimento sloveno – Il contadino slavo dell'Istria e i signori italiani – I censimenti austriaci – La lotta per la scuola – Lega nazionale e "Cirillo e Metodio" – L'azione dello Stato – La partecipazione delle varie classi sociali al conflitto – Il proletariato e la lotta di stirpe – Le due anime del partito nazionale – La fase attuale dell'irredentismo regnicolo

Abbiamo visto fin qui il movimento di costruzione e diffusione della coscienza italiana, cozzare, in tutta la Giulia, contro un solo avversario: il germanismo, di marca essenzialmente statale. È questa, sin circa un quarantennio fa, l'unica manifestazione visibile di antagonismo. È la scuola tedesca che sola si contrappone all'italiana: lo vedemmo a Trieste; la stessa cosa avviene nel Goriziano; nell'Istria, prima del 1850, anche la scarsa scuola elementare, dove lo Stato interviene a promuoverla, assai spesso, se non è italiana, è tedesca (Rovigno, Pisino); tedesco, per molti anni, il ginnasio di Capodistria che, appena dopo il 1864, giunge, faticosamente, all'italianificazione completa; tedesco, sino alla sua soppressione, il ginnasio dei francescani a Pisino; il funzionarismo statale italiano, in tutta la regione, è in concorrenza soltanto con quello tedesco o germanizzante, ecc.

Eppure il germanismo ebbe in sé, fin dagli esordi fra noi, le ragioni della sua sterilità ed oggi, come soggetto di conflitto etnico, si può dire fenomeno superato. Gli è mancata sempre la premessa necessaria in una lotta di stirpi: la stirpe. Un popolo tedesco o tedeschificato non risiede – né risiedette mai – nella regione, in tutta o in parte. Le schiere, venute di Germania allo sfasciarsi dell'impero d'Occidente, lasciarono di loro nella Giulia non una propaggine etnica, non una collettività nazionale, comunque formata, ma poche famiglie di conquistatori: la feudalità, che anche fra noi, dove si consolida, è, specie sino al 1500, prevalentemente tedesca; tedeschi i feudatari maggiori e spesso i minori; cittadini, borghigiani, la gleba, il basso clero: ladini o veneti o slavi.

Gorizia, ultima comparsa nella storia della regione, è il centro il quale più di tutti risente l'influenza germanica che si irradia, specie sino al secolo XVI, anche su strati non feudali; tanto che al Kandler la Gorizia del 1500 poté parere «città tedesca con campagna tutta slava meno pochi lembi di Cormons che stavano in pianura» («Istria», 1851, p. 82). Passata, dopo quattro secoli di signoria tedesca dei conti di Lurn, nel dominio degli Asburgo (1500), Gorizia conserva, sino alla fine del 1700, i suoi Stande (Stati), in cui prevale la nobiltà laica ed ecclesiastica, che si proclama tedesca; ma, sotto il gruppo dei dominatori, vive e i lavora la schiera anonima dei dominati che tedeschi non sono o non restano. Nel foro, nella chiesa, nella coltura, l'italiano, a tratti compresso, risorge; il ladino e lo sloveno rimangono tenacemente il linguaggio delle plebi urbane e rurali. I gesuiti, cacciati da Venezia nel 1606, trasportano la loro scuola umanistica a Gorizia e la mantengono italiana per attirarvi gli antichi alunni d'oltre confine; l'immigrazione artigiana dal Friuli veneto e dalla contea di Gradisca – intensificatasi dal secolo XVI – fa il resto; tanto che un vescovo-luogotenente degli Asburgo, a metà del 1600, esorta il sovrano a ridar forza al germanismo ganz in Verfall (in piena decadenza). I conati germanificatori teresiani e giuseppini del secolo XVIII, trovano a Gorizia terreno certo meglio preparato che a Trieste o nell'Istria; eppure, proprio in quegli anni e proprio dai circoli i della nobiltà, spunta l'Accademia italiana degli arcadi sonziaci.

Così nell'Istria antico-austriaca: il feudalismo rimane isolato dalla vita paesana, al culmine della piramide sociale.

A Trieste – lo abbiamo visto abbastanza nei capitoli precedenti – germanismo e germanificazione poterono essere a volta a volta, canone di governo, ripercussione di interessi economici, quindi inclinazione del cosmopolitismo dominante; tutto, insomma, fuorché movimento nazionale.

Lo Stato, nella Giulia (come, del resto, dovunque) favorisce ancora, a preferenza di quelle nazionali, le scuole tedesche, specialmente nell'istruzione secondaria e superiore, che incombono entrambe ad esso: mantiene scuole primarie tedesche a Trieste, a Pola, a Gorizia; l'alto funzionarismo è ancora prevalentemente in mani tedesche. Ma tutto questo non ha effetti concludenti sull'etnografia della regione, come non ne ebbe, di sostanziali, neppure in passato. La scuola tedesca, che non intedescò gli italiani, neppur germanifica più gli slavi. L'unico vero conflitto etnico nella Giulia è l'italo-slavo.

E qui conviene sgomberare il terreno da un equivoco fondamentale. Da molti si crede ancora – e da altri si lascia credere – che italianità e slavismo nella Giulia sieno due termini ben definiti e rigidamente antitetici. E si presentano da una parte gli italiani, tutti di netta e definitiva individualità nazionale, magari tutti discendenti diretti di Roma o di Venezia: dall'altra gli slavi, gli stranieri, i sopravvenuti di ieri, irreggimentati dal governo austriaco e da agitatori forestieri a lottare contro gli unici indigeni della Giulia.

Questo quadro, che appare a prima veduta semplicista, è sostanzialmente irreale.

Gli italiani, specie a Trieste, sono in assai modeste proporzioni i discendenti della romanità o anche soltanto dell'immigrazione nazionale; le due collettività linguistiche sono tutt'altro che nette e definite; gli slavi non sono affatto i sopraggiunti di ieri e il loro movimento nazionale è fenomeno storico troppo ampio e complesso per potersi ricondurre a espediente di governo o a sforzo di individui o di gruppi. Italiani e slavi convivono nella Giulia da secoli. Si può addirittura, con ipotesi scientificamente pari ad ipotesi contrarie, cercare elementi incubatori dello slavismo attuale già nella storia preromana della regione. È in ogni modo accertata la presenza di slavi nella Giulia da almeno undici secoli, da almeno cinque secoli la loro prevalenza nelle campagne. Il che equivale a dire che nella Giulia si è andato lungamente svolgendo un fenomeno demografico spiegabile dall'incrocio di due nazioni, l'una a economia e quindi a civiltà superiore, aggruppata nelle città, l'altra attaccata alla zolla e dispersa nelle campagne; la prima ha tenuto assopita e poi ha in parte assimilato la seconda, finché questa, sotto l'influsso di molteplici e complessi fattori, ha incominciato a reagire contro l'assimilazione e a scuotersi dall'assopimento.

Lotta nazionale della Giulia vuol dire dunque, nel suo fondo, lotta per continuare o troncare questi due processi, attraverso i quali si è mantenuta e in gran parte si mantiene ancora, la prevalenza degli italiani sugli slavi.

Assopimento e assimilazione vanno tenuti distinti, specie nel tempo. Il primo ha carattere statico, secolare; la seconda, almeno come fenomeno di massa, è più recente e a traiettoria più rapida: presuppone un certo sviluppo capitalistico, contatti frequenti, urbanismo già in essere. Infatti, l'assimilazione incalza nel secolo scorso e oggi accenna già ad arrestarsi. In sostanza, lo slavismo dorme finché l'italianità sonnecchia, ed è proprio il risveglio di questa che contribuisce a scuotere quello dal sonno suo più profondo; sonno di contadini; non senza però, come vedremo, qualche fugace stirata di gomiti. Per questo, la fisionomia della regione nei secoli passati, specie dal XV in poi, nonché tutta italiana, come potrebbe far credere la consueta fraseologia dei politicanti (non parlo qui di storici), è assai più slava di oggi: la proporzione fra italianità e slavismo, cioè fra città e campagna, è assai più favorevole a quest'ultima, e il dislivello fra le due economie, urbana e rurale, assai meno accentuato. La forza italianificatrice dell'unico discreto aggregato urbano (Trieste) è ancora scarsa – e ne vedemmo le ragioni – perciò anche l'inurbarsi degli slavi influisce meno e meno rapidamente sulla loro individualità nazionale. Si ritrovano vestigia remote di una vita nazionale slava, modestissima, accanto alla modesta neoromanica, e viene, sino a tempi assai recenti, riconosciuta senza difficoltà.

Torniamo a sfogliar le annate dell'«Istria» e della «Favilla» e le troveremo impregnate di slavofilia.

Quel Facchinetti, che fa sull'«Istria» la storia degli usi e costumi degli slavi istriani, è addirittura un innamorato dello slavismo regionale; ne elogia calorosamente la lingua, nega le grandi disparità fra dialetto e dialetto, biasima «quel pregiudizio che ci fa sentire inferiori gli slavi ai parlanti idiomi italiani», li chiama «pii, sinceri, ospitalieri», li proclama «maggioranza della popolazione istriana», ecc. Il Dall'Ongaro, la colonna della «Favilla», in un suo studio sulla poesia popolare degli slavi (12 aprile 1840) li dice «stirpe dolce e flessibile, nata per la vita pastorale, generosa ed eroica senza essere selvaggia e brutale, apparsa sulla terra solo per amare e per cantare». Dal canto suo, il vladika del Montenegro pubblica nel giornale della neonata italianità triestina, una lirica che è un inno al mare e al cielo dell'Adriatico.

Questa – si dirà – è Arcadia e qui parlano letterati e poeti, cioè psicologie screditatissime per i ricercatori della realtà. Senonché alla simpatia letteraria si associa una concezione strettamente politica. Ricordai già la presenza di Cesare Cantù al convegno di triestini e veneziani organizzato dal governatore Stadion per sopire i rancori fra le due antiche rivali. Sul convegno, il Cantù scrisse una relazione che ognuno può leggere nella «Favilla»; manca però a quella relazione uno spunto caratteristico, soppresso proprio per volontà dello Stadion e inneggiante alla pace ristabilita fra l'italiana, vecchia Venezia e il «porto della futura Slavia». Voleva dire evidentemente il Cantù che missione specifica di Trieste era quella di emporio e scalo dei paesi slavi giacenti alle sue spalle e che, attenendosi a questo compito assegnatole dalla sua posizione geografica, avrebbe eliminato i conflitti e le collisioni con la sorella dell'altra sponda dell'Adria. Concezione economica nella quale campeggia anche una concezione politica: la futura Slavia, cioè un corpo autopolitico jugoslavo, destinato presto o tardi a formarsi e gravitante su Trieste, suo porto naturale. È l'identico pensiero che oggi desta tanti – e non tutti infondati – terrori alla egemonia italiana nella Giulia. Allora, nel 1846, poteva essere augurio di uno scrittore lombardo formulato nel giornale inteso a rifare l'italianità di Trieste; e si infrangeva quell'augurio nel veto di un governatore austriaco! Bizzarria di contrasti! Egli è che anche lo Stadion, nonostante certi suoi atteggiamenti italofili, si sentiva soprattutto chiamato a tutelare sull'Adriatico tradizioni di egemonia tedesca e la «futura Slavia» doveva suonar male agli orecchi – benché già esercitati ad alcune dissonanze – di Metternich.

Anche l'accoglienza fatta dagli italiani ai conati quarantotteschi di affermazione nazionale jugoslava, nella quale sono pur compresi gli slavi della Giulia, appare tutt'altro che malevola. Gli organi più vivaci del liberalismo triestino riportano, compiacendosene, i frequenti appelli all'unione delle famiglie slave del sud. Neppur le giornate viennesi d'ottobre troncano tutte le simpatie. La «Gazzetta di Trieste» (13 dic.) afferma che Jelačić è un vero figlio del popolo e che, soffocando la rivoluzione di Vienna, ha mirato soprattutto a fiaccare la supremazia del germanismo; missione degli slavi cui è destinato il primato nell'Austria. «Su via, slavi – conclude – compite la vostra bell'opera; non arrestatevi a mezzo cammino». Linguaggio e pensiero diametralmente opposti a quelli del «Giornale di Trieste» che, come nel primo capitolo vedemmo, attendeva invece dalla sconfitta di Jelačić e dal trionfo della democrazia tedesca a Vienna, l'indipendenza d'Italia.

E si noti che, appunto in quei giorni, lo slavismo faceva la sua brava manifestazione proprio a Trieste. Si costituisce e si insedia, nel cuore della città, nella casa dei commercianti, il Tergesteo, una Società slava. La sala in cui si tiene la seduta costitutiva è ornata dei tre colori slavi e di un ritratto equestre di Jelačić; presiede un poeta sloveno, il Vessel, che tiene in sloveno il discorso inaugurale; parlano poi, simbolo di solidarietà slava, serbi croati e polacchi. La nuova società lancia anche un manifesto nazionale e austropatriottico insieme, nel quale si ricordano i 60.000 slavi che, sui campi d'Italia, debellarono «la perfida congiura sostenuta da un re sleale» e vinsero poscia i «feroci proletari di Vienna». Il giornale ufficiale (siamo nel dicembre, l'Ungheria è in fiamme, il centralismo ha ancora bisogno degli slavi) pubblica una relazione entusiastica della seduta e, nei commenti, fissa, per conto suo, la topografia degli slavi nella Giulia, in modo da affermare il loro diritto all'esistenza nazionale e politica dovunque: «Le città – dice – sono italiane per lingua, monumenti e fasti storici, ma nelle città medesime havvi una parte di popolazione indigena di altra nazionalità alla quale appartiene tutta la popolazione della campagna del territorio di Trieste, dell'Istria e di quasi tutto il Goriziano».

Chi conosce l'ambiente attuale, immagina il putiferio che sorgerebbe oggi, se una società slava si piantasse al Tergesteo all'ombra del tricolore slavo e di Jelačić. Invece quei precursori del movimento sperano di trovare appoggio nella città, tanto vero che aprono le porte del loro sodalizio non soltanto agli slavi, ma anche «agli amici degli slavi». E la città non mostra di prendersela con loro. La «Gazzetta» e il «Giornale», i due organi estremi del liberalismo, tacciono. Il «Costituzionale» non attacca gli slavi ma il giornale ufficiale, avvocato prima del germanismo ed ora dello slavismo, e conclude affermando soltanto che «la nazionalità italiana a Trieste vince "coll'attrito" le altre calate nel suo seno».

Infatti l'interesse e la simpatia per la causa slava perdurano anche dopo la seduta del Tergesteo; l'articolo della «Gazzetta» sopracitato vien pubblicato otto giorni più tardi. La lingua e la cultura slovena (ambedue allora ai primissimi albori) seguitano a venire accettate senza restrizioni. Deve nascere la concezione, oggi prevalente, che ogni istituto scolastico sloveno o bilingue in città è un pericolo e un insulto per la nazione italiana. Nel programma della sperata Facoltà giuridica italiana, compilato dall'avv. De Rin, della commissione provvisoria municipale, vi è posto per una cattedra libera di procedura in lingua slovena.

Come si concilia questo riconoscimento dei diritti e dei destini dell'altra stirpe con la fede, allora diffusa, e non certo meno utopistica d'oggi, nel prossimo suo assorbimento? È una delle tante contraddizioni quarantottesche. Certo, la tolleranza emana dalla forza; e la ridestantesi coscienza italiana si sente allora fortissima di fronte agli slavi, poveri e dispersi.

In Istria, dove questa coscienza fra gli intellettuali è più antica e non aliena da qualche aspirazione unitaria, l'affermazione che l'avvenire appartiene esclusivamente agli italiani, appare più accentuata o soggetta a pure restrizioni verbali. «Noi vogliamo che ogni stirpe sia rispettata», dichiarano i quattro rappresentanti italiani dell'Istria alla costituente di Kremsier in una lettera agli elettori («Gazzetta di Trieste», 12 gennaio 1849). Ma proprio quella lettera è di protesta contro il rifiuto governativo di riconoscere l'italiano come lingua esclusiva d'ufficio nell'Istria. E qui ci imbattiamo in un altro ironico contrasto: chi rifiuta è la stessa persona che, nel 1846, si inalberava solo all'accenno della «futura Slavia»; è lo Stadion, divenuto ministro dell'interno, e giustifica il diniego affermando che gli slavi costituiscono la maggioranza della popolazione istriana. I deputati, dal canto loro, nella protesta affermano che – escluso il distretto di Castelnuovo – l'italiano è l'unica lingua scritta e letta in Istria e che tutti gli slavi, anche quelli che non la parlano, la comprendono. In un documento ufficiale non si può dire di più; ma il pensiero racchiuso in tali constatazioni ci è rivelato dalle parole di uno di quei deputati, comparse nell'«Osservatore triestino» di quattro mesi prima (9 agosto). Allora l'organo del governo poteva ancora accogliere frasi come queste: «Nessun istriano intelligente vuol segregare gli slavi che desiderano sempre più di diventare italiani». E poi: «Gli slavi dell'Istria si trovano nelle condizioni di quei forestieri che hanno fissato domicilio in città non loro: devono senz'altro fraternizzare di lingua con gli indigeni». Un altro istriano, che scrive nel «Costituzionale» (3 febbraio 1849), ricorda, a sostegno di questa tesi, il consenso di circa quaranta villaggi slavi alla domanda di esclusività dell'italiano in Istria; perfino nel distretto di Volosca, al di fuori dell'Istria storica, sarebbero state raccolte 3.000 adesioni alla richiesta dei deputati italiani.

Il che può essere anche vero. In realtà, il 1848 scuote più o meno i vari centri dello slavismo, ma non giunge a muovere durevolmente la periferia, le zone grigie.

A Trieste, l'affermazione nazionale slava sembra, più che altro, il contraccolpo della riscossa italiana, passeggiere ambedue. Della Società slava costituitasi al Tergesteo non mi è occorso di trovare altre traccie. Nelle elezioni quarantottesche lo slavismo scompare sotto il predominio intellettuale ed economico dell'italianità. L'Istria, meno il distretto tutto slavo di Castelnuovo, manda a Vienna soltanto rappresentanti italiani. A Francoforte, dopo il rifiuto del Kandler, italiano, la contea (prevalentemente slava) viene rappresentata da un consigliere di luogotenenza, tedesco; è sugli sloveni del contado di Trieste che più trionfano la corruzione o l'imbroglio a favore dell'austriacantismo germanofilo nelle elezioni amministrative.

Si capisce perciò che chi guarda dal di fuori non avverta neppure i germi del conflitto futuro. Infatti, una Società per l'alleanza italo-slava, costituitasi a Torino il 19 marzo 1849, nel suo manifesto a firma di Lorenzo Valerio, parla degli slavi e degli italiani che «vivono in pieno accordo nell'Istria e nella Dalmazia, e porgono esempio», ecc.

Questa società rappresenta il troppo tardo concretarsi di un movimento che si avverte in Italia fra la seconda metà del 1848 e la primavera del 1849; fra l'armistizio Salasco e Novara. Mira esso a riprendere la lotta contro l'Austria, gettando sul centralismo tedesco che ancora la personifica, le altre stirpi dell'impero. Il piano appare tardivo e fuori della realtà; ormai il centralismo assolutista tedescheggiante si è accaparrato gli slavi meridionali, lanciandoli contro i magiari: pochi giorni dopo la costituzione della società, verrà Novara.

A parte ciò, il pensiero centrale, quello dell'accordo fra gli italiani e gli slavi meridionali sull'Adriatico, contiene qualche cosa che oggi ancora non è morta e forse destinata a risorgere. Lo statuto della società italo-slava, si prefigge a scopo il «procurare l'amore fraterno ed attivo fra slavi ed italiani per l'indipendenza e la prosperità di ambedue queste nazioni» e rileva espressamente nel proclama che «da quattordici secoli non vi fu guerra tra noi», che «Ragusi, l'Atene dell'Illirio, fu già la nobile e gentile espressione della civiltà italo-slava», e che «il mare Adriatico, che voi chiamate azzurro, del quale noi, slavi ed italiani, siamo i soli padroni, perché noi principalmente ne facciamo uso, ci rappresenta lo sviluppo della nostra industria e del nostro commercio», ecc..

Ma quale assetto proporre alle terre adriatiche in cui slavi ed italiani si mescolano? Il proclama e lo statuto della società non rispondono a tale domanda. Abbiamo però un altro documento contemporaneo ed esplicito, del pensiero dominante tra i fautori dell'accordo italo-slavo. È un pensiero a sua volta in perfetto e flagrante contrasto con le speranze di assorbimento degli slavi nell'italianità. Ce lo rivela quello stesso osservatore competente e non sospetto che ci servì ad orizzontarci nella ricerca del sentimento unitario a Trieste nel 1848: Pacifico Valussi.

Nel suo «Precursore», stampato a Venezia proprio fra il novembre 1848 e il marzo 1849, il Valussi delinea ripetutamente la soluzione accarezzata da lui al problema della convivenza di italiani e slavi nella Giulia e lungo tutta la costa orientale adriatica. È una soluzione che, oggi, farebbe mettere il povero Valussi, senza diritto di appello, fra i traditori della patria.

Il Valussi – come, nello stesso periodo, Cavour – intravvede la debolezza etnica del magiarismo e la gracilità della sua politica di compressione nazionale; negli slavi del sud saluta invece una forza che sorge e che conviene amicare all'Italia contro la strapotenza russa e tedesca e contro il centralismo asburghese: terra di contatto e di transazione, la costa dalmatica e giuliana. «Fra la Slavia meridionale che sorge e l'Italia che torna di sé stanno questi paesi misti come un anello di congiunzione». Il Valussi affronta persino l'ipotesi molto discutibile che, in questa funzione di intermediari cui egli chiama espressamente «i dalmati, i fiumani, gli istriani, i triestini» («Precursore» n. 5, p. 67), l'italianità possa venir, a sua volta, assorbita dallo slavismo e non vi si mostra soverchiamente allarmato: «Il tempo deve decidere quale delle due civiltà, la più giovane o la più vecchia, possa guadagnar terreno sull'altra...» (id., n. 3, p. 39). «Forse fra qualche secolo la Dalmazia e gli altri paesi litoranei diverranno slavi affatto, ma il mezzo migliore di lasciare che gli slavi corrano spediti verso i loro luminosi destini è di lasciare un terreno neutro fra i due popoli come lo fecero la natura e la storia... Bisogna persuadere quei nostri fratelli a rimanere buoni amici dei croati e degli altri slavi. Che se, com'è naturale, croati essi non possono divenire, finché almeno l'opera lenta del tempo non abbia deciso l'intralciata questione delle nazionalità, rimangano volentieri fra italiani e slavi terreno promiscuo», ecc.

In sostanza, pare che il Valussi affidi la conservazione della stirpe italiana più allo spirito sedativo della tolleranza che a quello incitante e irritante dell'attrito nazionale. Troveremo subito in Carlo Cattaneo il teorizzatore di questo pensiero. Certo il Valussi pensa a una funzione permanente dell'italianità poiché alla Giulia ed anche alla Dalmazia addita l'esempio del Belgio che, «francese nelle città e fiammingo nelle campagne (?), è destinato a una certa neutralità tra Francia e Germania» (id., n. 11, pp. 165-166). Forse questa visione, troppo avveniristica nel 1849, è di quelle che il secolo XX vedrà risorgere e incarnarsi nel fatto.

Alla propaganda valussiana si associa il dalmata illustre che, come vedemmo, l'aveva preconizzata due anni prima della sua dedica a Trieste, «alla città abitata da stirpi diverse, anello di intelligenza fra più nazioni». Nell'aprile del 1849 il «Precursore» cede il posto alla «Fratellanza dei Popoli», diretta dallo stesso Tommaseo che nell'articolo programma promette di consacrare «il giornale e le deboli forze» all'alleanza italo-slava. Fra i promotori del periodico figura un A. Klum dell'«Istria slava».

Il liberalismo giuliano non si impunta contro questi piani per i quali gli italiani della Giulia avrebbero dovuto dividere il predominio con l'altra stirpe, in attesa magari di cederglielo. Gli articoli succitati a proposito dell'episodio Stadion-Cantù son proprio quelli in cui il Valussi svolge ciò che oggi, in moderno austriaco, si chiamerebbe il programma di utraquizzazione della Giulia. Il Solitro, riportandolo nel suo «Giornale» (n. 36), lo chiama scritto bellissimo sugli slavi e aggiunge: «Sia a te, Valussi mio, questa comunicazione d'affetti, pensiero, ricordanza e saluto degli amici tuoi tutti quanti».

Vediamo dunque che incertezza e contraddizione – due merci tipiche quarantottesche – dominano anche il giudizio degli italiani sullo slavismo meridionale. Nella Giulia lo guardan tutt'altro che astiosi, benché sperino di assorbire gli slavi della regione, Torino lo invoca alleato contro il centralismo austriaco e, ricercando un'attuazione pratica di tale pensiero, Nicolò Tommaseo e Pacifico Valussi – cioè due intellettualità che si possono chiamare regionali – non esitano a proclamare vantaggiosa all'Italia la pacifica commistione con gli slavi lungo l'intera costa orientale adriatica; il che, in altre parole, significa l'abdicazione degli italiani alla supremazia nazionale e politica nella Giulia.

L'era Bach (1849-1859) viene a seppellire tutta questa tumultuarietà di idee. Il centralismo, che era riuscito a superare la bufera rivoluzionaria suscitando le nazionalità più deboli contro le più forti, tornato padrone, torna alla politica germanizzante o tedesca. Le Norme organiche, che annunziano il ritiro definitivo della costituzione nata morta del marzo 1849, mancano di ogni formula sul diritto delle nazioni a svilupparsi nazionalmente. Ma comprimendolo, il problema non si sopprime. Quando nel 1860 le nazioni fanno risentire la loro voce, lo vediamo riaffacciarsi, acuito quasi dovunque.

Nella Giulia la situazione, almeno esteriore, non appare essenzialmente mutata: lo slavismo, come forza e tendenza politico-nazionale, è ancora agli esordi. La dieta istriana conta, alla sua prima convocazione (aprile 1861) due soli deputati slavi contro ventotto italiani. Il suffragio è diviso per curie e congegnato in modo da far preponderare la grande proprietà e l'elemento cittadino sopra il contadinesco; tuttavia, nella curia delle campagne, sono tenuissimi i limiti di censo, in modo che predominano fra gli elettori i contadini slavi passati dal colonato alla piccola proprietà. Eppure, intieri distretti rurali slavi, le cittadine croate della Liburnia, mandano e manderanno per circa un ventennio alla dieta deputati italiani o almeno aulici amorfi; segno che l'influenza politica ed economica di una stirpe sull'altra non è ancora salda e diffusa.

Alla dieta istriana, oltre i 30 deputati eletti, sedevano (e siedono ancora) altri tre cosidetti «membri virili», cioè i tre vescovi di Trieste-Capodistria, Pola-Parenzo e Veglia. Costoro, nel 1861, sono tutti slavi; fra loro vi è quel mons. Dobrila, che, ispirandosi all'esempio dello Strossmayer, fu il primo propagandista dell'idea nazionale slava nell'Istria. Un altro vescovo – il Vitezich – afferma subito alla Dieta la prevalenza numerica degli slavi istriani; dei due unici deputati slavi eletti, uno è canonico. L'esordio del movimento slavo è dunque di spiccata impronta chiesastica, come quasi esclusivamente religiosa era stata nel passato la vita intellettuale dello slavismo giuliano.

Fra gli italiani della dieta istriana, la vecchia anima bonaria combatte con la nuova intollerante: è ancora un deputato italiano a proporre che i verbali delle sedute vengano tradotti in slavo, poiché parecchi comuni sono «inscî» della lingua italiana; la dieta però con tre soli voti contrari dichiara lingua esclusiva dell'assemblea la italiana; voto replicato altre volte ma non sanzionato mai dallo Stato. Resta così aperta, ed è tuttora, la questione linguistica dietale. Anche nel consiglio-dieta triestino, lo slavismo appare dapprima in veste assai dimessa. Discutendosi, nel 1861, il progetto di legge sulla lingua delle scuole e avendo un consigliere liberale proposto che lo sloveno dovesse essere lingua esclusiva d'insegnamento nel territorio, come l'italiano nella città e suburbio, sono i rappresentanti del territorio a pronunciarsi in favore dell'istruzione promiscua sloveno-italiana e a far premettere l'avverbio «preponderantemente» alla designazione di slava data alla nazionalità del territorio. Vero è che i rappresentanti territoriali erano allora quasi tutti cittadini e italiani: passeranno parecchi anni prima che l'intera rappresentanza del territorio venga assunta da slavi.

La vita costituzionale, agitando più vasti strati collettivi, allarga di per sé la superficie d'attrito. A Trieste i rapporti italo-slavi peggiorano specie durante la fase d'anticlericalismo statale. Il movimento nazionale slavo, sotto l'influsso prevalente del clero cattolico, approfitta del breve Kulturkampf che si combatte nello Stato e fa insieme propaganda religiosa e nazionale contro il liberalismo e contro l'italianità spodestatrice del pontefice. Quando infatti (luglio 1868) la luogotenenza, diretta ancora da un funzionario dell'era assolutistica, suscita, con un'interpretazione restrittiva delle nuove leggi confessionali, la reazione del liberalismo , la guardia civica, composta da territoriali sloveni, aizzata da circoli polizieschi, inasprisce invece di sedare i tumulti, e un giovane cittadino, italiano, vi lascia la vita. Donde un seminio di rancori che perdura anche dopo sciolta la guardia territoriale e allontanato il luogotenente frondista. Con quell'episodio l'era patriarcale nei rapporti fra italiani e sloveni a Trieste si può dire chiusa. Due mesi dopo i fatti del luglio, i dirigenti il movimento nazionale slavo – non più soltanto ecclesiastici, ma avvocati e proprietari – convocano a Schönpass presso Gorizia un tabor (comizio all'aria aperta) nel quale si chiede la fondazione della «Slovenia», cioè l'unione amministrativa di tutti gli sloveni, divisi fra Carniola, Stiria, Carinzia e Litorale, l'immediata istituzione di scuole slovene nella futura provincia unitaria, di un'accademia giuridica a Lubiana, ecc. «Troveremmo giustissimi questi desideri – così commenta il «Cittadino» – qualora gli sloveni volessero starsene entro i loro naturali confini geografici».

Quali sono codesti confini naturali e geografici? L'organo del partito nazionale italiano non avrebbe certo saputo fissarli e oggi anche più di allora, sarebbe opera disperata anche il solo cercare una linea divisoria fra l'indigenato italiano e lo slavo nella Giulia. Pure, il nazionalismo italiano tenta, almeno nella sua fraseologia, di rifugiarsi dietro questa utopistica linea allorché, negli ultimi decenni del secolo scorso, gli va sorgendo contro l'ostacolo nuovo e inatteso: lo slavo che si sente slavo, che si ostina a rimaner slavo; ed è il contadino bonario di ieri e spunta dappertutto, a Trieste come a Pola, a Gorizia come nelle campagne istriane credute ormai italianificate, e si moltiplica con ritmo accelerato che ha del prodigioso. Tutto questo (lo vedremo meglio in seguito) deve produrre sugli italiani della Giulia, molteplici e profonde reazioni. I primi urtati sono i ceti intellettuali, appena vittoriosi dei conati germanizzanti o cosmopolitici, e, specialmente, fra essi i gruppi a sentimento nazionale sboccante in quello unitario. Il risveglio slavo li esaspera; vedon svanire via via il sogno che fu forse di Cavour: la Giulia, tornata latina, riunita all'Italia nel nome del puro principio di nazionalità. Ed è eternamente vero che alla collera «piace più di attribuire i mali a una perversità umana, che di riconoscerli da una causa contro la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi».

La visione nazionalista del risveglio slavo è visione collerica, cioè singolarmente unilaterale: lo riconduce precipuamente a opera d'uomini, artifizio governativo, agitazione di mestatori, ecc., e ne dissimula o sottovaluta le cause centrali.

Dove risiedono? Anche chi non è portato a dare soverchio rilievo al fattore economico, non potrà, credo, contestare che il fenomeno dei risvegli slavi sia, almen nel suo meccanismo fondamentale, un portato dell'evoluzione capitalistica. La storia dei risvegli slavi, anche sintetica, farebbe un capitolo a sé. Dico "risvegli" perché son vari nel tempo, nell'ambiente, nei precedenti storici. Il più importante, per le ripercussioni su Trieste, è il risveglio sloveno.

Gli sloveni, ceppo slavo antichissimo, comparso o riconosciuto intorno al 600 d.C. nelle regioni alpino-adriatiche, per oltre un millennio non ha, si può dire, storia nazionale: pastori e contadini, spinti alla guerra e alla conquista per conto e al comando altrui; cacciati avanti dagli àvari, poi per breve tempo emancipatisi (ma per opera e a vantaggio di uno straniero, un franco, Samos), passan dalla soggezione avarica alla longobarda, alla bavara, per giacere definitivamente sotto la feudalità di Carlo Magno. Non hanno o non esprimono dal loro seno, aristocrazia guerriera; nobiltà conquistatrice slovena è ignota alla storia che invece ricorda i ceti aristocratici serbi e croati, fondatori di regni nazionali. Altro fattore depressivo è il soverchio territorio inizialmente occupato: gli sloveni toccano il Danubio al nord, i Tauri a occidente, ma non resistono ai due margini, di fronte a tedeschi, a magiari e a latini, e indietreggiano e scompaiono dalle due Austrie, dall'alta Stiria e dal Tirolo come dalle pianure friulane e venete. Durano invece, tenacemente attaccati alla zolla, in tutta la Carniola, nella bassa Stiria e Carinzia, nella Giulia settentrionale; povero popolo, «volgo disperso»; senz'altra vita intellettuale che la religiosa. La filologia ritrovò in un chiostro della Baviera le prime scritture chiesastiche slovene, che risalgono presumibilmente al 900 d.C.: poi, buio sino alla Riforma. Primo Trubar, traduce la Bibbia in vindico, pochi anni dopo che Lutero l'aveva tradotta nel suo sassone. La nazione slovena potrebbe nascere allora, come nasce, dall'unità linguistica, la tedesca; senonché la controriforma cattolica disperde col ferro e col fuoco l'eresia in tutti i domini asburghesi; un vescovo di Lubiana, che Trieste ancora bizzarramente ricorda fra i nomi delle sue vie, condanna alle fiamme centinaia di scritti eretici; e son scritti sloveni. Feudalismo tedesco e cattolicismo romano tengono soffocato ogni germe di vita nazionale più a lungo che altrove; gli sloveni senton poco o punto la politica antifeudale del secolo XVIII, che riavvicina lo Stato alla massa dei sudditi e lo costringe a comprenderli e a farsi comprendere da loro.

Ci vuole la conquista napoleonica e la sua tendenza a suscitare le nazioni oppresse e depresse contro il centralismo tedesco, perché Lubiana abbia la prima scuola media slovena; ma con la restaurazione scompare; scuole, coltura, funzionarismo tornan tedeschi. «Gli slavi in Austria sono nel fango; ciò che fra loro riesce di meglio, diventa tedesco»: sono parole che il Valussi attribuisce a Metternich; certo rispondono a tutta la politica dell'Austria, che sin quasi alla fine del secolo XIX è fondamentalmente antislava. Anche se talvolta pare che non sia, ha il suo veleno nascosto: così lo Stato incomincia a guardare più benigno lo sviluppo linguistico sloveno che, col rinforzarsi dei medi e piccoli ceti, coll'elevazione della gleba, ecc. si prepara a rompere la crosta straniera, quando esso può servirgli a tagliare fuori gli sloveni dall'«illirismo», movimento capitanato da Lodovico Gaj, che si accentua intorno al 1840 e aspira ad unire col vincolo di una comune lingua scritta e di un pensiero politico, gli slavi del sud (jugoslavi), cioè sloveni, croati, serbi: fascio troppo grosso epperò sospetto al centralismo austriaco. Infatti, il movimento che unisce, almen nella lingua scritta (salvo l'alfabeto) serbi e croati, non riesce ad attrarre gli sloveni; soltanto la riforma ortografica semplificatrice del Gaj viene adottata anche dagli sloveni per opera precipua del Bleiweis, il padrino di questo secondo e definitivo rinascimento della nazione e della lingua; la sua rivista «Novice», fondata nel 1842, diviene il crogiuolo donde esce via via, purificata dagli influssi stranieri e dagli idiotismi dialettologici la lingua letteraria, scientifica, giornalistica, ecc.; il che, se da un lato paralizza o inceppa la fusione politica dello slavismo meridionale, giova immediatamente d'altro canto a diffondere la coltura e la coscienza nazionale e agguerisce la nazione a reagire contro l'assorbimento tedesco e italiano.

Infatti, agli esordi del 1848, Lubiana è ancora rappresentata a Francoforte da un poeta e principe tedesco, l'Auersperg (Anastasio Grün); ma men di un anno dopo, a Kremsier, lo sloveno Kaucich lotta accanto a Palacký per il federalismo nazionale.

Questo movimento intellettuale d'élite al centro, non basterebbe, da solo, a scuotere la massa slava agricola giuliana. Occorre un rivolgimento più vasto e profondo; uragano di morte dapprima, ma che ha in sé i germi della vita nuova. L'ascesa vertiginosa di Trieste, commerciante, precede il risveglio industriale dei centri slavi e strappa a furia contadini dalla gleba slava, li attrae nell'emporium Carsiae et Carniolae, li trasforma in operai, in artigiani, in futuri mercanti e proprietari. Il fenomeno, essenzialmente capitalistico, dell'affollamento urbano, l'urbanismo, incomincia ad agire sugli sloveni proprio a Trieste ed è dapprima infausto alla nazione; è l'epoca (1800-1850) dell'assimilazione spontanea, epperò irresistibile, Trieste ingoia a migliaia sloveni del suo contado, del resto della Giulia, della Carniola, a centinaia, croati istriani, dalmati, balcanici, e li assimila quasi tutti; lo stesso avviene, in miniatura, nei minori centri della regione.

Ecco dunque il fattore iniziale e centrale della cosidetta invasione slava, essere la trasformazione progressiva dello slavismo giuliano e finitimo da agrario in agrario-industriale. Ciò vale specialmente per gli sloveni che entrano più rapidamente dei croati nel vortice della civiltà capitalistica e ne subiscono e ne ripercuotono gli influssi: nel 1900, su 1.000 abitanti, gli sloveni ne davano ancora 754 all'agricoltura; meno dei serbocroati dell'Austria (896), ma assai più degli italiani (501). Tuttavia, la percentuale dei contadini in Carniola (decennio 1890-1900) era aumentata soltanto del 0,36 per cento e a Trieste addirittura diminuita del 36,4 per cento. E si noti che la Carniola campagnola è tutta slovena e che l'indice agricolo a Trieste si riferisce pressoché soltanto a sloveni, esclusivi coltivatori del piccolo agro triestino. Anche nelle provincie in cui l'agricoltore sloveno convive con quelli di altre nazioni (Gorizia-Gradisca, Stiria, Carinzia) la classe agricola si assottiglia (diminuita del 0,65 per cento in Carinzia, del 0,66 per cento nel Goriziano e del 3,4 e del 6 per cento nelle zone più slovene della Stiria). Invece gli addetti all'industria aumentano dovunque nei succitati luoghi e specialmente nella Carniola, compattamente slovena (10 per cento), nel Goriziano, in maggioranza sloveno (8,26 per cento), ecc.

Anche più progressivi e suggestivi alcuni indici economici: risulta addirittura colossale l'aumento dei capitali «propri» (patrimonio) delle casse di risparmio e dei consorzi di credito nella Carniola fra il 1880 e il 1902: da cor. 38.450 a cor. 2.318.100, mentre la Boemia, partendo da una cifra enormemente più alta (22 milioni), giunse soltanto a 58 milioni e l'Austria, complessivamente, da 53 milioni arrivò a 186. Anche più stupefacente è la cifra comparata dei capitali «altrui», cioè, in altre parole, lo sviluppo del credito. Nel 1880 l'organismo in Carniola è neonato, la cifra addirittura irrisoria: cor. 32.480; nel 1902, in meno di un quarto di secolo, gli istituti di credito maneggiano una somma complessiva di 44 milioni. Il movimento d'affari è rappresentato da una cifra ben 1.364 volte maggiore, mentre per la Boemia l'aumento è del 3½ per cento e per l'Austria in generale del 5 per cento. Fra il 1902 e il 1905, la cifra dei depositi nelle casse di risparmio aumentò in Carniola del 16 per cento (pari a cor. 14,8 per abitante), in Boemia del 13 per cento (pari a cor. 10,3 per abitante).

A questa evoluzione economica s'intreccia naturalmente anche un progresso intellettuale. L'alfabeto si diffonde fra gli sloveni con un ritmo che molte nazioni, non esclusa l'italiana, possono invidiare. Già nelle statistiche del 1900, ormai invecchiate, la Carniola, slovena (agricola e senza grandi e neppur medi centri urbani), ci presentava una percentuale di analfabeti inferiore alla Giulia (34,25 e 40,9 per cento sulla popolazione complessiva, 21,71 e 31,03 per cento sui censiti sopra i 6 anni); Lubiana aveva molto meno analfabeti di Trieste (8,73 e 14,30 per cento sui superiori ai 6 anni). Invece l'analfabetismo, diciamolo, nazionale, cioè la percentuale di analfabeti fra i dichiaratisi come parlanti sloveno era (e sarà probabilmente ancora nel 1910) superiore che fra i dichiaratisi italiani (35,8 e 28,2 risp. 31,4 e 19,6 fra i superiori ai 6 anni): mediocre conforto, perché la media generale italiana risulta abbassata dalle cifre esigue dell'analfabetismo complessivo trentino (19,7 per cento), fra le migliori dell'Austria, insieme a quelle dei cechi (19,0) e dei tedeschi (19,5), mentre, a impinguare la media slovena, concorre precipuamente l'analfabetismo dei dichiaratisi sloveni a Trieste (35,7) e nell'Istria (66,2), di due paesi cioè dove la scuola pubblica primaria è amministrata quasi esclusivamente da italiani. E l'Istria (1909) dà, dopo la Galizia, la cifra più alta di fanciulli atti alla scuola che non la frequentano (5057), cifra che, combinata con quella dell'analfabetismo croato istriano (74,1 per cento), ci dice che non sono infondati i lamenti slavi sulla parsimonia eccessiva con cui la coltura primaria venne loro fin qui somministrata.

È poi notevolissima la partecipazione degli sloveni, come stirpe rurale, alla scuola classica (benché ancor prevalentemente straniera) e quindi alle professioni più intellettuali: 2,40 per mille sulla media generale di 3.54; 292 allievi sloveni contro 276 tedeschi al ginnasio tedesco della città, proclamantesi tedesca di Marburg (Stiria), 199 sloveni contro 344 fra italiani e tedeschi al ginnasio statale di Trieste e 342 sloveni contro 349 a quello di Gorizia. Inoltre: il triplicarsi dei periodici in un quinquennio (89, fra giornali e riviste alla fine del 1910 contro 32 serbocroati e 130 italiani), l'intensa partecipazione alla propaganda di coltura, ecc.

Spesseggiano, insomma, gli indici di un rapido inoltro della stirpe nel vortice della società capitalistica. Uno solo manca o accenna ora appena a manifestarsi: l'indice numerico. All'urbanismo di Trieste, di Gorizia, di Klagenfurt, in parte anche di Graz, i contadini sloveni danno contingenti cospicui, e si sa che l'urbanesimo è dovunque il massimo fattore degli accrescimenti demografici; l'emigrazione transoceanica permanente, fra gli sloveni, è scarsa e ristretta a poche zone; gli indici dell'aumento vegetativo sono tutt'altro che sfavorevoli. Eppure gli sloveni, dentro e fuori della loro provincia compatta (Carniola), avevano, sino a ieri, l'aria di moribondi. Infausti tutti gli indici, assoluti e relativi, di accrescimento, in diminuzione percentuale, fra il 1890 e il 1900, persino a Trieste.

In questo contrasto vi è dell'artificioso e dello spontaneo. Certo, come accennai più sopra, nel primo periodo del risveglio dei centri il processo assimilatorio si intensifica proprio alla periferia meridionale. Trieste assorbe e assimila più che mai forze rurali slovene per le nuove esigenze dei traffici: l'attrazione della città sulla campagna aumenta anche nei centri minori della regione e la campagna ha ancora scarse reazioni nazionali. Ma il fenomeno porta in sé le ragioni del suo contrario; l'ambiente stesso, irrigidendosi, stimola le resistenze; così a Trieste non si riconosce più un indigenato slavo, proprio nel momento in cui questo indigenato, da potenziale, diventa effettivo; e la coscienza nazionale – ha detto un grande pensatore italiano – è come l'io degli ideologi, che si accorge di sé nell'urto contro il non io .

L'urto, nella Giulia, fu tanto più violento, in quanto dei fattori lungamente elaborantisi per entro il sottosuolo del conflitto vennero, nel momento critico, ad esasperarlo. Questi fattori si avvertono meglio nell'Istria agricola che a Trieste trafficante. A Trieste l'assimilazione di slavi è via via inceppata più che altro dalla massa degli assimilandi, donde sorge ormai immediatamente la borghesia slovena, conduttrice e presidiatrice del movimento. Nelle campagne invece, l'opera dei primi propagandisti dell'idea nazionale slava sarebbe stata assai più ardua, di fronte a plebi rurali ibride e disperse, se la natura dei rapporti economici fra le due stirpi non l'avesse singolarmente favorita. Il risveglio slavo in Istria sta in connessione diretta con la crisi della piccola proprietà rurale, incalzante senza freni, specie nella prima metà del secolo scorso. Anche in Istria il contadino slavo, assurto faticosamente e lentamente dal colonato alla piccola proprietà, causa l'agricoltura arretrata e la mancanza di ogni provvedimento per sollevarla, andò via via oberandosi di ipoteche: suo creditore, troppo spesso usuratizio, il signore italiano, della città o della borgata; molta, troppa parte della ricchezza capitalistica istriana è stata creata così. In mano di questi capitalisti stava pure – e in parte sta ancora – il potere politico, il maneggio del partito nazionale italiano. Quello che doveva accadere, accadde: il propagandista slavo (prete, maestro, avvocato) si presentò in veste di redentore economico, spesso – specie in periodi elettorali – coi sonagli del demagogo, ma insieme – per le sue origini proletarie – sufficientemente libero da vincoli con la plutocrazia terriera, così da poter svolgere, a tempo, un'azione diretta a liberare il contadino dal giogo del creditore italiano. Non a caso, l'organizzazione slava del credito agricolo nelle campagne istriane precede di circa un ventennio l'italiana, costretta a superare molte riluttanze di interessi offesi. Oggi, grazie all'aiuto del credito, il contadino slavo dell'Istria non solo si emancipa dalla dipendenza economica e politica del signore italiano, ma spesso riesce a liberare la sua proprietà, ad allargarla, ad assurgere nella scala dei beati possidenti. Persino la grande proprietà del suolo, sino a ieri monopolio degli italiani, comincia a passare nelle mani di consorzi o di banche slave che per lo più la frazionano tra connazionali. Chi vende è spesso un buon nazionalista italiano, trascinato dalla ferrea legge del tornaconto; né bisogna credere che chi compra lo faccia per puro spirito di propaganda nazionale: l'organismo del credito agrario slavo è alimentato sopra tutto dalla meravigliosa attitudine al risparmio che specialmente gli sloveni (paragonabili ai contadini italiani) vanno sviluppando. Vi è anzi chi dice che tanta virtù di astinenza non sia sempre sfruttata a vantaggio della nazione e che troppo largamente ricompaia a favore della banca o della cassa – sia pure a tasso minore – l'ipoteca, prima iscritta a favor dell'usuraio, deprimendosi così le energie produttive invece di stimolarle, favorendo un urbanismo eccessivo e l'emigrazione transoceanica la quale, dal canto suo, prevalentemente temporanea com'è, reintegra ciò che l'abuso del credito può aver danneggiato.

Comunque, le tare eventuali del nuovo non son paragonabili alle gravezze esose del vecchio. Certo è che il contadino slavo si è risvegliato, specie in Istria, sotto lo stimolo dell'oppressione economica e perciò la sua fu spesso riscossa violenta, persino con conati di jacquerie nazionale.

In tutta la Giulia, e anche altrove, l'assimilazione spontanea di massa incomincia a far cilecca nella seconda metà del secolo scorso, e allora, forse non a caso, il primo dei censimenti periodici decennali (1880) accoglie una rubrica che dovrebbe fissare la forza numerica delle nazioni dell'Austria. Dico "dovrebbe", perché la domanda è formulata, e più interpretata, insidiosamente.

L'Austria non chiede, come l'Ungheria, la Prussia, la Svizzera, la «lingua materna», presa come indice o presunzione di nazionalità, né, come il Belgio, mira a sondare il bilinguismo dei cittadini, chiedendo loro se parlino una o tutte due le «lingue nazionali» (francese o fiammingo); neppure segue il criterio adottato negli ultimi censimenti dall'Italia, Francia, Inghilterra, Spagna, Baden, ecc., che omettono ogni ricerca linguistica e chiedono direttamente la cittadinanza o la nazionalità.

Unica anche in questo, l'Austria seguita a domandare ogni dieci anni ai suoi cittadini quale sia la loro «lingua di comunicazione o lingua d'uso» (Umgangsprache). «Lingua d'uso» – commenta la scienza statistica – non equivale né vuole equivalere a nazionalità e nemmeno a lingua materna, ma accerta soltanto la lingua che ciascheduno usa abitualmente. Ma «abitualmente» dove? La lingua d'uso, senza essere mai un indice nazionale sicuro, potrebbe pur darci un quadro almeno approssimativo delle azioni e reazioni reciproche fra le singole nazionalità, qualora venisse interpretata con la scorta del senso comune. E il senso comune ci dice che chi usa una lingua può appartenere o almeno accostarsi progressivamente alla nazione rispettiva, quando usi questa lingua al di fuori d'ogni coazione diretta o consaputa, sotto l'influsso imponderabile dell'ambiente: la famiglia, le amicizie, le relazioni volontarie in genere; ecco la cerchia entro la quale dovrebbe cercarsi il criterio statistico della lingua d'uso; e infatti i teorici, e fra essi lo stesso ex presidente della i.r. commissione centrale di statistica, ci dicono che «lingua d'uso» deve logicamente interpretarsi come «lingua abituale in famiglia».

Le interpretazioni ufficiali e ufficiose sono invece tutte più equivoche. «È la lingua di cui ognuno si serve nell'uso abituale», ripete l'ultima ordinanza ministeriale preparatoria del censimento; «la lingua che corrisponde al bisogno linguistico attuale», chiosa, ancor più oscuramente, un altro commento governativo. Un italiano a Vienna avrà il bisogno prevalente di parlar tedesco nell'officina, nell'impiego, ecc.: quindi, interpretata così, la sua «lingua d'uso» sarà la tedesca: ebbene, quell'italiano (ecco il veleno dell'argomento) figurerà nelle statistiche nazionali fra i tedeschi! In altre parole: sopra un indice anagrafico che non presume, anzi neppur ricerca la coscienza e l'individualità nazionali, si erigono poi e si oppongono, a fondamento dei diritti propri e a denegazione degli altrui, le statistiche delle nazioni.

La Umgangsprache, o meglio la sua barbina interpretazione, rappresenta un espediente dei tedeschi dell'Austria, escogitato nei giorni in cui erano ancora i monopolizzatori dello Stato. Grazie ad essa poterono credere o far credere di continuare a ingoiare assai più slavi di quanti in realtà cadessero o cadano nel processo assimilatorio germanificante. L'equivoco venne conservato scrupolosamente nella teoria e nella pratica dell'ultimo censimento, nonostante un voto della camera invitante il governo a ricercare, oltre alla lingua d'uso, anche la nazionalità. Nella Giulia, si capisce, la lingua d'uso ha servito largamente, e serve in parte ancora, a dare agli italiani l'illusione di una forza che poi altri indici, ben più concludenti, s'incaricano di sfatare. L'operaio slavo che parla italiano nella fabbrica o nel magazzino resta, o può restare, slavo di individualità e di coscienza; così la domestica usante l'italiano nella famiglia italiana. Ma i gruppi combattenti la lotta nazionale (e l'oscurità delle interpretazioni governative può, sino ad un certo punto, giustificarli) seguitano a catalogare egualmente quelli slavi nelle cifre che poi serviranno a documentare la forza dell'italianità.

Insomma, il censimento diventa un'arma di lotta politica offerta dallo Stato alle competizioni nazionali, arma che ognuno brandisce e maneggia, senza badar troppo alla correttezza dei colpi. La «lingua d'uso» è il canovaccio sul quale si ricamano i più svariati falsi e trucchi della statistica: dalla pressione esercitata sui dipendenti, sulle donne, ecc., perché dichiarino la «lingua d'uso» desiderata dagli incaricati del censimento o dal padron di casa, estensore delle liste, sino al gioco... di prestigio perpetrato sui formulari. E in tutto ciò nessuna stirpe potrebbe scagliar sull'altra la prima pietra: «Iliacos intra muros peccatur et extra» dice, serenamente, Giovanni Marinelli, ragionando del censimento austriaco del 1880. Naturalmente le stirpi avvezze a lunga assimilazione e inceppate dall'arresto di essa (tedeschi, italiani, polacchi) possono giovarsi del trucco statistico assai più delle altre (cechi, sloveni, ruteni, ecc.). Ciò non toglie che ognuno, dove può, s'ingegni. I censimenti sono di esecuzione comunale ed è quindi nelle amministrazioni autonome che si esercitano i manipolatori delle statistiche: gli usanti la lingua italiana in Dalmazia scendono in un quarantennio da 60.000 a 15.000 via via che i comuni dalmati vengono in mano di amministrazioni croate. Ma la realtà si vendica e affoga nel ridicolo il trucco o il falso del censimento: a Trieste, tre distretti, che nel 1900 avevano censito 2.700 usanti lo sloveno, danno, nel 1908, 1.820 elettori (cioè maschi oltre i 24 anni) per i candidati del nazionalismo slavo! Nelle elezioni politiche del 1910, il solo nazionalismo sloveno raccoglie, nella città-provincia, circa 11.000 voti, mentre il numero complessivo dei parlanti sloveno (cioè degli sloveni!) sarebbe stato, nel 1900, di 24.000! Ciò spiega abbastanza il lato artificioso della tesi statistica per la quale, sino al penultimo censimento, gli sloveni sembrano indietreggiare, oltreché nella Giulia, anche nella Stiria e Carinzia (amministrazioni comunali tedesche); la stessa cosa avviene, per le stesse cause, coi serbocroati dell'Istria.

Invece, i primi risultati dell'ultimo censimento (1910) ci avvertono che assimilazione effettiva e trucco statistico a favore degli italiani vanno arrestandosi. Anche dal quadro, tutt'altro che puro, dei rilievi comunali italiani, gli slavi della Giulia appaiono in crescita, gli italiani in regresso percentuale; crescita particolarmente notevole quella degli sloveni a Trieste (da 24.000 a 37.000).

Non si tratta (lo abbiam visto abbastanza) di un fenomeno di moltiplicazione improvvisa: sono la cresciuta resistenza all'assimilazione e il risveglio dall'assopimento che giungono a ripercuotersi anche sulle statistiche nazionali. E il salariato slavo che reagisce contro il principale italiano aspirante a catalogarlo fra coloro che «usan la lingua italiana» (e di là poi fra gli italiani) soltanto perché, nei rapporti di servizio, quel salariato parla o storpia l'italiano; sono la pressione o il falso, nelle loro varie forme, che si possono perpetrate sempre meno largamente o addirittura incominciano a venir neutralizzati dal controattacco altrui. Così, durante le operazioni dell'ultimo censimento triestino (dicembre 1910) si sono visti da una parte gli organi comunali forzar largamente la mano, coi soliti sistemi, all'assimilazione... spontanea, dall'altra gli slavi reagire clamorosamente e, qua e là, tentare di rendere pan per focaccia, appioppando la «lingua d'uso» slovena a qualche italiano autentico, ignaro della medesima. Se i due trucchi paralleli avessero potuto svolgersi con la stessa intensità, ci avrebbero dato, neutralizzandosi a vicenda, un'immagine nazionale quasi esatta della Trieste d'oggi; invece, si capisce, il falso italiano, sorretto da tutti gli aiuti ufficiali, supera ancora di gran lunga lo sporadico falso slavo; le statistiche nazionali triestine, nonostante gli accrescimenti slavi, sarebbero dunque rimaste assai problematiche, se non avessero avuto un epilogo abbastanza conclusivo per la nostra ricerca: le inesattezze, spesso troppo... ingenue, dei funzionari comunali hanno favorito l'intervento diretto dell'autorità governativa, la quale, a Trieste e a Gorizia, ha operato, con organi suoi, una revisione del censimento. E qui la «lingua d'uso» pare abbia avuto una interpretazione più vicina alla logica, benché diversa da quella usata o tollerata altrove: si sarebbe, cioè, badato di più all'elemento individuale e volontario nella scelta della lingua d'uso, e meno a quello delle coazioni esteriori: operai e domestiche sloveni, passati in gran copia fra gli italiani nel primo censimento, perché usanti le lingue dei padroni, sono ritornati slavi.

L'interpretazione (non la revisione, ordinata a Bolzano per gli italiani) se è un favore usato dal governo agli slavi, ci permette però di credere a qualche cifra di statistica nazionale, almeno per Trieste e per Gorizia. Sarebbero dunque in cifra tonda 60.000 contro circa 140.000 italiani definitivi, indigeni, gli sloveni a Trieste; 9.800 (anziché 6.600) a Gorizia contro 14.000 italiani e 2.500 tedeschi. Per Trieste la cifra viene, all'ingrosso, confermata da un indice, certo più concludente della lingua d'uso, per sondare la coscienza nazionale di una collettività: la cifra dei voti dati da sloveni nelle ultime elezioni a suffragio universale. La popolazione elettorale rappresenta a Trieste circa il quintuplo della totale indigena (oltre 40.000 elettori iscritti su oltre 200.000 indigeni); certo più di 12.000 slavi furono tra i votanti (11.000, lo accennai già, i soli voti dei nazionali slavi); moltiplicando soltanto i 12.000 per cinque, si giunge proprio ai 60.000. Questa cifra non rappresenta tuttavia un dato definitivo, suscettibile cioè soltanto delle fluttuazioni demografiche normali: se così fosse, la lotta nazionale si esaurirebbe da sé. Gli sloveni attuali di Trieste, gli slavi della Giulia in generale sono esposti ancora all'assimilazione; tanto che il loro accrescimento progressivo sarebbe assai problematico, se l'attrazione urbana, centuplicata negli ultimi decenni, non venisse a colmare le perdite del processo assimilatorio e soprattutto ad accrescere le resistenze contro di esso. Ed ecco i ceti italiani combattenti la lotta nazionale, tratti a tentar di mettere gli assimilandi in condizioni da subire, anche di contraggenio, la pressione della maggioranza, forzando il processo assimilatorio dove, abbandonato a se stesso, potrebbe, a loro avviso, arrestarsi. Questa funzione è, a torto o a ragione, attribuita in prima linea alla scuola e la lotta per la scuola costituisce nel conflitto l'episodio normale, e certo men fatuo di quello del censimento.

La scuola italiana aspira a sostituirsi all'assimilazione spontanea, la slava a reagire contro tale sostituzione. La lotta si combatte particolarmente nel campo dell'istruzione elementare che incombe ai comuni, ma è pagata in massima parte dalla provincia. E qui gl'italiani, padroni dell'amministrazione comunale-provinciale di Trieste, maggioranza in quella dell'Istria, riescono ancora a limitare la scuola slava secondo i loro criteri, ovvero a contrapporvi la propria.

Il primo caso si verifica specialmente a Trieste dove, nonché offrire, come un tempo, cattedre giuridiche agli slavi, si proclama, quasi dogmaticamente, che anche una scoletta elementare slovena in città sarebbe un insulto alla nazione predominante.

La negazione italiana può bensì farsi forte di certa bizzarra interpretazione di un paragrafo della legge scolastica generale dello Stato e che reca anch'essa, come la Umgangsprache dei censimenti, l'impronta dello sforzo assimilatorio tedesco; inoltre, nella polemica ufficiale, si può sostenere che, mediante le scuole slovene o bilingui del territorio e del suburbio, è provvisto a sufficienza ai bisogni didattici degli slavi; in realtà, inter augures, gli stessi capi del partito nazionale ammettono che la negazione della scuola slava in città mira soprattutto ad attirare nelle scuole italiane fanciulli delle famiglie slave, prevalentemente proletarie, che, per ragioni di lavoro, si affollano nei quartieri eccentrici e nei sobborghi urbani.

Che ve ne sieno, e in abbondanza, risulta dalla rapidissima crescita delle scuole private col mezzo delle quali gli sloveni di Trieste reagiscono contro la degenerazione scolastica italiana. La Cirillo aprì a Trieste (1887), nel sobborgo di S. Giacomo, una classe elementare frequentata da 74 allievi: al principio di quest'anno scolastico (1911) le scuole della Cirillo a Trieste (due femminili e una maschile a più classi parallele) avevano complessivamente 1.537 allievi, oltre a qualche centinaio di bambini frequentanti i cinque asili infantili sparsi nel suburbio.

Dopo simili cifre (e a parte ogni considerazione etnica, d'altronde secondaria in questa che è, soprattutto, indagine di forze) vien fatto di chiedersi se la tattica scolastica italiana, mossa dalla fede di premere sul processo assimilatorio, non vada esaurendosi per mancanza di alunni assimilandi. In realtà, sommando gli allievi slavi delle scuole private con quelli delle comunali slovene e delle statali tedesche, si giunge a un numero tale da escludere che nuclei apprezzabili di alunni slavi entrino nell'orbita assimilatrice della scuola italiana. In ogni modo, a questo certo esiguo nucleo bisogna contrapporre l'altro – e vedemmo quanto più cospicuo – di fanciulli slavi, spinti dalla mancanza di scuola pubblica comunale (cioè di scuola che starebbe sotto l'influsso economico e intellettuale italiano) in un ambiente imbevuto, per reazione, di spirito sciovinista, al punto che l'insegnamento dell'italiano era bandito, sin poco fa, da tutte le scuole triestine della Cirillo e anche adesso si dà soltanto nelle ultime classi di alcune. Quale possa essere l'ideologia nazionale delle giovani generazioni uscite da queste scuole è facile immaginare. La ragione pratica confermerebbe dunque il pensiero idealistico di Carlo Cattaneo: anche qui l'io nazionale scatterebbe più robusto dall'urto contro il non io.

Del resto, anche senza incomodare la filosofia, basta osservare le vicende dei processi assimilatori – e non nella Giulia soltanto – per concludere che essi dipendono essenzialmente da rapporti topografici e da strutture economico-sociali.

Finché i cechi andavano nelle zone tedesche della Boemia o gli sloveni scendevano in città, a Trieste, alla spicciolata, contadini sperduti e depressi, l'assimilazione si svolgeva, e là e qua, rapida, larga e perfetta; tostoché l'industrialismo in Boemia, i traffici a Trieste ebber centuplicato il flusso immigratorio e man mano che gli immigrati provenivan da ambienti più evoluti e ne trovavan di più omogenei, l'assimilazione cominciò ad arenarsi. Ed è da questo momento che datan gli spedienti diretti a premere sul macchinismo irrugginito; la denegazione scolastica entra fra questi spedienti. Ma la scuola, che poca o nessuna parte ebbe nell'assimilazione di massa del passato, ne ha ormai oggi una assai relativa sulla continuazione del processo assimilatorio e, in certi ambienti, come il triestino, l'imporla artificiosamente può condurre addirittura a effetti contrari, togliere cioè anziché aggiunger vigore alla forza assimilatrice spontanea dell'ambiente.

D'altronde, la riluttanza contro la scuola pubblica slava non va cercata soltanto né principalmente nella ragione pratica, ma risale a motivi sentimentali o simbolici. Così a Trieste l'ideologia nazionale, specie se poggia sulla speranza separatista, sente oggi il bisogno di mantenere almeno l'illusione di una città puramente italiana, quindi senza diritti di indigenato altrui. È – lo vedemmo abbastanza – illusione che crolla giornalmente sotto gli assalti della realtà, ma, appunto per questo, assume in certi strati l'attraenza e la forza incitatrice del mito. Infatti, piuttosto che municipalizzare le scuole slovene della città, si rinunzia (la dichiarazione fu fatta più volte) all'università italiana a Trieste.

In Istria, durante il sonno slavo, l'istruzione primaria (scarsa e tisica dovunque e per tutti) fu assai spesso italiana anche in località compattamente slave, lontane da ogni centro assimilatorio epperò rimaste slave, nonostante la scuola. Ma non mancano neppure esempi di luoghi slavi, prossimi all'influsso italiano, nei quali la scuola italiana non valse a compiere l'assimilazione e dove il fondo etnico della popolazione rimase tenace od ebbe recentissimi, inaspettati risvegli; altrove invece, concorrendo altri fattori topografici o sociali, la scuola italiana fra slavi può aver contribuito all'assimilazione, il che oggi, a risveglio avvenuto, accade sempre più sporadicamente o con risultati sempre più incerti ed infidi. È lecito ad ogni modo concludere che dai gruppi combattenti la lotta nazionale si tende (talvolta con altri fini) ad esagerare l'efficacia taumaturgica della scuola come assimilatrice, specie nei luoghi ove essa è staccata da ogni altra forma di vita nazionale. Ciò è precisamente il caso, in Istria; eppure proprio in Istria si combatte il più vivo duello pro e contro l'assimilazione, dalle scuole primarie della Lega nazionale e da quelle della Cirillo e Metodio.

Anche la Lega nazionale è avvolta in una nube di dogmatismo. Discuterne l'attività è sacrilegio. Certo l'azione della Lega (come, d'altronde, quella della sua rivale) ha un lato indiscutibile: chi somministra alfabeto a un paese desolato dall'analfabetismo, in qualunque lingua, per qualunque fine, compie opera civile. Ma la Lega e la Cirillo spiegano anche un'attività specifica, di carattere politico, sul conflitto nazionale, e questa non può sottrarsi alla discussione. La Lega, specie in Istria, lotta per condurre fanciulli di fondo etnico slavo, attraverso la scuola, a una coscienza italiana, più o meno crepuscolare. La Lega, in questa sua attività, è dunque snazionalificatrice? Certo, e non può non esserlo, finché il conflitto s'impernia nei termini ripetutamente accennati. La Cirillo invece mira a sviluppare la coltura dei suoi alunni sulla base etnica originaria, e ciò non per maggiore spirito di equità nazionale, ma perché gli allievi, che le due associazioni scolastiche fanno a sottrarsi a vicenda, sono slavi più o meno atti a italianificarsi e non viceversa. La Lega tenta insomma di continuare la tenace speranza degli italiani dell'Istria e neppur sempre lo dissimula. Nel 1904, in piena dieta, il deputato italiano Bennati afferma che gli slavi gradiscono le scuole della Lega e ne traggono profitto; tre anni più tardi lo stesso Bennati deve deplorare che proprio le località beneficate dalla Lega non «avevan corrisposto ai benefizi avuti».

Deplorazione caratteristica. Per comprenderla e farsi un giudizio sull'azione e l'efficacia pratica della Lega nel conflitto istriano, conviene aver presenti le note peculiari dello slavismo colà. Mancando il grande centro ingoiatore, lo slavo dell'Istria, cioè, quasi dovunque, il contadino abitante in campagna, ha sempre subito molto più imperfettamente che a Trieste influsso urbano: il processo italianificatorio ha agito sugli assorbiti entro le brevi cinte della città o della borgata; gli altri, i più, i rimasti fuori, anche a due passi, hanno preso una verniciatura italiana più o meno forte, secondo i luoghi. È nato così l'ibridismo rustico, fenomeno ben più tenace dell'ibridismo urbano, sboccante, fino a ieri, rapidamente nell'italianificazione definitiva. L'ibrido è, di regola, un contadino, slavo per origine storica e dialettologica fondamentale, che comprende e parla il dialetto italiano del centro più prossimo e si serve di esso abitualmente nei rapporti di servizio e di affari. L'ibridismo invade spesso anche il focolare domestico, con sfumature bizzarre: si parla slavo dai vecchi o coi vecchi o fra coniugi e non sempre coi figli, ecc.; è insomma una forma di assopimento cui dovrebbe seguire, ma troppo spesso non segue, l'italianificazione definitiva.

Perché la lotta scolastica si accenda, occorrerebbe, logicamente, che l'ibrido o l'anfibio sieno in uno stadio tale, da dare ad ognuna delle due forze che vorrebbero attirarlo a sé qualche affidamento di successo. Invece, specie da parte italiana, accade spesso che fini particolari della lotta o circostanze locali vengano a perturbare questo criterio. Così il centro urbano italiano è tratto a tentar di premere, mediante la scuola, sui contadini compresi nel comune cittadino e quindi elettori nel medesimo, anche se in loro l'ibridismo sia appena rudimentale o soltanto esteriore. Vi sono posizioni strategiche, dove la scuola italiana e la slava, la Lega e la Cirillo, stanno di fronte, quasi materialmente, l'una contro l'altra armate, ognuna tentando di accaparrarsi le popolazioni dei villaggi o dei casolari più prossimi. E la struttura attuale dei comuni istriani, comprendenti larghe zone di campagna intorno agli smilzi nuclei urbani, pare fatta apposta per acuire il duello. Deriva anch'essa sempre dalla stessa speranza, di assimilare dal centro la periferia. Ancora nel 1868, quando pure il risveglio slavo dava già segni precorritori non dubbi, furono proprio i reggitori italiani della provincia a formare dei nuovi aggregati comunali vastissimi. Oggi si tenta, fin'ora invano, di procedere a una divisione amministrativa delle città dalle campagne, resa sempre più ardua e sfavorevole agli italiani dal risvegliarsi nazionale agricolo.

Anche la procedura per la creazione della scuola è feconda di elementi perturbatori: la chiedono, di regola, i genitori di almeno quaranta alunni, ed è facile capire a quali diverse e spesso contradditorie pressioni soggiaciono i contadini. Bastano il cambiamento di un prete o di un avvocato, le aderenze di una famiglia a premere sulla loro oscillante coscienza e a mutarla. Il puro fattore economico talvolta, prevale sulle condizioni linguistiche; si può vedere un ibrido o un assopito dalle esteriorità tutte italiane, pencolare improvvisamente verso lo slavismo, perché nel suo villaggio si è piantata una casa rurale slava, ovvero, viceversa, individui o gruppi assai più accentuatamente slavi, gravitare per analoghe ragioni d'interesse, verso l'italianità.

Quest'ambiente ci spiega la grande sorpresa del suffragio universale (1907): il partito nazionale istriano aveva fatto persino un po’ di ostruzionismo a Vienna perché agli italiani fossero assegnati 3 mandati contro 3 dati agli slavi. (Agiva qui l'autoillusione classicheggiante dell'Istria italiana e il "subcosciente" separatista?) Volendosi poi mantenere nelle due zone l'unità territoriale, si dovette necessariamente includere nei collegi italiani la campagna intercedente fra le città e borgate italiane, ritenuta o sperata italianizzante o almeno amorfa. E allora avvenne questo. Gli slavi ebbero votazioni plebiscitarie nei loro collegi (salve poche oasi linguistiche) veramente slavi, e nei cosidetti collegi italiani raccolsero oltre 10.000 voti contro 18.000 avuti dagli italiani, liberali e clericali, provocando due ballottaggi. Il secondo esperimento di suffragio universale (1911), se fece morire qualche centinaio di elettori slavi, vide (lo vedemmo) rinascere altrove dei morti, tanto che sarebbe arrischiata qualsiasi deduzione definitiva sull'efficacia, anche soltanto elettorale, della Lega in quelle zone (campagne di Montona, Portole, ecc.) in cui essa andò intensificando l'attività e che diedero qualche voto di più agli italiani. Poiché (si capisce anche questo) la scuola in quelle zone di battaglia mira attraverso i figli ai genitori coi consueti allettamenti di doni: conati infidi: accade troppo spesso che il donatario, pur ricevendo il dono, ripeta, inconscio, il timeo Danaos... con quel che segue. Ed ecco spiegato l'amaro scatto dell'on. Bennati dopo le elezioni del 1907.

E qui vi è un'altra connessione da rilevare: l'arresto della tisi statistica slava anche in Istria e la conseguente diminuzione percentuale di italiani in confronto al precedente censimento (1900) che li presentava addirittura in crescita percentuale (38.16 p.c. nel 1910, 40.54 p.c. nel 1900, 38.08 nel 1890), mentre i croati, scesi dal 45.39 p.c. del 1890 al 42.58 del 1900, risalirono a 43.15 e gli sloveni andarono da 14.30 risp. 14.20 a 14.89 p.c.

In questi indici si ripercuote specialmente la maggior reazione contro il falso statistico, pur sempre favorito dall'equivoco della «lingua d'uso» la quale, date le già accennate bizzarre peculiarità dell'ibridismo rurale istriano, si adatta a interpretazioni anche più barbine che nelle città. Nei pochi comuni misti amministrati da slavi, e forse qua e là anche altrove dove a slavi riescì di entrare fra gli esecutori del censimento, ci saranno stati senza dubbio dei controattacchi; ma l'operazione di far passare per slavi italiani autentici e definitivi è assai più difficile e può dare soltanto qualche risultato sporadico. Il quadro ufficiale del censimento potrà dunque essere ancora troppo roseo, non certo troppo nero per gl'italiani. E la conclusione, importante per la nostra indagine si è che, per ragione numerica, gl'italiani, anche nell'Istria storica (s'intende nell'amministrativa) son minoranza di fronte a croati e sloveni. Tutta la Giulia, dal Monte Maggiore al Predil (escluse le porzioni di Carniola), avrà fra i suoi abitanti indigeni non molto più di 350.000 italiani contro almeno 390.000 slavi, congiunti senza soluzione di continuità al grosso delle loro rispettive nazioni. (Circa un milione e un quarto gli sloveni e fra 700 e 800.000 i croati dell'Austria.) Ai 350.000 italiani della Giulia vanno poi sommati, ma non nei riguardi politici, circa 40.000 regnicoli, di cui circa 30.000 a Trieste. Trieste, oltreché mercato di lavoro slavo, è anche cospicuo centro di forza-lavoro regnicola, attrattavi sempre più intensamente dagli stessi richiami dei traffici; in un quarantennio, i regnicoli a Trieste sono triplicati.

Nella lotta per la scuola secondaria e superiore entra più direttamente in scena un terzo, che è spesso il tertius gaudens del conflitto: il governo, inteso con questa parola il centralismo dinastico-militare-burocratico, che ancora riesce a personificarlo. Vedemmo quale fosse di regola la politica nazionale governativa sino a ieri: a fondo tedesco e, dove la germanificazione non aveva proprio alcuna base, tollerante se non favoreggiante il predominio italiano. Ciò si osserva specialmente in Istria: colà il governo, sino a non molti anni fa, appoggiava spesso i candidati italiani nelle elezioni parlamentari e dietali, ovvero, contro i primi campioni del nazionalismo slavo in collegi slavi, favoriva le candidature di impiegati nazionalmente incolori. Ancora nelle elezioni politiche del 1885 (a risveglio slavo già bene iniziato) un capitano distrettuale (sottoprefetto) a Parenzo può brindare pubblicamente alla vittoria del deputato italiano sullo slavo.

Ma il risveglio incalza; il governo, lo Stato in generale, è costretto a procedere verso la parificazione persino nei paesi tedeschi, nella Stiria, nella Carinzia, ecc., affrontando le ire della nazione già monopolizzatrice del potere. Dove però gli slavi, per forza e compattezza, incalzano troppo – ad esempio in Carniola –, è ancora il germanismo che funziona da contrappeso; dove il predominio è in mano degli italiani e la germanificazione è fallita, il contrappeso è slavo (Giulia). Il complesso di queste azioni e reazioni produce quel tanto di equilibrio che occorre al centralismo per attraversare le varie correnti e superarlo; gioco che diventa, si capisce, sempre più difficile e pericoloso. Certo, i sospetti statali verso la lealtà italiana sono tutt'altro che diminuiti, anzi è cresciuta in alto, ed esageratissima (forse anche per ripercussioni regnicole), la sensazione del pericolo interno separatista e con essa l'istinto di non respingere un'arma che la "fatalità storica" (qui calza proprio bene) mette in mano al centralismo asburghese. La formola dell'equiparazione risponde dunque, nella Giulia, anche ad un interesse di Stato. Sarebbe però andar fuori della realtà e costruirsi un'Austria di maniera l'attribuirle – come fa spesso la retorica nazionalista italiana – un programma sistematico di estirpazione degli italiani della Giulia. A parte ogni giudizio sull'attuabilità del piano stesso, basta pensare che la conseguenza sua, cioè la formazione di una regione adriatica compattamente slava da Monfalcone a Spizza, urterebbe profondamente ideologie e interessi tedeschi, potentissimi ancora nello Stato, anche per ripercussioni di politica estera.

Il centralismo austriaco è invece ormai tratto ad accarezzare l'immagine di una Giulia dove italiani e slavi non stieno più in rapporto di assimilatori e di assimilandi; la politica statale si può quindi condensare in una formula negativa: essa non soccorre più gli sforzi italiani intesi a mantenere gli slavi al livello di plebe rurale o a italianizzare quelli fra loro che giungessero ad elevarsi. Ma bisogna aggiunger subito che nell'attuazione di questa formula gli stessi uomini di governo sarebbero impacciati a distinguere quanta parte abbia il loro libero arbitrio, quanta la crescente pressione slava sullo Stato, quanta infine – ed è forse il fattore più importante – la progressiva evoluzione nei rapporti economici e sociali fra i due contendenti.

Come somministratore di coltura superiore e secondaria, lo Stato solleva nella Giulia lamenti slavi e italiani. Il curioso si è che ambedue le stirpi hanno reali motivi di protesta. Così, hanno ragione gli sloveni quando rimproverano lo Stato di non fornire loro quasi alcun istituto secondario, ed hanno ragione gli italiani quando lamentano la confisca della loro facoltà giuridica, ed hanno ragione ambedue le stirpi quando proclamano deficiente l'istruzione secondaria impartita dallo Stato nelle lingue rispettive, in confronto a quella tedesca, in un paese che non ha indigenato tedesco.

Ma non si lotta (nella Giulia e in tutta l'Austria) soltanto per avere una determinata scuola dallo Stato: si lotta pure, e spesso assai più accanitamente, perché gli antagonisti nazionali non abbiano la loro, dove vorrebbero averla. Nella Giulia, data la configurazione topografica delle due stirpi, e il carattere attuale del conflitto, si capisce che gli slavi vogliano a sede dei loro istituti di coltura quei centri dove l'urbanismo più li attira e dove sono ancora più esposti all'assimilazione, nell'intento di arrestarla; gli italiani invece tendano a relegare quegli istituti in campagna per impedirne l'irradiazione e lo sviluppo, nella speranza che in questo modo l'assimilazione continui e la stirpe rurale non giunga a formarsi una coltura propria e sia costretta, per l'elevarsi, a diventare italiana.

Anche questa contesa si riconduce dunque alla lotta pro o contro l'assimilazione ma anche in essa vi è sopravalutazione del fattore scolastico nel conflitto politico, nonché intervento di tutt'altre ideologie: così gli sloveni hanno ottimi argomenti didattici per volere la loro sezione magistrale a Gorizia, capoluogo e unico centro veramente urbano della provincia giuliana ove son maggioranza incontestata e compatta, ma esagerano l'influenza nazionale di pochi maestri e candidati al magistero in una città come Gorizia dove lo slovenismo ha ormai in sé esuberanti forze economiche e intellettuali per resistere all'assimilazione. Oggi, nella città di Gorizia, lo slovenismo può contare su una forza numerica non molto inferiore a quella degli italiani e tedeschi uniti (10.000 sloveni circa, contro 15.000 ladino-veneti e 2.000 tedeschi), ha copiosi e forti organismi economici e scolastici, prevale sugli italiani nella classe degli esercenti, li pareggia in quella degli avvocati, ecc. Vedremo nel capitolo 4 che a rinforzare le basi economiche dello slovenismo hanno contribuito proprio gli italiani di Gorizia. La protesta italiana, dal canto suo, muove anche qui più che altro da ragioni simboliche: tanto vero che i protestatori dichiarano che sarebbero soddisfatti se la magistrale slovena venisse trasportata a Salcano, cioè in un sobborgo a pochi minuti dal centro, donde la temuta resistenza all'assimilazione si irradierebbe egualmente.

Un'altra prova di parzialità statale si deduce dal ginnasio per i croati dell'Istria, messo a Pisino anziché nella Liburnia (cioè fuori dell'Istria storica). Pisino è, nazionalmente, in condizioni anche più anormali di Gorizia. Centro dell'Istria interna e dell'ex contea ha, come Gorizia, tarde origini feudali tedesche; vita italiana comincia a svilupparvisi intorno al 1500, allorché la feudalità si va in parte italianificando in tutta la contea. Ma la feudalità, già lo notammo, non ha forza d'irradiazione nazionale e la contea è oggi ancora quale fu da undici secoli, tranne qualche spruzzaglia borghese ed artigianesca qua e là, compattamente salva. Scomparso il feudalismo (appena col 1848), l'immigrazione, i rapporti economici più sciolti e più intensi intensificanti il processo assimilatorio, forse anche la scuola diventata da tedesca italiana, vanno formando l'attuale «Pisino italiana» che consiste di un migliaio e mezzo di italiani o italianizzanti, minoranza assoluta nel distretto politico (42.000 croati), nel distretto giudiziario (28.000), nel vasto comune locale (1900: 14.000), nonché nell'ambito più ristretto del cosidetto comune censuario (1900: 2500), maggioranza solo nella breve cerchia della vecchia città, stretta intorno all'ex maniero feudale. Ma questo pugno di italiani sperduti tiene ancora, in gran parte, la proprietà del suolo e le professioni; la massa slava è invece rurale, ma compatta, inassimilabile ed esprime via via da sé i medi ceti proprietari ed intellettuali tratti, per reazione, a una ideologia altrettanto sopraffattoria di quella italiana: donde attriti continui i quali tuttavia permettono la convivenza discretamente pacifica del ginnasio statale croato e dell'italiano che la provincia volle contrapporvi. Immagini ambedue dell'unica soluzione normale e civile in ambienti così anormali se non agissero, contro di essa, tutte le correnti (ne riparleremo) interessate o trascinate a perpetuare e inasprire il conflitto.

La massima accusa che il nazionalismo italiano fa ai governi austriaci sta però al di fuori della scuola ed è di influire artificialmente sull'urbanizzazione slava, preferendo gli slavi agli italiani negli impieghi pubblici. E qui mutatis mutandis calza il raffaccio manzoniano ai compaesani di Lucia attribuenti a Don Rodrigo le sventure milanesi di Renzo: che cioè «a giudicar per induzione e senza la conoscenza dei fatti, qualche volta si fa torto anche ai birbanti». Lo Stato, specie nella scelta del suo basso personale che è poi quello che pesa sugli indici etnografici, si trova nelle stesse condizioni di molti altri datori di lavoro, cioè di fronte a offerta di mano d'opera slava prevalente e di una scarsissima, se non nulla, italiana. Il proletariato urbano – specie il triestino – rifugge dall'attività faticosa, disciplinata e mal retribuita dei bassi impieghi statali e, quando non ha qualifiche d'operaio, preferisce il bracciantato libero. Il posto imperial regio è invece appetito dal contadino aspirante a inurbarsi o appena inurbato. E qui l'elemento italiano indigeno (il regnicolo è, naturalmente, escluso) manca, si può dire, alla gara. L'Istria, lo vedemmo (che ha contadini italiani quasi tutti già urbanizzati e attratti, se mai, alla vita del mare) non può dare un contingente notevole; nel Friuli, a latifondo, con patto colonico medioevale, agricoltura arretrata, si intensifica l'emigrazione collettiva (di famiglie) verso l'America, inadatta ad incanalarsi verso i più bassi salari statali e non statali della regione.

Del resto anche il contadino friulano, quando scende solo in città, preferisce il bracciantato. Invece nelle parti slave della Giulia (specie nel Goriziano, il massimo provveditorio di forza-lavoro per Trieste) suolo men fertile, epperò coltivazione più economica, proprietà oltremodo spezzettata, creano esuberanza di braccia in famiglia; quindi, dai secondogeniti in poi, impulso a lasciar la coltivazione della terra al padre o al fratello maggiore e a trasformarsi in salariati urbani; donde la corrente inesauribile, tanto delle domestiche slave di cui la borghesia nazionalista italiana non può fare a meno, quanto degli uomini che incalzano alle porte di tutte le imprese commerciali, delle aziende pubbliche o semi pubbliche (ferrovie, poste, dogane, porto, ecc.).

Lo Stato, insomma, di rado si trova a dover scegliere fra italiani e slavi. Che se talvolta gli accade, ecco un altro fattore, anch'esso rampollante dalla struttura economica delle due stirpi, a favorir lo slavismo. Il proletariato slavo della Giulia, si appropria con grande facilità l'italiano, la lingua degli strati superiori; conosce quindi, almeno per i bisogni rudimentali del suo servizio, le due lingue del paese; invece il proletariato italiano – di regola – ignora lo slavo; il poliglotta è naturalmente il preferito.

Con che non si vuol dire che lo Stato, a parità di condizioni, preferirebbe normalmente gli italiani; si vuol constatare soltanto che lo Stato si trova di fronte a fattori indipendenti da lui e, centralmente, spontanei. Per accertare del resto questa spontaneità, basta considerare che essi premono anche sugli organismi più ostili agli slavi e li costringono a contribuire ai loro progressi: l'officina del gas di Trieste (municipalizzata) aveva, sino a una ventina d'anni fa, addetti slavi in grande maggioranza; oggi ancora, un terzo circa dei suoi operai sono slavi, riconosciuti come ottimi lavoratori; la Società del tram (diretta da nazionalisti) su circa 250 addetti ne ha un centinaio di slavi. Frequentissimi i casi di imprese italiane che preferiscono slavi a italiani per la ferrea ragione del tornaconto, ecc.

Anche nella gara per gli impieghi statali superiori nuoce agli italiani la riluttanza ad apprendere lo sloveno o il croato (lingue dei servi) e, in molti circoli – ripercussione di ideologia separatista –, la tendenza a fuggire il servizio dello Stato, salvo poi a lamentarsi per la postergazione.

Bisogna dunque concedere anche al centralismo austriaco le circostanze attenuanti e riconoscere che la cosidetta «importazione» slava è, in realtà, il consueto fenomeno demografico dell'oggi, il ruralismo che s'inurba; fenomeno che, in una regione nazionalmente mista come la Giulia, provoca il conflitto etnico, col sorgere dei medi ceti slavi, il loro rinforzarsi economico e la conseguente riluttanza all'assimilazione.

Donde non si vuol per nulla concludere che i fattori del conflitto sieno soltanto economici; sarebbe venire per diversa via a una forma di semplicismo, pari a quello nazionalista. Altre ideologie si frammischiano agli elementi più strettamente materiali e li turbano e ne vengono a lor volta turbate. La psicologia collettiva troverebbe qui ricco campo di indagine, sul contrasto e l'assidua reazione reciproca, fra i giudizi di valore (ideali) e quelli di realtà. Così, dalla struttura dello slavismo giuliano, ancora prevalentemente composto di contadini o di operai appena inurbati e non qualificati, scatta il fattore ideologico forse prevalente su tutti gli altri nei centri urbani in cui il conflitto è più sentito: la dissonanza atavica fra città e campagna, il disprezzo del cittadino per il villano parlante per di più un aspro linguaggio ignoto, il linguaggio della fatica e della miseria. È il solo fattore che accomuna classi diverse e le riavvicina. All'infuori di esso, ogni strato porta nel conflitto il bagaglio della sua mentalità, vi assume una posizione propria, lo esaspera, lo subisce, lo sfrutta, ecc.

A capo della lotta sono, dall'una e dall'altra parte, i medi ceti, specie intellettuali: giuristi, insegnanti, studenti, preti (questi particolarmente fra gli slavi), impiegati, ecc. Il medio ceto italiano – lo accennai già di scorcio più sopra – è urtato dal risveglio slavo dovunque, poiché gli italiani della Giulia, a differenza di quelli del Trentino, dei tedeschi nella Stiria e Carinzia, degli sloveni in Carniola, non posseggono né hanno posseduto – all'infuori di una striscia del basso Friuli – un territorio nazionalmente compatto, dove sviluppare, senza contrasti, le proprie energie nazionali. Ciononostante, fino a ieri, queste energie, non trovando di fronte che l'impotenza germanificatoria statale, finivan quasi dovunque per prevalere; specie nelle professioni libere, negli impieghi, negli esercizi, ecc. Oggi non è più così; oggi, per il risveglio slavo di dentro e le ripercussioni di quello generale di fuori, l'avvocato, il maestro, l'impiegato, l'esercente italiano o italianificato vedon sorgere in tutta la Giulia il concorrente similare che resta slavo per animo ed anche talvolta, e domani più di oggi, per interesse.

Si capisce quanto di acredine venga al conflitto da questa disgraziata topografia e come ne siano acuiti, così, i ricordi classici, le nostalgie unitarie dell'intellettuale, stroncato dal grosso della nazione, paralizzato nel suo impulso verso la fama o la gloria; come il più mediocre disagio dell'impiegato, timoroso di vedersi preferito nella gara per l'impiego. Nel primo caso, è il fondo mentale separatista che trascina alla lotta; nel secondo, vi può essere addirittura antagonismo fra l'ideologia nazionale e la separatista, ma i risultati, nei riguardi dell'atteggiamento e dell'animo di fronte all'altra stirpe, risultano identici.

I medi ceti slavi sono trascinati nel conflitto da impulsi sentimentali anche più vivaci di quelli che posson dominare gli italiani. Per comprenderli, basta immaginare capovolta la struttura delle due nazioni della Giulia; immaginare cioè gli italiani secolarmente assorbiti, gli slavi assorbitori: tutti gli elementi puri di cui si compone l'entusiasmo nazionale e la psiche patriottica concorrerebbero a spingere l'intellettualità italiana, salvata, grazie alla sua cultura, dall'assorbimento, a diffondere tale cultura fra gli strati inferiori e a serbarli così alla vita e alle energie della nazione.

Vi è, si capisce, un fondo essenziale di democrazia in questo fervore slavo, mentre quello italiano deve fatalmente riescire antidemocratico anche fra i ceti piccoloborghesi. La lotta nazionale italiana, com'è oggi inquadrata, deve urtare contro una premessa incontestabile di democrazia: quella di consentire, anzi di agevolare alle masse lo sviluppo intellettuale entro la propria struttura nazionale. Invece il nazionalismo italiano è trascinato alla denegazione scolastica, nonché a contenere l'influenza politica della massa slava, inassimilabile, coi sistemi elettorali privilegiati. Per questo, a Trieste, il partito, che pur si chiama liberale, ha avuto potenti sussidi sentimentali nella lotta temporeggiatrice contro l'allargamento del suffragio amministrativo e ha ceduto soltanto in extremis; per questo, dovette essere insincera l'adesione nazionalista italiana al suffragio universale politico. In Istria, la maggioranza italiana, in dieta e in quasi tutti i comuni, si mantiene soltanto grazie al sistema austriaco del censo e delle curie. Chi nella Giulia è sopra tutto nazionalista, specie se a fondo centrifugo, non può essere per i postulati elementari della democrazia. Perciò devono fallire e falliscono i vari tentativi di democratizzare i partiti nazionalisti e devono rimanere sterili finché dura l'attuale forma di lotta, se anche sien più sinceri, i conati dei gruppi giovanili, ultrairredentisti insieme e democratici o repubblicani.

Naturalmente, i fattori sentimentali, fra i medi ceti slavi, rampollano e fioriscono, con processo cosciente o no, da un sottosuolo economico, anche più propizio che fra gli italiani: è l'assalto all'agiatezza, quasi l'assalto alla vita, e in esso la piccola borghesia slava neonata porta l'ardore e insieme la tenacia contadinesca degli esclusi da secoli dai migliori bocconi del banchetto, smaniosi di ricuperare il tempo perduto, non paralizzati dagli impulsi centrifughi che indeboliscono la posizione di lotta dei ceti similari italiani.

Dal centro del combattimento, e per impulso dei combattenti più fervidi, il conflitto tende ad allargarsi agli strati superiori e inferiori, ai ceti più veramente proprietari e a quelli più strettamente proletari. Ma qui la linea di battaglia si scompone e si spezza: il capitalismo vero e proprio si trova, di fronte allo Stato, in una posizione diversa da quella dei ceti medi; di rado lo Stato gli appare in veste di tiranno o di gendarme, come appare invece spesso ad ambedue i gruppi di mezzo; inoltre le classi proprietarie hanno troppo da attendere dallo Stato e devono quindi temere di alienarselo, acuendo oltre misura la lotta. Esse sentono poi più chiara la pressione dei peculiari interessi propri, comuni a tutte le nazioni cui appartengono, e ciò vale particolarmente a smorzare i loro entusiasmi nazionali. Man mano che si sale la scala dei ceti proprietari, scemano in vivacità e sincerità gli antagonismi etnici; è molto più frequente il conflitto linguistico in un consorzio di salumieri che nel consiglio d'amministrazione di una società azionaria; anzi, in quest'ultima non si presenta mai o quasi. Tuttavia, anche i salumieri sono tratti a comporre o a trascurare la lotta per la lingua degli atti sociali, via via che cresce in loro la necessità della resistenza contro le pretese degli addetti. Voglio dire che il ceto proprietario sente e deve sentire gli stimoli e le ripercussioni dei suoi interessi di classe, spesso con maggior vivacità di quelli dell'antagonismo di stirpe. Ma il bizzarro si è che le sensazioni di classe servono in certi ambienti e in certi momenti ad attutire, in certi altri ad alimentare la lotta nazionale. Non si dimentichi mai che «slavo» è ancora, di regola, nella Giulia, sinonimo di proletario, di umile lavoratore manuale; la ripugnanza ideologica, crescente in certi strati borghesi, verso il ceto operaio, specialmente se organizzato od organizzantesi, crea in loro delle sensazioni subcoscienti di classe che fanno nascere o rinfocolano l'antagonismo di stirpe; talvolta anzi – e ciò conferma la loro origine spuria – ad esse partecipano anche non italiani; il che spiega l'adesione recente, specie elettorale, al nazionalismo italiano, di elementi estranei (tedeschi, greci, ecc.), sino a ieri indifferenti od ostili ad ogni forma di italianità: è la sensazione, cosciente o no, di un interesse comune cui la difesa nazionale presta attraenze e rincalzi.

Dal canto suo, la piccola borghesia commerciante, se tende a collegarsi internazionalmente per tutelare i propri interessi di classe, è poi, per altri rispetti, trascinata nel conflitto nazionale coll'accentuarsi della concorrenza, nel suo seno stesso, fra individui dell'una o dell'altra nazionalità. Che feroce nazionalista diventa il sarto o il pizzicagnolo italiano, quando il collega slavo suo vicino, comincia a portargli via i clienti! «Non comperate da cechi». È (in Boemia), e potrà diventare forse anche a Trieste, monito nazionale celante l'anima sua bottegaia. Ci vuole un urgente pericolo (per esempio, minaccia di sciopero degli addetti) per riunire temporaneamente le due piccole borghesie in concorrenza.

E veniamo al proletariato. Neppur esso si affaccia nel conflitto nazionale come blocco compatto; anzi presenta contrasti e differenziazioni caratteristiche.

Il proletariato delle due stirpi che viene a mescolarsi, specie a Trieste, non sta in rapporti di concorrenza economica. Manca quindi un sottostrato antagonistico di interessi fra operai italiani indigeni e slavi; potrebbe accentuarsi fra slavi e regnicoli (almeno 20.000 proletari a Trieste), se ai primi, come cittadini dello Stato, non fosse garantito un largo campo di attività (aziende statali o semistatizzate) donde i secondi sono esclusi. L'indigeno italiano è operaio o artigiano qualificato e, come tale, non incontra, per ora almeno, lo slavo sul suo cammino, ovvero – se è bracciante – ha interessi comuni col bracciante slavo residente, contro tutti gli avventizi di fuori, che possono essere tanto italiani quanto slavi.

Premesso ciò, convien distinguere il proletariato in due nuclei: la parte amorfa (popolino, quinto stato, masse rurali), priva di coscienza di classe, epperò spesso anche di stirpe; l'altra organizzantesi sotto la bandiera dell'internazionalismo operaio. Accennai già alle masse rurali italiane nelle quali predomina soltanto il particolarismo regionale (istriani, friulani); anche a Trieste vi è il «triestinismo» con due faccie contradittorie; da un lato è antislavo, nutrito di quell'orgoglio cittadinesco e di quel disprezzo per il bifolco cui accennai più sopra come al fattore ideologico comune e prevalente persino fra i proletari assimilati di ieri, dall'altro invece è antitaliano, cioè antiunitario, dinastico e austriacante; rispecchia, probabilmente, d'istinto, la tradizione della città, in antitesi storica col sentimento unitario.

Anche le masse slave escono appena da uno stato di subcoscienza particolarista; fra gli sloveni, i savrini, i verchini, i cragnolini avevan perduto sin nel nome il senso della nazionalità comune, del pari che i fuski, i beziachi, i morlacchi, ecc. fra i croati. Fra questi ultimi, oggi ancora, il sentimento di unità coi connazionali, al di là dei confini dell'Istria, è patrimonio soltanto delle minoranze cittadinizzate. Invece fra gli sloveni, per essere il centro nazionale finitimo e nello Stato (Camiola), l'idea unitaria ha fatto maggiori progressi. Clericalismo ed austriacantismo, che ostacolano o almeno non assecondano il diffondersi della coscienza nazionale fra gli italiani, compiono invece funzione diversa fra gli slavi. E qui si ripercuote sul conflitto la posizione peculiare del prete italiano di fronte all'Italia: la propaganda papista, specie nelle campagne, riesce inevitabilmente a indebolire anche la coscienza nazionale ed a rinfocolare l'austriacantismo che è, per essenza sua, particolarista. Il prete slavo, invece, con gli stessi mezzi, giunge a risultati opposti, perché la coscienza nazionale slava non sta affatto in antitesi con quella cattolica e si sviluppa meglio dell'italiana anche nell'orbita dinastica o statale. Preme poi sul proletariato slavo, e lo trascina e mantiene nella lotta, l'equivoco tra lo sfruttamento di classe e quello di stirpe: equivoco di cui si giovano, in Austria, i nazionalismi di tutte le nazioni assopite o assimilate sino a ieri. Come il tedesco, come il polacco, così l'italiano, nella Giulia, è stato troppo a lungo la lingua della compressione economica; ne vedemmo gli effetti politici sui contadini slavi dell'Istria; ma anche in altri ambienti, anche in quelli cittadineschi, i duci del movimento tendono a colorire di tinta nazionale ciò che in fondo è spirito di riscossa di classe; trucco che può riuscire ancora nella Giulia, dove il capitalismo slavo è giovane e spesso dissimulato da esteriorità nazionali altrui; il trucco andrà via via cedendo, col progressivo differenziarsi delle classi, col procedere dello sviluppo capitalistico slavo.

Ben diversi lo stato d'animo e l'atteggiamento dei due proletari, italiano e slavo, via via che si aggruppano nelle organizzazioni economiche e politiche riconoscenti la realtà delle competizioni di classe. La coscienza di classe chiarisce loro, insieme, quella di nazione; il «triestìn» cessa di essere antitaliano e austriacante e, al pari del «furlàn» o dell'«istriàn», comprende di essere italiano; contemporaneamente, però, vede, nel proletario organizzato dell'altra stirpe, il consociato di interessi e di ideologie e gli tende la mano. Ma poiché anche il proletariato slavo acquista, con la coscienza di classe, quella di stirpe e, elevandosi, rilutta automaticamente all'assimilazione, ecco il proletariato organizzato italiano tratto a contrapporsi a tutti quegli atteggiamenti che mirano a premere su di essa e a continuarla per vie coatte: in concreto, su tutta o quasi la tattica nazionale presente dei ceti borghesi italiani nella Giulia. Donde l'accusa di antitalianità da loro lanciata al socialismo.

Anche qui, per apprezzare serenamente, bisogna distinguere. A chi (e sono di solito gli accusatori sinceri) identifica l'italianità col separatismo, non vede cioè altro sbocco legittimo e degno all'infuori dell'annessione, l'atteggiamento del proletariato organizzato internazionalmente desta legittime ripugnanze e paure. Quest'atteggiamento è, in sostanza, anticentrifugo dovunque in Austria; anche entro quei gruppi proletari che per le peculiarità dell'ambiente (Boemia, Moravia) sono più degli altri trascinati nelle competizioni nazionali: il riformismo operaio, lavorando a render più civile la vita alla maggioranza dei cittadini dello Stato, lavora implicitamente a migliorare epperò a consolidare lo Stato stesso, inteso, si capisce, nel suo significato storico ed evolutivo più largo. Questo riformismo urta specialmente i medi ceti sentimentali, trascinati nella Giulia dalla peculiarità dell'ambiente verso l'ideologia centrifuga con maggior fervore dei ceti similari delle altre stirpi dell'Austria.

Ma quei ceti imputano al socialismo non soltanto di non essere separatista o di lavorare implicitamente contro l'ideologia separatista – e qui sono nel vero –, ma lo bollano anche come il massimo favoreggiatore del movimento slavo: e qui – quando son sinceri – cadono in un curioso errore di prospettiva. Vedemmo abbastanza che cosa sia la cosidetta penetrazione o invasione slava nella Giulia e perché essa si riconnetta, essenzialmente, allo sviluppo capitalistico: slavificatore, dovrebbe dunque chiamarsi, se mai (vedremo subito che sarebbe giudizio altrettanto superficiale), il capitalismo. Invece l'accusa colpisce il proletariato organizzato e trova, maneggiata abilmente da chi ha interesse a diffonderla, credito e fede, perché gli atteggiamenti "antinazionali" del proletariato sono facilmente accessibili a tutti, mentre quelli, spesso assai più concludenti, degli altri ceti sfuggono alla vista e alla critica. Così, se imprese italiane assumono lavoratori slavi o clienti italiani, vanno a nutrire l'organismo bancario slavo, o principali italiani, eludendo la legge, ostacolano l'istruzione e diminuiscon quindi la capacità di concorrenza degli operai connazionali di fronte agli slavi, l'atto o gli atti, frammentari, dissimulati, poco estetici, passano e sfuggono. Invece i segni della parità fra i due proletariati organizzati: la tabella bilingue sull'uscio di una cooperativa, l'oratore slavo in un comizio, il candidato slavo a una pubblica assemblea, ecco il gesto che si vede e che urta sinceramente, dov'è sincero, il sentimento nazionale, il quale, appunto perché sentimento, si ribella alla pacatezza del raziocinio; è scosso più dalle manifestazioni esterne che dalle cause profonde del conflitto; impreca a una tabella e non avverte la complessità dei riposti fattori di cui la tabella è soltanto l'indice esterno.

Il tempo soltanto farà giudicare più serenamente l'azione di tutte le classi e sottoclassi nel conflitto; la lotta, nel suo stesso svolgimento, chiarirà molti punti ora oscuri od ombreggiati. Apparirà così, meglio di quanto oggi possa apparire, che ogni gruppo, in questo come in altri conflitti toccanti la collettività di cui fa parte, porta il bagaglio delle forze che più premono su di lui. Accusare di tradimento alla nazione quei gruppi della classe proprietaria italiana che arruolano lavoratori slavi o deprimono la capacità professionale dei lavoratori italiani, è giudizio altrettanto superficiale, e intrinsecamente irreale, di quello che investe i lavoratori italiani affermanti la loro solidarietà d'interessi e di destini coll'analogo gruppo slavo. Ambedue le classi compiono, per la loro struttura, la funzione che devono compiere e qualsiasi loro sforzo per assumere normalmente posizioni diverse da quelle che in realtà assumono urterebbe contro le ragioni supreme della loro esistenza: il capitalismo triestino si ferirebbe a morte respingendo la forza-lavoro slava, del pari che l'organizzazione proletaria, associandosi a chi preme sullo slavismo perché continui a italianificarsi per forza. Non si può dunque parlare di responsabilità di classi nel conflitto. Una sola indagine è possibile e concludente: quella degli effetti che la tattica nazionale imposta al proletariato organizzato può esercitare sull'italianità della Giulia.

L'indagine è inseparabile dal giudizio sull'avvenire di questa italianità e sui fini che per essa si vagheggiano. Chi spera ancora di schiacciare lo slavismo giuliano deve repugnare da atteggiamenti che riconoscono il diritto dei lavoratori slavi a non italianificarsi di contraggenio. Ma questa speranza – che un acuto ingegno, militante nel partito nazionale, definì pubblicamente «illusione di miopi» –, questa speranza, dico, può essere ormai seriamente discussa? Che lo slavismo giuliano – date le forze immanenti per le quali si integra – possa scomparire, appare, mi sembra, utopistico persino in tesi di annessione. L'annessione varrebbe soltanto a metter tutte le forze coattive del nuovo Stato a servizio di una stirpe contro l'altra, a inaugurare cioè una nuova forma di lotta, un regime nazionale italiano a tipo giuseppino, con esito forse non più felice.

Al di fuori di questo sbocco violento, non vi è che la convivenza pacifica delle due stirpi. E qui gli atteggiamenti nazionali del proletariato organizzato giungono a ben diversi effetti nei riguardi della nazione italiana; essi vanno di per sé creando, l'ambiente in cui la convivenza perde le sue punte contro gli italiani e l'assimilazione veramente spontanea torna per altre vie a rintonarsi. L'operaio slavo, sicuro che nessuno pensa ad italianificarlo per forza, non guarda più alla coltura italiana come ad una nemica, non si irrigidisce più contro i suoi influssi automatici; donde il sorgere di una psicologia repugnante dal sopruso nazionale, epperò tutelatrice degli italiani contro l'unica eventualità che possa legittimamente allarmarli.

Restano ancora da esaminare le ripercussioni degli atteggiamenti nazionali dei vari ceti sui partiti politici in cui essi si vanno raggruppando e mescolando. L'atteggiamento del proletariato, organizzato internazionalmente, si rispecchia nel programma nazionale del partito socialista. Gli altri ceti, invece, non hanno trovato le formule politiche adeguate alla loro reale posizione nel conflitto, epperò vi stanno tutti più o meno a disagio. Ciò vale specialmente per i gruppi italiani presso i quali sono più sviluppate le differenziazioni materiali e ideologiche. Nel partito chiamato nazionale-liberale (il clericale italiano a Trieste, a Pola, a Gorizia non ha influsso apprezzabile; nelle campagne e in alcune città istriane – lo accennai già nella nota 44 a p. 157 – è antiunitario e austriacante, nazionalmente moderato) vengono a confondersi, alta, media e piccola borghesia, frazioni proletarie intellettuali e persino manuali. Abbiamo visto che ognuno di questi ceti e sottoceti porta nel conflitto nazionale sensazioni e ideologie proprie, spesso diverse e contradditorie. Quale cemento tiene unita tutta questa gente diversa, in un partito politico? È un cemento composito, un bizzarro impasto in cui l'inconscio, il cosciente e il subcosciente si mescolano.

L'alta borghesia è logicamente statofila, conservatrice, aliena da catastrofi politiche; la lotta nazionale la interessa sino ad un certo punto; le importa invece moltissimo di contenere, mediante l'infervoramento nazionale, i conflitti di classe sempre più incalzanti e impedir loro di volgersi contro gli interessi propri. La fase presente del conflitto viene di per sé a dare all'alta borghesia ciò di cui ha bisogno. La riscossa slava, urtando gruppi sempre più vasti, li spinge allo sforzo assimilatorio e compressorio; questo sforzo disperato, e appunto perché disperato, cela la sua inanità nella parola d'ordine: unione. Ed ecco i piccoli e medi ceti borghesi, specie quei loro gruppi ad alta pressione di sentimento, in cui l'anima nazionale rappresenta quasi il sostitutivo dell'anima religiosa, eccoli trascinati alle più epigrammatiche tolleranze, presi nella rete della loro sentimentalità, sotto l'ipnosi della formula: «Tutti uniti contro l'invasore». Senonché, dati i fattori donde questa invasione è realmente materiata, la formula, nella pratica, si dimostra illusoria: i ceti capitalistici italiani devono seguitare ad arruolare operai slavi, a servirsi delle banche slave, a farsi aiutare dallo Stato che i sentimentali anelano a distruggere, ecc. A soddisfazione di questi ultimi, rimangono la fraseologia quasi sempre soltanto simbolica o il gesto catastrofico, ambedue tollerati soltanto finché non riescono impaccianti o pericolosi. Un esempio caratteristico: l'ex on. Bartoli, eletto deputato dal partito nazionale-liberale istriano, per poter tenere alle delegazioni (febbraio 1911) un discorso a fondo mentale separatista, fu costretto a dichiararsi solitario, fuori di ogni organizzazione di parte.

Queste due anime, innaturalmente unite in un corpo politico, ce ne spiegano le oscillazioni bizzarre. L'alta borghesia, che per la sua struttura mentale, rampollante dal sottosuolo dei suoi interessi, sarebbe spinta alla transigenza e all'accordo nazionale, si trova invece, per questo riguardo, prigioniera dei medi e piccoli ceti, del cui appoggio ora, in regime di suffragio universale, può meno che mai privarsi. Ed ecco perché (fra parentesi) il suffragio universale, sperato sedativo, fu invece fino ad oggi, quasi dovunque in Austria, stimolante del conflitto di stirpe. Domani, naturalmente, potrà esercitare, e presumibilmente eserciterà, opposta funzione.

Il dissidio, nascosto nel seno del nazionalismo italiano, investe la sua azione e la neutralizza: la tattica parlamentare e politica a Vienna, logicamente ispirata alla legalitarietà, viene isterilita, assiduamente, da atteggiamenti positivi o negativi a fondo politico e mentale opposto.

Quando, col ritorno del liberalismo triestino alla camera, si costituisce un club parlamentare italiano (1897), i suoi membri vengono definiti ufficialmente come «uomini d'affari». Non è qui il luogo di discutere se ne abbian conclusi di buoni o di cattivi e se il loro quasi costante partecipare alle maggioranze governative sia stato utile o dannoso per la nazione. Comunque, è certo che la tela forse tessuta o voluta tessere, almen da alcuni fra loro, viene da altri costantemente disfatta, sia a Vienna sia più spesso nella Giulia, con un lavorio opposto, palese o recondito, mediocre o piccino che può andare dalla concezione catastrofica di chi non vuole l'università italiana a Trieste, ai ricorrenti rifiuti del consiglio triestino di chiedere nuove scuole medie italiane allo Stato, giù giù sino al recentissimo spavento nazionalista alla sola voce di una possibile nomina del podestà di Trieste a senatore! Chi vive nella Giulia avverte quasi quotidianamente mille sfumature, reticenze, azioni ed omissioni derivanti da questo fondo mentale in antagonismo con l'altro ufficialmente proclamato. Si capisce che le avverta anche l'Austria e ne tragga le sue conseguenze.

La sentimentalità piccolo o medioborghese non viene però sfruttata soltanto dagli alti ceti: bisogna dare la sua parte anche al politicantismo e di ambedue le stirpi in contrasto; così, l'avvocato slavo può avere, e spesso ha, un'anima nazionale sincera, avvivata dal più puro entusiasmo per l'opera di salvataggio e di elevazione dei suoi compatrioti; ma l'entusiasmo può anche servirgli meravigliosamente a formarsi una posizione politica o a inquadrarsi una clientela che, in regime di tolleranza nazionale, potrebbe sfuggirgli; oggi è dovere patriottico dello sloveno e del croato di ricorrere per i propri affari al legale slavo di Trieste o di Pola; domani, smussate le angolosità, potrebbe non esserlo o esserlo meno. Anche il giornalismo (specie l'italiano a Trieste) esige il suo monopolio sulla mancata differenziazione di partiti che l'attuale fase del conflitto porta con sé.

Uno dei maggiori equivoci in cui si aggirano e aggirano gli altri, i gruppi tratti o interessati ad acuire il conflitto, è contenuto nella paura della «slavificazione», intesa o lasciata intendere nel senso grammaticale, capovolgersi cioè del fenomeno sino ad oggi prevalente: non più gli slavi assorbiti dagli italiani, ma viceversa.

Ora, questa è ipotesi che sfugge, almeno alla visuale del nostro orizzonte storico. Vedemmo il carattere eccezionale e sporadico della slavificazione dei pochi artigiani sperduti in mezzo alla campagna slava dell'Istria; di processi similari di gruppi non vi è cenno né preannunzio. A Trieste, poi, deve ancor nascere – e probabilmente non nascerà – il primo italiano slavificando; persino i figli di padre slavo e di madre italiana vennero a cadere assai spesso nell'etnografia materna; spesso la moglie italiana ha italianificato, o almeno reso ibrido, il marito slavo; talvolta sono addirittura i figli di coniugi slavi a portare in casa la lingua se non proprio la coscienza italiana. E, si noti, queste strane inversioni seguitano, sebben meno regolari, a verificarsi ancora in un ambiente come l'attuale, ambiente di lotta, in cui la coscienza nazionale slava è fatta vibrare continuamente sotto lo sforzo compressorio italiano e si sforza innaturalmente di irrigidirsi contro gli influssi automatici dell'italianità, nonché contro gli impulsi differenziativi (partiti) che ribollono anche in seno allo slavismo giuliano e aspettano soltanto un po’ di détente per esplodere.

L'attenuarsi della lotta, col riconoscimento dell'esistenza nazionale slava nella Giulia, non potrebbe certo capovolgere le direttive del processo assimilatorio, anzi, secondo ogni previsione, varrebbe a diminuire la stessa attuale febbre reattiva dello slavismo, nutrita dal diniego e dal divieto. Neppur è detto che l'immigrazione slava dalla campagna giuliana e carniolina continui col ritmo tenuto negli ultimi decenni. Già spunta anzi qualche indice di infiacchimento di quel processo demografico che ha affollato Trieste di slavi e li ha messi in grado di resistere all'assimilazione; basta che continui l'industrializzazione della Carniola, che migliorino le condizioni di esistenza nel Goriziano, perché si assottigli il flusso migratorio sloveno su Trieste, e la «slavificazione», cioè la scomparsa degli italiani, si perda più che mai nelle tenebre di quei secoli nelle quali lo stesso Valussi, nel periodo del suo pessimismo nazionale, la relegava. Ed ecco un fattore del tutto indipendente, che avrebbe risultati nazionali più conclusivi di qualsiasi atteggiarsi di partiti.

E che fa lo Stato di fronte alle due anime del nazionalismo italiano? È tratto anch'esso a distinguere e a differenziare; salvaguarda certi interessi che si identificano troppo coi suoi, riserva le ruvidezze e le punzecchiature ai sentimenti e ai sentimentali.

E qui non è più la riscossa slava, ma lo Stato stesso che porta acqua al mulino del separatismo. Voglio dire che, in questo campo, non si avvertono, o son trascurabili, le pressioni dell'altra stirpe. In questioni scolastiche o di parificazione linguistica, nella scelta degli impiegati, ecc., l'azione governativa non è libera, ma subordinata ai fattori economici e politici del conflitto nazionale; lo stesso episodio universitario che, a chi lo guardi da lungi e di fuori, può simboleggiare soltanto il malvolere governativo, in realtà risente anch'esso l'influsso del conflitto di stirpe. È per lo meno probabile che la facoltà giuridica arriverebbe ormai anche a Trieste, nonostante i veti dinastici o militari, se le spianasse la via un compromesso scolastico italo-sloveno. Ma la persecuzioncella poliziesca, i processi per lesa maestà o spionaggio, via via sino all'ultima tragicommedia del processo di Graz, tutto questo il centralismo austriaco sarebbe perfettamente libero di non fare e, nel farlo, obbedisce alla pressione di gruppi non nazionali che lo hanno sempre mal consigliato.

Da tutto questo groviglio esce la funzione attuale dello stato d'animo separatista giuliano: funzione negativa ma a largo influsso nello svolgersi del conflitto etnico. Lo stato d'animo separatista impedisce anche a quei gruppi della nazione che per la mentalità loro vi sarebbero disposti e che sono, per ragion diversa, fortissimi (operai, contadini, capitalismo vero e proprio) di affrontare – non dico di risolvere –, al di fuori di ogni riserva avveniristica, il problema che Nicolò Tommaseo e Pacifico Valussi prospettavano già sessant'anni or sono (a slavismo non ancora uscito di culla) come problema essenziale di convivenza fra i due popoli della Giulia.

Allo stato d'animo intransigente italiano, fondato sull'idealità annessionista, ma rinfocolato e mantenuto da altre correnti meno ideali, corrisponde l'intransigenza slava, nutrita anch'essa, lo vedemmo, di succhi puri ed impuri; e l'un fenomeno si ripercuote e influisce sull'altro. Ci troviamo in sostanza di fronte a due ideologie mutualmente sopraffattorie, le quali sono bensì patrimonio mentale di minoranze così dall'una come dall'altra parte, ma esercitano un influsso superiore alla lor forza intrinseca: è lecito concluderne che il maggiore ostacolo alla pace nazionale nella Giulia sta nel non volerla delle due avanguardie combattenti.

Con che non intendo per nulla di sottovalutare le difficoltà intrinseche dell'accordo: ve ne sono di quelle di cui il tempo soltanto potrà maturare la soluzione. Così, è evidente la connessione fra il problema giuliano di convivenza e l'austroungherese generale: problema quest'ultimo che investe tutto il meccanismo statale e si risolverà il giorno in cui prevarranno forze ed ideologie interessate o trascinate al compromesso nazionale e non, come oggi accade quasi dovunque spinte a volere il conflitto o almeno a trovare in esso un rincalzo al proprio potere economico e politico. Anche per lubrificare le angolosità occorre che, dove una nazionalità storica lotta per trattenere l'elevazione di quelle dette «senza storia» (gli antagonismi-nazionali austriaci rientrano, si può dir tutti, in questa cornice), si vada stabilendo l'equilibrio fra le due forze e le due civiltà: è il dislivello troppo accentuato che crea le ripugnanze e gli odi. Nella Giulia, la lotta centrale pro e contro l'assimilazione dovrà attenuarsi per forza, man mano che gli espedienti assimilatori si esauriranno per la progressiva refrattarietà degli assimilandi e per il convincimento, negli assimilatori, del maggior danno recato alla loro nazione dalla politica denegatoria; l'alba di questo giorno è forse men lontana di quello che possa parere, a Trieste e anche in Istria. Se giungerà a spuntare, le due nazioni della Giulia saranno tratte a riconoscersi reciprocamente il diritto di esistere l'una accanto all'altra e la ragione psicologica, cioè la ragione massima del conflitto, cadrà.

La divisione amministrativa territoriale della Giulia, vagheggiata dall'Ascoli e più recentemente dal Lazzarini, appare sempre più problematica, specie per l'impossibilità di dividere le città maggiori (Trieste, Pola, Gorizia) dove una popolazione slava ormai insopprimibile va riaffermando col fatto il suo diritto all'indigenato e la sua crescente influenza economica e civile. D'altronde, non sono i particolari pratici della convivenza, anche sullo stesso suolo, che possono costituire ostacoli insormontabili; basta che cada la ragione psicologica del conflitto. Quando gli slavi vedranno che gli italiani hanno rinunziato a italianificarli, quando gli italiani non considereranno la scuola e l'amministrazione nazionale per gli slavi come un'onta e un'offesa, le formole concrete e quotidiane dell'accordo si troveranno facilmente, come si sono, in parte, già trovate per il diritto elettorale provinciale istriano. La lotta perderà il suo carattere anticivile, rimarrà gara di energie economiche e politiche in cui prevarranno i più i adatti, di classe meglio che di stirpe, se è vero che, pur sotto appariscenze mutevoli, nel salire e decadere di ceti sta l'eterna vicenda della storia.

Ed eccoci, in chiusa, al fattore destinato ad esercitare l'influsso determinante sull'avvenire del conflitto: l'irredentismo d'oggi nel regno, cioè là donde soltanto può venire la risolvente fra le due forze opposte, fra le quali ha finora oscillato, esaurendosi, la tattica nazionale dei ceti dirigenti italiani della Giulia. È evidente che tutta, si può dire, la tattica fondamentale del nazionalismo italiano nella Giulia, dall'illusione assimilatoria alla statofobia, non ha giustificazione se non nella fede che, in un tempo relativamente prossimo, l'Italia venga nella Giulia a spostare o a tentar di spostare i termini del conflitto; altrimenti essa tattica è un assurdo e un non senso.

Che si pensa dunque nel regno? Vi è oggi – a differenza del passato – un pensiero irredentista armonico e consapevole? Si è formata cioè, almeno fra le cosidette classi direttive, una visione del problema fondata sulla realtà, preoccupata di sceverarne tutti gli aspetti, per giungere finalmente a uno stato d'animo e a un orientamento politico definitivo? Non pare. La ripugnanza alla realtà, l'accarezzare il confuso, l'evanescente, l'indefinibile, rimane ancora, a giudicare dalle sue più recenti manifestazioni, la caratteristica della mentalità separatista regnicola, come della giuliana. Rifugge anche essa dall'esame obiettivo del fattore etnico e, in ciò, subisce sempre l'influsso fuorviatore della fraseologia dei politicanti giuliani, i quali, dopo aver dipinto per quarant'anni la Giulia quale un'altra Venezia, oggi, non potendo più dissimulare lo slavismo, sono tratti al semplicismo opposto e lo presentano come un secondo Attila in procinto di ingoiare ogni vestigio di italianità.

I pochi richiami alla realtà storica non ebbero effetto, anche quando partirono da bocche autorevolissime e non sospette di tiepido patriottismo. Già nel 1880, Ruggero Bonghi, «piacendogli urtare col petto la folla anche a rischio di essere gittato per terra», aveva affermato un diritto nazionale degli slavi giuliani proprio nella prefazione della Venezia Giulia del Fambri aspirante a incorporarli tutti nel regno; ma l'acuto traduttor di Platone appare fuorviato a sua volta dalle cifre statistiche ad usum delphini che gli sono pervenute dalla Giulia e torna alla speranza cavouriana: confida nella forza assimilatoria, nell'assorbimento finale. Uno sguardo più realistico sul fattore etnico doveva gettarlo, quindici anni dopo, il glottologo, goriziano illustre, Graziadio Ascoli e, pur fidando anche lui eccessivamente nelle statistiche ufficiali, smentire le speranze del Bonghi: affermare ormai assurda l'assimilazione di massa, ricordare che la Giulia è per più di metà slava, definire «vano tormento» l'idea dell'annessione contro la quale troppo potenti fattori contrastano, consigliare la rinuncia esplicita e definitiva ad ogni idealità annessionista nell'interesse degli italiani della Giulia, per i quali poteva vagheggiare ancora la formazione di un territorio nazionale, una risorta «Intendenza dell'Istria» di napoleonica memoria, comprendente Trieste (capitale), Gorizia, l'Istria occidentale e il Friuli (Gli Irredenti, «Nuova Ant.», 1895).

Ma è voce, benché autorevolissima per le origini e il nome di chi la lancia, che cade nel vuoto e vale soltanto a rendere impopolare l'Ascoli fra i separatisti giuliani e regnicoli. Poco dopo, si levano voci affini da tutt'altra parte, mosse da tutt'altra ideologia: è il giovane socialismo italiano che, conquistatosi il diritto di vivere, incomincia a spiegare la sua funzione entro i partiti. E subito sente di dover affrontare l'irredentismo, questo "imponderabile" della politica, che pur nell'indeterminatezza sua, può essere ancora capace di circonfondere di luce ideale gli organismi da cui il socialismo più deve ripugnare: le caste militari, i gruppi a ideologie bellicose, ecc. Succede allora nel regno, mutatis mutandis, quello che abbiam visto accadere nella Giulia: le classi capitalistiche, d'istinto forse più che per ragionamento, tornano ad occhieggiare l'irredentismo che, da un quarantennio, avevano abbandonato alla tradizione repubblicana-garibaldina.

Nasce, o meglio rinasce l'irredentismo monarchico e persino clericale, specie nelle regioni confinarie (Veneto). L'accrescimento, benché ineguale, della ricchezza e della civiltà collettive, crea alla sua volta un clima più favorevole a sensazioni confuse come l'annessionista, agisce dal canto suo il recentissimo fenomeno nazionalista, ecc. Lo spirito classico, la tradizione di Roma, compagna inseparabile e spesso impacciante a ogni movimento di pensiero italiano, tornano a rammentare Augusto e la decima regione italica e il pianto d'Aquileia «là nelle solitudini». È di nuovo il carduccianismo che aveva sollevato la riscossa irredentista del 1878; carduccianismo di epigoni, senza Carducci! (Qui osservo di passata, tornando un passo indietro, che il rafforzarsi economico dell'Italia serve pure, si capisce, di qualche rincalzo alla mentalità separatista giuliana, benché esso non muti per nulla, come vedremo, il fondo materiale del problema.)

Si accentuano così, negli ultimi anni, le oscillazioni più bizzarre; storia di ieri e di oggi: i rinnovamenti periodici della Triplice e il viaggio reale di Udine, l'austrofilia di Tittoni e l'austrofobia di Fortis cresimata dalla stretta di mano di Giolitti e dalle acclamazioni di nove decimi della camera. Si capisce che, in quest'ambiente, l'irredentismo, stato d'animo grigio per eccellenza, rimanga più grigio che mai e seguiti a materiarsi d'ignoranze, di confusioni, di equivoci, patiti o voluti, di tutta insomma quella scorta intellettuale e morale che può condurre alle grandi sorprese ed anche alle grandi catastrofi.

Le ignoranze e confusioni nel pubblico (e non nell'incolto soltanto), che crede Trento e Trieste unite da un ponte o separate da un fiume, sono state a sazietà deplorate da ogni parte; le Pagine nazionaliste del Sighele si aprono coll'aneddoto, forse leggendario, di quel deputato che, perduta la coincidenza alla stazione di Ala, si proponeva di andare a bere un caffè a Trieste.

Ma, ahimè, sfogliando gli atti del primo congresso nazionalista italiano, cioè di un'accolta d'uomini che dovrebbero rappresentare, per definizione, la competenza e la preparazione nei problemi nazionali, vien fatto di ripensare, come a un calunniato, a quel povero deputato di... Ala! Il Trentino e la Giulia, due questioni (occorre ripeterlo?) fondamentalmente diverse nelle ragioni etniche, storiche ed economiche, sono di continuo appaiate e qua e là congiunte persino con la Dalmazia! Il relatore sul tema Nazionalismo e irredentismo (ed è un trentino: Scipio Sighele!) non dedica neppure un cenno fuggevole, almeno polemico, ai "due" irredentismi, ai contrasti etnografici e storici della Giulia, alle dissonanze fra l'idealità irredentista e il fattore economico, alla missione che l'Italia si assumerebbe annettendosi la Giulia, alla sua capacità o incapacità di compierla. Nulla di nulla! Unica nota predominante, quel povero "machiavellismo" da strapazzo che fa respingere un ordine del giorno contrario al rinnovarsi della Triplice e d'altro canto affermare le «provincie irredente» (quali e quante?) «proprietà nostra in usufrutto altrui» e «immancabili» i fati che consentiranno il loro ritorno in grembo alla patria! I quali «fati» poi si scopre che son la trita e convenzionale speranza dello sfasciamento dell'Austria, cioè – per la Giulia – dello smembrarsi della comunione statale fra la costa orientale adriatica e il suo hinterland, speranza (lo vedemmo e lo vedremo) in contrasto con tutta la storia del passato e, forse più, con quella presumibile dell'avvenire.

Anche un po' di "valussismo" (chiamiamolo così) fa capolino al congresso: vi è chi accenna all'alleanza italo-slava, a un'intesa di questi due mondi che si guardano dalle due sponde adriatiche. Sarebbe il momento di affrontare il conflitto etnico giuliano, di rilevare l'urto fra le due anime nazionali, l'italiana che aspira ad assorbire, la slava che non vuol più essere assorbita; di prospettare, insomma, il problema nella sua interezza pratica e teorica...: nulla; un congressista combatte l'idea degli accordi, accennando al tradimento (!?) compiuto a Trieste dagli slavi contro gli italiani! Il vocabolo basta – credo – a chiarire la profonda competenza di quel meschinello.

Anche le discussioni parlamentari seguitano nell'equivoco e nelle oscillazioni che già avvertimmo nei dibattiti anteriori: l'ultima discussione (dicembre 1910) ci offre il caso dell'on. Brunialti, che sembra dapprima tornare al pensiero di Lamarmora («neppure... l'aggiunta di qualche provincia italiana basterebbe forse a compensare il nuovo pericolo che ci deriverebbe da trovarci a contatto immediato con la Germania... da trasformazioni che spaventano chiunque non ignora che anche la causa delle nazionalità trova inciampi pressoché insormontabili», ecc.), ma, poche frasi più sotto, asserisce che «allontanare la guerra non significa rinunziare ad alcun ideale» e ricorda, in prova della tenacità di questi ideali, la presunta affermazione unitaria del Hagenauer, deputato quarantottesco triestino alla costituente viennese! Le citazioni potrebbero continuare all'infinito e sarebbero variatissime; dal giornaletto di provincia che comincia la rubrica Terre irredente con notizie da... Zara, all'uomo politico, ex ministro, che ricorda la frase gambettiana: «Pensarci sempre e non parlarne mai».

Della manchevole conoscenza del problema etnico giuliano si risentono così tutte le manifestazioni, antiche e recenti, di coloro che vorrebbero, spesso sinceramente, finirla con gli attriti ricorrenti fra l'Austria e l'Italia: «Bisogna – è la frase fatta – che agli italiani dell'Austria sia resa giustizia». Diceva così Crispi un trentennio fa come dice oggi il «Corriere della Sera». Ma questa giustizia in sostanza viene intesa nel senso che le si dà nella Giulia: si vorrebbe cioè che lo Stato continuasse a favorire fra noi il predominio italiano, rinunziasse cioè alla politica equiparatoria, il che (lo vedemmo abbastanza) lo Stato non potrebbe fare, neppure se lo volesse.

Senonché, si obietterà, l'esame cui ci invitate, si può omettere, perché è inutile: il fattore etnografico, anche se parzialmente contrario alla conquista italiana, non è decisivo. All'annessione possiamo arrivare egualmente per altra via. L'Italia potrà compensare la deficienza dei suoi titoli nazionali con la dimostrazione della capacità propria a condurre egualmente la Giulia per le vie del progresso civile.

Lo potrà o lo potrebbe?

Qui entriamo nell'esame del fattore più strettamente economico, e qui sta forse il pernio della questione.

Share on Twitter Share on Facebook