Capitolo I. LUIGI IL BENAMATO

Il Presidente Hénault, osservando a proposito dei soprannomi di onore dati ai re, come sia spesso difficile non solo ricercarne l'origine, ma anche l'epoca in cui furono conferiti, prende occasione, nella sua ufficiale forbita maniera, di fare una riflessione filosofica.

«Il soprannome di Bien-aimé (Benamato)», egli dice, «che porta Luigi XV, non lascerà la posterità nello stesso dubbio. Mentre questo Principe, nell'anno 1744, percorreva dall'un capo all'altro il suo regno sospendendo le sue conquiste delle Fiandre per volare in aiuto dell'Alsazia, dovette far sosta a Metz preso da una malattia, che minacciò di por fine ai suoi giorni. A tal nuova tutta Parigi, in preda al terrore, parve una città presa d'assalto: le chiese echeggiavano di suppliche e di gemiti, le preghiere dei preti e del popolo erano ad ogni momento interrotte da frequenti singulti. Fu a seguito d'un interessamento così caro e tenero che ebbe origine il soprannome di Bien-aimé, titolo più insigne di quant'altro questo gran Principe abbia mai guadagnato».

Così è scritto, a durevole memoria di quell'anno 1744. Intanto, altri trent'anni sono venuti e andati; questo «gran Principe» di nuovo giace infermo; ma, in quali mutate circostanze ormai! Le chiese più non echeggiano di eccessivi gemiti; Parigi è stoicamente calma; i singhiozzi non interrompono più le preghiere, che anzi non vengono neppure offerte, se si eccettuino le litanie dei preti dette o cantate a un tanto l'ora, e queste non ammettono interruzioni. Il pastore del popolo è stato trasportato dal Piccolo Trianon a casa col cuore spezzato, e adagiato nel suo letto al Castello di Versailles: il gregge lo sa e non se ne cura. Tutto al più, in quella immensa marea del cicaleccio francese che da un giorno all'altro non s'arresta e non declina che nelle brevi ore della notte, la malattia del re viene a galla di tratto in tratto, ma solo come un fatto di cronaca. Senza dubbio vi si fanno delle scommesse; alcuni ne parlano anche a voce alta nelle vie; ma, dopo tutto, sui verdi prati e sulla città adorna di campanili il sole di maggio si leva, la sera di maggio discende, e gli uomini attendono alle loro faccende utili o inutili proprio come se un Luigi non fosse in pericolo.

Madama Dubarry, veramente, potrebbe pregare, se sapesse farlo; anche il Duca d'Aiguillon, Maupeou e il Parlamento Maupeou; perchè costoro sui loro alti fastigi e con la Francia bardata sotto i piedi, ben sanno su qual base si reggono. Guarda bene, o d'Aiguillon, con lo stesso sguardo penetrante che lanciasti dal Mulino di St.-Cast su Quiberon e gli Inglesi invasori, tu «coperto allora, se non di gloria, almeno di farina»! La Fortuna fu sempre ritenuta incostante, e ogni cane non ha che il suo giorno.

Abbandonato languiva il Duca d'Aiguillon alcuni anni addietro, coperto, come abbiam detto, di farina, anzi, di qualche cosa di peggio. Perchè La Chalotais, il Parlamentare bretone, lo accusò, non solo di poltroneria e di tirannia, ma anche di concussione (espilazione di danaro commessa in ufficio), accuse che fu più facile «soffocare» con i maneggi delle scale segrete, che ribattere; ma nulla può legare il pensiero e neppur la lingua degli uomini. Onde, in disastrosa ecclissi, dovè sprofondare questo pronipote del Grande Richelieu, disistimato dal mondo, disprezzato e fin dimenticato dall'energico Choiseul, l'uomo brusco e altero. Meschina prospettiva quella di sgusciare in Guascogna a rifabbricarvi castelli, e morirvi senza gloria, ammazzando la selvaggina! Senonchè, nell'anno 1770, un tale Dumouriez, giovane soldato reduce dalla Corsica, ebbe occasione di vedere «con dolore, a Compiègne, il vecchio Re di Francia, a piedi senza cappello, al cospetto del suo esercito, a lato d'un magnifico phaëton, in atto di rendere omaggio alla.... Dubarry».

Quante cose dice tutto questo! Per ciò sopratutto potè d'Aiguilllon rimandare la riedificazione del suo castello, e riedificare prima la sua fortuna. Poichè il forte Choiseul non vide nella Dubarry altro che una cortigiana sfarzosamente abbigliata, e proseguì il suo cammino come se non ci fosse. Intollerabile cosa, sorgente di sospiri e di lagrime, di bizze e di broncio che non ebbero fine se non quando «France» (La Francia, come ella chiamava il suo regale valletto) non invocò tutto il suo coraggio per avvicinare Choiseul, e con quel «tremito del mento (tremblement du menton)» solito in questi casi, non balbettò un congedo; congedo dell'ultimo dei suoi uomini di valore, ma pacificazione con la sua ganza. Fu così che d'Aiguillon risorse e raggiunse la massima altezza. Sorse con lui Maupeou, il distruttore dei Parlamenti, che pianta un Presidente refrattario «a Croe in Combrailles, alla sommità di rocce scoscese, luogo impraticabile, accessibile solo in lettiga», perchè mediti sui casi suoi. Similmente risorse l'Abate Terray, dissoluto finanziere, che d'una lira non pagava che i due terzi; sicchè qualche bello spirito quando, in teatro, si era stretti dalla folla, soleva esclamare: «Dov'è l'Abate Terray? Egli solo potrebbe ridurci a due terzi!» Così, questi individui (veramente con arte magica) si sono eretti il loro duomo di Daniele o duomo incantato della Dubarry; chiamiamolo un palazzo d'Armida ove abitano piacevolmente: il Cancelliere Maupeou «giuoca a mosca cieca con la Cortigiana incantatrice e galantemente le regala dei negri nani»; e il Re Cristianissimo gode in quella dimora una pace indicibile, checchè avvenga di fuori. «Il mio Cancelliere è una birba, ma io non posso farne senza».

Bel palazzo d'Armida, i cui abitanti vivono una vita incantevole, carezzati da una dolce musica adulatrice, circondati dagli splendori del mondo; eppure esso si mantiene meravigliosamente sospeso come a un sol capello. Se il Re Cristianissimo venisse a morire, o temesse seriamente di morire! Poichè purtroppo non dovè la bella e altera Châteauroux fuggire con le guance umide e il cuore in fiamme da quella scena della febbre a Metz, scacciata da monaci austeri? E a mala pena potè tornare quando la febbre e i monaci disparvero. Anche la Pompadour, allorchè Damiens ferì la Sovranità «leggermente sotto la quinta costola», e la nostra gita al Trianon fu interrotta fra grida e torce pazzamente agitate; anch'ella dovè far fagotto e tenersi pronta, ma non andò via, perchè non si provò essere la ferita avvelenata. Poichè Sua Maestà ha fede religiosa, crede, foss'anche in un diavolo. Ed ora che è minacciata da un terzo pericolo e chissà mai che si nasconde in esso! I Dottori fanno la faccia austera, domandano vivamente se Sua Maestà ebbe in addietro il vaiolo, e dubitano che sia un vaiolo di falso genere. Sì, Maupeou, aggrotta pure le tue sinistre sopracciglia e scruta coi tuoi maligni occhi di topo, chè il caso è ambiguo. La sola cosa certa è che l'uomo è mortale e che con la vita di quel mortale s'infrange il più meraviglioso dei talismani, e qualunque castello di Dubarry crolla fragorosamente nello spazio infinito; e voi, come suole accadere delle sotterranee Apparizioni, svanirete completamente, non lasciando di voi che un odore di zolfo!

Costoro e tutto quello che da loro dipende possono pregare Belzebù o chi altro vorrà dar loro ascolto; ma dal resto della Francia, come s'è detto, nessuna preghiera s'eleva, o se pur qualcuna ve n'ha, vien rivolta in senso opposto, ed è apertamente espressa nelle vie. Lo Château o l'Hôtel, ove un illuminato Filosofismo scruta tante cose, non sono fatti per la preghiera, nè le vittorie di Rossbach, le finanze di Terray o, a non dir altro, «le sessantamila Lettres de cachets» (che sono il còmpito di Maupeou) possono indurre alla preghiera. O Hénault! Preghiere? Da una Francia colpita (per opera negromantica) da tormenti su tormenti, giacente ora con vergogna e dolore col piede d'una cortigiana sul collo, quale preghiera può venire? Quegli spettri languidi, che erano colpiti dalla fame per tutte le vie e i viottoli dell'esistenza francese, vorranno essi pregare? O i tristi milioni di coloro che, nelle fabbriche, nei solchi dei campi sono legati alla ruota del lavoro come cavalli che macinano imbavagliati e stretti alla cavezza, più docili perchè fatti ciechi? O quelli che giacciono all'ospedale di Bicêtre, «otto in un sol letto», aspettando il giorno della liberazione? Offuscate sono le menti di costoro, tristi e stagnanti i loro cuori: da essi il gran sovrano non è conosciuto che come il grande incettatore del pane. Se odono della sua malattia, risponderanno con un triste Tant pis pour lui, oppure domanderanno: morrà egli? Sì; morrà egli? Ormai questo è per tutta la Francia il gran quesito e la speranza; è solo per ciò che la malattia del Re desta ancora qualche interesse.

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