Vittore Cherbuliez “Tommaso Carlyle”

Il 6 febbraio 1881 morì a Chelsea, un sobborgo di Londra, uno scrittore inglese o, a dir meglio, scozzese, da poco entrato negli ottantasei anni. Da gran tempo egli aveva conchiuso l'opera sua. Alcuni uomini di genio han dote di giovinezza eterna, la facoltà preziosa delle trasformazioni, dei rinnovellamenti inattesi; l'esperienza li tempera e li matura, e non li logora, anzi conferisce loro la vicenda di molteplici vite. Tommaso Carlyle si era rivelato appieno nei primi libri, e non aveva, da allora, rinverdito il patrimonio d'idee che era de' suoi giovani anni; si può asserire con ragione che, dopo il pensatore, restava l'uomo, e che in nulla gli scemerebbe la gloria chi togliesse dall'opera sua il poco che ha scritto negli ultimi anni. Eppure la sua morte destò stupore doloroso in Inghilterra; si ricordavano i fasti della sua vita, l'azione sua vasta eminente, l’affetto che si era conciliato con la nobiltà del carattere e con la rettitudine; quel sopravvissuto ebbe rimpianto come se ancora l'arringo della vita gli si aprisse davanti a nuovi allori. Quella bocca eloquente non parlava più che per ripetersi, e di solito accade che, a ripeterlo, il pensiero ne venga contorto e deturpato: ma è bene che i popoli sappiano dare tributo di onore agli uomini che li hanno onorati, e che in considerazione del passato perdonino loro i peccati dell'età tarda.

Dal 1835 al 1860 non v'è stato in Inghilterra uomo di lettere più notevole di Tommaso Carlyle; nessuno ha goduto maggiore autorità di lui e signoria più vasta sulle menti; accoglieva in sè uno scrittore, uno storico, un pensatore: lo scrittore riscoteva ammirazione e faceva proseliti, lo storico era letto con avidità, attorno al pensatore si faceva corona e i discepoli accettavano le sentenze come oracoli. Eppure, se è vero che qualità peculiare del grande scrittore sia lo stile variato con il variare dei soggetti, Carlyle non era un grande scrittore; egli non ha mai avuto che uno stile, che peraltro era ben suo, era lo stile di Carlyle; portava in tutti gli argomenti l'impronta, il tono, l'accento e fin il gesto oratorio, perchè egli gesticolava troppo; era prodigo di esclamazioni, abusava di apostrofi e di enfasi; di qualunque cosa trattasse, saliva sul tripode, vaticinava, e cinto la fronte da una nube da cui sprizzavano lampi, pieno del nume che l'agitava, gli accadeva talvolta di dimenarsi frenetico come una sibilla. Quando se n'è letto a lungo, è una benedizione ripassare tre o quattro pagine di Voltaire, senza neppur darsi la pena di sceglierle; le sibille spesso sono mirabili, ma troppo esse si scalmanano, e ci si stanca presto del loro consorzio e della loro eloquenza convulsa.

Carlyle non era neppure un grande storico: non si studierà mai il commentario dei discorsi di Cromwell, la Storia della Rivoluzione Francese e di Federico secondo senza ricavarne grande profitto; ma quel che fa lo storico è il bisogno di comprender tutto e l'assenza del partito preso, e Carlyle si dava meno pensiero di comprendere che di magnificare quello che amava, e di dipingere con tinte fosche quello che aborriva; non ha narrato Cromwell, lo ha celebrato; non ha esposto la Rivoluzione Francese, l'ha cantata sulla sua lira, alla quale ha aggiunto, per l'occasione, una corda di bronzo che rende suoni veramente diabolici. Quando si è ubriachi di tal musica, a volta a volta celeste e satanica, che dà alla testa ed esaspera i nervi, si prova un diletto singolare a rileggere qualche capitolo di Tucidide: è una doccia salubre, che calma i sensi e ridà allo spirito la sua dirittura.

Infine, qualunque fosse la vigoria e la generosità delle sue idee, Carlyle non era un gran pensatore; ha bandito verità utili, e spesso altresì ha dato nel farnetico; ma nella sua ragione come nella sua demenza egli non aveva metodo, quel metodo che dà il filosofo. Primo fra tutti gl'inglesi, egli scoprì la Germania, e questa scoverta lo accese di impetuosi delirii d'entusiasmo, l'immerse in lunghi rapimenti; gli parve che nella terra che aveva generato Schiller e Göthe, Fichte e Hegel, i pensieri profondi e sublimi fossero merce d'uso comune, una derrata molto diffusa, e che bastasse curvarsi per raccoglierne. Arrivando alle porte d'un villaggio di Eldorado, Candido vide alcuni monelli che giocavano a piastrelle, e si rendè certo, con profondo stupore, che le piastrelle eran topazi, rubini e smeraldi; ed ancor più sorpreso fu nell'apprendere che rubini e smeraldi servivano a lastricare le ampie vie del paese: Carlyle fu preso dalla stessa meraviglia di Candido, e riportò in Inghilterra alcuni di quei ciottoli preziosi che aveva raccolti nelle sue peregrinazioni attraverso la Germania; li incastonò fastosamente, e così furono molto ammirati; ma se ai filosofi tedeschi aveva presa qualcuna delle concezioni più seducenti, qualcuna delle teorie più sottili, non aveva imparato da essi quell'arte nella quale sono maestri, e che consiste nel trarre da un principio tutte le sue conseguenze, nel dedurre le idee le une dalle altre con un rigore matematico, in guisa da comporne un sistema. Per un certo verso, il suo spirito era frammentario e sconnesso, le sue speculazioni erano fatte di pezzi e di brani, e non fu mai che un dialettico mediocre; chiunque, dopo aver meditato il Sartor resartus o le conferenze on Heroes and Hero-worship, si darà la briga di decifrare una pagina di Spinoza o di Kant, sentirà ben presto la differenza che può passare tra un filosofo e un semplice dilettante di filosofia.

Se Carlyle non può essere annoverato nè fra i grandi prosatori, nè fra i grandi storici, nè fra i grandi pensatori, bisogna convenire che era in lui il temperamento d’un grande poeta, ed è da accusare la natura che nel mentre lo dotava della immaginazione più fervida, gli aveva negato il dono del ritmo e della parola armoniosa. Vi son di quelli che mettono in versi ciò che merita appena di esser detto in prosa: Carlyle ha trascorso la vita a dire in prosa ciò che avrebbe voluto cantare in versi; era nato per scrivere poemi e odi, e le sue storie sono epopee, le dissertazioni filosofiche elegie e cantici; le astrazioni di cui ragiona sono per lui esseri animati e reali; hanno viso, occhi, bocca, piangono e ridono, ed egli conversa con esse, le interroga, le apostrofa, le loda o le riprende, le maledice o le benedice. Son questi i suoi eroi, e i suoi amori, gli Achilli e i Tancredi, le Lesbie e le Clorinde, e per meglio dimostrare a qual punto le consideri persone reali, di carne e di ossa, ha cura di scriverne sempre il nome con una iniziale maiuscola. Alcune espressioni ricorrono di frequente sotto la sua penna; parla ininterrottamente del «cuore delle cose: the heart of things», e per tutta la vita ha creduto che le cose avessero un cuore, il che, per vero, a noi pare insufficientemente provato e difficilmente dimostrabile; ma, per conto suo, non era cauto fino a revocarlo in dubbio, benchè un poeta greco abbia proclamato che «è inutile dire alle cose ingiurie o paroline dolci, atteso che esse non se ne prendon cura: οὐδὲν ημέλει».

Carlyle del poeta non aveva solo l'immaginazione, ma anche il temperamento, il carattere, i nervi frementi, le gioie e i dolori, le timidezze e le audacie. Quanti lo avvicinavano erano colpiti dalla vivacità delle sue impressioni, dall'energia ed anche dalla violenza de' suoi sentimenti; quel viso rugoso, arcigno, di linee irregolari, scavato da solchi profondi, tradiva con l'espressione mutevole l'irrequietezza e la mobilità dell'umore; la fiamma che gli brillava negli occhi rivelava un'anima ardente, cui nulla lasciava indifferente. Era necessario ammansarlo, e non era facile, talvolta ci si rimetteva il disagio; quando quella selvatichezza primitiva era vinta, quando si guadagnava la sua confidenza ed egli consentiva all'abbandono, aveva uscite impetuose, prodigiosi zampilli di eloquenza; ma di rado discuteva, bisognava credergli sulla parola: i profeti non son tenuti a spiegarsi. Alla ammirazione ch'egli ispirava andava commista una sorta di pietà; s'indovinava in lui una sofferenza ascosa, che era troppo fiera perchè cercasse le vie del rammarico; forse egli soffriva dell'esser mancato al suo destino: un poeta che non riesce a far versi, un romanziere che non può scriver romanzi sono uomini ben infelici; hanno un bel ricorrere a sostituzioni; essi non si libereranno dal demone che li travaglia e li invasa; è come la rosolia che non può uscire, come un dente che non può spuntare, e ne provengono turbamenti gravi, con frequenza straordinaria del polso, calore e brividi.

I poeti sono uomini di sentimento, giudicano le cose e il prossimo con il cuore e i nervi, tutto vedono attraverso l'affetto e gli odii: Carlyle aveva tenerezze ed entusiasmi che volgevano al fanatismo, ed aveva pure avversioni insuperabili. Il corso ordinario dal mondo gli spiaceva, ben poca predilezione accordava alla comune degli uomini, spregiava la mediocrità dello spirito e i mediocri, le persone che non hanno in testa che idee accolte dall'esterno e a caso, quelli che regolano la loro condotta sulle voci che corrono, sur un frivolo pettegolezzo e su convenzioni, quelli che sacrificano al cant, quelli che si lasciano reggere dalle proprie opinioni senza indagarne l'origine e il valore; ed anche detestava la derisione, la canzonatura, i burloni, i diffidenti, e lo scetticismo era da lui accusato di paralisi spirituale; sovrattutto detestava gli scaltri che sanno troppo bene quello che vogliono e quello che fanno, e che per percorrere la loro via traggono utile dai dubbi e dalle credenze degli altri; dichiarava che i più spiacenti degli uomini son quelli che rassomigliano alla volpe, razza dal muso appuntito, ingannevole e perniciosa, piena di ripieghi, di sottigliezza e di grazia, ma «il cui sapere ha per limite il conoscere ove han ricetto le oche e lo strangolarle con garbo». Oche e volpi, egli aspirava a purificarne la terra; ma è morto, e ancora ve ne sono, e ve ne saranno fino alla consumazione dei secoli: in qualunque ora del giorno o della notte il mondo venga a finire, si può esser certi che la tela scenderà su una volpe che sgozza un'oca.

Carlyle aveva pure in avversione i proseliti di Bentham, tutti gli utilitari che considerano l'interesse come il movente segreto di ogni nostra azione, l'utilità generale come il miglior principio di governo, e il calcolo del cervello come il più onorevole esercizio dello spirito umano; nè odiava meno i filosofi che squadrano il mondo come una macchina, che osano sostenere che tutto si muove per peso e per energia, e dappertutto vedono leve, pulegge, argani, canapi e fili; li accusava di profanare l'opera di Dio, di perpetrare un vero misfatto intellettuale, un attentato alla maestà dell'universo. E forse da questa sua repugnanza per la meccanica e per i meccanici si origina l'avversione che portava al governo costituzionale, rappresentativo e parlamentare; vi trovava, a suo intendere, troppe ruote disposte artificialmente, e non se ne riprometteva nulla di buono per la salute dell'umanità; reputava che la migliore delle Costituzioni fosse un uomo capace sul quale non cadesse discussione e a cui si conferissero poteri assoluti; ma Carlyle s'è scordato d'indicarci come bisogna regolarsi per procurarsi gli uomini capaci quando non se ne trovano sotto mano; bisognerebbe poi che il genio fosse infallibile e che non andasse soggetto a ghiribizzi molesti e che costan cari. La diffidenza è l'essenza del regime parlamentare; i popoli faran sempre bene a stare guardinghi e a preferire il sistema delle garanzie a quello dei poteri dittatorii. Del resto, se Carlyle professava un ben mediocre rispetto alla Camera dei Comuni, non ci lascia ben comprendere con quali mezzi egli potesse proporsi di organizzare la società ideale, il cui sogno l'ossessionava; quel che ci svela di più chiaro, è ch'egli progettava di dare ad amministrare la società ai letterati; ma in proposito egli non si è espresso che timidamente, per via di allusioni; certo temeva, a spiegarsi troppo, di spaventare le sue genti; se i più fidi e i più devoti fra i discepoli avessero potuto dubitare che un giorno o l'altro essi correvan rischio di diventare suoi amministrati, sarebbe accaduto un generale: si salvi chi può! La paura, in alcuni casi, presta le ali.

Carlyle detestava i ciarlatani, gli scaltri e le volpi; in compenso, era incline a perdonare ogni colpa a chi avesse anima sincera; era questa per lui la prima delle virtù, ed egli l'ha sempre seguita; e ciò fa vivere le sue opere e raccomanda la sua memoria; e non gli bastava la sincerità: voleva vi si aggiungesse il candore. Amava le stelle, poichè esse san trovare la loro via nell'immensità, senza aver l'aria di cercarla; amava le rose, poichè esse fioriscono, e non sanno perchè, nè come; e fra gli esseri umani ammirava sovratutto quelli che sono ingenui ed ignari come le stella e le rose, quelli che rassomigliano a una forza della natura, quelli che non penetrano il mistero del loro destino e che suppliscono al calcolo con l'istinto, al raziocinio con l’ispirazione, in una parola i profeti, gli eroi, i poeti. Le grandi azioni lo rapivano, ed anche le grandi parole; ma alla parola preferiva il canto, che, secondo lui, era d’origine divina. «Un pensiero musicale non può essere espresso che da un'anima che è penetrata al fondo delle cose, che ne ha colto il mistero intimo, poichè in tutto è una melodia ascosa, una armonia segreta, ch'è la sua anima. Tutti i pensieri profondi son melodiosi, è musica dovunque, e il canto è la nostra essenza; il resto non è che involucro e ammanto».

Se egli riteneva che il canto è più divino della parola, il silenzio, sovratutto quando prende una iniziale maiuscola, gli pareva ancor più divino del canto, e se faceva stima dei musicisti, teneva in pregio ancor più grande i silenziosi: «Il Silenzio è l'elemento nel quale si formano tutti i grandi disegni, nel quale maturano tutti i grandi pensieri, destinati a prender signoria del mondo e a reggerlo. Sventura a chi non ha nulla in sè che non possa dirsi! «Il Silenzio è un tesoro, e di tutti i beni il più prezioso, in questa età di fragore». Affermava che i taciturni, vaghi dell'ombra e della notte e di cui non parla nessun giornale al mattino, sono il sale della terra, che il paese che non ne possiede rassomiglia ad una foresta i cui alberi non hanno radici; essa è tutta rami e foglie, e non sarà mai una foresta vera. «O Silenzio! o grande impero del Silenzio – esclamava ancora – più alto delle stelle, più profondo dei regni della morte! tu solo sei grande, tutto il resto è piccolo». E in conseguenza esortava gl'inglesi e gli scozzesi a coltivare con cura la loro grande attitudine al silenzio, a non invidiare la sorte dei popoli che amano montare in bigoncia a perorare, a sgranare il loro rosario al cospetto dell'universo intero, e che, invece di saper tacere, divengono «foreste senza radici». S'intenderà di leggieri ch'egli non abbia mai avuto che propensione piuttosto tiepida per le nazioni latine e specialmente per i francesi; rimproverava loro di non saper «inghiottire il proprio fumo»; fors'anco, nell'intimo del cuor suo, gli sapeva male ch'essi avessero troppa predilezione per le idee chiare, e che non sentissero il pregio e il fascino commovente d'una maiuscola ben collocata, sotto la quale si può intendere «un milione di parole».

Facesse opera di storico o di filosofo, Carlyle era un poeta, e il poeta era un mistico; questo è il motivo per cui la sua persona e i suoi libri segnano un evento nuovo in Inghilterra; poichè, nonostante la grande attitudine al silenzio, l'Inghilterra è fra le nazioni la meno proclive al misticismo, quella che ha propensione maggiore per le verità positive, la meglio idonea ai calcoli d'interesse composto; è il paese che produce più empirici e utilitari, ove si incontrano con più frequenza gli uomini disposti a considerare il mondo come un macchina. L'inglese ha in tanta considerazione la meccanica, che ne mette un poco nella religione, riducendola volentieri a pratiche, ad abitudini, a forme e a formule. Carlyle fu un ribelle ed ebbe compito di liberatore; sfidò i pregiudizi, combattè le idee volgari, aprì un larga breccia nelle mura della vecchia Sion; quell'audace non temè di proclamare ai connazionali che un feticcio nel quale si crede con tutta l'anima è un idolo meno spregevole di una formula alla quale non si dà fede che a metà. L'Inghilterra si agitò quando sentì la voce di un solitario che gridava: « – Che, dunque!, dite voi; non più tempii, non più altari, liturgia, simboli, preti! E che cosa ci resterà?... – Rassicuratevi: l'universo di Dio non è un simbolo? l’immensità non è un tempio? la storia dell'uomo non è un evangelo? Se provate rimpianto per la musica dell'organo, ascoltate cantare le stelle del mattino». Sì, l'Inghilterra si stupì d'aver generato un uomo che insegnava ai giovani che le forme hanno scarso valore, che le formule passano, che vi son verità recondite in tutte le religioni, che Apollo ed Odino son da venerare al pari del Dio di Maometto, che se Geremia e S. Giovanni furono grandi profeti, Eschilo e Shakespeare furono pur essi ispirati, che se Cristo ridava la vista ai ciechi e faceva camminare i paralitici, tutti gli uomini grandi hanno aperto col miracolo occhi malati e ridato il moto a gambe che n'eran rimaste prive, che tutti i tempi come tutti i paesi han compiuto prodigi. Qualche vescovo impallidì di spavento, e le ceneri di Wesley e di Whitefield trasalirono nella tomba.

Il misticismo fa guerra alle piccole pratiche, alle formule decrepite, ai vieti dogmi, agl'idoli tarlati, e si adopera così all'affrancamento dello spirito umano, ma non saprebbe procurargli che una mezza libertà. Esso è nemico della superstizione, ma difficilmente sa valersi della ragione pura, e la scienza gl'incute spavento: la scienza cerca di spiegar tutto riconducendolo alle leggi; il misticismo ha il sacro orrore dell'esplicazione, vede mistero dovunque, fa professione di credere che il fondo delle cose è impenetrabile. Ortodossi rigidissimi sono stati scienziati insigni; essi ritenevano che l'onnipotenza divina si era in antico riservata una piccola terra alpestre per operarvi prodigi, che il sole s'era fermato su Gabaon e la luna su Agialona; essi confinavano, relegavano il miracolo in un angolo dello spazio e del tempo e gli assegnavano il luogo come si assegna un luogo al fuoco; ma ammettevano che, nel resto dell'universo, tutto è sottoposto a leggi eterne e tutto rileva dal senso comune; Newton credeva con anima fervente all'Apocalisse, nè ciò gli ha tolto di scoprire l'attrazione universale e d'inventare il calcolo infinitesimale. Carlyle affermava che la natura è sovrumana e che, quando non è divina, è diabolica; mai nessun chimico ha trovato in fondo al crogiuolo Dio o il diavolo; ed egli s'accordava con i chimici così poco come con gli utilitari; parlava con disdegno dei loro lambicchi, dei loro reagenti, della loro presuntuosa ignoranza che si lusinga di schiarire il mistero della vita con spiegazioni che nulla spiegano. «Tu pretendi, dice nel Sartor resartus, camminare attraverso il mondo col favore di quella pallida luce che chiami verità, o di quella lanternina tascabile cui io do nome di logica di procuratore; e pretendi spiegar tutto, render conto di tutto, non credere che a quanto tu vedi. Chiunque rende omaggio all’impenetrabile dominio del mistero che si stende dappertutto sotto i nostri piedi e che ad ogni istante noi tocchiamo col dito, chiunque si permette di pensare che l'universo è un oracolo e un tempio del pari che una cucina e una stalla, tu lo tratti da mistico in delirio. La tua vacca non partorisce? il tuo toro non procrea? tu stesso non sei nato, e non devi morire? Spiegami tutto ciò, o se no, delle due vie segui l'una: ritirati in casa e serba per te gl'insulsi tuoi cicalamenti, o piuttosto rinunzia alla tua follia, pentiti d'aver asserito che il regno del miracolo è passato e che il mondo di Dio s'è mutato in una vil prosa, e riconosci che tu non sei stato fino ad oggi che un dilettante, un pedante di vista torbida». Ed aggiungeva: «L'uomo che non sa stupirsi, l'uomo che non ha l'abitudine dello stupore, fosse pur presidente di innumerevoli società reali, racchiudesse pure nella testa tutta la Meccanica celeste di Laplace, tutta la filosofia di Hegel e la sintesi di quante scoverte si son fatte in tutti i laboraborii e in tutti gli osservatorii del mondo, non è che un paio di lenti dietro le quali non sono occhi; che egli consenta a giovarsi degli occhi dei veggenti, e le sue lenti potranno a noi essere di utilità».

Aristotele aveva detto che lo stupore è la prima parola della scienza, Carlyle voleva che fosse anche l'ultima: egli ci condanna all'ammirazione perpetua. Se Lavoisier si fosse contentato di stupirsi e di ammirare, la chimica non sarebbe nata; qui ben si vede con quanta ragione si dice di questo geniale scozzese ch'egli non procurava ai discepoli che una mezza libertà, la quale non poteva bastar loro a lungo. Si racconta che un fraticello era tanto abituato a far miracoli che il priore fu costretto a reprimere tanto zelo indiscreto, e gl'interdisse di porre più ad opera la sua virtù; il fraticello obbedì, non senza rimpianto; ma una volta, vedendo cader dall'alto d'una casa un povero conciatetti, si sentì l'anima divisa fra il desiderio di salvargli la vita e la santa obbedienza: per conciliar tutto, ordinò al malcapitato di restare sospeso a mezz'aria, finchè del caso non avesse riferito al priore che, sembra, gli permise di compiere il miracolo, a patto che non ricominciasse daccapo e che non tornasse alle solite. Se fosse dipeso dall'autore di Sartor resartus, l'Inghilterra sarebbe rimasta sospesa per sempre fra il dogma o la scienza, fra la tradizione e il dubbio; egli non aveva ritegno a domandare al priore il permesso di compiere il miracolo, che a lui pareva rimediasse a tutto; il conciatetti si trovava per aria, e Carlyle riteneva che questa, di tutte le condizioni, fosse la più gradevole, e dal canto suo vi si adattava; ma il conciatetti non fu di tale parere, e senza aspettare che il frate ve lo autorizzasse, a costo di fiaccarsi il collo, si affrettò a toccar terra. Il misticismo è un supplizio per chi non ha temperamento mistico, e l'inglese è fra tutti i popoli quello che più difficilmente prende partito di trascorrere la vita fra cielo e terra.

Vi sono mistici di due sorte: gli uni son semplici come colombe e infinitamente rispettabili; gli altri sono un po' più complicati, si compiacciono di oscurità studiate e non reggono alla tentazione di mescere un po' di ciarlataneria nella loro spiritualità: modello dei mistici ingenui era quel calzolaio tedesco Giacomo Böhme, del quale re Carlo primo d'Inghilterra faceva stima così grande che mandò apposta per lui a Wörlitz uno scienziato perchè lo esaminasse e lo interrogasse; Enrico Heine nota in proposito che lo scienziato se la cavò a miglior mercato del suo real padrone: perchè mentre questi perdette la testa a Whitehall sotto la bipenne di Cromwell, l'altro non perdette a Wörlitz che il senno, con l'interrogare Giacomo Böhme. Un po' prima era vissuto un altro mistico, Paracelso, ch'era molto più dotto di Böhme e un po' più ciarlatano: ha fatto vere scoperte di chimica, ha studiato il mercurio, l'arsenico e l'antimonio; ma portava un abito scarlatto e un cappello rosso, aveva inventato una panacea e un elisir di lunga vita, menava vanto di rendere immortali i discepoli, pretendeva di vivere in buona intimità con gli spiriti invisibili che animano la natura, e si gloriava di fabbricare con qualsiasi oggetto un omuncolo.

Carlyle non aveva punto del ciarlatano, nessuno mai è stato di miglior fede di lui, e mai non ha fabbricato omuncoli; d'altra parte, era molto più istruito di Böhme, aveva letto assai, la sua mente era aperta e colta, conosceva l'età sua, le apparteneva per l'educazione, nello stesso tempo che apparteneva al passato per il modo di sentire, per i rimpianti e per i sogni; era perciò in preda alle contraddizioni, e non c'è da meravigliarsi che il suo pensiero come la sua parola spesso fossero vaghi e confusi. Era insieme liberale e autoritario, e alternamente predicava l'indipendenza e l'obbedienza; esaltava i grandi emancipatori, i distruttori d'idoli, i Luteri, i Knox, e benchè detestasse il diciottesimo secolo come il secolo della incredulità e della sottile ironia, benchè riconoscesse nella Rivoluzione Francese l'impronta e l'artiglio del diavolo, egli mai non ristette dal dichiarare che il diciottesimo secolo aveva un'opera da compiere, che i sans-culottes stessi avevano la loro ragion d'essere e che la loro impresa era divina. Ma la democrazia non gl'ispirava punto entusiasmo, e in essa non vedeva che un regime provvisorio, una transizione verso qualche cosa di meglio; si lusingava che l'anarchia nella quale viviamo volgesse al termine, e che un dio nuovo farebbe rientrare le menti nell'obbedienza. Servire con dignità e con i sentimenti di un uomo libero, servire liberaliter, tale era la sua divisa, e faceva affidamento sulla religione che aveva inventata, per ridurre i popoli al dovere, per regolare i loro desiderii e la loro condotta; aveva sentenziato che se Dio si rivela nelle stelle e nelle rose, ancor più chiaramente si manifesta in tutti gli uomini grandi, dei quali, fin sui tetti, ha predicato l'adorazione. «Il culto degli eroi, egli diceva, è il solo che possa resistere fra tutte le rovine di cui la tempesta rivoluzionaria ha coverto il mondo; è il solo rottame che possiamo salvare da questo immune naufragio, o piuttosto è la pietra angolare che la rivoluzione non ha rovesciata e sulla quale noi riedificheremo. La natura è divina sempre, gli eroi son sempre adorabili, questa è la religione che a noi resta».

Quando parla degli eroi, Carlyle non è mai di sangue freddo; allora specialmente ei sale sul tripode, prorompe in impeti lirici, in osanna, dà fiato alla tromba; riduce la storia universale a un certo numero di biografie poste l'una dopo l’altra, e dichiara che si dovrebbe disperare dell'umanità se non producesse più eroi, o se riuscisse a farne a meno, o se ricusasse gli omaggi e la venerazione a quelli che già ha partoriti. Certo, egli non ha torto del tutto; gli si può concedere che quei terribili guastafeste che si chiamano uomini grandi sono per l'uman genere una merce di prima necessità, e che se si dovesse scegliere fra una società turbata dai sogni del genio e un'altra molto tranquilla nella quale ogni giorno somigliasse al precedente, nella quale tutte le teste fossero livellate, ove ciascuno godesse con delizia la libertà d'esser mediocre, la scelta del vero filantropo sarebbe fatta ben presto. «Ho veduto sulle rive dell'oceano banchi di ostriche, diceva un uomo savio, ho sentito la loro felicità, non l'ho invidiata». Gli si può anche concedere che i denigratori della fama sono di consueto gente sciocca, e che se non v’è eroe pel suo cameriere, bisogna concluderne non che gli eroi non sono eroi, ma che i camerieri sono camerieri. Hegel l'aveva detto prima di lui, e prima di lui Hegel si era fatto beffe di quei maestri di scuola i quali ammoniscono gli allievi che Alessandro e Cesare erano ambiziosi senza moralità, agitati da passioni malvagie; donde consegue che il maestro di scuola vale ben più di Cesare e di Alessandro, poichè egli è immune da ogni passione malvagia, e lo dimostra astenendosi dal conquistar l'Asia o dal vincere la battaglia di Farsalo. Hegel ancora aveva detto che Tersite, quel terribile schernitore e oltraggiatore dei re, è un modello eterno, e che se non riceve in tutti i secoli colpi di bastone, si può lasciare la cura di punirlo all'invidia che lo divora, al verme immortale che lo rode.

Ma Hegel era un filosofo; egli non pretendeva di instaurare una religione, e non s'è dato briga di canonizzare gli uomini grandi. Dopotutto, essi sono impastati della nostra argilla, il sangue che scorre nelle loro vene è ben il nostro; nulla di sovrumano è in essi, e se preparano l'avvenire, essi son figli del loro tempo: li segnala una volontà più forte che nel comune dei mortali, una anima meglio temprata, pensieri che corrono così rapidi che trafela chi li segue, una vivacità nell'azione che sconvolge le nostre lentezze, e il possedere in misura sconosciuta al volgo la facoltà misteriosa che chiamano istinto e ch'è il sentimento del destino. La parola che il loro secolo cerca e non trova, essi la divinano e la proclamano alto, e pur adoperandosi di dare a sè la felicità, aprono un arringo nuovo alla speranza dei popoli. Ma non sono infallibili: all'idea che abbracciano danno volentieri per rivale una chimera; questa lotta della fantasia e dell'istinto, dell'utopia e della missione è il lato tragico della loro esistenza; essi procurano rivincite al buon senso dei piccoli cui avevano umiliati; dopo aver avuto ragione contro tutti, tutti hanno ragione contro di essi, e spesso finiscon male, con letizia dei camerieri, dei maestri di scuola e di Tersite. Hegel rileva che nulla di grande si fa quaggiù senza passione, che la passione è sempre egoista, che gli uomini grandi sono stati, i più, prodigiosamente individuali. «Gli uomini grandi, egli diceva, sono gli strumenti e gli ordigni di quella ragione occulta che governa il mondo; per un'astuzia divina, essa si vale delle loro passioni per compiere i propri disegni sulla umanità, e dispone perch'essi abbiano a pagare tutte le spese della instaurazione nuova».

Non così l'intendeva Carlyle. I grandi, agli occhi suoi, non sono i figli del loro tempo, ma sono i figli del miracolo, un dono magnifico e generoso della munificenza divina; essi non sono i più grandi fra noi, ma «esseri a parte, emanati dal cuore stesso delle cose, una rappresentazione visibile del mondo invisibile, ambasciatori celesti, incaricati di un messaggio di vita e di rivelare alla terra i segreti del Silenzio eterno». Egli non concede che li accogliamo con restrizioni, bisogna accettarli per intero, quali sono, con tutte le loro dipendenze e appartenenze; questi sovrani per la grazia di Dio sono stati inviati dall'alto per essere obbediti dai popoli, e neppure ammette che sia in essi alcun poco di metallo impuro, e che cerchino la felicità propria nel mentre provvedono a quella dell'umanità: sono apostoli, han circonfusa la fronte del nimbo dei martiri; è falso che Lutero abbia qualche volta sacrificato la coscienza alle circostanze; è falso che, nel gran gioco della vita, come si esprimeva Voltaire, si cominci dall'esser gonzo e si finisca spesso con l'esser briccone, e che Cromwell fosse un entusiasta che del suo fanatismo si giovò per la grandezza propria. Se fosse vero che i vari Giove di quaggiù, Joves humani et terrestres, avessero debolezze e magagne, non sarebbero più adorabili – e a chi erigeremo altari? Eppure, qualunque ammirazione essi c'ispirino, e checchè ne dica Carlyle, noi avremmo torto di adorarli; di veramente adorabile non v'è che la carità disinteressata in tutto; e spesso resta ignota, essa si nasconde; i santi sono cospiratori che cercano l'ombra del mistero. In verità, religione per religione, è lecito preferire il culto degli astri al culto del genio, perchè è più facile credere al disinteresse della stella del mattino che a quello d'un eroe. Si chiamino essi Cromwell o Lutero, per grandi ch'essi siano, hanno tutti commisto il calcolo all'entusiasmo e han cercato la gloria nell'opera loro; un giorno o l'altro, ognuno alla sua maniera, tutti han pronunziato la frase d'un personaggio di Shakespeare: «Il mondo è la mia ostrica, ed io l'aprirò con la spada»

Ad onta della viva eloquenza, della parola potente e colorita, Carlyle non è riuscito a convertire i compatrioti al suo misticismo e al culto degli eroi. L'Inghilterra ufficiale è rimasta fedele alle sue formule; l'Inghilterra del pensiero s'è posta per vie ben differenti da quelle ch'egli le segnava: troppo egli è vissuto, non per la sua gloria, ma per la sua felicità. Lo rispettavano, l'ammiravano, ma non l'ascoltavano più; s'è vista sfuggire la direzione delle menti e passare in altre mani, e l'autorità sua detronizzata da poteri rivali che distruggevano senza pietà quanto egli aveva adorato. Il fascino ognor crescente che esercitavano un Darwin, un Erberto Spencer, gli cagionava pungenti angosce: era una scheggia nel vivo delle sue carni; il nuovo empirismo che essi han posto in fama, era contrario a tutte le sue tendenze, lo feriva nel profondo, ed egli ha assistito con tristezza a quel trionfo. Quella filosofia, di cui disprezzava il terra-terra e malediceva le crudezze, fa man bassa non solo sulla teosofia, sul misticismo, ma sulla metafisica, che relega nel dominio delle chimere; essa trova nell'evoluzione fatale e graduale, nel progresso insensibile, nell'eredità, nell'adattamento all'ambiente, la ragione sufficiente di ogni cosa; essa nega i profeti, fa la dissezione degli eroi, applica alle scienze morali il metodo delle scienze naturali, tutto riconduce alla pura natura, e deve pertanto durare sforzi prodigiosi col ragionamento per spiegare non solo il genio d'un uomo grande, ma un semplice atto di onestà e la più volgare delle buone azioni, nulla repugnando così alla pura natura come il lasciare al vicino il bue, l'asino, la donna, la borsa, quando gli si possano togliere senza correre alcun rischio.

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