Capitolo VII MORTE DI MIRABEAU

Ma Mirabeau non poteva vivere un altro anno, precisamente come non poteva vivere altri mille anni. Gli anni degli uomini sono contati, e la favola di Mirabeau era completa oramai. Che l'uomo sia importante o non importante, tale da essere ricordato nella Storia del Mondo per centinaia d'anni, o da essere menzionato in essa non oltre un giorno o due, è cosa che non concerne il Fato indeclinabile. Nell'affaccendarsi d'una vita florida e attiva, il Pallido Messaggero fa un cenno in silenzio; vaste reti d'interessi, progetti, salvezze di Monarchie Francesi, qualsiasi cosa l'uomo ha per le mani, tutto, egli deve d'un tratto abbandonare, ed andare. Fossi tu il salvatore d'una Monarchia Francese; fossi tu un lustrascarpe del Pont Neuf! Il più importante degli uomini non può indugiare; dovesse la storia del mondo dipendere da un'ora, quest'ora non sarà accordata. Onde si desume che le parole «sarebbe stato», sono per lo più una vanità; e la Storia del Mondo non potrebbe in nessun modo essere quel che vorrebbe o potrebbe o dovrebbe, mediante una o un'altra potenzialità; ma semplicemente e in ogni modo nient'altro di quel che è.

La foga furiosa d'una tale esistenza ha finito col logorare la forza, gigante come quercia, di Mirabeau. Una agitazione, uno stato febbrile che mantengono in fiamme il suo cuore e il suo cervello; eccesso di sforzo, di eccitamento; eccessi d'ogni genere: lavoro incessante, quasi oltre il credibile! «Se io non avessi vissuto con lui», dice Dumont, «mai avrei saputo ciò che un uomo può fare di un giorno; quali cose possono venir compiuto nell'intervallo di dodici ore. Un giorno per quell'uomo era più che non sia una settimana o un mese per gli altri: il cumulo di cose che egli menava innanzi tutte insieme, era prodigioso; dal piano all'esecuzione non andava perduto un momento. – «Signor Conte» – gli disse una volta il suo segretario – ciò che voi chiedete è impossibile! – «Impossibile!» – rispose egli balzando dalla sedia – «Ne me dites jamais ce bête de mot. Non mi dite mai questa stupida parola». E poi i banchetti sociali, i pranzi che egli dava come Comandante delle Guardie Nazionali «che costavano cinquecento lire»; oibò, «e le Sirene dell'Opéra, e tutto lo zenzero che infiamma la bocca»; per quale china c'è mai slanciato quest'uomo! Ma non può fermarsi Mirabeau, non può fuggire, salvarsi la vita? No! Vi è una Camicia di Nesso su quest'Ercole; egli deve infiammarsi e bruciare, senza riposo, finchè non sia consumato. La forza umana, anche quando è erculea, ha la sua misura. Ombre rivelatrici aleggiano pallide a traverso il cervello infiammato di Mirabeau, annunziatrici del pallido riposo. Mentre egli s'agita e tempesta, facendo ogni sforzo in quel mare di ambizione e di confusione, sopraggiunge mesto e silenzioso un ammonimento, che per lui l'uscita da quello stato sarà una morte repentina.

Nel Gennaio ultimo voi poteste vederlo qual Presidente dell'Assemblea: «aveva allora il collo avviluppato di fasce di lino, nella seduta della sera»; soffriva d'una efflorescenza del sangue, che gli produceva alternati oscuramenti e bagliori della vista; ed era costretto ad applicarsi le sanguisughe dopo il lavoro del mattino, e a presiedere fasciato. «Nel separarci egli mi abbracciò», dice Dumont, «con una emozione che non avevo mai scorta in lui: «Io muoio, amico mio; muoio come un lento fuoco; forse non ci rivedremo più. Quando io non sarò più, si accorgeranno quant'io valessi. I mali che io ho rattenuto scoppieranno da tutti i lati sulla Francia». La malattia lo avverte con tono alto; ma non riesce ad essere ascoltata. Il 27 Marzo, mentre si recava all'Assemblea, fu costretto a chiedere riposo e aiuto dal suo amico de Lamark, lungo la strada; e dovette restar là per un'ora, mezzo svenuto, disteso su un divano. Ciò non ostante egli andò all'Assemblea, quasi a dispetto dello stesso Destino; parlò a voce alta e concitata per ben cinque volte, poi lasciò la Tribuna, per sempre. Egli si dirige verso i Giardini delle Tuileries, addirittura esaurito; molta gente si accalca intorno a lui come di consueto, con suppliche e memorie, ed egli dice all'amico che lo accompagna: «Conducimi via di qua!»

E così, l'ultimo giorno di Marzo 1791, una moltitudine sterminata e ansiosa occupa la Rue de la Chaussée d'Antin, chiedendo incessantemente notizie; nell'interno d'una Casa, che nel nostro tempo porta il numero 42, il Gigante esaurito s'era abbattuto e moriva: un folla di tutti i partiti e di tutti i generi, dal Re al più meschino degli uomini! Il Re manda pubblicamente due volte al giorno a domandare, oltre tutte le volte che manda privatamente: è un domandare senza fine della folla che attende all'aperto. «Un bollettino scritto viene esposto di tre ore in tre ore; si fanno circolare delle copie, e poi lo si stampa addirittura. Il Popolo spontaneamente mantiene il silenzio; a nessuna carrozza è permesso di entrare, per evitare il rumore; la folla si accalca sulla via; ma, riconosciuta con reverenza la sorella di Mirabeau, le dà libero passaggio. Il Popolo sta muto, colpito al cuore; a tutti sembra che una grande calamità s'appressi: come se l'ultimo uomo di Francia, in grado di dominare i prossimi torbidi, giacesse ivi in una lotta disperata con una Potenza sovrannaturale».

Il silenzio di tutto un Popolo, l'assidua cura di Cabanis, Amico e Medico, a nulla valgono: il 2 Aprile, di sabato, Mirabeau sente che l'ultimo giorno è spuntato per lui; che in questo giorno deve partirsi, e cessare di esistere. La sua morte è titanica, quale è stata la sua vita! Accesa, per l'ultima volta, al bagliore del prossimo dissolvimento, la mente dell'uomo fiammeggia e brucia, rivelandosi in detti che gli uomini rammenteranno a lungo. Egli brama di vivere, eppure si acqueta alla morte, e non disputa con l'inesorabile. Il suo parlare è selvaggio e meraviglioso; poichè Fantasmi non terrestri danzano la loro danza a lume di torcie intorno alla sua anima; l'anima stessa indaga, vivida di fuoco, immota, concentrata in sè stessa per la grande ora! A tratti viene da lui un raggio di luce sul mondo che sta per lasciare. «Io porto via nel mio cuore il canto di morte della Monarchia Francese; le sue spoglie mortali saranno ora il bottino dei faziosi». E ancora, quando udì il rombo del cannone, il che è anche caratteristico, disse: «Abbiamo già il Funerale di Achille?» E parimenti quando qualche amico lo sostiene: «Sì, sostenete questa testa, che ben volentieri vi lascerei in eredità!» Giacchè l'uomo muore come è vissuto, consapevole di sè, consapevole che un mondo tiene gli occhi rivolti su lui. Egli fissa lontano il suo sguardo sulla nuova Primavera, che non diverrà mai estate per lui. Il sole s'è levato, ed egli dice: «Si ce n'est pas là Dieu, c'est du moins son cousin germain». La Morte s'è impadronita degli approcci, la possanza della parola è svanita; mentre la cittadella del cuore ancora resiste: il gigante moribondo chiede con insistenza, a segni, carta e penna, e scrive con ardore che gli diano dell'oppio per metter fine a quell'agonia. L'afflitto Dottore scuote la testa; Dormir, scrive l'altro e con trasporto glielo mostra! E così muore un gigantesco Pagano e Titano, brancolando alla cieca, senza sgomento, per la china del suo riposo. Alle otto e mezza del mattino, il Dottor Petit, che sta a pie' del letto, dice: «Il ne souffre plus». La sua sofferenza e il suo lavoro sono omai finiti.

È proprio così, o Moltitudini silenziose di Patrioti, o uomini di tutta la Francia: quest'uomo v'è stato rapito. Egli è caduto repentinamente, senza chinarsi, finchè s'è infranto; come cade una torre colpita da folgore improvvisa. Voi non udirete più la sua parola, non seguirete più la sua traccia. La moltitudine s'allontana col cuore trafitto a divulgare la triste novella. È commovente la fedeltà degli uomini verso il loro Uomo Sovrano! Tutti i teatri e tutti i pubblici luoghi di piacere son chiusi; nessun allegro trattenimento può essere tenuto in quelle sere; l'allegria non è per loro; il Popolo interviene nelle feste da ballo private, e con mestizia ordina che si smetta. E di queste feste da ballo private nient'altro che due ne furono organizzate; ed anche queste andarono a monte. La tristezza è universale; mai questa città fu tanto addolorata per una morte, mai dopo quell'antica notte, allorchè trapassato Luigi XII, i Crieurs des Corps andarono suonando i loro campanelli e gridando per le vie: Le bon roi Louis, père du peuple, est mort! Il Re perduto è ora Mirabeau, e si può dire, con poca probabilità d'esagerare, che tutto il Popolo è in lutto per lui.

Per tre giorni è ovunque un gemito sommesso; fin nell'Assemblea Nazionale si piange. Le vie spirano tutte tristezza; gli oratori montano sulle bornes, e, innanzi a un uditorio vasto e silenzioso, recitano l'orazione funebre del morto. Che nessun cocchiere passi sferzando distrattamente i suoi cavalli attraverso quei gruppi, o meglio non vi passi addirittura! Le sue redini possono essere tagliate; egli stesso e i suoi noleggiatori, come Aristocratici impenitenti, possono essere bruscamente scagliati nei canali. Gli oratori di strada parlano come è loro dato; il Popolo Sanculottico, con la sua anima rude, ascolta ardentemente, – come fanno gli uomini ad ogni Sermone o Sermo, quando vien detta la Parola che significa una Cosa e non è un Balbettìo senza significato. Nel Restaurateur del Palais-Royal, il cameriere osserva: «Bel tempo, Signore». «Sì, amico mio», risponde il vecchio Uomo di lettere, «molto bello; ma Mirabeau è morto». Rauche e ritmiche lamentazioni vengono anche dalle gole dei cantori di ballate, e sono vendute su carta di color grigio chiaro a un soldo ognuna. Ma di Ritratti, incisi, dipinti, intagliati e scritti; di Elogi, Reminiscenze, Biografie, perfino Vaudevilles, Drammi e Melodrammi, vi sarà in questi prossimi mesi la dovuta incommensurabile messe, spessa come le foglie di Primavera. Nè, quasi ad aggiungere in ciò una certa tinta burlesca, manca il Mandement Episcopale di Gobel, di quell'oca di Gobel, di recente creato vescovo costituzionale di Parigi. Un Mandement in cui il Ça ira si alterna stranamente col Nomine Domini; e voi siete con la più grande serietà invitato a «rallegrarvi di possedere in mezzo a voi un corpo di Prelati creati da Mirabeau, zelanti seguaci della sua dottrina, fedeli imitatori delle sue virtù». Così parla e schiamazza tante volte il Dolore della Francia, col suo gemito articolato e inarticolato, come meglio può, poichè un Uomo Sovrano le è stato strappato. Nell'Assemblea Nazionale, quando s'agitano questioni difficili, tutti gli occhi «si rivolgono meccanicamente al posto ove sedeva Mirabeau», – e Mirabeau è omai assente.

La terza sera della lamentazione, il 4 Aprile, vi è un pubblico Funerale solenne, quale i defunti mortali raramente ebbero. Un corteo lungo una lega, composto di centomila accompagnatori almeno. Tutti i tetti sono occupati da una moltitudine di spettatori, tutte le finestre, tutti i lampioni, tutti i rami degli alberi. La tristezza è dipinta su ogni sembiante, molti piangono; «v'è una doppia fila di Guardie Nazionali; v'è l'Assemblea Nazionale in corpo; la Società dei Giacobini ed altre Società; i Ministri del Re, i Municipali, e tutte le Notabilità, Patrioti e Aristocratici. Si nota Bouillé, «col cappello in testa», anzi col cappello sulla fronte, che nasconde tanti pensieri! Lentamente muove, in religioso silenzio, il Corteo lungo una lega, sotto gli obliqui raggi del sole, poichè sono le cinque; muove e si avanza coi suoi pennacchi, esso stesso in un religioso silenzio, interrotto a vicenda dal rullo smorzato dei tamburi, dai lunghi e strascicati gemiti della musica, da strani e nuovi clangori di tromboni, e metalliche voci di pianto; tra l'infinito ronzio umano. Nella chiesa di S. Eustachio vi è una orazione funebre di Cerutti «e una scarica d'armi da fuoco fa cadere dei pezzi di stucco». Poi, di là ancora alla chiesa di Sainte-Geneviève, che era stata consacrata, con decreto supremo, in quel tempo a Pantheon dei grandi uomini della Patria. Aux Grands Hommes la Patrie reconnaissante. Appena a mezzanotte la funzione è finita; e Mirabeau è lasciato nella sua tenebrosa dimora, primo inquilino di quel Pantheon della Patria.

Inquilino, oimè, a termine; e ne sarà scacciato. Poichè in questi giorni di convulsione e di demolizione, neppure alla polvere dei morti è permesso di riposare. Le ossa di Voltaire, tra poco, dovranno essere trasportate dal loro rubato sepolcro nell'Abbadia di Scellières a un altro sepolcro più avidamente rubante, in Parigi sua città natale; mentre tutti i mortali fanno corteo e vanno perorando; il carro è tirato da otto cavalli bianchi, con dei palafrenieri in costume classico, con bende e spighe di frumento; – quantunque il tempo sia più piovoso che mai. L'Evangelista Jean Jacques sarà a sua volta, come è ben naturale, esumato da Ermenonville e portato in processione con gran pompa al Pantheon della Patria. E altri con lui; mentre Mirabeau, come dicevamo, ne sarà poi scacciato, senza possibilità, fortunatamente, di tornarvi; ed ora riposa, irriconoscibile, poichè fu seppellito in fretta e furia, nel cuor della notte, «nella parte centrale del Cimitero di Sainte-Cathérine, nel sobborgo Saint-Marceau, per non essere più disturbato».

Così fiammeggia, visibile di lontano, la Vita d'un Uomo, e diviene cenere e un caput mortuum in questa Pira Mondiale che noi chiamiamo Rivoluzione Francese; e non fu il primo che venne a consumarsi ivi; nè l'ultimo, fra migliaia, milioni d'individui! Un uomo che «aveva ingoiato tutte le formule»; che in quegli strani tempi, in quelle strane circostanze, si sentì chiamato a vivere Titanicamente e a morire alla stessa maniera. E poichè egli, dal canto suo, aveva trangugiate tutte le formole, qual formola vi è mai tanto estensiva che possa veramente esprimere il più e il meno sul suo conto, darci il preciso risultato netto di lui? Finora non ve n'è alcuna. Non poche moralità leveranno la loro voce per condannare questo Mirabeau; la Morale da cui egli potrebbe essere giudicato non è stata ancora articolata in linguaggio umano. Ecco quanto noi possiamo dire di lui: Egli è una Realtà, non un Simulacro; un Figlio vivo della Natura nostra Madre comune; non un Artifizio vuoto, un meccanismo di convenzione, figlio del nulla, fratello del nulla. Pensi il Savio qual significato racchiuda questa breve parola, il Savio che s'aggira triste in un mondo di esseri che sono «Abiti imbottiti», chiacchieranti e ghignanti senza senso su lui, e che fanno addirittura ribrezzo all'anima più consapevole della sua funzione!

Di uomini che, in questo senso, son vivi e veggono coi propri occhi, il numero non è grande adesso: è molto se in questa vasta Rivoluzione Francese, con quella specie di furia nel voler tutto sviluppare, ne troviamo Tre. Mortali in preda alla rabbia ne troviamo; che sputano la più acre logica; che offrono il loro petto alla grandine delle palle, il loro collo alla ghigliottina: anche costoro, è penoso ma bisogna dirlo, sono in gran parte Formalità manifatturate, non Fatti ma Si-dice!

Onore all'uomo forte, in queste epoche, all'uomo che si è liberato dagli infingimenti, ed è qualche cosa. Poichè per divenire meritevole, la prima condizione certa è quella di essere. Che cessi il Convenzionalismo, con ogni rischio, ad ogni costo; finchè perduri il Convenzionalismo, la mancanza di sincerità, niuna altra cosa può avere principio. Dei Criminali umani, in questi secoli, scrive il Moralista, non ne trovò che uno imperdonabile: il Ciarlatano. «Odioso a Dio», come il divino Dante canta, ed ai nemici di Dio:

A Dio spiacente ed a' nemici sui!

Ma, chiunque vuole, con simpatia, che è la cosa più essenziale per la conoscenza intima, guardare questo enigmatico Mirabeau, può trovare che vi è realmente in lui, come base di tutto, una Sincerità, un grande e libero Ardore; anzi dite Onestà; poichè l'uomo vide sopra ogni cosa, con quella chiara e fulgida visione, ciò che era, ciò che esisteva come fatto; e seguì col suo cuore selvaggio quello e non altro. Onde, per qualunque via egli viaggi e lotti, spesso anche errando, egli è sempre un fratello. Non l'odiare; tu non puoi odiarlo! Splendendo attraverso l'ombra ed il fango, ora rifulgendo vittoriosa, più spesso lottando per liberarsi dalle tenebre, è la vera luce del genio in quest'uomo, il quale mai fu volgare o odioso; e fu, se mai, compatibile e degno di amorevole pietà. Dicono che fosse ambizioso, che volesse divenire Ministro. È verissimo. Ma non era egli forse il solo uomo in Francia che avrebbe fatto alcun che di bene da Ministro? Non la sola vanità, non il solo orgoglio; lungi da questo! Selvaggi impeti d'affetto erano in quel gran cuore; lampi di fierezza e dolce rugiada di pietà. Così, s'insozzò dei più tristi vizî, e si può dire di lui, come dell'antica Maddalena: egli molto amò. Suo padre che era il più duro, il più inflessibile dei vecchi, egli lo amò con ardore, con venerazione.

I suoi falli, le sue follie sono pure numerosi, come spesso egli medesimo lamentò, fin con le lagrime. Non è purtroppo la vita di tali uomini una Tragedia poetica; fatta dal Fato e dai propri Meriti, da Schicksal und eigenen Schuld; piena dell'elemento della Pietà e della Paura? Quest'uomo fratello, se per noi non è Epico, è Tragico; se non è grande, è vasto; vasto nelle sue qualità, vasto come un mondo nei suoi destini. Gli altri uomini, riconoscendolo tale, possono attraverso una lunga serie di tempi ricordarlo, e avvicinarsi a lui per esaminarlo e considerarlo: costoro nei loro molteplici dialetti, parleranno e canteranno di lui, – finchè non sia detta la vera parola; onde la Formula che può giudicarlo non sia più una formula sconosciuta.

Qui dunque il selvaggio Gabriele Onorato sfugge dalla trama della nostra Istoria; non senza un tragico addio. Egli, il fiore del selvaggio casato Riquetti o Arrighetti, non è più; si direbbe che in lui fosse concentrato, con un ultimo sforzo, quanto aveva di meglio la sua famiglia e poi fosse spirata, o fosse scesa a confondersi col livello comune. Quell'inflessibile vecchio marchese Mirabeau, l'Amico degli Uomini, dorme il sonno profondo. Il Bailli Mirabeau, degno Zio, presto morrà abbandonato, solo. «Mirabeau-Barile», dice un suo biografo, «attraversò sdegnosamente il Reno, e disciplinò i Reggimenti d'Emigrati. Ma un mattino, mentr'egli sedeva nella sua tenda, indubbiamente con un malessere di stomaco e di cuore, meditando con umore tartareo intorno alla piega che prendevano le cose, un certo Capitano o Subalterno gli chiese udienza per affari. Costui ottiene un rifiuto; torna a domandare, con un nuovo rifiuto; poi di nuovo ancora, finchè il Colonnello Visconte Barile-Mirabeau, scoppiando come un barile d'acquavite in fiamme, impugna la sua spada e si slancia fuori su quella canaille d'un intruso, – ahimè, sulla punta della spada, che quella canaille d'intruso aveva sguainata con grande destrezza; e muore. I Giornali parlano d'apoplessia e d'un accidente allarmante». Così muoiono i Mirabeau.

Di nuovi Mirabeau non s'è sentito parlare; la razza selvaggia, come dicevamo, è scomparsa col suo più grande rampollo. Spesso avviene così di famiglie e razze: dopo lunghe epoche di notabilità inavvertite, producono una viva quintessenza di tutte le qualità che furono in loro, per infiammare un uomo di fama mondiale; dopo di che si arrestano come esauste, e lo scettro passa in altre mani. L'ultimo eletto dei Mirabeau è scomparso; l'eletto della Francia se ne è andato. Fu lui che scosse la vecchia Francia dalle sue basi, e quasi con la sua sola mano la sorreggeva, perchè non rovinasse, perchè si mantenesse in piedi. Quali cose dipendevano da questo solo uomo! Egli è come un bastimento che viene a infrangersi di repente su rocce profonde: molto nuota sulle acque solitarie, lontano da ogni aiuto.

Share on Twitter Share on Facebook