Tutti gli operai di Valori, sotto la direzione di FRANCESCO. ― All'alzarsi del sipario il lavoro ferve vigorosamente. ― MARTINO, AMBROGIO, GENNARO ed altri sei lavoranti massellano sulle tre incudini le estremità di stanghe di ferro sostenute da apprendisti. ― BOBI al mantice, CENCIO al trapano; ORESTE butta del carbone nel fornello della macchina e vi attizza il fuoco; i limatori attendono alla loro [111] opera presso i banchi in fondo, mentre altri operai, scaglionati in catena dal proscenio a sinistra alla seconda quinta a destra, fanno passare rapidamente dall'uno all'altro i pezzi di materiale che scompaiono così dietro la macchina.
Genn. (terminando di cantare una canzone in dialetto napoletano). ― Trallalla lallà... la lallera lallà!
Franc. (ai massellatori). ― Basta! ― Al fucinale per la tempra, Martino. ― Oreste, ad attizzare. ― E voi, Bobi, soffiate. ― Gennaro, quante volte vi ha detto il principale di non cantare prima delle quattro?
Genn. ― Caro Franceschiello, ma io non canto.
Franc. ― Fatemi il piacere, Gennaro, che v'abbiamo inteso tutti: trallalla lallera lallà!
Genn. ― No! Scusate, padrone mio, non va cantata così; ma a questo modo: trallallà, lallà... lallera lallà, e così la canto io che l'aggioimparata all'officina di Pietrarsa.
Franc. ― E allora perchè dite che non è vero che cantate?
Genn. ― Perchè io non canto, sulfeggio!
Franc. ― E non potreste stare senza sulfeggià, benedetto voi?!
Genn. ― Sì, ma sarei come un uomo acciso, e lavorerei anche meno; cantanno, cioè sulfeggianno, noi non si sente neanche la fame. Proibire a noi di cantare? Allora bisogna dire che si vuole a' rivoluzione!
Franc. ― Basta. (agli operai che hanno trasportato il materiale) Al magazzino... Cencio, date voi una guardata. (scompare dietro la macchina seguito dagli operai già in catena)
Cencio. ― Oreste, occhio alla macchina, che ha sete, e bada alle valvole, veh, che con quell'arnese non si scherza: ne va della pelle. ― Bobi, animo; altrimenti quella tempra non si fa prima del mezzogiorno. (scompare un momento dietro al fucinale)
Bobi. ― Tanto meglio se non si fa!
Oreste. ― E il carbone chi lo paga?
Bobi. ― Me ne importa assai. Domando io se un uomo veramente libero dovrebbe passare la sua vita a soffiare!
[112] Mart.― Lui l'ha sempre colla politica.
Bobi. ― Senti, se tutti i disperati pari miei si mettessero d'accordo una volta, mondo birbone!
Oreste. ― Vorresti che non ce ne fossero più dei padroni, eh? (ritorna Cencio)
Bobi. ― Già, per farmi servire un pochino anch'io!
Cencio. ― Sentite, Bobi, io lavorerei sempre; che se non lavoro m'annoio un buscherìo!
Oreste. ― E così Cencio fra quattr'o cinqu'anni sarebbe daccapo più ricco di voi... Fatemi il piacere! Se nessuno potesse lavorare, non vi domando come ci si potrebbe campare, ma chi ci terrebbe aperte le osterie?
Bobi. ― Oh bella! Il Municipio.
Mart. ― Il torto di Bobi ve lo dico io subito; è quello di non aver girato l'Italia, con licenza parlando. Sapete quello che diceva sempre Cavour? Gira l'Italia.
Genn. ― Aveva ragione: vedendo s'impara.
Cencio. ― Sicuro, perchè ogni diritto ha il suo rovescio, come ogni paese ha pure il suo bene.
Mart. ― Io, con licenza parlando, qui non ho imparato a parlare toscano?
Cencio. ― Ah! ah!
Bobi. ― Carino quel toscano!
Oreste. ― Tittirrittì, tittirrittimì, tittirrittilè!(ridono tutti)
Mart. (un po' piccato, ad Ambrogio). ― Pazienza che ridano loro che sono toscani perchè ci sono nati; ma tu?
Ambr. (scherzando). ― Cos'iin sti ciaccere? Se mi voglio, parli count ün accento pü se tüscanno de tucc' voi alter!
Genn. (come sopra). ― Come sarebbe a dicere di tucci voi alteri? Se io volesse parlà tuscane, sanghe dello ciuccio, saprìa parlà meglio di molti professori, e anche di chilli addottorati... perchè quanno era piccirillo e ghievo a scola, a mamma me diceva sempre: va, figlio mio, e sturea; ca tu tiene una capa, anzi uno capone, da addiventà certo n'alletterate. E però s'io non sono n'alletterate, è sulamente perchè non aggio sturiato!
Gli altri. ― Ah! ah! Bravo Gennaro!
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