La ventesima giornata dell’Agricoltura

Di M. Agostino Gallo,

Nel commendarla, & quanto è bene essercitata da’ Bresciani.

Desinato c’hebbero il dì seguente, M. Gio. Battista Avogadro, & M. Cornelio Ducco nella sala della peschiera, sotto alla colombara di mezo, havendosi pigliato spasso nel vedere gli atti diversissimi della moltitudine de’ pesci, ch’erano venuti sotto le finestre per cagion del pane, che tuttavia vi gittavano; finalmente, partitosi i servitori, parse all’Avogadro di entrare al ragionamento solito, dicendo. Quantunque habbiate inteso voi M. Cornelio parte delle cose, che mi spinsero à venire in questa Villa; nondimeno vogliovi appresso leggere la lettera amorevolissima dell’Eccellente Dottor M. Lodovico Moro, buona memoria; ilquale, havendo abbandonato Brescia del M. D. XLVII. con gli honori, & utili che vi godeva, per fruir qui le doti della libertà, caldamente mi pregava, che homai lasciassi la Città (come più volte gli haveva promesso) accioche facessimo la vita insieme. Ma per mia gran disgratia, havendo à pena il buon gentil’huomo gustato la felicità; piacque alla bontà di Dio di premiare le sue opere co i beni dell’altra vita felicissima.

M. Giovan Battista carissimo: Perche più volte habbiamo detto d’abbandonare la Città, & venircene alla Villa; essendo io prima venuto già più dì, con speranza che di giorno in giorno veniste ancor voi con la medesima deliberatione, come ho fatt’io di vivere, e morire in questo luogo, & vedendo che’l tempo passa, & che voi non vi risolvete di lasciare in tanti travagli che tuttavia vi crescono alle spalle, sono sforzato protestarvi, che se non tagliate cotai lacci in un bel colpo (dico piu tosto hoggi che dimane) & venir’a goder la quiete che quì si trova, non solamente voi restarete prigione loro, ma vi tormentaranno anco tutto il tempo del viver che vi resta. Io vi giuro, che non vi potrei esprimere il ramarico, che ogni hora sento della lunga prigionia, dove sono stato, la quale mi ha privato, di questo pacifico vivere, che hora gusto in questa terra; conciosia che con ogni libertà posso andare per la Villa, per le vie, & per li campi solo, & accompagnato; vedendo hora vaghi horticelli, e hora bei giardini; quando vivi fonti, & quando chiari fiumi; tall’hora verdi prati, & tall’hora lieti campi; non perdendo mai punto del mio honore.

Qui medesimamente a’ suoi tempi, godo quest’aere purgatissimo, il Sole splendidissimo, i giorni lucidissimi, le notti quietissime, le tante acque limpide, le piaggie verdeggianti, gli arbori fronduti, & le viti cariche di diverse uve.

Qui parimente con gran contento mangio à quell’hora, che più mi aggrada; hora sotto la loggia, & hora innanzi alla porta; hora nell’horticello, & hora nel giardino; hora in qualche prato, & hora à canto della peschiera, ò d’un risorgente fonte, over d’un bel rio, ò d’altra chiara acqua.

Quì poi non ho carico di portar la gravosa toga, nè di essere occupato ne i tanti offici della Città, ò come giudice di ascoltare tuttodì avocati, procuratori, sollecitatori, ò causidici che m’intrichino il cervello; & manco mi conviene studiare gl’ingarbugliati, & lunghi processi, nè Bartolo con tanti altri simili; ma in vece di questi studi si malinconici, leggo con gran contento mio Platone, Filone, Seneca, & altri libri antichi; non mancando etiandio di veder la scrittura sacra col fiore de’ Dottori santi. Spendendo poi i giorni nell’andar’a Messa; godendo il nostro buon Curato, visitando gl’infermi, soccorrendo i poveri, consolando i tribolati, consigliando gl’ignoranti, accordando le controversie, pacificando le nemicitie, pratticando co i virtuosi, & fuggendo i vitiosi.

O vita fortunata della Villa, & da pochi conosciuta, poiche non pur vi è la vera libertà, ma ancor’è netta di contentiosi da rissare, d’invidiosi da schifare, di rivali da contendere, di primati da corteggiare, di gentil donne da servire, di cortigiane da presentare, di torniamenti ò giostre da bagordare. Et quel che più importa, non ci son’avocati, senz’anima che pelino, nè procuratori senza descrittione che ingarbuglino, nè causidici senza vergogna che abbarrino, nè notari senzafede che falsifichino, nè medici senza carità che amazzino.

O vita soave della Villa, poiche vi si gode la dolce conservatione de gli amici, la semplicità de’ contadini, il cantar puro delle villanelle, la rustica sampogna de i pastori, la roza rebeca de i vaccari, la santa professione de gli Agricoltori, & la bella disciplina de i loro armenti.

O vita gioiosa della Villa, poiche vi è gran spasso nel veder ballar le pecorelle, giuocare i montoni, scherzar’i capretti, saltar’i giovenchi, mughiar’i tori, anitrir’i cavalli, & lo strepitoso baiar de’ grandi cani mastini.

O vita felice della Villa, poiche con gran piacere si ode cucurire i galli, cocchillar le galline, pipiltare i pollicini, barbottar le anitre, gridar le oche, buogonare i colombi, stridere i stornelli, garrular le passere, gorgheggiar le rondinelle, lamentare i lusignuoli, gemer le tortorelle, & il vario cantar de gli altri uccelli. Che veramente furono prudentissimi quegli antichi Greci, Romani, Africani, & altri infiniti, che abbandonarono le loro grandezze, come cose che impedivano il loro vero bene, per viver’alle loro Ville, poveri di tesori labili, ma ricchissimi di candido animo, di sano intelletto, di pura conscientia, & di buona volontà. Et quantunque essi non conoscessero il vero Iddio, nondimeno, spinti da quel lume naturale, che restò all’huomo dopo che perde la giustitia originale, conoscevano che ritirandosi dalle false grandezze di questo mondo, godevano più quietamente, più allegramente, & più liberamente le vere delitie nelle Ville, che nelle Città.

Io vi potrei addurre intorno à ciò più essempi di quei famosi Greci, tuttavia voglio dirvi solo di quel sublime filosofo Pericle, il quale havendo per trentasei anni ben governata la gran Republica di Atene, finalmente, per meglio conoscere il sommo bene, deliberò di ritirarsi per vivere, & morire in Villa. Onde leggendo la notte i cari libri, & lavorando il giorno un suo poderetto, visse ancora quindici anni in questo felice stato, tenendo scritto sopra la porticella della sua povera casa. Poscia che io ho trovato il porto della vera contentezza, Speranza, & Fortuna rimanete adietro homai.

Similmente, dove sono i più chiari essempi di quei tanti Romani? fra i quali non posso tacer quel cosi stupendo di Diocletiano Imperatore, il quale, dapoi che hebbe governato l’Imperio per diciotto anni, lo rifiutò per ritirarsi alla sua cara Villa, & ivi con animo tranquillo finire la sua vita, come fece. Soleva spesse volte dire, che l’Imperatore solamente era degno di compassione, & il povero lavorator della terra d’indivia.

Doppo dui anni, che egli hebbe lasciato l’imperio, il Senato li mandò alcuni ambasciatori, che lo pregassero ad havere compassione alla Republica, & ritornare homai a Roma, perche haveva deliberato, mentre che egli viveva, di non fidare lo Scettro dell’Imperio nelle mani altrui. Et giunti alla sua povera casa, ritrovarono che zappava nell’horticello delle lattucche. Onde havendo intesa l’imbasciata, rispose loro.

Pare à voi, amici miei, cosa honesta, che chi tali lattuche (come sono queste) ha piantate, zappate, & ordinate, le lasci, & non sia assai meglio, che le mangi con riposo, che abbandonarle per ritornare ne i tanti strepiti di Roma? Et più disse. Io ho benissimo provato quanto vale il commandare; & quanto giova il lavorare la terra. Et però vi priego, che mi lasciate in questa mia casa, poi che io bramo più tosto guadagnarmi il vivere con le proprie mani, che tenere il peso dell’Imperio di Roma.

Chi non dovrebbe abbandonare ogni Città, & ridursi al vero riposo della Villa, vedendo un sì manifesto essempio di questo eccelso Imperatore: non Christiano, ma Pagano: non idiota, ma filosofo: non povero, ma il maggior Signore, che fusse à quel tempo? Il quale si spiccò da una Roma capo di tutto il mondo per ritirarsi in una Villa, dove col tesoro della povertà, & libertà maggiormente aumentasse il suo lume naturale; ilquale, benche fusse stato lungamente oppresso dalle grandi occupationi, era però tanto potente, che conosceva in parte, che la vera felicità non si può trovar ne gli honori, ò nelle ricchezze; & grandezze di questo mondo.

Chi non dovrebbe parimente habitare in Villa, vedendo ancora i tanti Christiani, i quali, per fruir maggiormente le doti dell’intelletto, non solamente più anni vissero alla Villa, ma ancora vi volsero finire la sua vita? Fra i quali non è da tacere quel sopra humano spirito di M. Francesco Petrarca, il quale soleva dire, che solamente poneva à conto di vita quegli anni, che trappassò in compagnia delle Muse in Valchiusa, & dopo in Arquà villa veramente piacevole del Padovano, dove hora sono le sue honorate ossa. Onde descrivendo questa sua felicità, diceva.

Qui non palazzi, non teatro, ò loggia;
Ma in lor vece un’abete, un faggio, un pino,
Fra l’herba verde, e’l bel monte vicino,
Onde si scende poetando, e poggia,

Levan di terra al Ciel nostro intelletto.

Adunque per questi cosi chiari essempi, non tanto possiamo dire, che egli è cosa salutifera l’abbandonare gl’intrichi, i travagli, & i rumori delle Città, per godere i riposi, le allegrie, & le contentezze delle Ville; ma ancora è di gran commodità à ciascuno, che si diletta delle lettere, della caccia, & dell’Agricoltura. Percioche queste virtù sono la corona di tutti gli altri piaceri della Villa, & le più potenti per mantener lieto ogni spirito gentile, mentre che dimora nella prigione del nostro fragil corpo: Come ben mostrano questi seguenti versi.

Ben si può dir quel cittadin felice,
Che sà schifar delle Città i travagli.
Spendendo in vaghi studi, & caccie liete
In Villa i giorni, e à guisa de gli antichi
Fra boschi, selve, campi, laghi, e fonti,
Procura il vitto in terra, e vita in Cielo.

Appresso di questi versi, che sono la istessa vita, che voi M. Gio. Battista dovreste fare; dovreste ancora non pure specchiarvi ne gli huomini celeberrimi, che havete udito; ma ancora ne i molti cittadini, & personaggi della nostra città, che dimorano tuttavia nelle loro care Ville; godendosi nelle delitie honoratissime, che si trovano. Et certamente voi vedete, che non vi essorto à cosa alcuna, che prima non l’habbia fatta io; non havendo riguardo al grado mio, al guadagnare, & al giudicio del volgo, che mi giudica per sciocco, havendo abbandonato quelle cose, per le quali, molti col grave giogo dell’ambitione fanno (come si dice) d’ogni herba fascio, per volere aggiungere à quei gradi istessi, dove più anni son vivuto, & conversato. Et però come vostro vero amico, & cordialissimo fratello, nuovamente vi essorto, vi priego, vi supplico, & vi scongiuro, che per ben vostro, tronchiate subito gl’intrichi, & i pericoli dell’anima, & del corpo, & venghiate homai in questa rara Villa, nella qual goderete le sue doti, & la conversatione di questi ben creati gentil’huomini, che tanto vi desiderano per fare la vita con voi nell’uccellare, nella caccia, nella musica, e ne gli altri spassi, dove ogni dì ci trastulliamo insieme. Taccio i piaceri, che prenderete nella vostra tanto amata Agricoltura. Che veramente questa sola vi dovrebbe spingere à venire oltra subito; & massimamente dilettandocene anco tutti noi, come facciamo. Cose assai vi potrei ancor’addurre, ma perche vi conosco di bell’intelletto, solamente io vi ricordo, c’habbiate compassione alla vita travagliosa, che voi havete detto sempre d’havere in odio. Che facendo questo, non tanto vi liberarete dal gravoso cilicio di maglia, ma anco da i vostri mangiaferri; prigionia veramente crudelissima à tutti gli animi gentili, come siete voi. Et qui facendo fine à voi mi raccomando.

Dal Borgo di Poncarale, a’ 23. di Novembre. MDXLVII.

Lodovico Moro Dottore.

Ben M. Cornelio, hora che havete ascoltato cosi benignamente questa lettera, desidero di udire tutto quello, che ne sentite.

Cor. Chi non lodarebbe tal lettera, essendo d’un tanto Dottore? Il quale di costumi, di prudentia, & di religione haveva pochi pari.

Gio. Bat. Vi giuro, che tantosto, che l’hebbi letta, ella mi eccitò talmente, che io deliberai di levare ogni impedimento per venire oltra. Ma per mia mala sorte, non potei essequir tal deliberatione, che questo mio honoratissimo amico fù condutto in Brescia gravemente amalato, & mori poco dopo, che fù a gli otto di Decembre. La qual mi stordi di tal modo, che non uscii della Città, sin’al Carnovale. Et certamente ha tanta forza questa lettera per svegliar l’huomo à conoscere la vera via che debbe tenere, che mai non l’ho mostrata ad alcun’amico di bell’intelletto, che non si sia commosso à deliberare simil vita; fraquali, essendo venuto à trovarmi questa Ascension passata il Magnifico M. Lorenzo Massa, il quale, come Secretario fedelissimo de i nostri Illustrissimi Signori, andava à Milano per alcune cose importanti, dopo alcuni ragionamenti amorevoli secondo sua natura, havendomi domandato, qual cosa mi haveva ridutto in questa Villa, vide essere stata questa lettera; onde havendola letta, quasi lagrimando, disse. Mai non conobbi cosi bene la pazzia di questo mondo, quant’hora mi fà veder questa lettera, & la felice vita che voi menate; laquale mi piace tanto, che spero con l’aiuto di Dio, non passerà molto tempo che mi porrò à farla da dovero. Et se appresso vi dicessi quanto disse intorno alla felicità che si trova nel viver lontano dalle ambitioni, & dalle false grandezze, so che vi farei stupire. Questo medesimo m’ha raccontato il mio M. Tomaso Porcacchi, haver più volte sentito dire al generoso, e infinitamente cortese M. Vecellio Vecelli da Cadoro, Agricoltor molto esperto, si come non meno è prattico ne’ reggimenti polici: il quale non picciola vaghezza prende di questa singolar professione tutto il tempo, che egli avanza da i carichi, che bene spesso gli sono imposti da i nostri Illustrissimi Signori per cagion de i confini.

Hora che voi havete inteso la cagione, che mi fece stantiare in questa Villa, voglio scoprirvi ancora, che fra gli intertenimenti dilettevoli, che mi tengono cosi lieto qui, il maggiore è la mia cara Agricoltura, della quale io ne son tanto innamorato, che mai non mi stanco a pensar di lei, nè à ragionarne con coloro, che l’apprezzano. Et per venir maggiormente alla intelligentia di essa, comprai l’anno passato buoi, cavalli, carri, aratri, & tutte le massaritie necessarie per lavorare al modo mio la possessione di questa terra. Et per la Iddio gratia, ho fin’hora in casa, che se non sono cosi eccellenti, come vorrei, sono almeno disposti à obedirmi nelle cose, che di giorno in giorno li commando; cosa che di raro si trova massari alcuni, che la vogliono intendere se non al peggio, che possono. Et però io ho deliberato di non darla mai à tali ignoranti, accioche non habbino da tiranneggiarmi tuttodì, come hanno fatto per lo passato. Che si potessi fare il medesimo de i tanti centinara di iugeri di terra buona, che ho in Ghierola, sappiate che non gli affitarei, come faccio; percioche son certo, che ne cavarei almen’il doppio.

Cor. Non solamente mi piace, che vi dilettiate dell’Agricoltura, per esser la corona di tutti i trastulli della Villa; ma ancora che voi facciate lavorare à spese vostre, & da vostri huomini questi campi; perche non sarete tormentato da i perfidi massari, come son’io in Quincianello, & Piedemonte. I quali sono talmente rustici, & invecchiati nelle loro manigolde usanze, che rispondendomi sempre fuor di ragione, dove meritamente gli ammonisco, ò riprendo, molte fiate mi pongono in desperatione di lasciarli diventar più tosto pascoli, che lasciarli lavorare à simili maligni; percioche, per mia mala sorte, quanto più li cambio, tanto più m’inciampo in peggior natione.

Gio. Bat. Mirate poi se io debbo far questo, che solamente l’anno presente, ho ricolto più frumento, che non ha fatto il massaro, che ultimamente è partito, ne gli ultimi tre anni insieme. Onde per essere il primo, non è ancora di quella somma, che saranno gli altri. Et medesimamente spero del miglio, & delle altre cose, che io sono per raccogliere. Sappiate poi, che io piantai poco meno di tre milia viti, le quali allevo ad un certo modo contrario, quasi à tutti gli altri, che ne allevano: di maniera, che ne ho fatto tirare la più parte, che à questo Febraro compirono tre anni solamente, che per verità, quanti le veggono cosi grandi, & cariche di uva, si maravigliano; giudicando, che pochi massari à pena in sette anni l’havessero ridute à cotale stato.

Cor. Benche io habbia più volte letto Columella, & altri Autori antichi; nondimeno non mi mostraron mai secreto, ò modo di piantare, & allevare viti, che facessero uva in capo di tre anni.

Gio. Bat. Non si può negare, che Columella non sia stato il più famoso Autore dell’Agricoltura di tutti gli altri antichi; nondimeno se egli ritornasse al mondo, io son certissimo, che lodarebbe le migliara di Bresciani per gran valenti in questa professione.

Ditemi, vi prego, dove si trova un paese cosi grande come questo, il quale essendo per natura sterile, sia fatto parer fertile dalla grandissima copia de i lavoratori industriosi, che in lui si trovano?

Cor. Non solamente è sterile (come dite) per essere delle quattro parti le tre occupate da monti, colli, valli, & laghi; ma ancora quella che è piana, non è più della quarta parte, che faccia lini, & le altre tre sono più tosto sterili, che fertili; di maniera che tutta quella parte, che veramente si può chiamare fertile, non è più delle sedici l’una di tutto il paese.

Gio. Bat. Avenga che voi dite il vero; nientedimeno per essere habitato da tante migliara di persone, se ne debbono raccogliere il loro necessario vivere, è forza anco che siano molto industriose; come non pure, non mancando quelle, che coltivano tutto il piano; ma etiandio tutte quell’altre, che habitano per le montagne, & valli che sono di assai maggior numero (per raccogliere à pena il vivere per tre mesi) lavorano talmente quei siti, che si possono coltivare, che fanno stupire tutto il mondo. Et chi non si stupirebbe grandemente vedendo quelle genti à coltivare benissimo quei luoghi, che sono per la maggior parte ertissimi solamente co i zapponi; portando le carpelle di legno ferrate sotto i piedi di punte aguzze; accioche non cadano quei bricchi, & si fiacchino il collo con tutta la vita loro?

Cor. Si come non è dubbio alcuno, che ne i paesi montuosi nascono più genti, & vivono più lungo tempo per cagion dell’aere cosi aprico, & per l’essercitio continuo dell’ascendere, & discendere, che non fanno ne i piani; cosi è forza, che quanto più crescono, siano anco maggiormente coltivati. Et però possiamo dire, che’l nostro paese non si può domandare fertile, come per natura si trova il Padovano, & altri di questo felicissimo stato, ma solamente (come havete detto) per la gran moltitudine di enti, che tuttavia và crescendo le quali sono sforzate à coltivarlo cosi bene, come si vede; perche altramente (come dite) non raccoglierebbono da vivere. Et che questo sia vero, cel mostrano piu scritture, & alcuni pochissimi Bresciani, che vivono ancora, i quali videro quanto era egli ben lavorato avanti la grandissima pestilentia del 1477. Per la quale vi rimase cosi poca gente, che una gran parte del paese venne à pascoli, à boschi, à lame, & à palude per non esservi chi lo coltivasse, nè chi tenesse i vasi, i ponti, i canali, gli argini, le palate, & altri sostegni all’ordine, accioche le acque non lo paludassero. Come da noi di tempo in tempo, secondo che sono ampliate le genti in numero, hanno ridutto tutte quelle cose co i monti, colli, valli, & piano al primo stato, & tutto sempre con grandissime industrie, con infinite spese, & con incredibili arti. Di maniera, che si potrebbe dire, che quando nasce un Bresciano, & specialmente un nobile, nasca etiandio un’Agricoltore; poiche si vede, che il Cielo largamente c’infonde la intelligentia del vero coltivare la terra.

Gio. Bat. Veramente che io, non so dove sia un’altro paese cosi dotato dal Signor’Iddio, come è questo: Il quale non tanto hà il piano che s’irriga benissimo quasi tutto, & i colli abondanti di grani, di bevande, & di frutti; ma ancora hà i monti copiosi di pascoli, di boschi, & di vene minerali, che si colano per ridurle in ferri, & acciali da gli assaissimi, popoli, i quali (come ho anco detto) per non raccogliere la quarta parte del loro vivere, vengono à comprare i frumenti, i migli, & i vini dal nostro piano. Et per verità la maggior parte delle nostre ricchezze dipendono dalla gran quantità de i danari che vengono portati da i paesi alieni; parte per li detti ferri, & acciali lavorati, & da lavorare; & parte ancora per la gran copia de i lini, che sono condutti altrove. Che se questo paese havesse un fiume navigabile, tengo quasi per fermo, che sarebbe superiore à quello, che fu dato da Dio al popolo d’Israele. Et tanto più si potrebbe dire questo, quanto che’l nostro raccoglie non solo di tutte le cose, che egli raccoglieva à quel tempo, ma ancora dell’altro, come ampiamente si può vedere.

Cor. Voi dite una cosa, che mi è dura da credere percioche ho sempre stimato, che quel paese sia il fiore di quanti si trovano sotto il Cielo.

Gio. Bat. Si come si legge nel libro Deuteronomio all’ottavo capo, che il detto popolo vi trovarebbe frumento, orzo, vino, oglio, mele, fichi, pomi, pietre di ferro, & acque in abondantia; cosi questo è dotato, di simili cose, ma ne hà di più, come sono i lini, i migli, le castagne, & altre rendite. Et se pur’à quel tempo era singulare di fertilità, è da pensare che tutto fusse per divina Providentia, & non per la grandissima industria del ben coltivare, come vien fatto al nostro.

Cor. Quanto più può stare questo che dite, tanto maggiormente siamo obligati alla gran bontà di Dio, poiche ci fà abondar di tanti eccellenti lavoratori che fan parer questo paese cosi raro al mondo. Et però non è maraviglia se i nostri Illustrissimi Signori l’amano sopra ogni altro dello Stato, & se ne cavano ogni anno non meno di ducati ducento trenta milia. Paese poi famoso per più cagioni, à tutto il mondo: Come di ciò possono benissimo attestare i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, & altri Prelati nostri, che sono stato appresso de i primi Signori Christiani.

Gio. Bat. Ci mancano forse i tanti altri degni testimoni prattici, i quali similmente possono riferire di questa fama; attesoche come valorosi Capitani, non solamente hanno servito, & servono à i nostri Illustrissimi Signori, ma ancora à sommi Pontifici, à Carlo Imperatore, al Re di Francia, à quello de’ Romani, al Duca di Fiorenza, al Duca di Ferrara, à quel di Parma, & alla Repubblica di Genova.

Cor. Veramente che la nostra Patria è molto degna di questa fama; si per darsi alle arme, & alle lettere, come perche non meno essalta l’arte della benedetta Agricoltura di quello, che facevano i nobilissimi Romani antichi.

Gio. Bat. Mi piace, che voi chiamiate l’Agricoltura per benedetta: atteso ch’ella veramente è la più santa, la più dilettevole, la più honorevole, & la più utile à tutti di qual si voglia arte; percioche è quella, che da il vivere à tutt’il mondo. Santa poi, perche l’huomo, che con fatti se ne diletta, mai non stà in otio; conciosia che non e hora del giorno, che non vi sia qualche cosa necessaria per occuparsi dentro. La onde, è da credere che’l Signore Iddio disegnasse al nostro primo padre Adamo questo essercitio, accioche non peccasse per cagion di otio, come forse pecco nel terrestre paradiso. Come sempre si è veduto, che gli antichi patriarchi, & santi padri che habitavano ne gli eremi, hebbero il lavorar la terra per cosa saluberrima al corpo, & all’anima. Oltra, che se voi leggerete il Testamento vecchio, & nuovo, ritrovarete che’l grande Iddio, per honorar maggiormente l’Agricoltura, non tanto più volte si è assomigliato all’Agricoltore; ma ancora infinite fiate hà nominato diversamente, villa, terra, possessioni, campi, vigne, oliveti, horti, giardini, prati, monti, colli, valli, selve, campagne, fiumi, irrigare, arare, seminare, vangare, zappare, segare, mietere, battere, palare, crivellare, letamare, piantare, sterpare, potare, tagliare, & incalmare. Senza che ha detto aratri, vomeri, erpici, carri, gioghi, stimuli, rastri, falci, pale, vanghe, zappe, securi, & altri stromenti necessarii à questa cosi Christiana professione, come alla sua infinita sapientia pareva esser beneficio à quelle benedette anime, à cui egli predicava, ò ragionava.

Volendo poi conoscere se l’Agricoltura è dilettevole, & honorevole, possiamo specchiarci nella vita di Manio Curio Dentato, di Quinto Cincinnato, di Catone Censorino, di Scipione Affricano, di Diocletiano Imperatore, & di altri infiniti Romani. I quali benche fussero ricchissimi, & grandissimi, nondimeno non curarono lasciare le loro grandezze per godere le delitie di questa non mai à bastanza lodata Agricoltura, la quale è tanto più pronta nel rendere buoni raccolti à coloro, che la amano da dovero, quanto più usano buona diligentia nel coltivar la terra con buon giuditio. Et che questo sia vero, leggete Magone, Varrone, Celso, Tremelio, Virgilio, Columella, Palladio, Costantino, Crescentio, & altri Autori; poiche diffusamente chiariscono tutto il mondo, che non si può trovare alcuna sorte di guadagno più honesto, & più largo, nè più certo, nè più stabile, nè più dilettevole, ò più degno d’ogni persona nobile, & libera, di quel, che è col mezo di questa divina arte, la quale scopre benissimo la grandissima cecità de i miseri mortali. I quali continuamente travagliano, sudano, stentano, & alle volte crepano per farsi ricchi con modi illiciti, & periculosissimi al corpo, & più all’anima. Non curandosi di arricchirsi più tosto con questa piacevolissima Agricoltura, per la quale ne vien sempre beneficiato l’huomo, & glorificato Dio.

O quanto certamente sono ciechi quei mercanti, che travagliosamente vanno d’ogni tempo per terra, per mare, per monti, & per boschi con infiniti pericoli della vita, & facoltà; bramosi di guadagnare i vinti, ò trenta per cento: per la qual cagione non lasciano quella dolorosa professione, & non si donano à quest’altra, la quale non solamente rende i vinti, & trenta per cento, ma quasi sempre più di cento per trenta?

Che diremo poi di tanti infelici soldati, i quali, per l’avidità di paga; ò per la speranza di guadagnare, con far prigioni, ò saccheggiare qualche terra, over rubbare, & sforzare dove alloggiano (non parlando mai de gli huomini d’honore) vanno ad ogni guerra ingiusta; ponendo il corpo à mille pericoli di morte ogn’hora, & col dare l’anima nelle branche del Demonio? Pazzissimi veramente; conciosia che lascino questo certo, giusto, & sicuro guadagno per seguir quello, che è incerto, illicito, & pericoloso.

In questo medesimo errore, non vi sono parimente i fascinati cortegiani ecclesiastici? I quali (parlando solamente de i cattivi, & non mai de i buoni) per più anni stentano nelle corti de i gran Prelati, & non già per divenire buoni religiosi; percioche à questo non vi pensano mai, ma solamente per havere un qualche beneficio, ò più tosto à loro maleficio, per trionfare secondo la intentione loro: Non considerando mai che tali entrate sono patrimonii di poveri. Che se questi ciechi di spirito attendessero a questa dilettevolissima Agricoltura, non penarebbono tanto per acquistare i beni d’altri, & manco morirebbono sopra la paglia con pericolo anco dell’eterno fuoco.

Cor. Io mi stupisco de tanti, & tanti che s’invescano in questi beni; attesoche per più centinara d’anni si davano per forza à quei soli, che santamente gli amministravano.

Gio. Bat. Fra questa grandissima caterva di ciechi, che grandemente sono ansiosi di robba, non so se più tosto dobbiamo piangere, che ridere la infelicità de’ fascinati, alloppiati, incantati, maleficiati, overo pazzi, anzi del tutto pazzissimi alchimisti, i quali non mai guadagnano i trenta, ò vinti, ò dieci per cento, come fanno i buoni mercanti; ma più tosto ogni volta che si pongono à congelare, ò fissare Mercurio, ò fare il sognatissimo lapis, overo altre cose secondo i lor linguaggi, sempre sempre perdono i trenta, i quaranta, & i cinquanta per cento. Iscusandosi poi con dare la colpa, hora à i recipienti, hora alle boccie, hora à i crogiuoli, & hora al troppo lento, ò all’ecessivo fuoco. Et quantunque tuttodì veggano questa lor gran ruina, nondimeno i meschini mai mai non cessano, & manco si sgomentano; anzi ogn’hora più si ostinano di perseverare sempre in questa cosi gran frenesia; tenendo per cosa certa di trovare finalmente quel loro modo di farsi i piu ricchi di tutto il mondo.

Veramente non mi maraviglio se molti ricchi, ò gran Signori si pongono à spendere, & à spendere per provare se questa scioccheria fusse mai cosa buona; ma ben mi stupisco di barbieri, calzolari, sarti, & altri plebei, i quali vi spendono non solamente ciò che guadagnano alla giornata, ma studiano, allegano, & disputano tra loro i secreti di Aristotile, di Hermone, di Gebero, di Arnaldo, di Ruimondo; & d’altri Autori dottissimi, che longamente hanno parlato sotto figure diverse di questa cosi gran follia, per dar pasto à questi innumerabili chimeristi. I quali tantosto che hanno assaggiato una sol propositione di questi filosofi naturali; non pensano, ne fanno mai altro, che fantasticare quello, che dovran fare, quando con le loro proiicioni, faranno tanta quantità d’oro, quanta sapran desiderare. Dico, che il povero lor cervello, alle volte vola tanto alto, che mirano di distruggere il potentissimo Turco, l’invincibil Sofino, & il grandissimo Cane con gli altri Signori di tutto il mondo. E ben vero, che come finalmente questi miseri insensati si veggono essere divenuti poveri da dovero, si mettono à fare de’ sofistici, ò tosare le monete, ò farne di false. La onde non è poi maraviglia se sono castigati dalla giustitia humana, & forse dalla divina. Si che per finire, beati loro se in cambio di tale cecità si occupassero in questa vera alchimia dell’Agricoltura, la quale tanto piace à Dio, & à tutto il mondo; poiche massimamente non nuoce à niuno, & giova à tutti.

Cor. O quante volte io mi son posto con gagliardi fondamenti à voler rimover’alcuni miei amici da queste vane openioni; ma vedendoli non men’incurabili di quell’altra setta, che và ogni giovedì in stregocio (come si dice) al monte Tonale, i quali muoiono in quel cosi essecrabile errore, non so poi finalmente, che fare, se non piangerli come morti.

Gio. Bat. Poscia che habbiamo ragionato assai di queste perdutte genti, voglio ritornare a narrarvi i gran piaceri, che di tempo in tempo prendo nella mia carissima Agricoltura.

Cor. Mi piace, che voi parliate di questo, & che lasciate tutti questi cervelli frenetici nelle lor pazzie.

Gio. Bat. Primamente dico, che mi compiaccio molto, quando veggo un ben’arare, un buon seminare, un vero nascere, & un bello crescere di stagione, fin’al perfetto fine.

Non è un gran trastullo quando io miro un’eccellente Agricoltore, il quale habbia prima ben nettato, ben carrettato, & ben’ordinato un campo, & che poi si pone ad ararlo più volte per lungo, & per traverso con buoi ben’ammaestrati, facendo non pure sempre le arature dritte, spesse & ben fondate (fuori quando si semina, perche all’hora basta coprire i grani con tre, ò quattro dita di terra) ma ancora erpicando benissimo, & seminando con buona semenza secondo il bisogno?

Che cosa è poi vedere il mio Castaldo, quando hà sotto di se più lavoratori per piantare viti, & per farle zappare, nettare, potare, ordinare, & ingrassare secondo le qualità de i tempi, & bisogni loro? Facendo ancora piantare opii, onizzi, salici, pioppe, olmi, mori, noci, per giusto filo, ò che si pongono ne i luoghi de i cavati. Oltra che prendo grande spasso, quando egli fà drizzare vie, quadrare campi, scavezzare tornature, carrettare cavedagne, uguagliare prati, fare ponti, argini, canali, & chiaviche per adacquare; overo quando fà cavare, ò curare fossi, sariole, dugali, & altri vasi. Et qual maggior contento posso havere, che vedere à mietere biade & farle battere? tagliare migli & farli trebbiare? sterpare lini & farli lavorare? cavare legumi & farli ritolare? segare prati & farli infenilare? scalvare arbori & farli infassinare? vendemiare uve & farle bene scegliere? & raccogliere frutti & farli conservare? Senza che io piglio gran satisfattione nel far bollir diversamente i vini, facendoli bianchi, vermigli, dolci, garbi, piccanti, puri, & con acqua. Similmente mi è di gran contento il raccogliere i diversi frutti del giardino, perche senza quelli, che non sono di conserva, ne raccoglio anco all’autunno non poca somma che conservo verdi la maggior parte dell’anno. Et oltra che ne raccoglio de cotogni in copia, de’ quali si fa in casa delle cotognate, gieli, & altre cose, hò anco tal quantità di api, che mi danno tanto mele, che posso condire più frutti, & venderne a decina di scudi. Che se fusse vivo mio avo, il quale era eccellente Agricoltore, & economico raro, io son certo che direbbe, che ho ben imparato quel suo ricordo, che più volte soleva dire. Egli è non poca infamia à ciascuno cittadino, che dimora in Villa, quando compra col danaro cosa che egli può haver nel suo podere, & però posso dire con verita che oltra la liberta, la tranquillità, l’allegria, i grandi spassi, & le molte commodità che godo qui dolcemente, ho ancora quello di più, che io spendo assai manco della metà, di quello che faceva in Brescia.

Non è poi di molta contentezza il mirare un cosi vago prato, com’è questo? Il quale si trova in perfettione di bellissimi fiori odoriferi, fatti con infiniti modi diversi dalla natura; sopra de i quali vediamo pascersi una infinità di api, di grilli, di saiottini, di barbelletti, & d’altri simili animalini simplicissimi.

Ancora, qual’è quel cosi elevato spirito, che possa esplicare la tanta maravigliosa serenità, & soavità di questo purgatissimo aere? Il quale, non pure c’illustra l’intelletto, & ci refrigera l’animo; ma ristora gli organi del corpo nostro, come proprio suo cibo.

Appresso, chi potrebbe mai esprimere la bellezza de gli affilati arbori carichi di delicati frutti, le amenissime ombre accompagnata quali sempre da qualche aura fresca in questa stagione? le quali cose gustiamo soavemente con una infinita di uccelletti diversi, che mai non cessano di cantare, & gorgheggiare secondo le loro naturali voci; dimostrandoci l’allegria interiore, che tuttavia sentono in questo opaco luogo. Armonia certamente soavissima, & perfettissima per eccitare ogni bell’intelletto alla consideratione della inesplicabile bontà del grand’Iddio, la quale non cessa mai di donarci infiniti beni in questa si frale vita, come caparra de gl’incomprensibili premii, di quell’altra perpetua.

Hora che voi Messer Cornelio mi havete cosi amorevolmente ascoltato, ditemi vi prego, ho io forse cagione di abbandonare queste mie commodità, & queste mie tranquillità, per ritornare ne gl’intrichi, & ne i travagli, che io hò havuti nella nostra città? son certissimo, che l’amore, che mi portate, non mi consigliarà mai questo.

Cor. O quanto mi fate veder la via di viver felice, se però si può viver felice in questo si fatto mondo. Confesso, che pur’hora ho inteso quel bel discorso, ò grave sententia del divin Platone, quando disse, Essendo la vita rusticale maestra, & come un’essempio della diligentia, della giustitia, & della parsimonia, non si può trovare in questo mondo cosa più utile, più dolce, più dilettevole, ò più santa, che venirsene alla Villa, dove l’huomo stà lontano da gli odii, dalle invidie, dalle calunnie, dalle cupidità & dalle ambitioni, fumo, ombre, & favori falsi di questo mondo; stando che sono sempre piene d’affanni di rammarichi, & di tormenti infiniti. E per tanto io giudicarei, che stessero bene sopra la porta di questo giardino quattro versi, che vidi l’anno passato passando per una Villetta in valle Pullicella del Veronese sopra una portetta d’un cittadino, donde compresi, ch’egli fusse di quei pochi, che sanno vivere in questo mondo; i quali, se ben mi ricordo, credo che dicano cosi.

Felice il cittadin, che stassi in Villa,
Sol per ben coltivare i propri campi,
Con quella purità de i padri antichi.
Spettando sempre il fin di gire al Cielo.

Gio. Bat. Dapoi che questi versi sono il proprio intento mio, vi prometto anco, che in breve saranno posti dove havete detto.

Cor. Se voi farete questo tanto più sarann’uno specchio à molti nobili di seguire la vita, che tenete. Che Iddio volesse che fusse imitata non pure da i Bresciani, ma datutt’il mondo; percioche non vi sarebbe da temer la giustitia per conto de i misfatti; anzi si goderebbe la pretiosa libertà, con le comodità di poter’ogn’uno andare, stare, fare, & vivere à suo modo senza sospeto, che alcuno de gli ignoranti li ghignase dietro alle spalle; facendosi beffe tuttavia per essere dissimili alla vita loro. Che quanto più considero queste cose tanto certe; io vò fuor di me, poi che siamo tanto pazzi, che per uno che si ponga à vivere in questa cosi lieta, cosi pacifica, & cosi honorata via, che non ve ne siano à migliara.

Gio. Bat. Sempre fù cosi generalmente dell’huomo, come ben disse il divin Petrarca. E veggio’l meglio, & al peggio m’appiglio.

Avisi intorno alla economica della Villa.

Cor. Mi resta solamente di chiedervi una cosa di non poca importantia innanzi che mi parta da voi; però vi prego, che mi diciate i modi, che deve tener il cittadino, che medesimamente è per habitar’in Villa, nelle cose dell’economica per poter’honorare gli amici, che allo improviso sono per venir alla sua casa; percioche veggo, che state provisto cosi bene d’ogni cosa; cominciando prima à mostrarmi con qual modo si può fare il pane, si bianco, si spongoso, & si saporito, come è il vostro.

Gio. Bat. Si come è bene à battere il frumento, che va seminato quanto più tosto si puote, per essere più atto à nascere; cosi quello è migliore per far buon pan, che non è quell’altro, che tardamente si fa fuori delle cove. Il quale sia anco netto di pietrelle, di sabbia, di terra, & di cattive sementi d’herbe, & specialmente loglio, quacciola, giottoni, & veccia, fà quale fà sempre il pane bruno, greve, & talmente maccato, che mai non cresce. Et poi si pone ben crivellato al Sole sopra i lenzuoli, & si frega cosi caldo con le mani benissimo per cavarli maggiormente la polvere; & dapoi si spruzza leggiermente d’acqua con una scopetta, & si manda all’hora al molino per Luna crescente; facendolo macinare con buone pietre ben’ordinate, & che resti bene scagliato. Cimando parimente la farina con buratto sottile, per far bel pane per la tavola del patrone, & il resto per quei, che servono, ò per li poveri, che vengon’alla porta. Usando anco, ogni diligentia nel darli l’acqua temperata; Et volendo il pane saporito, sia fatta la pasta dura, & gramolata fin tanto, che ella si gonfia, & gitta le vesciche; & dapoi sia tagliata in pastoni, & menata ancora un poco innanzi che si parta in panni; i quali siano stagionati col lievito, & poi col fuoco fin che restano bene ordinati.

Cor. Non lodate voi, che’l pane sia anco alquanto salato?

Gio. Bat. Questo si, à cui piace, salando però solamente quell’acqua che vi vuole innanzi che si ponga al fuoco; percioche non solo restarà saporito, ma ancora sarà più sano, & divenirà più gonfio.

Poi stà bene l’haver’in casa d’ogni tempo buoni vini, bianchi, rossi, grandi, mediocri, piccioli, piccanti, saporiti, dolci; & anco delle vernaccie nuove perfette, & delle vecchie rincapellate.

Ancora è bene a star fornito di zucchero, di mele, di oglio, di sale & di buon’aceto; percioche con queste cinque cose, può commodarne molte, che si mangiano, & condirne assai, che si conservano. Havendo non meno buon’agresto, vin cotto, sapore di buona uva, il quale sia alquanto duro, & non liquido.

Parimente si stia sempre ben guarnito di pepe, spetie, garofani, cannella, gengero, uva passa, zibibo, brogne, marene, cappari, pistacchi, mandole, avellane, noci, olive, castagne, composta di peri, ò di pomi rugginenti garbi d’ogni tempo.

Cor. Come si può fare tal composta per tutto l’anno?

Gio. Bat. Si pigliano peri di spina spiccati per Luna vecchia non molto maturi, & in tempo asciutto, & si pongono interi, & netti d’ogni difetto, ne i vasi con tanto aceto, che soprabondi; & coperti benissimo si tengono in luogo fresco. I quali compostano tagliati per lungo in dui pezzi, & mondati di scorza, & di dentro, si mettono nella caldaia con tanto aceto, & mele, ò vin cotto che basti, & si fanno bollire, sin che sono cotti, ma non troppo; & dapoi si pongono con la medesima conserva, ma salati, & conci con garofani pesti, ò altre buone spetiarie. Et quel medesimo dico nel fare quella de i pomi rugginenti, ò d’altra sorte dura. Et come questa è finita, se ne può fare dell’altra, che si conserva almeno per dui mesi.

Similmente lodo à conciare de i fiori de i cedri, delle foglie del dragone, & della citrona col sale in aceto, & anco del finocchio in ramuscelli co i grani non molto maturi, & in festuchi teneri. Et non meno condire col mele, ò zucchero de i cedri, scorze di melloni, colli di zucche, peri moscatelli, noci non mature con scorza, persiche, cocomeri, genocchielli, festuchi di lattuche, radici di bugolossa salvatica, boragine, & altre cose secondo la usanza della famiglie. Havendo etiandio buona marinata, succo, e gelo di cotogno, e cotognate diverse al modo nostro, & alla Genoese.

Cor. Come si fà questa cotognata Genovese?

Gio. Bat. Si mettono primamente i cotogni ben maturi nel forno nella padella subito cavato il pane, & si copre talmente che’l calore pian piano li cuoca benissimo; & dapo cosi caldi, levata la scorza, si nettano di dentro, e si pone per ogni libra di quella pasta ben cotta, meza di zucchero buono dileguato; mettendo ogni cosa in una cazza stagnata larga in fondo sopra il fuoco, & con un bastone mondo si mena di continuo tal materia attorno sin che comincia à distaccarsi dalla cazza; & da poi si pone nelle scatole all’aere cosi scoperta, ma che’l Sole, ò rugiada non vi giungano; lasciandola cosi fin che sarà salda, benche venirà ogni hora più dura.

Un’altro modo migliore si fà ancora co i medesimi pomi mondati di fuori, i quali si pongono à bollire in acqua fin che si aprono. Et fattoli passare per lo setaccio netto, per ogni quattro libre, se li mette una & meza di zucchero bello, & si fà bollire tal compositione al fuoco lento nella cazza, & si rivolge con la spatola di legno continuamente fin ch’ella si distacca dalla detta cazza. Vi si pone poi quel muschio, ò spetie, ò cannella, ò altre spetiarie secondo che più piace. Et sedacciato del zucchero sopra d’una tavola, si fà di mano in mano in fugacette con un cerchio di scatola, & si pongono al Sole, & si rivolgono spesse volte, fin che restano ben crostate, ma che sempre sia sotto del zucchero ben macinato.

Voi sapete poi che stando in Villa, & massimamente in picciola com’è questa, non si può haver carne fra la settimana. Et però stà bene, che il cittadino si fornisca il sabbato per tutti questi giorni, che se ne mangia, accioche venendo all’improviso de gli amici à casa, possa honorarli, con quella, & con capponi, pollastri, pipioncelli, persutti, lengue, tettine, salciccioni, & altre cose simili, ch’egli havera in casa. Ma perche è difficile il conservar le carni non salate al tempo del caldo, però à conservarle per quattro, ò cinque giorni, si cuocono mezanamente, & si pongono in quantità di farina; & poi non occorre à farle altro quando si vogliono mangiare, che levarle, & finirle di cuocere.

Cor. Mi piace meglio questo ricordo, che metter quelle carni nello aceto, poiche con difficultà se le cava quell’odore, & sapore.

Gio. Bat. Anzi che questo modo, mi piace assai, quando sono posti in olla di terra i pipioncelli pelati, aperti, ben netti, & mezi cotti, & salati alquanto, con gittarvi sopra tanto aceto bianco, che soprabondi. Et come si vogliono mangiare, si pongono per un pezzo nell’acqua tepida per cavarli quel poco di sale, & aceto. Poi cotti che sono si conciano in guazzetto con buoni sapori, & spetierie; ò s’infarinano, & si friggono con lardo, & petrosemolo nella padella. Et à questo modo si mangiano sin le ossa. Il simile si fà delle lepri, conigli, capponi, e altri uccelli, & massimamente quando sono buon mercato, ò che se ne hà alle volte abondantia, overo che non se mangiano, come occorre alla Quaresima.

Cor. Non si potrebbe per altri modi conservare à quei tempi, per quattro, ò cinque giorni la carne cotta non salata?

Gio. Bat. Per chiarirvi, di questo, dico che per l’ordinario, compro il sabbato un pezzo di vitello, & una lonza con un pezzo di fegato, & non fallo à pigliare un coscietto di dodici, & più libre. Il quale, tagliato la Domenica di sera sottilmente in pezzi, com’è una mano, vi si pone sopra del petrosemolo, ò rosmarino, ò citronella, ò menta, pesti con lardo, e con aglio: ma meglio è l’uva passa, quando vi sono spetie, & sale, e poi si volgono in ritoletti di uno in uno in forma d’un’ovo; & cuciti con filo, si mettono nella padella sopra il fuoco, & con tanto lardo, che tutte queste polpette (come noi chiamiamo) inondino benissimo. Et cotte che sono, non essendovi forestieri, le conserviamo asciutte ne i piatti di terra in luogo fresco sino al giovedì, & qualche volta sino alla Domenica. Vero è, che durano anco meglio se sono cotte infilzate con lo spedo, per cuocersi meglio, & asciutte.

Cor. Che ordine si deve tenere nell’honorare anco gli amici all’improviso, quando non vi è sorte alcuna di carne cotta?

Gio. Bat. Si può cuocere nella padella carni conservate nell’aceto, & non havendone, si possono frigere anco col lardo più salumi; come sono lingue tagliate sottilmente, tettine di manze, carne di porco verzelada, persutti, salcizzoni, & conciare queste cose ne i piatti con aceto, oglio, specie, uva passa, zucchero, succo di limone, ponendo seco in tavola della composta di peri, di meloni, olive, fenocchi, fior di cedri, salsa, e sapor d’uva, ò d’ovi. Ma essendo verno, mettervi non meno della mostarda, & de gli ovi fritti con l’uva passa.

Cor. Vorrei sapere, come fate quel sapore che dite, e che mi fate mangiare ogni pasto, il quale non pur’è delicato, ma rinfresca, & estingue la sete più che ogni altro cibo.

Gio. Bat. Si batte prima talmente con un cucchiaro quella quantità di ovi freschi, che si vuol conciare, che le chiare, & rossoli paiano una cosa medesima, & poi si pongano nella pignata, ò lavezuolo sopra le bragie con tanti cucchiari di aceto bianco dentro, quanti ovi sono, & quel zucchero secondo che piacciono più dolci, e manco. Vero è, che l’uva passa lo fa migliore, & anco il succo di limone in luogo dell’aceto. Et come comincia à bollire, si muovono di continuo con una bacchettina netta, accioche non si attacchino al fondo; non cessando fin che cominciano à pigliar corpo, & all’hora subito si levano dal fuoco, & si pongono ne i piatti, sopra i quali si mette dell’altro zucchero (chi vuole) & delle specie fine, ò cannella. Vero è, che à farlo perfetto, & specialmente per gli amalati, si pigliano solamente i rossoli freschi, perche sono di maggior nodrimento, e più delicati delle chiare; lequali, per esser frigide, sono anco difficili da digerire. Et questo sapore non solamente à gl’infermi racquista il gusto, gl’induce il sonno, rassetta lo stomaco, & gli è di buon nodrimento; ma ancora à i sani è piu dilettevole fatto d’un giorno, ò di dui, che non è à mangiarlo caldo. Ma, sì come non è buono troppo cotto, cosi non essendo à sufficientia cucinato non corrisponde al gusto, come quando è bene ordinato.

Cor. Certamente che gli ovi furono sempre buona monitione; percioche si possono conciare à più modi, secondo le usanze delle case.

Gio. Bat. Non è dubbio, che si possono cuocere aperti nell’acqua, ò nel latte, e poi conciarli ne i piatti col zucchero, succo di limone, & cannella con le fette di pane, & senza. Et non meno frigerli nella padella cosi, & acconciarli al modo detto. Cuocendoli parimente nella padella in frittate semplici, & con sapori tagliati di citrona, salvia, rosmarino, dragone, & altre herbicine simili, overo con l’aglio, ò con le cipolle: Ma meglio è con l’uva passa, perche restano più delicate. Ben’è vero, che sono anco tanto migliori, quanto più si conciano con specie fine, cannella, zucchero, succo di limone, & acqua rosa. Senza che si possono accompagnare con succo di salvia, ò di menta, ò d’altre herbe saporite, per restar verdi, & buone: & massimamente se si conciano più, & meno con le dette speciarie. Et non meno si possono conciare gli ovi, pigliando per ogni tre, quattro cucchiari di latte, & sbatterli bene insieme, fin che paiono una medesima cosa. Et posti cosi ne i piatti coperti co i tordi sopra le bornici, ò bragie, lasciarli cuocere, sin che sono divenuti in corpo, & poi metterli in tavola coperti di zucchero, & di cannella. Et volendosi conciare gli ovi duri, & mondi, si fanno bollire nella padella con l’oglio, & come divengono rossi, si pongono ne i piatti, & paiono tante fritelle. Oltra che si conciano cosi duri, & mondi à pestarli benissimo, & poi accompagnarli con uva passa, zucchero, specie, ò cannella, & ponerli nelli piatti, & restano molto delicati. Acconciandoli medesimamente cosi duri, & mondi, tagliandoli prima per mezo, & poi si pigliano i rossoli cosi cotti, & si pestano con maggiorana, ò petrosemolo, accompagnandoli con specie fine, & zucchero: con mettere le chiare nella padella col butiro, & col vacuo disopra, come se fussero tanti scatolini, & s’empiono di quei rossoli cosi pesti, & accompagnati. Et stufati nella padella detta, si lasciano cosi per un poco al fuoco potente, & si pongono ne i piatti. Io vi potrei dire ancora de gli altri modi, che si servano nel conciare gli ovi, ma bastano questi, per essere i più facili, & più brevi di molti altri.

Cor. Benche si possa cuocere de gli ovi à più modi in tutti i giorni, però vorrei che mi diceste dell’altre cose per honorare medesimamente ne i giorni magri, gli amici, come ho detto.

Gio. Bat. Non solamente si possono fare più sorti di torte, di offelle, e di rafioli ma ancora friggere delle frittelle à più modi, & del rosmarino, del dragone, della citrona, delle spinaccie, & della salvia concia col zucchero, poi che ella resta molto delicata.

Cor. Come si concia ella cosi delicata?

Gio. Bat. Si pigliano i ramuscelli ben teneri, ben lavati, & infarinati; & fritti che sono perfettamente nell’oglio, si levano dalla padella bene asciutti, & si conciano ne i piatti cosi caldi col zucchero ben trito. Et stati coperti per un poco, restano talmente saporiti, che dileguano in bocca, come ogni altro cibo delicatissimo.

Si può honorare ancora gli amici con gli asparagi, artichiocchi, fave fresche, rovaiotti, maiole, & altri frutti verdi, & cotti, come abondantemente ci sono concessi di tempo in tempo.

Sappiate poi, che non solamente è cosa commoda l’havere una buona peschiera, attesoche ne i giorni magri, & grassi si può mangiare pesci freschi; ma anco un vivaio di lumache, come è il mio, ilquale al tempo del freddo mi è di gran commodità, & di niuna spesa. Senza che io spero di commodarmi in un luogo per tenervi de’ conigli; de’ quali (per essere specie abondantissima) me ne potrò servire fra tutto l’anno.

Hora io non sò se vi habbia satisfatto, per non haver detto se non le cose che si aspettano al vivere honesto de’ pari nostri; havendo taciuto quelle, che convengono alle tavole de’ grandi, & alle altre de’ golosi, che non pensano mai in altro, che in trovare nuovi cibi arteficiati.

Cor. Non solamente voi havete detto di più di quello, che haverei saputo desiderare, ma ancora vi resto obligatissimo dell’havermi ampiamente fatto conoscere quanta differenza è dal vivere nella Villa, à quello che si fa nella Città. Cosa che fra pochi dì spero di mettere in prattica: dicano poi di me ciò che vogliono coloro, che non sanno attaccarsi se non al suo peggio. Et con vostra buona gratia andarò à montare à cavallo per andare a cena col Magnifico Cavalier Bornato mio cugino al suo bellissimo luogo di Molvina, per non esser molto lontano dal mio.

Gio. Bat. Per haver più volte inteso che questo sito è molto ameno, & degno della sua habitatione, com’egli fa una parte dell’anno: non essendovi discommodo, vi priego che cosi in piede, mi diciate succintamente le sue qualità.

Cor. Non è maraviglia se questo podere di trecento iugeri è cosi grato al detto Cavaliere, poi che la Natura l’ha posto in colle molto ameno, & accompagnato d’alcuni monti vaghi, i quali sono copiosi di boschi, di castagne, & d’altri belli arbori; ne’ quali si fanno delle caccie maravigliose di lepri, cervi, cavriuoli, cinghiali, orsi, lupi, & volpi; pigliandovi ancor’a’ suoi tempi diversi uccelli con le reti, balestre, archibugi, & fuochi. Poi non solamente, ella ha posto questo sì bel luogo nel centro d’alcune belle ville habitate da molti nobili, e vicino alla nostra Città cinque miglia: ma ancor l’ha dotato d’aere purgatissimo, di terra fertile, di frutti preciosi, e d’uve perfette, che fanno vernaccia & vini delicati. Oltre che vi fa nascer due fontane, che mai non cessano di scaturire acque limpidissime, lequali passano à canto della sua torre, e dell’altre habitationi accomodate per lui, e per li suoi lavoratori, irrigando una buona parte di prati molto floridi, i quali son’adornati copiosamente de’ migliori arbori fruttiferi, che si possano trovar nel paese; havendoli incalmati con le proprie mani, per haver pochi pari in questa professione, & per amar grandemente l’arte dell’Agricoltura, come huomo ben’intendente di lei. Et però non è maraviglia s’egli non apprezzi tanto le altre sue possessioni (benche siano maggiori, & fertili, & con belle fabriche) come fa questa cosi dilettevole.

Gio. Bat. Poi che mi havete divisato le doti di questo raro sito, mi farete raccomandato al Cavaliere, & li direte, che tosto sarà tempo di farli compagnia, havendo egli d’andare à far riverenza all’Eccellentiss. Signor Duca di Parma; onde non solo potrò conoscere quel sì benigno, & giusto Prencipe; ma ancora haverò gran contento à vedere i suoi disegni cominciati intorno à i gran giardini, che tuttavia và ordinando con gran bellezze. Et umilmente la sua bellissima, & rarissima fontana, che gitta l’acqua altamente con stupor grande di quanti la vedono fabricata con mirabil’arte.

Cor. Io satisfarò ad ogni cosa molto volentieri.

Il fine della ventesima, & ultima Giornata.

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