La decimanona giornata dell’Agricoltura

Di M. Agostino Gallo,

Sopra diversi spassi dell’uccellare, della caccia, & d’altre cose.

Havendo il seguente giorno desinato M. Giovan Battista Avogadro con M. Cornelio Ducco sotto la loggia à canto la porta del giardino, & volendo ragionare ancora de’ piaceri della Villa, partiti che furono i servitori, gli parse d’incominciare. Hora che cosi soli habbiamo finito di mangiare, mi sarà caro che voi M. Cornelio mi diciate ciò, che vi è parso di quanto havete veduto dopo i ragionamenti di hieri; perche intendo di parlarvi poi delle cose, che di tempo in tempo faccio in questa Villa.

Cor. Non posso se non lodare la musica, la modestia, & ragionamenti, che sentiti hieri da i vostri compagni, & non meno le belle stanze, giardini, & peschiere, che mi faceste veder per la terra.

Lodo poi l’amena strada del molino, che stamane godessimo con la bellezza ch’ella porge, per esser dritta, lunga, & da ogni lato vaga d’ombre, accompagnata da quel soave mormorio, che continuamente fa l’acqua della Mora nel far correre velocemente sei rote, che servono al Molino, alla rasica, & alla macinatora. Oltra che lodo parimente ancora tutto questo territorio, per essere dotato di tante buone cose. Onde meritevolmente è degno, che egli sia chiamato; Il bel Borgo di Poncarale.

Gio. Bat. Havendovi da dir più cose, è bene, che ci leviamo di quì, & che andiamo colà sotto à quell’alta quercia, dove goderemo la grotticella de’ bei lauri, & gelsomini adornata. Che dite poi cosi andando, di questo pergolato, vi pare ch’egli sia posto, & fabricato con ragione?

Cor. Vi giuro, che io non so dove ne sia un’altro simile di lunghezza di larghezza, di altezza, & di bellezza.

Gio. Bat. Similmente che vi pare di questo horticello, che l’accompagna tutto à mezo dì con si bella prospettiva?

Cor. Chi non dovrebbe mirar benissimo l’artificio che havete usato nell’accomodar le tante belle casse di cedri, di limoni, & di aranci; & non meno i bei vasi pieni di mortella, di maggiorana, di basilico, di garofani, di viole, & d’altre gentilissime herbe odorifere, che non pur alcuna cosa impedisce l’altra, ma ne anco i viali ben salegati?

Gio. Bat. Poscia che cosi ragionando siamo pervenuti in capo senza ch’entriamo nella sala di quella colombara, fermiamoci un poco in mezo di questa porticella, poiche l’occhio nostro trappassa questo pergolato, la loggia, il cortile, & vede quanti passano di rimpetto alla porta per la via.

Cor. Certamente che questa è una mirabil prospettiva.

Gio. Bat. Dapoi che habbiamo gustato, & considerato quanto è bella, & lunga questa vedetta, & voltiamoci in su andando dietro à questa peschiera cosi passo passo ragionando, & considerando di mano in mano la bellezza di questi arbori fruttiferi piantati con misura, & la maravigliosa vaghezza di questo prato ripieno di tanta diversità di bellissimi fiori, mirando etiandio la moltitudine de’ pesci che si riposano con si bell’ordine sotto la ombra di quella ben fronduta siepe.

Cor. Pare che questi pesci si siano posti cosi per guardarci, come se aspettassero qualche cosa da noi.

Gio. Bat. Voi non v’ingannate punto di questo che dite. Che se fusse qui il nostro delfino, vedreste i stupendi atti ch’egli farebbe, & non per altro, che per haver del pane.

Cor. Dunque voi havete in questa peschiera un delfino? Quasi che non lo posso credere.

Gio. Bat. La verità è, che vi habbiamo un carpenotto grosso forse di cinquanta libre: Il quale chiamiamo per delfino, & egli cosi intende, & viene; percioche, si come per natura ogni delfino si compiace molto di star’appresso à gli huomini, cosi questo matto pesce si gode di star dove ode, ò vede della gente; & massimamente fà questo, quando verso la sera corre quà, & là, prendendo il fresco per modo di giuoco: Perche, mentre dura l’eccessivo caldo non compare, ma dimora la giù (come credo) in certe caverne, quasi in capo della peschiera. Et veramente io pagarei una bella cosa, che voi fuste stato qui hoggi otto giorni, quando dopo cena ci vennero le gentildonne di Poncarale, accompagnate da quegli honorati gentil’huomini: Le quali entrando nel barchetto, che vedete, à pena furno dentro, che subito comparse lor dinanzi questo si glorioso pazzo; cominciando à guizzare, & saltare più volte intorno al barchetto, dico tant’alto come se fusse stato un valente curtaldo, che adhora adhora s’inalzasse per saltare dentro. La onde, havendo queste gentilissime madonne riso non poco per quella si bella festa, la Magnifica madonna Lodovica Gavarda li gittò un mezo pane legato con lo spago: Il quale abboccatolo, & tenendolo benissimo, ella se’l tirava dietro per l’acqua, secondo che’l barchetto andava, come se fusse stato un cagnolletto. Et per verità non potrei dir’il rumore, & ridere che facevano quelle nobilissime madonne per li mirabili effetti di questo cosi giocoso pesce, & di tanti altri grossi, & piccioli che lo seguivano per cagion del pane, ch’egli tutt’hora teneva in bocca. Onde noi altri del Borgo, & di Poncarale, che eravamo sù la ripa, seguitando di mano in mano questi stupendi spassi, andavamo di ridere col corpo à terra. Finalmente essendo durato questo gioco per un pezzo, il valente pesce diede una tale tirata, che strepo per forza lo spago di mano à quella honoratissima Madonna; facendone poi gran festa, & trionfo andando sù, & giù per un’altro pezzo, & sempre con grandissima compagnia di pesci. Et non ostante ch’egli fusse seguitato da tutte ch’erano nel barchetto con bagordo di gridare, di ridere, & di battere le mani, non di meno mai il valoroso pesce non si sgomentò; anzi (cosi andando) tenne sempre il capo sopra l’acqua, mostrando il pane, fin tanto li parve essere commodo di fare un bel salto, per intombare nel sua grotta, come all’improviso fece. Per le quai cose mai altro non vi si fece quella sera nell’accompagnar quelle Signore a Poncarale, che ragionare, & ridere di questa cosi maravigliosa festa.

Cor. Per certo mai non intesi, che un pesce si dimesticasse tanto, & manco facesse cosi stupende cose. Che nel vero, se altri che voi me l’havesse detto, io dubitarei che non fussero sogni del vostro galante Gavaccio. Ma per quel che veggo, siamo, cosi ragionando, giunti a questa vaga grotticella, laquale comincio a vedere con quanta arte è stata da voi accommodata con belle anticaglie, & mirabile ordine; le quali non solamente ci prestano gran satisfattione nel considerarle di una in una, ma possiamo goderle ancora nel sedervi sopra.

Gio. Bat. Dapoi che siamo pervenuti in questo opaco luogo, sediamoci adunque, accioche possiamo ragionare commodamente, secondo il desiderio nostro.

Voi sapete che fra le contentezze che l’huomo può havere in questo mondo, una delle maggiori è il conferire con gli amici le cose pertinente all’hore, delle quali mentre che egli vive, ne debbi haver sempre tutta quella cura, che per lui sia mai possibile. Onde, sapendo io quanto ne debbo esser geloso, ho pensato di darvi conto della vita che di tempo in tempo faccio qui, accioche giudichiate poi, se coloro che tanto mi calunniano, han cagione di farlo, ò nò. Adunque, sì come hieri vi dissi che pigliamo ogni giorno più perniconi con gli sparavieri, vi dico parimente che tosto faremo correre le lepri, benche sarà spasso breve per li migli, & meliche che le saranno à guisa di folti boschi. Et passati questi piaceri, ci trastulleremo col can di rete. Et avenga che questo esercitio sia faticoso, non dimeno è di grande spasso, & di certa utilità, per ritornare à casa (quasi sempre) con buon numero di quaglie. Et quantunque la più parte de’ nostri cani conducano, & appostano solamente di quaglia in quaglia, ò altri uccelli; tuttavia fanno tanto presto, che se ne piglia in quantità. Et però è di minor fatica à quegli uccellatori che hanno cani, che le riducono tutte d’un campo in un sol luogo; perche traendole la rete adosso, vi restano anco prese tutte in un colpo solo.

Cor. Si come hieri vi dissi ch’io veniva dal mio singolar patrone il Conte Gio. Francesco di Gambara: dico non meno, che fra gli spassi mi ha fatto vedere in quattro giorni, mi piacque ultimamente molto l’uccellar d’un suo eccellentissimo cane fatto venir della Marca: il qual’entrando in ogni campo di prato, di stoppia, over di pabulo, sempre lo circondava cominciando ne i confini, & poi girando, & rotando, intorno intorno, si ristringeva ogn’hora più di mano in mano, finche cosi à poco à poco haveva ridutto nel mezo tutte le quaglie, che vi si trovavano. Vi giuro, che nel trar solamente tre volte la rete il suo valente uccellatore, ne pigliò trentasette; nè più volse uccellare per essere hora di cena. Là onde, venendo noi à casa, quel cane non fece mai altro che saltare, & festeggiare con diversi modi di volteggiare, & di abbaiare con voci strane, che pareva fosse pazzo. Et io maravigliandomi di questa novità, il detto Signore mi disse, che sempre faceva cosi, quando egli vedeva esser fatto buona presa; & per contrario, come se ne pigliavano poche, ò niune, non tanto non festeggiava al modo detto, ma rimaneva talmente tristo, come se fosse stato un’huomo malenconico. Oltra che mi disse; Che mentre haveva ridotto in un luogo tutta quella sorte d’uccelli, che egli haveva trovati; faceva distintamente certi segni, per li quali s’intendeva s’erano quaglie, ò pernici, over fagiani.

Gio. Bat. Si come à tutto’l mondo è noto, che questa famosa casa di Gambara è nel numero delle più antiche, & delle più nobili d’Italia, & che sempre ha prodotto huomini strenui, magnanimi, & illustri: cosi non è maraviglia, se fra quelli vi è ancora questo nobilissimo spirito: Il quale non solamente è dotato di buone lettere in piu facoltà, ma ancor di prudenza, di bontà, e di liberalità. Oltra che stando al suo bel Pralboino, continuamente si diletta della musica, dell’Agricoltura (essendo stato il primo che hà introdotto in questo paese la floridissima herba della medica) della caccia, dell’uccellare, del pescare, & di altri honorevoli spassi, che convengono ad un tanto Personaggio. Si che non è maraviglia s’egli ha un cosi stupendo cane di rota; conciosiache d’ogni sorte di buoni cani, di rari uccelli è sempre ben fornito; & se ancora hà speso felicemente gli anni suoi in simili piaceri; non mancando mai di studiar le sue determinate hore; componendo, correggendo qualche buon libro, come hal presente hà ridutto à buon porto, & non senza gran fatica, quello di Pietro Crescentio il quale era talmente scorretto, che non vi era huomo, che potesse cavarne construtt’alcuno. Senza ch’egli è stato molto prudente, havendo sempre abhorrito l’habitar nella Città, & gli honori che vi havrebbe havuto degnamente. Che, si come ha benissimo conosciuto esser’ombre, & vanità che rodono tuttavia gli animi gentili; per contrario à sempre apprezzato la libertà della Villa, & la felicità che si trova nell’Agricoltura; godendosi ne gli honesti piaceri con gli amici ben creati, & virtuosi; de i quali sempre appresso di se ne ha havuto copia. Poi fra gli spassi dell’uccellare che mi dilettano, dico che io piglio de’ quagliotti d’Aprile, & d’altri mesi, col farli chiamar’amorosamente dalle quaglie ingabbiate, come cari amanti. Effetto veramente contrario à quello che usano le civette, i dughi, i smerlini, sparavieri, astori, & falconi; conciosia che non mai con voci amorose, ma solamente con scherzi, con gabbi, ò con griffe, ò con becchi conducono questi, & altri uccelli alla morte. Et chi non pigliarebbe molto spasso, vedendo prima i quagliotti con la loro strepitosa, & roza voce à cantar’i lor’amori, & esserli risposto soavemente da una eccellente quaglia? Laquale, tantosto ch’è udita da uno, da dui, ò da più, gli sforza à caminare verso di lei, & delle paratelle mappate sottilmente di rete, che non sopravanzano le biade, ne’ prati, ne’ lini dove si pongono: Che alle volte, à pena sono distese, che quei meschini vi sono giunti; onde trovandole per modo di siepe, & pur desiderosi di passarle per andar’appresso lei, si ficcano, & s’intascano talmente dentro, che conoscendosi esser divenuti prigioni (ben che ella affretti il cantare) i poverini più non le rispondono. Io vi prometto che ne ho veduti alcuni che si ponevano à volere passar la rete, ma come la toccavano (temendo à guisa di ladri) si ritiravano a dietro: Nondimeno, udendo poi la quaglia accelerar’il chiamarli à se, finalmente entravano con impeto nella sacca della rete non men d’un braccio verso la cantatrice. Et benche questi uccelli sino all’hora poco buoni da mangiare (atteso che si struggono d’amore) nondimeno sono perfetti per dare a i sparavieri, & per castrare à modo de capponi.

Voi sapete poi, che questi goffi uccelli sono apprezzati in Venetia alla Primavera: sì per udirli cantare, & far risuonar quei canali con spezzarsi à gara il petto, come anco, perche sentendoli tutta la mattina, inducono soave sonno. Che in vero io ho veduto pagare tal quagliotto, che faceva solamente tre, ò quattro, mà maùh, & sette quacquerà, uno scudo d’oro, & se ne facevano otto, ò dieci, pagarli sin dui, e tre scudi.

Cor. Maraviglia è quella che si fa in Napoli il mese d’Aprile, & di Maggio, che piu persone tengono quagliotti per combattere, le quali vanno per la Città invitandosi nelle case, ò ne’ gran palazzi de’ Signori; dandovi primamente alquante beccate di miglio, ne pongono ancora alcuni granelli nel mezo della tavola longa, dove hanno da combattere. Et posti che sono un per capo (tacendo però quanti vi si trovano, perche altramente mai non combatterebbono) mirandosi prima l’un l’altro con grave orgoglio, come se fussero dui cavalieri ridotti in steccato, si mettono à caminar velocemente l’un contra l’altro. E tantosto che son giunti al miglio, cominciano à scaramucciar talmente, che essendo de’ valenti, non solamente si cavano più penne, ma del sangue assai, inanzi che finiscano la battaglia; laquale ordinariamente dura, fin che l’un fugga vinto dall’altro. La onde, non pure il patrone del vincitore guadagna la scomessa picciola, ò grande; ma oltra l’allegrezza, & l’honor che ne consegue, volendolo vendere, trovarà i dieci, i quindeci, i vinti, e più scudi; e massime s’egli sarà stato vincitore altre volte.

Gio. Bat. Vogliovi narrare ancora io la eccellentia d’alcuni uccellatori che pigliano questi uccelli col quagliarolo di osso, & à gara di ogni valente quaglia, come pochi dì sono occorse al mio Pedretto. Che havendo il nostro gentil Gavaccio tese le paratelle nel lino del mio Fallapane da Oriente, per pigliare un superbo quagliotto con la cantarella, il detto mio servitore nascosamente tese anch’egli dall’altra parte le sue à canto di una folta onicciata; onde cominciando à sonare benissimo il quagliarolo, & la quaglia non mancando à cantare ottimamente, il buon quagliotto si fermò per un poco in mezo del campo, rispondendo però gagliardamente all’una, & all’altra parte: Ma piacendoli finalmente più la voce finta, che la naturale, abbandonò la quaglia, & si pose à pedonare verso del sonatore, & cosi fu preso. Onde accorgendosi il buon Gavaccio di questa burla, se ne tenne talmente ingiuriato, che stette quattro dì innanzi che osasse comparir tra noi.

Cor. Non solamente io mi maraviglio della eccellentia di questo vostro uccellatore, ma più mi stupisco della patientia che hebbe questo benigno gentilhuomo, non havendo subito tratto di stizza in terra la gabbiuola, & pestata co i piedi minutamente con la quaglia insieme.

Gio. Bat. Io potrei parlarvi ancora di alcuni nostri gentilhuomini, che pigliano innanzi giorno di questi sciocchi uccelli, contrafacendo la voce della quaglia benissimo con la bocca loro; nondimeno ho pensato di dirvi un nuovo modo, che fa un nostro cittadino nella Villa di Chiari; ilqual piglia quante quaglie si trovano in ogni campo di miglio in una volta con un quagliotto acconcio per questo effetto: La qual cosa è tanto più maravigliosa, quanto che con la quaglia cantatrice si pigliano solamente i maschi di uno in uno: & con questo (cantando bene) non pure si pigliano tanto le femine, quanto i maschi: ma ancora se fossero cento insieme (& più assai) non scampa quagliotto, ò quaglia.

Cor. Mi sarà carissimo se mi direte la via che si tiene à pigliar questi uccelli, & da che tempo si può far questa cosa.

Gio. Bat. Il tempo proprio di pigliarne in quantità, è quando cominciano à mettersi insieme nel mese di Agosto, per andar di notte in Africa, mentre che la Luna presta loro il lume, & quivi dimorare sino al ritorno della primavera; come la natura loro ricerca di fuggir sempre gli estremi caldi, & gran freddi. Havendo adunque un quagliotto che sia stato in gabbia all’oscuro dal principio d’Aprile per tutto Luglio, sia portato due, ò tre hore avanti giorno nel mezo d’un campo di miglio; perche cantando bene, non solamente veniranno appresso lui quante quaglie vi saranno; ma anco tutte quelle altre, che l’udiranno ne i prati, ò ne gli altri migli: Onde levatolo dapoi che sarà venuto giorno, come non vi sarà rugiada, siavi accommodata da un capo la piombina mappata, e tirar poi le sonagliere di mano in mano dall’altro capo sino alla detta rete: & a questo modo si pigliaranno quante quaglie, & quagliotti vi saran venuti.

Cor. Per quanto tempo si può far questo giuoco?

Gio. Bat. Ordinariamente quegli uccelli, che si partono da questi paesi, cominciano (come ho detto) al primo lume della Luna di Agosto, & in quindeci, ò venti notti non restano in queste contrade, eccetto quelle quaglie, che covano, overo che hanno i figliuoli che non possono volare, overo che sono troppo grasse: & queste sorti sono solamente, che alla primavera si trovano in queste parti.

Cor. Dunque a questo modo venirebbono a far due volte figliuoli in questi paesi?

Gio. Bat. Non solamente (per l’ordinario) fanno due volte; & i primi nati medesimamente fanno gli ovi all’Agosto, ò che hanno scosso: ma ancora vi sono non pochi uccellatori, che vogliono, che le medesime covino due altre fiate, mentre che dimorano nell’Africa; percioche si vede, che quantunque siano pigliate a millioni con diversi modi nel passare il mare due volte all’anno (cioè nello andare, & nel ritornare) nondimeno ne ritornano alla primavera infinite schiere.

Cor. Quanti ovi può fare ogni volta una quaglia?

Gio. Bat. Si dice che ammazzando una quaglia nel mese di Maggio sul nido, si perdono più di cento uccelli; percioche vedendo che ordinariamente ogni quaglia fà la prima volta non meno di sedici ovi (computando l’una con l’altra) & che le femine che nascono da questi, ne fanno, almeno dieci all’Agosto per ciascuna; aggiungendola anco che la madre non fà manco la seconda volta di dodici, è da creder che passino più di cento, sin centodieci.

Cor. Che modo si osserva nel tener al buio questi quagliotti?

Gio. Bat. Essendo prima nelle gabbiole, si pongono in una cassa che sia priva di aere innanzi che comincino à cantare; & accioche possano beccar’il miglio che hanno nelle gabbiole, vi si mette nella cassa aperta la lucerna per un’hora la mattina (essendo però ben chiuse le fenestre, e ogni altra cosa che potesse render’aere) e per un’altra la sera: Tenendone tre, ò quattro à questo modo, à fine che se uno, ò dui non cantassero bene, ne fusse almen’uno che non mancasse. Ma quanto più saranno che cantino al modo detto, tanto si potrà far l’istesso officio ne gl’altri migli. Et à questo modo si caccierà più volte al giorno in dui, & tre, & più campi, secondo il numero de’ quagliotti, che saranno à proposito. * Avvertendo però quando si levano questi uccelli dal buio non portarli all’aere subito, perche patirebbono ma bisogna per tre, ò quattro giorni crescerglielo di mano in mano. *

Vogliovi raccontar’ancora la quantità delle quaglie che piglio con la strusa, dalla quale (per essere delle più grandi che siano tra noi) poche sono che scappino. Et perche le mie cavalle sono atte per mantenersi à si gran fatica (& specialmente quando la rete è bagnata dalla rugiada) quasi sempre cominciano à tirarla per li prati, & per le stoppie dopo ch’è sparito il sole; non cessando fin che sono passate due, & tre hore di notte, per esser quelle proprie per uccellare con si fatte reti. Et pur che ne troviamo, poche volte veniamo à casa senza le vinti, quaranta, & sessanta quaglie. Et però non è maraviglia se io ne ingabbio le tante centinara, oltra le grasse che mando à gli amici, ò che mangiamo più volte à tavola.

Cor. Mi piace più l’uccellare con questa rete, che con la piombina; percioche si uccella per lo fresco, & con quella per lo caldo.

Gio. Bat. Con la piombina quasi sempre si danneggiano i migli, ma chi hà discretione nel tenderla, & nel sonagliare, & particolarmente ne i migli grandi & folti; è assai manco il danno, che’l piacere, & utile che si prende. Non è forse spasso grando, quando dopo desinare ci partiamo di casa con servitori, & più contadini con quella rete in spalla, & le sonaglie in mano; portando seco molte cose da mangiare, & da bere molto bene; drizzando hora in una contrada, & hora in un’altra per cacciare ne i migli, ò panichi? Et mentre ch’ella si accommoda da un capo, à cacciare dall’altro con lunghe sonagliere, guarnite con buoni sonagli, & conseguentemente il sentire di continuo da più persone separate, & non molto lontane dalle sonagliere, diverse parole à guisa di filistocche. Cantando per modo di bagordo, accioche udendo esse quaglie i tanti sonagli, & strepiti che fanno tali genti; vadino pian piano, & con timore fin che giungono sotto alla detta rete. Onde per spaventarle, all’hora tutti si pongono à far maggiori rumori, & strepiti, accioche quante si trovano sotto, s’insacchino maggiormente dentro.

Che diremo poi, quando si hà cacciato in più campi tre, & quattro hore sotto all’ardentissimo Sole, & che questa gente, per la gran sete, & fame, si pose sotto à qualche ombra à mangiare, & bere saporitamente? Che per certo non so huomo cosi malinconico, & debole di stomaco, che non dovesse havergli invidia, & massimamente quando si levano al collo quei fiaschi di vino, bevendo à gara più volte, con grandissima satisfattion loro.

Cor. Quantunque questi dui essercitii siano non poco faticosi, nondimeno considerando quanto sono dilettevoli, & utili, sono meritevolmente degni d’esser lodati coloro, che gli apprezzano.

Gio. Bat. Sappiate poi, che innanzi sia mezo Agosto, cominciaremo, à uccellare con gli sparavieri continuando sin’à San Martino. Il quale spasso è de’ maggiori che possa apprezzar’il gentil’huomo. Perche in tutto questo tempo (pur che non piova, ò soffi vento) sempre ci troviamo insieme con più sparavieri buoni, & valenti cani all’hora di vespro, ò di nona anco secondo i tempi, hora in queste contrade uccellando, & hora in quell’altre; stando insieme più che possiamo, avenga che molte fiate ci troviamo separati, & alle volte assai lontani l’uno dall’altro; si per lo portar d’un sparaviero la presa altrove, come ancora perche gittandone un dietro ad una valente quaglia, & non potendola pigliare, si porrà sopra un’arbore, standosi poi qualche volta una, & più hore innanzi ch’egli voglia consentire al lungo chiamare col pasto in mano; ò quando non vuol venire, che ci convien sedere, ò dormire fin che li vien fame. Ma peggio è quando ha preso qualche quaglia, & non si pone in terra, ma vola sopra un’alto arbore per pascersi à sua voglia: Onde se lo vogliamo innanzi che si pasca, ci conviene subito rampicare di ramo in ramo, & più volte con pericolo della vita; senza che assai fiate, come ce gli aviciniamo, fugge sopra d’un altro, & alle volte di lontano. Cosa in vero quando è trovato da scaricarsi adosso delle balestre, ò archibugi, non che trarsi de’ sassi. Oltra che posso dire, come più fiate siamo smontati per torre uno sparaviero in pugno, che sarà fermato in terra dopo il getto senza presa, & per capriccio solamente, fuggirà all’arbore, ò di lontano: Overo, essendo posto in terra con la quaglia in piedi, & correndoli il cane adosso per abboccarlo, la lasciara, & se ne volera altrove. Ma tutto è niente a quei giorni sfortunati, che non pur’uno, ò dui sparavieri ci soreranno per cagion dell’eccessivo caldo, ò del mutarsi il tempo, ma se fussero cento, & sempre in più contrade, sorano: Et purche li troviamo innanzi sera, ci pare havere fatto assai. Ma alle volte non ci vale correr lor dietro lungamente, che ci conviene lasciarli, & venire a casa co i cavalli stanchi, & noi stroppiati insieme: Onde se vogliamo rihaverli, ci bisogna levar per tempo il dì seguente, & ricercarli fin che vediamo il fine. Come occorse l’anno passato la vigilia della nativita di nostra Donna à noi del Borgo, & di Poncarale, appresso il colle di Castenedolo; che essendo sorati otto sparavieri la mattina seguente, ciascuno ritrovò il suo, eccetto il buon Gavaccio; onde per esser maggior volatore de gli altri, credessimo, ch’egli fusse volato sin’al mondo nuovo.

Cor. Voi primamente havete detto, che questo piacere è un de’ maggiori, che possa haver’il gentilhuorno; nondimeno sin’hora havete narrato solamente stenti, e travagli che patite voi strozzeri. La onde si potrebbe dire, che beati sareste, se altrotanto patiste si volentiera per l’amor di Dio.

Gio. Bat. Ditemi vi prego, havete voi veduto in questo mondo contentezza alcuna senza affanno, ò tormento? Come cel mostrano i pazzi innamorati, i fascinati cortigiani, gli avidi mercanti, & gl’infelici soldati con altri infiniti huomini, che tuttodì si espongono alle tante miserie della loro vita; & nondimeno ciò che patiscono, pare lor poco, conciosiache son intenti a conseguir’i suoi disegni; i quali, per esser quasi sempre contra l’honor di Dio, il più delle volte li van falliti. Voglio inferire, che se ben questa professione non è delle sante, però è delle più gentili, & delle più honeste che convengono ad ogni ben creato huomo. E ben vero, che non si debbe mai danneggiare il prossimo, & chi altramente fara (non satisfacendo compiutamente) li converrà rendere strettissimo conto al tribunale del grande Iddio. Ho voluto dir questo, percio che ci sono molti di cosi poca conscientia, che per pigliar’una quaglia veduto volar’in un miglio grande, maturo, & foltissimo, non haveranno rispetto entrarvi co i cavalli, & danneggiarlo talmente, che forse non satisfarebbono con un paio, & dui di scudi. Io so, che questo essercitio è molto faticoso, & soggetto di assai patientia, di spesa grande, & di poca utilità; & anco che saressimo beati, se altrotanto patissimo per amor di nostro Signore Iddio; nondimeno se fusse gustata la gran dolcezza, che si trova in questa professione, son certo che molti lasciarebbono i loro piaceri, per donare à questo.

Chi potrebbe mai credere, ò conoscere qual contento sia lo havere un bello sparaviero, il quale sia valente nel volare, gagliardo nel pigliare, prattico nel racocciare, piacevole nel ritornare, & sempre quieto nel beccare, & nell’incapellare? Et l’haver’un cane, che sia bello, obediente, di perfetta osma, & non spaventi mai l’uccello del patrone. Senza che egli è cosa molto cara l’haver’un bel cavallo, il quale vada bene, & che sia animoso à i larghi fossi, alle alte acque, & anco gagliardo al traversar campi, lame, cespugli, fiumi, & alte ripe, & non meno che sia ammaestrato nel fermarsi fin che’l patrone hà ritolto lo sparaviero in pugno con la presa in piede, & poi rimontato in sella. Quelli che veramente hanno queste tre cose, non è quaglia che non trovino, & trovata che non piglino.

Poi non è gran contento nel gittare lo sparaviero dietro alla quaglia, & pigliarla talhor poco da lunge, ò appresso; havendo fatto però, per fuggire più scambietti, & girivolti? I quali atti, oltra che sono di gran trastullo, sono anco occasione di conoscere le prodezze d’ogni valente uccello. Senza ch’egliè cosa di gran piacere, quando il cane fà levar’una quaglia valentissima, laquale per un pezzo si fà volar dietro lo sparaviero con quanta possanza hà, innanzi che la pigli, & pigliatala si pone in terra; fermandosi sin che’l patrone và per ritorlo in pugno.

Cor. Sì come mi raccontaste prima solamente casi tristi, & disperati: hora per contrario mi havete chiaramente mostrato, che questa professione è piena di trastulli dolcissimi, & lietissimi.

Gio. Bat. Dopo questo honorato essercitio, cominciaremo à far correre le lepri sin’al Carnovale. Che per certo, non vi è poi il maggior piacer di questo, & massimamente quando troviamo delle più aitanti, le quali ci fanno sempre conoscere quali sono i più valenti cani.

Cor. Chiaro è, che questo essercitio è di grande spasso, & più lungo, & più libero, & di minore spesa assai, che non è l’uccellare con lo sparaviero, astore, & falcone. Et questo dico, percioche da dieci anni in là, il più del tempo, io son’andato per monti, per colli, per piaggie, per selve, & per valli, hora con varioli, & sagliusi, & hora con archibugio con balestre. Voi sapete che in Piedemonte non si caccia con levrieri se non malamente. Et benche sia più faticosa la caccia de’ monti che quella delle campagne, tuttavia quel sentir risonar le voci di quei cani nelle valli, ò d’intorno alle colline, ò montagne, quando han ritrovato di mattina per tempo la lepre, cavriolo, ò cervo, ò altro animale; è certamente tanto dolce armonia, che non so qual musica sia più naturale, nè più soave. Oltra che fermandosi nascosamente dove la lepre è levata, è suggetto dilettevole nel vederla cacciare da i cani per le vie aspre, per sentieri erti, & per calli stretti, sù, & giù, ò attorno à i monti, ò colli, & ritornare più, & più volte, & sempre nell’istesso luogo; pensandosi pur di salvarsi. Ma vedendo la meschinella essere di continovo seguitata da quelli, con l’udire le loro voci sempre appresso di se; finalmente è forza ch’ella di stanchezza si lasci prendere, ò s' insachi nelle reti tese.

Che diremo poi di quei valentissimi cacciatori, i quali per voler pigliare cervi, cavrioli, stambucchi, daine, volpi, lupi, orsi, & cinghiali passano per aspre selve, per alpestri deserti, per pericolosi monti, per rovinati poggi, per inhabitabili caverne, per oscure spelonche, per concave tombe, per alberghi di romiti; & sempre con gamba gagliarda, con cuore allegro, & con animo deliberatissimo per scontrare, & combattere con ogni fera crudelissima, & con ogni huomo selvatico, & anco quando trovassero qual si voglia gigante potentissimo?

Gio. Bat. Non è dubbio che ne i monti, & colli, & valli, & boschi si veggono cose assai di gran contento, & particolarmente quando si odono risonare quattro cani di voci concordanti; nientedimeno à me gradisce più la nostra per esser sempre di minor fatica, di manco pericolo, e che ci presta più cose di maggior vaghezza; percioche quella pasce solamente l’orecchia, & la nostra l’occhio che maggiormente importa. E ben vero, che potete cacciare d’ogni tempo, & senza cavalli, ma havete i pericoli del precipitare, & i lupi che vi mangiano assai volte i cani.

Cor. Poiche voi commendate la vostra caccia, desidero che mi diciate l’ordine che voi altri tenete quando siete per andarvi.

Gio. Bat. Primamente si comincia à sonare il nostro gran corno in piazza, invitando tutti insino quei di Poncarale; non cessando fin che non sono giunti tutti quelli che vogliono venire di mano in mano con cani, levrieri, stivieri, e sagliusi. Che se voi sentiste l’urlare, il baiare, & il calpestare di quei tanti cani, per cagion del lungo sonare, & rimbombare del risonante corno, voi direste, che s’assomigliano al furore, & atti feroci de gli animosi cavalli di gente armata, quando al grandissimo strepito di trombe, di tamburi, di archibugi, & di artiglierie, sono eccitati all’entrare nella crudel battaglia. Et giunti che son’i cittadini, servitori, & contadini che venir vi vogliono all’hora di brigata c’inviamo con tutti i cani, hora da una via, & hora da un’altra. Ma però, il più delle volte, ci drizziamo verso le campagne, di Montirone, di Ghedi, di Castenedolo, & d’altre in contorno: Et all’hora è bel vedere quell’ordinanza nell’andare à rastello co i cani à lasso, & con altri che corrono quà, & là, sin che hanno scoperto qualche lepre. La onde, tantosto che è veduta, si lascia parte de’ levrieri, & quinci ci vede il bel correre per la campagna. Che se per avventura ella è delle più gagliarde, sappiate, che correrà più miglia innanzi che da quelli sia morta, ò presa. Et da qui si conosce quai cani siano stati più veloci, & quali huomini di più gagliarda gamba. Non è poi spasso grande, quando occorre, che correndo più cani dietro prima ad una, & che se ne lieva un’altra, & dapoi un’altra, & più; & che lasciando la prima, si rivolgono all’altre, & separandosi, si pongono à seguitarle tutte, & non abbandonarle mai, infino che le hanno prese, & ammazzate? Oltra ch’è bel vedere, quando una lepre ha corzo un pezzo, & che vedendosi prossimar’i cani (come si dice) alla coda, ella astutamente rivolge il correre, pensandosi pur di fuggire, ò di salvarsi; onde; correndo quelli furiosamente, di assai la trapassano, & innanzi che si rivolgano, halli tolto gran vantaggio. Vero è, che queste vezzose lepri, benche si servono di questo bel tratto, nondimeno, alle volte sono morte da i cani, che le seguivano più adietro; & anco spesse fiate da quei primi più valenti; da i quali, dopo il lungo traggiversare, & scaramucciare dall’una, & l’altra parte finalmente sono ammazzate.

Che diremo poi di quei robustissimi cacciatori, i quali corrono come fanno i cavalli senza stancarsi mai? Oltra che ne conoscono di tal natura, che se cacciassero ogni giorno dalla mattina sino alla sera; mai non si stancarebbono. Et più dico d’alcuni altri, che non solamente hanno gran prattica di conoscer dove è stata la lepre di fresco, & seguitare di mano in mano le sue pedate insin che l’hanno trovata à cavalliero; ma più che hanno cosi acuto occhio, che la scopriranno di lontano, vedendole solamente tanta cima dell’orecchia, quanto è l’ungia d’un dito, overo un pocolino del suo fiato, con dire poi sicuramente cavalliero.

Cor. Hora che voi dite delle cose stupende, che opra la natura, credete voi che tutte le lepri siano femine, & maschi, come generalmente è tenuto.

Gio. Bat. Per quello che più volte ho udito dire da’ valenti cacciatori, dicono, che vi sono i maschi chiamati tiri, i quali quanto più sono vecchi, tanto più puzzano nel mangiarli, quasi come carne di becco. È ben vero, che vi sono delle femine che hanno i testicoli di dentro, ma però non possono generare.

Cor. Mi piace che mi habbiate fatto chiaro della singular natura di questi animali.

Gio. Bat. Seguendo pure come dispensiamo il tempo di mese in mese, dico che pigliamo ancora gran diletto nell’uccellare con la civetta. Et quantunque questo essercitio sia tenuto da molti per spasso puerile; nondimeno è di tanta dolcezza, che spesse volte sforza i Principi à prezzarlo, & gustarlo con grandissimo contento.

Chi non prenderebbe gran piacere, vedendo un cosi difforme uccelletto posto sopra la ferletta in luogo di allegre verdure, di vaghi fiori, di belli arbuscelli, & di soave aere? Il quale, per essere ombroso, è fresco ancora, ameno, & dilettevole da godere con allegria la mattina per tempo sin’à terza; & specialmente quando si trova pieno di vari uccelletti che cantano, & garulano con diverse voci. Letitia veramente grande da pascere, & ricreare ogni delicatissimo intelletto.

Poi qual piacer si può aguagliar’à quello quando si veggono i tanti diversi uccellini, lasciar di mano in mano i fronduti arbori, abbandonar’i cari nidi, & cessar da i loro amorosi canti, solamente per voler mirare, & considerare un cosi stupendo uccelletto non mai veduto da loro; poiche non compare sin che eglino sono riposati la sera sopra i ramuscelli, ò ne gli accommodati nidi.

Parimente, quale spasso maggiore si può gustare, che veder quelli uccellini volare con tanta ammiratione intorno alla civetta? La quale continuamente dilettando con difformi atti, li tiene à bada, saltando hora su la ferletta, & hora saltando giù; hora alzandosi diritta con la testa, & hora abbassandosi; hora facendosi lunga, & hora facendosi curta; & hora volgendosi verso quelli & hora verso questi altri. La onde, come stupefatti tutti della maravigliosa sua statura & de’ tanti diversi effetti, ch’ella fà lor vedere; finalmente per meglio fruire quegli scherzi, & gabbi civetteschi, si pongono con la loro simplicità sopra le bacchettine invischiate, che sono poste intorno à lei. Onde i poverini sentendo imbrattarsi i piedi nel vischio, & volendoli levar fuori, & non potendo subito si pongono à tirare hor questo hor quello altro: Ma vedendo che quanto più si sforzano per liberarne uno, tanto più vi ficcano l’altro; & gli sfortunati giungendo mal’à male (pensando pur di aiutarsi) vi mettono anco le alette; di maniera; che perdono ancora quelle, non solamente restano in tutto prigioni, ma assai volte, ne anche possono mover il capo, per haver attaccato il loro collo al vischio.

Cor. Ho ancora io conosciuto questo modo di uccellare, ma tutto al contrario di quello che dite voi: Percioche tanta era la compasione che haveva à quei purissimi uccellini, che finalmente mi risolsi d’abbandonarlo.

Chi non dovrebbe attristarsi, vedendo questi simplicissimi animaletti cosi allacciati & presi con inganno à loro tanto ammirabile? Similitudine certamente proportionata à noi medesimi, come ben vediamo di continovo, che’l Demonio crudelissimo nemico nostro non cessa mai d’ingannarci con infinite trappole della carne, & del mondo; onde invischiati che siamo trabbocchiamo subito nella prigionia dell’eterna morte.

Gio. Bat. Si potrebbe non meno filosofare assai intorno à più altre cose, che tuttodì vediamo, conosciamo, & prattichiamo; ma perche siamo qui per seguire i discorsi cominciati, è bene che parliamo del pigliare i tordi con le reti, con la civetta, & col zuffolo il Settembre, & parte l’Ottobre. Spasso veramente utile, & di gran contento, poiche non ci apporta spesa di cani, di cavalli, ne di uccelli da volare, e ci dona uccelletti, che di sanità sono migliori de gli altri.

Non è gran piacere, vedendo un bell’arbore, com’è il mio di noce, il quale sia fuor de gli altri in mezo d’un filo d’arbuscelli, & fatto piano in cima, havendo troncati talmente i rami, che paia incoronato d’una corona tonda, & larga circa dieci braccia; essendovi posto sopra quattro, ò cinque pertichette lunghe, ficcate ne i buchi del canterolo inchiodato prima, ò legato diritto, & caricate di bacchettine fornite di vischio d’acqua, & concie con tal modo nelle tacche, ò tagli, che come à pena sono tocche da quelli uccelli, cadano attaccati à quelle giù per le foglie della corona, gridando sempre fin che son in terra? Ma vi vuole ancor’una rete alta, & lunga vinticinque, ò trenta cavezzi, tirata per diritto à canto di quegli arbuscelli, & arbore; al quale sia sotto una civetta sopra la ferla con tre, ò quattro tordi nelle gabbie intorno à lei; i quali cantino ogni volta ch’ella si move; per lo qual cantare, & sonare del zuffolo, i tordi che volano per l’aere, si abbassino per appoggiarsi sopra le dette bacchettine, ò dare nella rete, che balordamente veggono.

Cor. Per un giorno vidi questo giuoco da i nobili dui fratelli Porcelaghi à Roncadelle, il quale non ha pari in questo paese: Percioche vi sono dui belli, & grandi arbori (cioè una quercia, & una noce) lontani l’un dall’altro cavezzi vinticinque, accompagnati col filo d’una lunga onizzata non molto alta. Onde, essendovi tirate due reti lunghe innanzi giorno da i servitori, & poste in cima de gli arbori le pertichette fornite di bacchettine invischiate ne i buchi de canteruoli, & sotto due civette con più tordi ingabbiati, non essendo ancora comparso il Sole, Messer Hieronimo cominciò à sonare talmente il zuffolo, che per tre hore & più, mai non cessò; andando hor qua, hor là con variare le voci assomigliando hor’à i tordi, & hor’à i merli.

Ch’è poi à veder più persone ad occuparsi in cosi delitiosi spassi, come facevamo noi; conciosiache, chi attendeva à tirar la filagna dell’una civetta, & chi à tirar quella dell’altra. Chi amazzava i tordi che si ficcavano nelle reti, & chi li levano fuori morti. Chi seguitava i tanti invischiati che cadevano da gli arbori, & chi cercava quei che si nascondevano ne gli onizzi. Chi distaccava le bacchettine da i piedi, ò d’altro luogo del corpo, & chi le nettava, & rimetteva in cima de gli arbori. Et finalmente, chi faceva una cosa, & chi ne faceva un’altra; correndo massimamente dietro à quelli ch’erano caduti, & che tuttavia gridavano fra i rami, cadendo cosi invischiati, hora da un lato, & hora dall’altro; hora sopra le spalle, & hora sopra la testa; hora in un luogo, & hora in un’altro. Di maniera che, chi considerasse il continuo suono del zuffolo, & i diversissimi effetti de’ tordi, & uccellatori, conoscerebbe che non è ricetta pari à questa, per sanare qual si voglia humore. Basta che questo gentil’huomo ne pigliò cento sessantadui. Et maravigliandomi di tanta presaglia, mi disse haverne preso il giorno avanti ducento vintisei.

Gio. Bat. Ancora frà gli altri modi, che si usano per pigliare questi uccelli, invero non è da biasimare quello che i Bergamaschi chiamano roccolo: I quali, accommodandosi in sito elevato conciano un capannetto di frasche tanto grande, quanto vi possa nascondersi l’uccellatore; havendo però un buco in cima, accioche possa gittar fuori (quando li pare) un lodro di penne, legato con un braccio di spago in cima d’un bastoncello. Al quale capannetto non pongono appresso arbor verde, eccetto che da ponente una solca onizzata, ò altri arbuscelli; tirandoli à canto una rete, & verso al capannetto, & ponendovi lontano più rami secchi, & alti non più d’un’huomo: Et anco fra quelli, & il capannetto mettono una civetta, & tordi al modo detto. Et tantosto che’l sonatore è accommodato dentro, tutto à un tempo chiama i tordi col zuffolo, tirando la filagna della civetta, per far cantar’i tordi detti ingabbiati, accioche si abbassino quei, che volano per l’aere: I quali, posti che sono sopra quei rami secchi per meglio mirare, la civetta, porgendo fuor’il lodro con prestezza, & crollandolo con impeto (stimando essi sia un’uccello di rapina) subito volano verso gli arbuscelli verdi, pensando sempre di salvarsi in quelli, e cadono nella rete. Et come sono levati fuori morti, l’uccellatore ritorna à far’il medesimo fin ch’egli ne fà morire di mattina in quantità. Giuoco in vero da lodare, per farsi senza vischio, & con poche persone.

Cor. Benche questi dui modi siano per poco tempo di gran trastullo, & da far morire tordi assaissimi; nondimeno è meglio pigliarli con le reticelle, cacciandoli pian piano per le siepi, & per le vigne; ò più tosto con le reti lunghe quando passano per le costere; percioche all’hora sono più grassi, & più delicati che non sono quegli altri, che si pigliano col zuffolo, i quali vengono di lontano per pascersi in questo paese di uve, di olive, di genebri, & di hedere, finche ritornano innanzi Pasqua in quei medesimi luoghi, dove si pascono mentre che dura il gran caldo.

Gio. Bat. Dopo questi spassi, per molti giorni, pigliamo ancora delle cerlode, & tortorelle alle campagne con le pareti, e uccelli che frà di quelle giuocano legati. Giuoco certamente dilettevole, senza fatica, senza spesa, & di qualche utilità, che si può far solo; stando nel capannetto ascoso per tirar la corda, accioche le dette reti coprino in un subito tutte quelle cerlode, e tortorelle che vi sono volate per giuocar con le prime legate.

Similmente al tempo del ghiaccio, pigliamo con le reti grandi delle anitre, garcie, gavarelle, & altri uccelli acquatici, & in quantità. Vero è, che pigliamo de’ rabbiosissimi freddi; percioche si fa questo piu di notte, che di giorno.

Cor. Mai non mi piacquero questi essercitii, perche non mi paiono per le persone gentili, non che per Signori, ò Prencipi.

Gio. Bat. Se’l non fosse per entrar’in qualche lunga disputa, io vi mostrarei, ch’egliè cosa da gentil’huomo, da Signore, & da ogni Prencipe à non far vita molle; nè delicata; nè vi addurrei se non grandi personaggi, & grandissimi Prencipi, che sono stati, & che son’ancora, i quali hanno sempre fatto professione di donarsi à i maggiori discommodi dell’uccellare, & della caccia, che trovar si possano: Ma perche l’intento nostro è, che ragioniamo de’ piaceri della Villa, però faremo fin’à questo.

Per uno di grandi spassi che trovar si possa intorno all’uccellare, non vi è il maggiore che vedere il maraviglioso Dugo, posto sopra un’alta ferla intorniata di stazzoni à guisa di steccato, forniti di bacchette invischiate lunghe un palmo, & mezo l’una. Et medesimamente postovi una altra ferla simile all’incontro, ma lontana un tiro d’arco, intorniata parimente di stazzoni, & bacchette, come l’altra. Mirandolo poi nel far quei sì stupendi, & difformi atti naturali; per li quali un’infinità d’uccelli vengono di lontano per vederlo cosi mostruoso. De’ quali, alcuni si mostrano di volarli adosso, come sono astori, pogliane, nibbi, corvi, & altri grossi uccelli, che li volano attorno; gridando fortemente tutti (secondo le lor voci) per l’aere, & tal’hora in tanta quantità, che paiono un gran nuvolo che copra il Sole: I quali, calandosi alle volte tutti in uno stesso tempo, l’assaliscono per spaventarlo. Et egli difendendosi, non solamente non si sgomenta in parte alcuna, ma si pone audacemente à giostrar con loro, saltando hora in terra, & hora ritornando sopra la ferla. Hora facendosi longo il doppio, & hora abbassandosi contra di quegli altri. Senza che alle volte si lieva animosamente à gran volo, & sbaragliandoli tutti, passa per forza per mezo loro, & vola sopra dell’altra ferla. Et eglino tutti insieme seguitandolo con gridi grandissimi, che per verità non sò se si possa veder mai il maggiore stuolo, ò battaglia di questa; & massimamente quando si accordano à guerreggiare con seco, che pare adhora adhora l’habbiano da stracciare in mille pezzi; & nondimeno si vede che mai non li fanno male alcuno; anzi, conoscendo egli che hanno à caro, ch’egli scherzi, & giuochi nel farli delle burle con difformità, non cessa di tenerli in festa. E tanto durano cotali baruffe, e gabbi, che finalmente come stanchi, si pongono di mano in mano sopra le bacchette vischiate, per mirar maggiormente i suoi monstruosi effetti. Et all’hora comincia la lor tragedia; conciosia che si vede cader hor questo, hor quello in terra; ilche volendo poi volare, ò fuggire, & non potendo, per essere intricati nelle bacchettine vischiate, chi fugge pedonando, & zoppicando, & chi co i gridi và rotando, pensandosi pur di scampare la morte. Ma i poveri sgratiati sono seguitati da gli uccellatori, percotendo questo, & quello con bacchette, & bastoni. Là onde, quanto più ne battono, & stroppiano, tanto più ne vanno cadendo; di maniera, che alle volte sono tanti, che con diversi modi fuggono per terra, che dovendo correr dietro à tutti, non pure gli uccellatori sudano da dovero, ma si stancano etiandio di tal sorte, col soverchio ridere appresso, che si gittano per terra; lasciandoli fuggire, ma non molto lontano. Ilperche, è poi forza che gli ammazzino di mano in mano, dando loro con le bacchette, & bastoni sulla testa, ò scavezzandovi le gambe: perche altramente non si lascierebbono pigliare per lo difendersi col becco, con le griffe, & col molto gridar che fanno secondo la lor natura. Che certamente si assomigliano à tanti Scocchi pirati ferocissimi che non stimano la lor vita; i quali s’indrizzano à fuggire per monti, per rupi, per bricchi, per deserti, per selve, & per caverne, quando dalla potente armata de’ nostri Illustriss. Signori sono con grandissimo impeto perseguitati; & assai volte presi, & posti al gravissimo giogo della catena.

Sappiate, che quando io uccellai col Dugo di mio cognato Uggiero à quest’Ottobre passato, ne pigliassimo à Carpenedolo dui gran sacchi. Onde havendoli fatti portare in piazza il nostro da benissimo Gavaccio, sonato primamente il corno per un pochetto, fece fare la grida, che chi ne voleva, si facesse avanti, ch’egli havrebbe tolto all’incontro tanti ovi freschi. Là onde beate quelle donne, che più tosto correvano à portarne in quantità, per barattargli in questi sì fatti uccelli, i quali secondo la grossezza, & bontà, con certi stupendissimi prologhi, gli estimava à quattro, à dieci, & venti ovi l’uno: Et le dette buone donne, li pigliavano pure à quel prezzo istesso, andandosene poi allegramente a casa. Io vi giuro che questo astutissimo gentilhuomo seppe talmente lodare questa sua mercantia, che non solamente tutti noi scoppiavamo di ridere, ma alla fine si trovò haver barattato tutti gli uccelli in tanta somma di ovi, che a pena si poterono accommodare in dui sportoni. Et noi vedendo questa tal monitione, disputando ciò che se ne dovesse fare, finalmente deliberassimo di mandarli a i poverissimi luoghi della Misericordia, & delle Convertite. E cosi la mattina seguente se ne mandò un sportone per luogo.

Cor. O quanto ben sarebbe a i tanti humoristi, che conversano tutto’l giorno co i medici, che non pigliassero altra medicina che questa: percioche, non tanto li crepparebbono quanti humori havessero, ma guarirebbono senza detrimento della borsa; & della loro vita.

Chi è quello cosi malinconico che non ridesse, di cuore, vedendo questo si monstruoso uccellaccia à scaramucciare con tanta diversità d’uccelli, sol per farsi delle burle, & non mal’alcuno. Et chi è etiandio colui, che non smascellasse di ridere, vedendo un cosi difforme uccellone à vincere tanti uccelli senza mai toccarli, & farli cader’in terra, come prigioni, ò morti? Poi quai sono quelli, che non scoppiassero, mirando questo piacevolissimo Gavaccio, come un sagacissimo mercante à saper cosi ben lodare, & cosi ben barattar’i tanti non buoni uccelli, come se fussero stati quaglie, ò pernici, over fagiani? Che ben si potrebbe pareggiarlo à frate Cipolla, che con tanta argutia seppe dispensar’i falsi carboni, per quelli di San Lorenzo.

Gio. Bat. Si come vi ho detto de gli spassi, che si pigliano dal dugo uccello non poco grande, & difformissimo, cosi voglio narrare dello smerlino, uccelletto picciolo, & polito: Ilquale è tanto più apprezzato, quanto che sono maravigliose le prodezze, che opra col suo potente becco. Che quantunque le astutissime lodole, quasi non mai siano pigliate d’altro uccello, non però le vale il loro schermirse con prestissimi rivoltini contra di questo; conciosia che col volare velocissimo, le giunge in un subito, & scavezza il loro collo col proprio becco. Ma il più delle volte seguitara la lodola tanto altamente in aere, che non vi è occhio humano che la possa vedere; ne mai l’abbandona, fin che non le ha tolta la vita. Ma quando si abbatte in una cerloda, non solamente questa lo conduce assai più alto, ma discendendo al basso, se’l fa volar dietro per più miglia. Et questo è il maggior contrario che han questi cosi animosi uccelli; percioche queste cerlode (nel discendere) non ritornano mai dove sono levate, come fanno le lodole; ma fuggendo di lontano, assai volte per lo troppo seguitarle, si perdono, ò non si trovano se non malamente; per haver troppo cuore nel seguitare queste cerlode, e lodole con qual si voglia pericolo, ò morte.

Veramente, che pochi mesi sono, che’l mio seguitò una lodola in casa d’un pover’huomo in Montirone, & l’ammazzò essendo volata, per salvarsi in un bancale (che a caso si trovo aperto) sotto a certi strazzi; & la sua buona moglie, che l’havrebbe potuto pigliare, vedendoci da una finestra, che facevamo correr’i cavalli a tutta briglia per seguitarlo, venne subito di fuori gridando per chiamarci à questo maraviglioso caso. Oltra che egli ne seguitò un’altra l’anno passato, la quale (pensando pur di scampare la morte) volò in fondo d’un pozzo in Bereguardo; & egli volando medesimamente dentro, tanto la tenne sopra l’acqua, che se non fussimo stati avisati subito da una villanella, & in un tratto calato giù il mio ragazzo, ho per fermo, che più tosto si sarebbe annegato, che mai abbandonarla. Basta che havendolo tirato suso co i dui uccelli in mano, egli diede la lodola à quella giovanetta, meza morta di paura, & lo smerlino à me, ilquale tutto rabbuffato, mostrava con più segni di essere arrabbiato, per non haverla morta.

Cor. Considerando gli estremi effetti di questo uccelletto, lo possiamo assomigliare à i pazzi, à i furiosi, & à i disperati, per non stimar sorte alcuna di pericolo, ò di morte.

Gio. Bat. Anzi che lo possiamo assomigliare à gli strenui combattitori, i quali per far prigioni, ò amazzare li nemici, non si curano di porsi ad ogni pericolo di morte. Et medesimamente possiamo dire delle ceralode, e lodole, le quali, per fuggire la terribilità di questo suo nemico, cadono molte fiate (come intenderete) in grandissimo pericolo della morte.

Non fu cosa molto maravigliosa da udir quella, che vide questo Gennaro M. Gio. Paolo Coradello su la campagna di Castenedolo, incontrandosi in un mercante di lino à cavallo? il quale fermandosi gli aprì una borsa grande di sovatto bianco con una lodola dentro, dicendo poco inanzi haverla aperta sotto al feltro, per tuor fuori un’horiuolo per sapere che hora fusse, la meschinella non potendosi salvare da uno smerlino, che gagliardamente la seguitava per la spatiosa campagna; approssimandosi à me, tutto ad un tempo mi volò sotto, & si ficcò nella borsa, che in quel subito serrai, come vedete. La quale, benche potesse fuggire (atteso che nel parlare sempre egli tenne la borsa aperta) non fuggiva, credo per la paura grandissima di non ritornare à quel cosi grande spavento di prima, ma più tosto si contentava di stare nella borsa à discretione di quell’huomo, che cadere un’altra volta nella crudeltà del suo nemico.

Parimente non fu stupendo caso quello, che occorse all’illustrissimo Sig. Valerio Orsino (felice memoria) quando era governator di Brescia, nella contrada di Buffalora, essendovi ancora il Conte Ottaviano, il Conte Vincislao Martinenghi, & il Magnifico M. Ferrando Averoldo Collaterale, con altri gentil’huomini pur’assai? Che facendo volare dui smerlini dietro ad una lodola, la quale fuggendo à gran volo, s’incontrò in un villano, ch’era à cavallo di basto, & in giuppone; onde per salvarsi la poverina da quei nemici, che gli erano vicini, si ficcò fra il basto, & il braghetto, che’l villano non se ne accorse, ilquale si fermò per vedere quei Signori correre fortemente co i cavalli, e per li detti uccelli, che li giravano attorno, per haver veduto che la lodola s’era nascosa, ancor che non sapessero dove. Et giunti che furono; mirando ciascuno con diligentia da ogni lato, & sotto al cavallo; solo il detto Sig. Governatore la vide ascosa ben sotto: Onde cavandola gentilmente con le mani, & gittandola in aere, accioche le volassero un’altra volta dietro i dui smerlini, ella per la estrema paura, ritornò subito sotto al detto villano. Et egli ripigliandola etiandio un’altra fiata, la gittò medesimamente in aere; & ella non meno abbassandosi, rivolò allo istesso luogo. Laonde vedendo questo il Mag. Collaterale, si mosse à compassione, & chiedendola primamente in dono à quel cortese Signore, la cavò, & la portò à casa per ponerla in gabbia, come fece.

Cor. Io ho sentito raccontar questo caso dal detto Mag. Collaterale nella sala del ridutto di più virtuosi della Città, che ordinariamente si trovano ogni giorno in casa del ben creato M. Teodosio Bergondio, dove allhora ne erano non pochi. Et più disse che quella lodola non cessava di cantare, come non potesse satiarsi di ringratiarlo, per la vita che ella riconosceva haver per lui. Et per tanto possiamo credere ciò che havete detto; percioche, non solamente s’è veduto entrare la lodola nelle finestre d’un camino, & fare il simile lo smerlino, con finire ambedui la vita in una caldaia di acqua bollente, & nell’ardente fuoco; ma alle volte ancora cacciarsi di compagnia nelle ruote de i molini, de i folli, delle fucine, & ne i forni caldissimi, & ivi abbruciarsi subito. Laonde possiamo por fine à gli incredibili effetti di quelli uccelli, col proverbio che dice, Sparaviero da Gentilhuomo, Astorre da pover huomo, Falcon da Signore, & Smerlino da Rè.

Gio. Bat. Fra lo uccellare che io faccio in tutto l’anno, voglio dirvi ancora del pigliare le pernici col terzuolo, che già tre mesi posi in gabbia per mutarlo, secondo il solito; ilquale non solamente non cederebbe à qual si voglia altro circa dello esser bello, domestico, valente, ma (come sarà levato di gabbia) neanche nel pigliare ogni pernice; di maniera, che per quatro mesi, posso dire non conoscere il maggior trastullo di questo.

Non è gran piacere quando si vede levare una valente pernice, & egli sempre seguitarla, volando ambedui à mezo aere, e dirittamente come se fossero due saette cacciate da i potenti arcieri, & non abbandonarla mai, in sino che non l’ha conquistata, e morta? Oltra che fa bel vedere un’aira di pernici levarsi tutte insieme, & egli menarle in un medesimo volo, & segnarle giustamente in un luogo unito; ne quelle molte fiate levarsi per la grandissima paura, che hanno di lui, ma più tosto lasciarsi abboccare da i cani? Ma sono aventurate quelle, che sono abboccate dalla mia fedelissima Mosca, laquale ne piglia senza farle male; & sempre ò smontato, ò à cavallo viene da me, & me le porge, come sarebbe il mio ragazzo.

Cor. Non solamente io mi stupisco, che le pernici siano cosi paurose come le cerlode, e lodole, ma più di questa cagna, per fare il contrario de i cani, che amazzano quanto più presto possono gli uccelli, & alle volte gl’inghiottiscono mezi vivi.

Gio. Bat. Vi giuro che più volte, vedendosi sopra questo suo nemico, & non osando levarsi, io ne ho pigliato con le mani sotto ai cavalli, a i buoi, a i carri, a i legnami, & ad altre cose. Che se vi dovessi dir gli effetti che fanno per salvarsi da questo uccello, e particolarmente quando si nascondono nelle carreggiate, nelle rovete, & nelle case sotto a i letti, alle casse, alle botte, & sin sotto alle donne, son certo che vi farei stupire.

Io non son per parlarvi dell’uccellare con l’astore alle anitre, avenga che ammazzino anco le pernici, & altri uccelli; percioche non mi piacque mai questa professione, per li grandi pericoli che occorrono nel passar tante acque, paludi, & grossi fiumi; & specialmente quando egli porta la presa da una ripa all’altra, & più lontana ancora; piacendomi più assai l’amazzarle con lo schioppo, & con la balestra; cosa a me di gran trastullo, & di molta sanita.

Medesimamente non aspettate che io vi dica, che uccelli con falconi; percioche essendo gentil’huomo non molto ricco, non ho mai pensato di fare questa si solenne professione: Laquale per esser di spesa assai, che conviene a i Principi, & a gran Personaggi, la lascio fare à gl’Illustri Signori Gambareschi, Martinenghi, Avogadri, & altri nobilissimi della nostra Città. I quali, oltra che sono ricchi, hann’etiandio più caccie reservate. Vero è che sempre mi piacque il veder’uccellar con questi si famosi uccelli, poiche si vede cose talmente stupende, che hanno più tosto del divino, che dell’humano.

Chi non si compiacerebbe, vedendo volare & girare un cosi superbo uccello, mentre che di mano in mano ascende tant’alto, ch’egli pare propriamente vicino alle stelle, & che non si può figurar s’egli è uccello, ò altra cosa picciolissima? Et questo fa; accioche nel discendere perpendicularmente, ò à piombo, venga con maggior’impeto a ferir l’anitra, ò altro simil uccello acquatico. Ma perche gli eccellenti falconieri non cessano mai di mirarlo attentissimamente, come conoscono ch’egli ha volto il petto verso loro, subito fanno levar l’anitre per forza fuor dell’acqua. Nè a pena son’alquanto alte da terra che per esser’il falcone d’acuta vista, & di grave peso, ha gia veduto, e ferito con grandissimo stracio l’uccello, con haverli fesso la schiena, e’l capo sin’alle cervella con la solo unghia, innanzi che niun si sia aveduto del colpo, e del nuovo alzarsi verso il cielo.

Et questo grande spasso si può haver la maggior parte dell’anno, ma il maggior tempo è quello del verno; & particolarmente nel freddo maggiore; percioche, essendo agghiacciate quasi tutte l’acque, gli uccelli grossi acquatici si annidano in qualche fiumicello, ò vena risorgente, over’in qualche guazzo, dove si trovano in maggior turma, & più grassi. La onde, per lo tanto piacer che si piglia da questi rari uccelli, ho veduto più volte Signori grandi, non che privati gentil’huomini, oltra il patir fame, sete, & freddo; non potendo entrar nell’acqua à cavallo per le ripe alte, nè aspettare tal’ufficio da' servitori, ò strozzieri, smontare, & saltare subito in ogni acqua per far levar le anitre, ò altri uccelli. Come ben fece nelle feste di questo Natale prossimo passato il nostro Cavaliero Faustino Avogadro in presentia del Conte Lucretio, & Conte Nicolo di Gambara, del Conte Giovan Paolo Cavriolo, del Mag. Cavalier Vincenzo Callino, e del Mag. Cavalier Stefano Maria Ugone. Il qual’essendo nell’aere un de suoi Falconi, saltò nel fiume della Porcelaga sin’al petto, per far levar’alcune anitre che non volevano moversi per l’estrema paura del detto uccello, c’havevano veduto in alto. Onde fù poi astretto abbandonare quei Signori, che tuttavia non cessavano di farne volte de gli ali altre (per haverne buon numero) e venir qui da me per mutarsi di drappi, & asciugarsi al buon fuoco come fece.

Cor. Per qual cagione si pose in questo si gran pericolo?

Gio. Bat. Il falcone è talmente avido nell’ammazar gli uccelli, che subito (cosa per certo maravigliosa da udire, ma più da vedere) è già calato con tal precipitio, che se l’anitra, ò altro uccello si trova fermato, portarebbe gran pericolo che non si ammazzasse per non ferir se non diritto; percioche egli ferisce sempre alla sfuggita, non toccando mai nè terra, nè acqua, ma subito fatto il colpo (tutt’hora volando) di nuovo si inalza all’aere.

Cor. Vorrei saper’in qual’hora si fà meglio volare questo uccello, & s’è difficile à rihaverlo.

Gio. Bat. Primamente si fà volar la mattina per le tempo, & quando fà maggior freddo. Poi del rihaverlo, non vi è tanta difficultà, com’è de gli altri uccelli; anzi se può esser disciplina in uccell’alcuno, questo è disciplinabile nella sua specie, quanto il cane, & il cavallo nella loro: di maniera che per soro non se ne perde mai alcuno.

Cor. Quante volte si fan volar’al giorno questi uccelli?

Gio. Bat. Non solamente, per l’ordinario si fan volare quanto più son gentili, se non una volta; ma bisogna anco subito pascerli con la presa; ò quando per fallo non feriscono darli una gallina, ò altro pollo. Et però, chi vuole pigliar lungo spasso, debbe tenerne quattro, ò sei, e più; ò quando se ne tiene pochi, ritrovandosi con gli altri insieme con buon numero, per farli volare l’un dopo l’altro à gara; perche si ha maggior piacere, & si vede ancor quali son’i più valenti.

Cor. Come combattono i falconi, & aeroni insieme?

Gio. Bat. Si come lo sparaviero, smerlino, terzuolo, & altre, & astore, pigliano sempre uccelli inferiori à loro; per contrario il falcone, oltra il pigliar uccelli timidi (per haver gran cuore) si compiace combatter ferocissimamente con l’aerone suo nemicissimo. Però non è piacer maggiore tra li raccontati, che veder questi dui rabbiosissimi nemici, quando si abbattono insieme: percioche non tosto l’un’hà veduto l’altro, che à guisa di dui animosi guerrieri, & sfidati cavalieri, ciascuno si prepara per dare la morte all’altro. Si vedono all’hora ambidui à gara alzarsi à volo, per far più forte scontro nel calare adosso al suo contrario. Qui vedendo il sagace falcone, che se l’aerone havesse tempo, & luogo di caderli adosso, non potrebbe sostener l’impeto suo (per esser quello assai più grande d’ale, & di più potenti griffe di lui, benche di manco carne) s’inalza tanto di più, che l’aerone lo perde di vista. Onde temendo egli grandemente la caduta del falcone, si risolve di ricorrere all’ultima sua difesa, volgendosi col corpo verso il Cielo, distendendo le ale, & quivi con l’unghie unite, col becco acutissimo, stassi ad aspettar la velocissima sua caduta. Ma egli, per contrario, vedendo il gran danno che vi potrebbe succedere, si pone à girare intorno per tentar maggiormente l’assalto nel capo. Et mentre che questi nemici stanno à questo modo, quelli tutti che li mirano, stanno talmente immobili, che paiono non huomini, ma statue di marmo. Ma se per sorte s’avinchiano l’un l’altro, all’hora si sente l’aere rimbombar di stridi che provengono d’allegria de i circostanti, la qual’è maggiore, quando per un pezzo combattono in terra, & che finalmente resta vincitore il falcone, ò quando all’hora è soccorso da un’altro gittatovi, & combattendo ambidui con l’aerone, resta al fine atrocemente vinto, & morto. Et però non è maraviglia se fra i moderni Signori del mondo, quel Serenissimo, di felice memoria, Francesco secondo Rè di Francia prendeva si gran piacere nel veder combattere i valorosi falconi con questi si feroci uccelli. Vero è, che si come quegli allegrano le genti quindo vincono, cosi le attristano quando sono vinti da si rustici animali.

Chi non si ramaricarebbe, vedendo calar d’alto il falcone, per ferir l’aerone concio al modo detto, & inficcarsi in quegli artigli come morto, & l’aerone fuggirsene vittoriosamente altrove? Non posso tacer quello, che mi disse un giorno il Signor Pietro Martinengo Conduttiero meritissimo circa le stupende cose, ch’egli più volte vide essendo giovanetto, al tempo che uccellava con più falconi il Signor Battista suo padre, felice memoria, il quale mori valoroso Conduttiero in servitio de i nostri Illustrissimi Signori. Et quello è, ch’egli haveva un cosi bene ammaestrato cane, che quasi ogni volta che un falcone, ò dui combattevano con l’aerone correva subito à spezzarli co i denti il capo, & non molestare mai falcon’alcuno.

Cor. Hora aspetto che seguitiate à narrarmi intorno al dispensare il resto del tempo, come havete promesso.

Gio. Bat. Havendo voi udito gli spassi, che prendiamo di tempo in tempo sin’al Carnovale, resta che vi dica ancora quelle cose, che noi facciamo mentre che la Quaresima dura. Nella quale perche non si mangia sorte alcuna di carne; non uccelliamo, nè cacciamo; ma in luogo di questi piaceri, leggiamo de’ libri sacri, godendo il nostro religioso Curato nel ragionarci de’ buoni amaestramenti; cavalcando qualche volta alle perdonanze, & anco andando à trovar gli amici, nelle Ville più vicine, per goderci lietamente con loro ne gli spassi honesti. Oltra che ci trastulliamo, hora nel pescare, & hora nel giuocare alla palla picciola, alla grossa, al pallone, al palamaio, alle borelle, & à i cioni: Non cessando sera, & mattina di far’essercitio; caminando, & variando sempre quelle vie, & contrade che più ci piacciono. Mi resta solamente che io vi dica, come dispensiamo il tempo nel Maggio, & Giugno, accioche sappiate intieramente la vita nostra di tutto l’anno. Onde perche non possiamo far correre, per le biade alte, & per esser le lepri pregne, ò che allattano, non pur ci trastulliamo ne i piaceri medesimi, che vi ho narrati; ma ancora nel pigliar de i quagliotti con la cantarella, & col frasello.

Cor. Dapoi che io ho udito benissimo à che modo voi dispensate il tempo, vedrei volentieri scritto nella loggia quella divina sententia di Marc’Aurelio, che dice. Si come d’un’huomo che ben dispensa il tempo, non è virtù che di lui non si creda; cosi di colui che l’occupa male, non è viltà che di lui non si sospetti. Ho voluto dir questo à confusione di coloro, che tanto vi biasimano; che se conoscessero la vita che fate ne i piaceri honesti, & ne gli essercitii honoratissimi, forse che conoscerebbono la loro cecità. Ma perche i meschini non mai sono stati fuori della Patria à imparare il viver del mondo, ma solamente come mal creati, pensano al crapulare, & al lussuriare tuttodì, percio vi biasimano. Il perche non è maraviglia se non hann’imparato mai altro che à presentarsi mattina, e sera, sotto la loggia ne i circoli, dicendo mal di questo, & di quello altro; tassando ogn’uno come se fussero censori di tutto il mondo. Et non è anco maraviglia, se questi Signori dell’otio, mai non si allegrano di alcuna bona cosa, ma si ben di qualche atrocissima crudeltà fatta sopra le migliara di huomini morti, ò di qualche Città saccheggiata in Fiandra, ò spianata in Piccardia, ò rubbata in Piedemonte, o vero che la horrendissima armata Turchesca sia giunta in Italia, per vendemiare ogni volta le dieci, ò quindici milia anime sventurate, per venderle poi in Levante allo incanto, come se fussero tante bestie. Che per verità non ci è lingua humana che potesse mai esplicar la centesima parte dello stratio, che fanno sempre quei nemici della Croce à quelle tanto dolorate, e meschine anime.

Gio. Bat. Crediamo pure, che se ben questi scelerati non saranno prigioni di quegli spietati barbari per breve tempo (non pentendosi) non fuggiranno però, che non siano al fine schiavi de’ tortori dell’eterno fuoco.

Cor. Benche sia da lodar la vita che voi fate in questa Villa, nondimeno dubito che per lo starvi tutto l’anno, non vi sia detrimento dello spirito, per non udir le prediche, come facevate in Brescia.

Gio. Bat. Per questo spero di non patirne danno alcuno; atteso che habbiam’un tale Sacerdote, che si può chiamare buon pastore; conciosia che mai non manca le Dominiche, & altre feste commandate, à dichiararci il Vangelo, con tutti gli amaestramenti necessarii. Et oltra che con viver suo costumato, & col visitar molte fiate i poveri infermi, & tribolati con parole sante, con la borsa, & altre cose; hà talmente disposto questi huomini, & donne, che pochi vi sono, che non vivano più christianamente del passato. Non mancando à insegnarci, come dobbiamo stare divotamente alla santa Messa; ringratiando nostro Signore, per lo sacrificio del Corpo suo, che si fa all’onnipotente Iddio, per placare l’ira sua, che meritiamo per li nostri innumerabili peccati. Che se vi dovessi dir le cose le quali egli ci dice con carità, & massimamente à lasciar gl’incantamenti, le superstitioni, & le altre diavolarie insegnate da i perfidi Spoletini, & Ceretani; non so quando vi facessi fine.

Cor. Certamente, che se io paragono questa Villa à molte altre che conosco, posso dire, che si come ella hà la caparra (se tanto si può dire) delle delitie del paradiso; cosi quelle hann’ilpegno de’ dolori dell’inferno. Et chi non dovrebbe haver compassione alla nostra di Piedemonte, havendo un Prete di tanta ignorantia vestito, & di tale superbia gonfio, che non solo non merita quel beneficio cotanto sporcamente speso, ma neanche il nome di pastore? Non posso fare che fra le sue male opere, non vi dica d’una, che dovrebbe fare stomaco non pure a’ Christiani, ma fino a i Turchi, a i Mori, & a i Giudei. Et è, che questa Quaresima passata, essendo morto un’huomo di tanta povertà, che la moglie non havea pure un soldo per farlo sepellire; questo lupo mai non volse levarlo, sinche la dolorata (lagrimando prima per tutta la terra) non hebbe limosinato da questo, e quello i danari per pagarlo al suo modo consueto.

Gio. Bat. Quel mal Curato meritarebbe il medesimo castigo allegato per Monsignor Sabba, che diede il Duca di Milano, chiamato Conte di Virtù, ad un Parocchiano pur’in quella Città, per non voler sepellir’un’huomo povero, se prima non era pagato dalla ramaricata moglie. Il qual Signore, passando a caso dove la buona donna piangeva amaramente, per non havere il modo di satisfarlo, la fece chiamare a se; & intesa la cagione del suo pianto, fece far subito un’alta fossa, nè mai si partì fin che non vi vide dentro il prete, & poi il morto sopra; con farli trarre adosso tutta la cavata terra.

Cor. O santa, e degna giustitia corrispondente al peccato di cosi fatto prete (Iddio mi perdoni s’io peccassi) & in eterno memorabile d’un tanto prudente Prencipe.

Questa mal’aventurata Villa, ha parimente un’altra infelicità cagionata da certi notori poveracci cittadini; i quali fanno tutto dì tante ribaldarie, che hormai non vi può viver’huomo, ò donna da bene; percioche quanto veggono, ò pensano di volere, tanto vogliono; hora per forza, et hora per diverse rubbarie: non ostante c’hanno talmente corrotto quei villani, che pochi vi sono, che non siano superbi, & perfetti ladri. Et però non è maraviglia s’io stò à mesi che non vi pongo i piedi. Che se pur vi fosse una particella della pace che veggo tra voi, vi giuro che subito mi levarei fuori della Città per godermivi sempre al modo vostro.

Gio. Bat. Veramente ch’io ho gran compassione à tutte quelle Ville che sono oppresse da questi pestiferi capelletti; i quali mentre che crucciano gli altri, come ministri di Satanasso, essi non meno dall’ambitione, & d’altri vitii, sono continovamente roduti, & tormentati: oltra che da tutti i buoni sono sempre odiati, & mille volte l’hora maladetti. Come ben dice quella sententia, che in ogni luogo dovrebbe essere à lettere di oro scritta. Maladetto sia quell’huomo, della cui vita piangono molti, & della cui morte ridono tutti.

Hora perche il Sole, declinando all’Occaso, ci fa vedere c’habbiamo ragionato assai, è bene che cessiamo, & che andiamo cosi passo passo sino alla piazza, in tanto che i servitori apparecchiano la tavola in mezo del pergolato, per cenarvi al fresco di quest’aura soave, che hora comincia à salutarci sì dolcemente facendo tremolare le frondi, e rami di questi belli arbori, & vaghi fiori di questo prato.

Cor. Andiamo pur ragionando di quanto vi piace, che tutto mi sara sempre gratissimo.

Il fine della XIX. giornata.

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