CAPITOLO LXI VENEZIA ED IL BUCCINTORO

Le macchie del servaggio e le rughe della miseria il popolo alla fine le lava e le spiana col suo sangue. La classe intelligente e ricca dovrebbe una volta, capirlo e risparmiare all’umanità quelle orgie di macelli, che la deturpano e la riconducono sovente alla primitiva barbarie.

In altri tempi Venezia, seguendo l’impulso della sorella lombarda, lavava nel sangue molti anni di umiliazioni e di servaggio. Non così ora. Essa sorge dalla dominazione straniera, non per propria, ma per altrui virtù.

Oh! fosse almeno la libertà sua raggiunta per opera, per coraggio dei fratelli, pazienza! Ma chi la redime sono vittorie di stranieri. Sadowa, gloria Prussiana, ha liberato Venezia! e la nazione italiana a niuno chiede ragione di tanto sfregio!

Eppure le nazioni, come gli individui, abbisognano di dignità per vivere e più della vita dell’anima abbisognano che non della vita del ventre a cui ci vogliono condannare i reggitori nostri.

Un giorno la regina dell’Adriatico portava il suo superbo leone nel lontano oriente, rintuzzava il conquistatore Ottomano e vi dettava la legge. I monarchi dell’Europa, collegati e sorretti dalle gelose italiane repubbliche, movevan compatti contro le lagune ed eran respinti dai coraggiosi repubblicani. Chi riconosce oggi quei fieri concittadini di Dandolo e dei Morosini? Per liberarsi, abbisognano dello straniero. Liberi si gettano nelle file delle raschiature di Seiano, setta propensa a tutte le umiliazioni! a tutti gli obbrobrii!

Come la tirannide trasforma le più nobili creature in abietti ermafroditi! e non siete soli o veneti! Tali ho pur veduto i discendenti di Leonida e di Cincinnato.

La schiavitù imprime sulla fronte dell’uomo un marchio tale d’infamia e di depravazione da renderlo irriconoscibile da confonderlo coi beati abitatori delle foreste.

Eppure, umiliato come fu ed è ancora, il popolo italiano non dimentica i suoi divertimenti, le sue feste. «Pane e giuochi» esso grida ai nuovi tiranni come già gridava agli antichi. Ed il prete in ispecie per compiacerlo, per ingannarlo e corromperlo, si è ravvolto in un ammasso di pompe e di cerimonie da oltrepassare tutto quanto ci narra la storia dello sfarzo in cui gli impostori dell’antichità si avviluppavano.

Non parlate di politica, non ci pensate! pagate e spogliatevi di buona grazia per grassamente mantenere i vostri scorticatori. Poi, di giuochi, di divertimenti, di prostituzioni ve ne lasceremo a dovizia.

Le sponsalizie del mare erano delle cerimonie predilette del popolo di Venezia, quando questo popolo era padrone di sé, aveva un governo proprio e questo governo era presieduto dal Doge.

Nel giorno prefisso per la festa il Buccintoro, la più splendida galera della repubblica, mirabilmente adorno e imbandierato, risplendente di arazzi e di dorature con a bordo il Doge, la maggior parte dei membri del Governo, gli ambasciatori stranieri e le più cospicue tra le belle signore di Venezia in gala, moveva al suono della musica dal palazzo di S. Marco e s’avviava verso l’Adriatico.

Facevan corteo al Buccintoro altre molte galere ed un numero immenso di gondole, tutte parate a festa e portanti la maggior parte della popolazione.

Eri pur bella in quei giorni fatata regina! quando i tuoi Dandoli, i tuoi Morosini, seppellivano nel seno di Anfitrite l’anello maritale e la dichiaravano sposa propiziandola agli arditi navigatori delle lagune!... Oh! salve! Repubblica di tredici secoli, vera matrona delle Repubbliche! Oh! se alle pompe de’ tuoi sponsali avessi associato un fraterno banchetto colle altiere tue consorelle italiane lo straniero all’erta sulle vostre discordie non vi avrebbe certo calpestate tutte e ridotte in servaggio!

Cancellate le cicatrici delle vostre catene, spianate le rughe che la miseria impresse sulla vostra fronte, non dimenticate ringhiose! le umiliazioni per cui siete passate e rammentate che unite potrete sempre sfidare ogni prepotenza straniera.

Il solitario, appoggiato ad un balcone del palazzo Dogale che dava sulla laguna, in compagnia delle nostre belle romane, di Muzio, Orazio e Gasparo, ascoltava un vecchio Cicerone che gli narrava le antiche glorie della Repubblica e dopo aver parlato d’ogni cosa, giungendo alla descrizione della festa del Buccintoro, esprimeva il rammarico di non aver più nemmeno la speranza di rivedere una di quelle feste ed accennava al sito ove dal molo partiva il legno famoso.

Seguendo la direzione del dito, l’occhio di Muzio si fermò su di una figura ben conosciuta che si teneva in piedi in una gondola col gomito appoggiato al felze e stava per approdare ai gradini della piazza.

Sparì Muzio e in un lampo comparve al cospetto di Attilio che scendendo strinse la mano dell’amico ed appena potè articolare la mesta parola «morto!».

«Dunque era destino, che questo resto di grandezza romana venisse qui a finire» mormorò l’ex mendico avendo in parte inteso e parte indovinato la fatale storia. «Egli morì da prode» disse il capo dei trecento. E molti italiani sanno morire da prodi, pensava Muzio, ma fosse almeno contro i loro oppressori!

«Io torno alla comitiva, disse Muzio, m’intenderò col solitario acciocché devii la passeggiata per altra parte perché Irene ed Orazio non abbiano ad abbattersi nella salma del loro caro. Ti raggiungerò poi con Gasparo».

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