Capitolo V. Inazione, e tedio.

Le febbri acquistate a Roverbella mi continuavano — io avevo fatto tutta la campagna tormentato da esse — e giunsi quindi in Svizzera spossato -

Comunque, io non disperavo: si potesse ritentare alcuna impresa sul territorio Lombardo — La gioventù era molta in Svizzera — la quale dopo d'aver tastato le primizie dell'esiglio — era [188] volonterosa di ripigliare la campagna a qualunque costo. Il governo Svizzero non era disposto certamente a cimentarsi coll'Austria, proteggendo l'insurrezione Italiana — La popolazione Italiana però del Canton Ticino — simpatizzava naturalmente con noi, e si potevano sperare dei sussidï — dai singoli individui di cotesta parte della Svizzera — ove s'era raccolta la massa dell'emigrazione -

Io ero obligato a letto in Lugano — quando un colonnello federale mi propose — che se fossimo disposti a ritentar la sorte — egli — non come appartenente al governo Svizzero — ma come Luini — (era il suo nome) coi suoi amici, ci avrebbero favoriti ed ajutati in qualunque modo possibile — Feci parte di tale proposta a Medici — allora il più influente nello stato maggiore di Mazzini — e Medici mi rispose: «Noi faremo meglio» — Dalla risposta di Medici — che capivo venire dall'alto — mi persuasi: esser la mia presenza in Lugano — inutile — e dalla Svizzera passai con tre compagni — per la Francia — per recarmi a Nizza, ove curarmi, a casa mia, delle febbri che continuavano ad assalirmi -

Giunsi a Nizza, e vi passai alcuni giorni colla famiglia procurando di curarmi — Essendo però più ammalato ancora, d'anima che di corpo — il tranquillo soggiorno della mia casa — non mi convenne e passai a Genova — ove più romoreggiava l'insofferenza publica, per la patria umiliazione — ed ivi terminai di curarmi.

La marcia degli avvenimenti in Italia, non minacciava ruina ancora — ma ispirava diffidenze fondate — La Lombardia era ricaduta sotto il tiranno — L'esercito piemontese che ne avea impugnato la difesa, era scomparso; non distrutto ma colla coscienza in cui stavano i suoi capi — della sua impotenza -

Quell'esercito, con gloriose tradizioni, e composto di personale brillante — era sotto l'influenza d'un incubo; d'una fatalità inesplicabile — ma desolante ma terribile! Sia, chi si fosse: il genio della frodde, del mercimonio — della maledizione! delle nostre sciagure! ne presiedeva il destino, e ne incatenava l'azione — Esso non avea perduto battaglie — ma chi sa perchè? s'era ritirato davanti al nemico disfatto! Sotto il pretesto di premunirsi dalle trame degli esaltati — che fecondavano in Italia, naturalmente, per la fredezza e duplicità dei principi — s'infievoliva l'entusiasmo Italico nelle milizie — e si paralizzavano -

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Codesto esercito — che sostenuto dall'intiera nazione com'era — avrebbe fatto miracoli, sotto la direzione d'un uomo che avesse calpestato le paure e le differenze — marciando diritto alla meta — era all'incontro ridotto al nulla -

Dalla Lombardia si ritirava l'esercito — sbandato, non vinto — Dall'Adriatico la squadra, men vinta ancora — Alla mercede del barbaro dominatore giacevano i popoli — che scossero con tanta gagliardia ed eroismo, il giogo infame — senza l'ajuto di nessuno! Che cacciarono, quando soli, in cinque memorabili giornate — gli aguerriti mercenari dell'Austria, come gregge -!

Nei ducati — in potere ancora del nostro esercito, fermentava la reazione — ed in Toscana, retta da un dittattore che giudicherà la storia — In ambi i paesi, si armavano i contadini — che si armeranno sempre contro libero reggimento, fomentati da preti, spie e fautori dello straniero -

Negli Stati Romani — eran chiamati Rossi e Zucchi alla direzione delle cose politiche e dell'esercito — per coprire sotto quelle vecchie reputazioni, i progetti retrogradi, che già dominavano -

Le popolazioni ingannate, dopo d'aver contemplato l'aurora del risorgimento — infuriavano — Bologna nell'immortale 8 Agosto — riceveva il primo regalo d'Austriaci, chiamati da' preti, a fucilate, e li fugava spaventati fino al di là del Po -

Il popolo di Napoli, faceva pure di magnanimi sforzi, contro il suo carnefice — ma era meno felice -

La Sicilia che si presentava quale baluardo, e sostegno della libertà Italiana — dopo eroïci sforzi fluttuava nella scelta d'istituzioni politiche, per difetto d'un uomo che ne dirigesse i destini -

Infine l'Italia tutta, piena d'entusiasmo, e d'elementi d'azione — capaci non solo di resistere, ma d'assalire il nemico sul suo terreno — era ridotta alla prostrazione ed all'inerzia, per l'imbecillità e la perfidia de' reggitori: — re, dottori, e preti -

Giungeva, mentre io mi trovavo in Genova, Paolo Fabrizi, e m'invitava per parte del governo di Sicilia a passare in quell'isola — Io acconsentiva contento — e con 72 de' vecchi e nuovi compagni, la maggior parte buoni ufficiali — c'imbarcammo a bordo d'un vapore Francese a quella via -

Toccammo Livorno — io contavo non sbarcare; ma saputo [190] il nostro arrivo da quel popolo generoso ed esaltato — fu forza cambiare di proposito -

Sbarcammo: io piegai forse indebitamente alle sollecitudini di quella popolazione, — che frenetica pensò: noi allontanarsi forse troppo dal campo d'azione principale — Mi si promise, che dalla Toscana si formerebbe una forte collonna, e che accresciuta di volontari sul transito, si poteva, per terra, marciare sullo stato Napoletano, e coadjuvare così, più eficacemente alla causa Italiana, ed alla Sicilia -

Mi conformai a tali proposte — ma mi avvidi ben presto dello sbaglio — Si telegrafò a Firenze, e le risposte, circa ai progetti menzionati, erano evasive.

Non si contrariava apertamente il voto emesso dal popolo Livornese, perchè se ne avea timore — ma da chi capiva qualche cosa, si poteva dedurne il dispiacimento del governo — Comunque fosse era la fermata decisa, e partito il vapore -

Il nostro soggiorno in Livorno fu breve; si ricevettero alcuni fucili — ottenuti più dalla buona volontà di Petracchi, capo popolano e dagli altri amici, che da quella del Governo — L'aumento del numerico della nostra forza era insignificante — Si disse di marciare a Firenze, ove si farebbe di più; ma peggio -

In Firenze, accoglienza magnifica del popolo — ma indifferenza, e fame per parte del governo — e fui obligato d'impegnare alcuni amici per alimentare la gente -

Era il duca nella capitale della Toscana — Si diceva però, la somma delle cose — nelle mani di Guerrazzi — Io scrivo la storia — e spero non offendere il grande Italiano, se dico il vero -

Montanelli, acclamato meritamente dalla generale opinione, lo trovai quale me l'ero immaginato: leale, franco, modesto, volente il bene dell'Italia, col cuore fervido d'un martire — ma l'antagonismo d'altri neutralizzava qualunque buona determinazione; e poco valse perciò, la breve permanenza al potere del milite prode e virtuoso di Cortatone -

Da Firenze, ove stimai, inutile e tedioso il nostro soggiorno, divisai passare in Romagna, ove si sperava far meglio — e da dove, all'ultimo, sarebbe stato più facile di recarci a Venezia per la via di Ravenna. Però, nuovi guai, e più aspri, ci aspettavano sull'Apennino.

Sulla strada, ove dovevimo avere i necessari sussidi, per [191] provvedimento del governo Toscano — altro non trovammo, che la benevolenza degli abitanti — volonterosi ma insufficienti ai bisogni nostri — Una lettera del governo suddetto ad un sindaco della frontiera — limitava la sussistenza, ed ordinava lo sgombro agli importuni avventurieri -

In tale situazione, giunsimo alle Filigari, e vi trovammo il divieto per parte del governo pontificio, di varcar la frontiera — Almeno i preti eran conseguenti — trattavano da nemici!

Zucchi, lo stesso da noi salvato a Como — allora ministro della guerra, accorreva da Roma, per far eseguire gli ordini — E da Bologna marciavan un corpo di Svizzeri papalini, e due pezzi d'artiglieria, per opporsi all'ingresso nostro nello Stato.

Intanto, imperversava la stagione in quelle montagne, e la neve giungeva al ginocchio sulle strade. Erimo in Novembre — Valeva veramente la pena: venire dall'America meridionale, per combattere le nevi dell'Apennino — I Governi Italiani, che avevo avuto l'onore di servire — ed i di cui territori avevo percorso — non erano stati capaci di dare un capotto ai poveri, e prodi miei compagni — Era lamentevole cosa, il vedere quei bravi giovani — in quella rigorosa stagione, nei monti, vestiti la maggior parte di tela, alcuni di cenci — e mancando del necessario alimento — sulla loro terra, consueta a nutrire grassamente tutti i ladri, e mascalzoni del mondo.

Riunironsi tutti i mezzi pecuniari, posseduti per la maggior parte dagli ufficiali — se ne formò una cassa comune, ed ajutati dal buon albergatore delle Filigari, passaronsi miseramente alcuni giorni.

Intanto gli Svizzeri pontifici prendevano posizioni militari sulla frontiera opposta — con tutte le misure di resistenza contro un tentato passaggio — ma umiliati dall'atto vergognoso del loro governo imbecille. La situazione nostra nelle Filigari, non era tenibile per molti giorni — non v'era altro rimedio che mutarla — Tornare indietro sulla Toscana, io avevo letto la comunicazione di quel Governo al Sindaco — nella quale si raccomandava di liberarsi di noi, al più presto — e sarebbe stato d'uopo: umiliarsi, od ostilizzare. Proseguire sul territorio Romano, bisognava combattere chi era lì preparato per vietarcelo — A che scellerata perplessità ci tenevano i governanti su cui speravano gl'italiani la loro liberazione! Eppure — noi avevimo [192] varcato l'Atlantico — poveri sì, perchè avevamo rifiutato le richezze - — ma col solo oggetto di offrire la nostra vita all'Italia! — Scevri da qualunque interessato proposito — pronti a sacrificare al nostro paese, anche i principï politici — e servire, per servirlo, anche chi non meritava la fiducia nostra, per antecedenti infami!

I nomi di Guerrazzi, di Pio, erano venerati allora nell'anima nostra — eppure lì, nella neve — privi d'alimento — essi tenevano nell'angoscia, quel pugno di giovani veterani — le di cui ossa dovevano ben presto seminarsi, sulla terra delle sventure! alla difesa di Roma contro lo straniero — colla disperazione — morendo — di poterla redimere!

Il popolo di Bologna seppe di noi — e sdegnossi per i scellerati procedimenti — Bologna è città che non si sdegna invano — e ben lo sanno gli Austriaci e se ne spaventarono i papalini governanti — Mi fu quindi concesso di giungere in quella città per abboccarmi col generale Latour comandante delle forze Svizzere al servizio del papa — Ed al generale Latour — mentre stava al balcone del suo palazzo, i Bolognesi gridarono: «O i nostri fratelli qui — o voi giù da quel balcone»

Io giungeva a Bologna, tra le acclamazioni di quel generoso popolo — ch'ero obbligato a calmare perchè deciso di disfarsi da stranieri e retrogradi -

Si patteggiava con Latour in Bologna, il passaggio nostro per le Romagne verso Ravenna — ove dovevamo imbarcarci per Venezia -

Io raccomandavo a Latour di accelerare, e prestar sussidi ad una compagnia Mantovana partita da Genova coll'intenzione di riunirsi a noi. In un abboccamento con Zucchi, avevo ottenuto pure di aumentare la forza con volontari Romagnoli — e partirono alcuni comandati da un capitano Bazzani, Modenese, per ragiungerci a Ravenna -

In tale circostanza vidi a Bologna, per la prima volta, il valorosissimo Angelo Masina, il quale bisognava vedere una volta sola per amare ed apprezzarlo — Masina, dopo la ritirata della divisione Romana dalla Lombardia, ove [193] aveva combattutto da prode, era rimasto a Bologna, o nelle vicinanze — Ora, egli trovavasi alla testa di quei popolani Bolognesi, che avevano liberata, eroïcamente la loro città dagli Austriaci, nel passato 8 Agosto — e ne temperava lo sdegno eccitatto dalla viltà e tradimento dei preti e retrogradi -

Egli, nello stesso tempo, dando sfogo all'ardentissimo genio, riuniva cavalli ed uomini — parte a proprie spese — ed organizzava una compagnia di lancieri — che potevano eccitar l'invidia di qualunque milizia, per la bellezza del personale, l'elegante uniforme, ed il valore.

Potente d'individuale prestigio, egli infiammava o conteneva il popolo — Certo, lui ed il padre Gavazzi avevano influito assai sui Bolognesi, ed avean contribuito alla nostra liberazione dalle Filigari — Masina, era, in quell'epoca, destinato lui pure per Venezia — stanco d'inerte esistenza — e spinto in parte da' fautori dello straniero, e dai preti — Ed in Comacchio, egli faceva i suoi preparativi di passaggio verso la regina dell'Adriatico.

Intanto colla gente, in numero di circa cento e cinquanta, io giungevo in Ravenna — e mi si riuniva Bazzani con cinquanta reclute -

In Ravenna ebbimo nuovamente da altercare col governo prete — Le convenzioni passate in Bologna con Zucchi, erano state di aspettare nella prima città l'arrivo de' Mantovani — per di lì imbarcarsi tutti per Venezia — ma la diffidenza e la paura ch'eccitavano i miei pochi compagni male armati, e peggio vestiti, era tale da ispirare l'ardente desiderio nei preti, di sbarazzarsi di noi al più presto.

Latour dopo alcune raggiri di parole, mi significò d'imbarcarmi immediatamente — Io risposi: che non m'imbarcherei senonchè, quando sarebbe arrivata la gente che aspettavo... Si fecero delle minaccie per parte dei papalini — e siccome i Ravennati come i Bolognesi — è certa gente — cui le minaccie impongono poco — quella coraggiosa popolazione preparò armi e munizioni, per riunirsi a noi, in caso di violenze.

«La paura reciproca governa il mondo» diceva un amico mio con molto buon senso: E comunque sia i popoli che hanno meno paura — sono generalmente i meno malmenati — Così successe a Ravenna — ed i prepotenti trascinatori di sciabole e di cannoni, non ardirono — con [194] un migliajo di aguerriti soldati — misurarsi con pochi poveri e quasi inermi amatori d'Italia -

La situazione di Masina in Comacchio, era consimile — La forza del papa voleva obligarlo, ad imbarcarsi precipitosamente; e lui, per poterlo fare a suo agio — e combinare la sua marcia con noi, resisteva alle intimazioni violenti, e coll'ajuto della popolazione capitanata dal prode Nino Bonnet si poneva in istato di difesa imponente — E così anche a Comacchio trionfò la giustizia giusta «Ajutati, che Dio ti ajuterà» Oggi, fo pompa di proverbi — me la perdoneranno, coloro che avranno la pazienza di leggermi. E qui per dovere storico mi tocca accennare ad uno di quegli uomini — cui l'Italia della monarchia e dei preti, innalza monumenti — Erano le cose, nello stato su descritto — quando una daga Romana, cambiava il nostro destino — da proscritti, ci faceva acquistare il diritto di cittadinanza, e ci apriva un asilo sul continente -

Discepolo di Beccaria io sono nemico della pena di morte — e biasimo quindi, la daga di Bruto — il patibolo, che in luogo di mostrare penzolone il Nano ministro di Luigi Filippo — che ben lo meriterebbe — ci presenta il modesto cadavere d'un figlio di Parigi — che anelava i suoi diritti — ed infine il terribile rogo — che per se solo basta a provare esser il prete emanazione dell'Inferno -

Comunque, gli Armodi, i Pelopidas, ed i Bruti che liberarono la loro patria da tiranni — non sono poi mostrati dalla storia antica, con colori sì sudici — come i moderni mangiatori di popoli — vorrebbero far comparire, chi tastò le coste al Duca di Parma — Borbone di Napoli, ecc.

Erano dunque le cose nostre deplorevoli — siccome le abbiamo anteriormente descritte — ed una daga Romana ci fece degni — non più di proscrizione — ma di appartenere all'esercito di Roma -

La vecchia metropoli del mondo — degna in quel giorno della gloria antica, si liberava d'un satellite della tirannide — il più temibile, e bagnava del suo sangue i marmorei gradini del Campidoglio — Un giovine Romano avea ritrovato il ferro di Marco Bruto!

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Lo spavento della morte di Rossi aveva annientato i nostri persecutori — e non si fece più parola della nostra partenza -

Roma, l'Italia non ottenevano lo stato politico desiderato colla morte del ministro del papa; ma si migliorava almeno la condizione di Roma — al punto di vista della libertà Italiana — di cui il papato, spogliato della sua maschera di riformatore — fu, è, e ne sarà sempre il mortale nemico — Per noi poi — oggetto spaventoso di repulsione alla corte Romana — comunque fosse — per paura di chi restava dopo la morte di Rossi — soffribile diventò la nostra presenza nella penisola -

Quel colpo di daga, annunziava ai patteggiatori collo straniero, che il popolo li conosceva — e che non voleva ritornare al servaggio — ove gli stessi tentavano di ricondurlo, con menzogne e con tradimenti –

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